Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 27/03/2012) 07/06/2012, n. 9237

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22966-2010 proposto da:

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (c.f. (OMISSIS)), in persona del Curatore dott. L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso l’avvocato VALENZA DINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MENDOLIA STEFANO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L. (C.F. (OMISSIS)), S. SIMEONE HOLDING S.R.L. (C.F. (OMISSIS)), BUSTAFFA EMILIO &

FIGLI S.P.A., S.A.;

– intimati –

nonchè da:

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Liquidatore pro tempore, S.A., anche in proprio e nella qualità di liquidatore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ANTONELLI 9, presso l’avvocato MERLA MICHELE, rappresentati e difesi dall’avvocato VITTORIO DI MARTINO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L., S. SIMEONE HOLDING S.R.L., BUSTAFFA EMILIO & FIGLI S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (c.f. (OMISSIS)), in persona del Curatore dott. L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso l’avvocato VALENZA DINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MENDOLIA STEFANO, giusta procura in calce al ricorso principale e al presente atto;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L., S. SIMEONE HOLDING S.R.L., BUSTAFFA EMILIO & FIGLI S.P.A., S.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 695/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 24/08/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/03/2012 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato VALENZA STEFANO, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, rigetto altri ricorsi;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale Società, l’Avvocato MERLA MICHELE, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza 21 gennaio 2010, il Tribunale di Brescia dichiarò il fallimento della Ludovico s.r.l. in liquidazione, accogliendo il ricorso in data 11 settembre 2009 della Società Bustaffa Emilio &

figli s.p.a..

Contro la predetta sentenza proposero reclamo alla Corte d’appello di Brescia Funetta s.r.l., S. Simeone Holding s.r.l., Ludovico s.r.l. in liquidazione e S.A., nella qua qualità di legale rappresentante delle predette società e in proprio, deducendo tra l’altro in particolare la nullità della notifica dell’istanza di fallimento alla società, eseguita con il rito degli irreperibili, di cui all’art. 143 c.p.c..

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza 24 agosto 2010, respinto il motivo di appello sulla competenza, sulla premessa che la sede legale era stata trasferita a (OMISSIS) nonostante la conservazione della sede operativa in provincia di (OMISSIS), ha revocato la dichiarazione di fallimento. Nella sentenza si riferisce che all’udienza pre-fallimentare del 4 novembre 2009 il creditore istante aveva dichiarato che i tentativi fatti per notificare il ricorso alla società nella sua sede legale in (OMISSIS), o presso il suo liquidatore S.A., pure in (OMISSIS) all’indirizzo risultante dal registro delle imprese o al suo indirizzo anagrafico non erano andati a buon fine; che l’istante era stato autorizzato dal giudice alla notifica “con il rito dell’irreperibilità”, e che aveva proceduto alla notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c.; che anteriormente al giudizio lo stesso creditore aveva notificato alla società un decreto ingiuntivo il 13 giugno 2008 nella sua sede in (OMISSIS); che pertanto, per assicurare l’effettiva instaurazione del contraddittorio, il creditore avrebbe dovuto eseguire la notifica del ricorso e del decreto di comparizione della società presso la sua sede effettiva ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c. anche nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo; che, in conformità della giurisprudenza di legittimità, in difetto di ciò la notifica eseguita a norma dell’art. 143 c.c. doveva ritenersi nulla.

3. Per la cassazione di questa sentenza ricorre il fallimento in persona del curatore per quattro motivi, con atto notificato il 30 settembre 2010.

La società resiste con controricorso e ricorso incidentale in punto di competenza. Il fallimento ha depositato controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione
4. I ricorsi principale e incidentale sono stati riuniti.

5. Il ricorso incidentale della società interamente vittoriosa nel giudizio di merito, pur vertendo sulla questione pregiudiziale della competenza, è condizionato, non essendovi poteri d’ufficio della corte a pronunciarsi su un punto già deciso dal giudice di merito, e nascendo l’interesse del ricorrente esclusivamente dall’eventuale accoglimento del ricorso principale, sicchè deve essere esaminato dopo di questo (Cass. Sez. un. 31 ottobre 2007 n. 23019).

6. Con il primo motivo di ricorso si denuncia il vizio di motivazione circa la sede effettiva della società e la conoscenza di essa da parte del creditore istante e del tribunale. Si sostiene che la precedente notificazione del decreto ingiuntivo nella vecchia sede legale non poteva valere a identificare la sede della società dopo che questa aveva trasferito la sede legale a (OMISSIS) da oltre un anno.

Con il secondo motivo si denuncia la falsa applicazione dell’art. 46 c.c.: si deduce che la notificazione degli atti giudiziari nella sede effettiva, anzichè nella sede legale della società costituisce una facoltà per i terzi, e non un obbligo.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 143 c.p.c., norma che deve ritenersi applicabile anche nel procedimento di cui all’art. 15, L. Fall., in caso di negligenza del debitore che impedisca o ritardi le notificazioni. Dai quattro tentativi di notificazione eseguiti era emersa l’irreperibilità della società e del suo amministratore.

Con il quarto motivo si denuncia il vizio di motivazione sulla negligenza del debitore nelle comunicazioni dovute al registro delle imprese e all’anagrafe.

6. Il ricorso è fondato con riguardo alle osservazioni che seguono.

Va premesso che la notifica eseguita con il rito degli irreperibili era stata preceduta, come risulta dagli atti di causa, che questa corte è abilitata ad esaminare direttamente in forza della natura processuale del mezzo d’impugnazione, da quattro tentativi, nessuno dei quali andato a buon fine, presso tre indirizzi diversi: 1-2) in data 1/10/2009 alla società in persona “del liquidatore leg.rap.” in (OMISSIS) (residenza del liquidatore secondo l’iscrizione nel registro delle imprese), e sia il 6/10/2009 presso la sede legale della società in (OMISSIS); 3) il 14/10/2009 ad S.A. nella sua qualità di liquidatore della Ludovico s.r.l. unipersonale in (OMISSIS); il 22/10/2009 allo stesso S. presso la residenza anagrafica in (OMISSIS).

7. Il giudice di merito ha ritenuto che, sebbene i ripetuti tentativi di notificare il ricorso per la dichiarazione di fallimento, con il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, non fossero andati a buon fine, il giudice non potesse autorizzare la notifica “con il rito dell’irreperibilità”, perchè anteriormente al giudizio lo stesso creditore aveva notificato alla società un decreto ingiuntivo il 13 giugno 2008 nella sua sede in (OMISSIS); che pertanto, per assicurare l’effettiva instaurazione del contraddittorio, il creditore avrebbe dovuto eseguire la notifica del ricorso e del decreto di comparizione presso la sede effettiva della società, ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c., anche nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo; che, in conformità della giurisprudenza di legittimità, in difetto di ciò la notifica eseguita a norma dell’art. 143 c.c.. doveva ritenersi nulla. L’assunto non è condivisibile.

8. Si deve osservare che nella fattispecie di causa il decreto ingiuntivo era stato notificato più di un anno prima non già in una sede effettiva, diversa dalla sede legale, bensì nella stessa sede legale della società in (OMISSIS), e che dopo di allora la società aveva trasferito la sua sede legale in (OMISSIS), osservando gli oneri di pubblicità relativi. Non vi era dunque alcuna ragione per la quale si dovesse supporre che, sebbene avesse trasferito la sede legale, la società avesse conservato la vecchia sede legale come sede effettiva.

In tale situazione, il creditore aveva l’onere dì tentare la notificazione nella nuova sede legale, osservando le prescrizioni dell’art. 145 c.p.c.. L’assunto che dovesse essere compiuto un ulteriore tentativo di notificazione alla società ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c. (nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo: ma dell’inconsistenza del riferimento a questo luogo s’è già detto), è stato dal giudice di merito motivato con il richiamo alla sentenza pronunciata da questa corte a Sezioni unite, 4 giugno 2002 n. 8091, quando l’art. 145 c.p.c., nel testo anteriore all’attuale, non prevedeva per le persone giuridiche forme di notificazione equivalenti a quelle previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c. Per supplire a quella lacuna, con il precedente richiamato questa corte affermò il principio che, esaurite le forme di notificazione previste espressamente dall’art. 145 c.p.c., si applicassero gli artt. 140 e 143, precisando, quanto alla notificazione a norma dell’art. 140 c.p.c., che ciò dovesse essere fatto nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell’atto e purchè avesse un indirizzo diverso da quello della sede dell’ente;

oppure, nel caso in cui la persona fisica non fosse indicata nell’atto da notificare, direttamente nei confronti della società.

La soluzione così elaborata dalla giurisprudenza per supplire alla lacuna è stata successivamente, in larga parte, fatta propria dal legislatore, che con la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2 dopo aver modificato l’art. 145 c.p.c., comma 2, ha sostituito il terzo, disponendo che, se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione “alla persona fisica indicata nell’atto, che rappresenta l’ente”, può essere eseguita anche a norma degli artt. “140 o 143”. In base alla nuova disciplina, dunque, il vano esperimento delle forme di notificazione previste nell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 2 consente bensì l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c. per la notificazione alle persone giuridiche. Ciò, tuttavia, con la doppia precisazione che:

1) la notifica è fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente, e non già all’ente in forma impersonale (cfr. Cass. ord. 13 settembre 2011 n. 18762), e 2) le due strade sono alternative, dovendosi seguire quella prevista dall’art. 140 se il recapito della predetta persona fisica è noto, ma sul luogo non si rinvengono persone alle quali consegnare il plico, e quella prevista dall’art. 143, nel caso d’irreperibilità della persona fisica medesima.

Nel caso oggi all’esame della corte, non è controverso che fossero state già tentate senza successo le forme di notificazione previste nell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 2 e in particolare, oltre a quella nella sede legale della società, anche quella alla persona giuridica presso il suo rappresentante legale, sia all’indirizzo risultante dal registro delle imprese e sia a quello risultante dall’anagrafe, sicchè non si poteva procedere se non in base alle forme previste dagli art. 140 e 143, che per quel che s’è detto sono alternative.

La parte, dunque, aveva richiesto informazioni all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) circa il luogo di residenza del signor S., e la risposta, nel confermare l’indirizzo anagrafico, aveva precisato che, tuttavia, “dal 27/10/2008 è stata aperta una procedura di cancellazione per irreperibilità”.

Ricorrevano pertanto i presupposti per la notificazione dell’atto alla società, presso il suo legale rappresentante S.A. con il rito degli irreperibili, in forza del principio di diritto per cui, a norma dell’art. 145 c.p.c., u.c., la notificazione alla persona giuridica, che non sia stato possibile notificare nei modi indicati dai commi precedenti, deve notificarsi presso il suo legale rappresentante, identificato nell’atto, a mezzo posta, a norma dell’art. 140 c.p.c., solo se sia noto il recapito di questi, e a norma dell’art. 143 se la persona fisica che rappresenta l’ente sia irreperibile in base alle ricerche fatte.

L’accoglimento del ricorso principale rende necessario l’esame del ricorso incidentale condizionato. Si deduce che il tribunale di Brescia sarebbe incompetente, perchè la società, trasferendo la sede legale a (OMISSIS), avrebbe conservato la sede effettiva in (OMISSIS), in provincia di (OMISSIS). La tesi non può essere condivisa, essendo basata su mere affermazioni della parte. Dalla premessa che la società avesse in precedenza la sede legale in Rottofreno non discende logicamente che tale sede avrebbe conservato come sede “effettiva”, pur dopo il trasferimento della sede legale in (OMISSIS).

In conclusione il ricorso principale va accolto, e quello incidentale rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e rigetta quello incidentale; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il reclamo proposto contro la sentenza di dichiarazione di fallimento pronunciata il 21 gennaio 2010 dal Tribunale di Brescia.

Condanna i soccombenti al pagamento delle spese liquidate:

per il reclamo, in Euro 2.550,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari e Euro 500,00 per diritti;

e per il giudizio di legittimità in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari;

oltre alle spese generali e aglio accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, il 27 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2012


Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord., (data ud. 21/02/2012) 24/05/2012, n. 8213

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente

Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 127-2010 proposto da:

B.G.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIULIANI ROBERTO giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.R. (OMISSIS), T.V. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GAVORRANO 12, presso lo studio dell’avvocato MARIO GIANNARINI, rappresentati e difesi dall’avvocato PADUA SALVATORE giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 822/2009 del TRIBUNALE di RAGUSA del 30/07/09, depositata il 29/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/02/2012 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;

è presente il P.G. in persona del Dott. SERGIO DEL CORE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
è presente il P.G. in persona del Dott. SERGIO DEL CORE.

Premesso che è stata comunicata alle parti e al P.M. la relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. del seguente tenore: “Con sentenza del 29 settembre 2009 il Tribunale di Ragusa rigettava l’opposizione agli atti esecutivi di B.G. avverso il precetto intimato da T.V. e L.R., proposta per mancanza della procura dichiaratamente conferita al difensore poichè la mancata trascrizione di essa nella copia notificata non è causa di nullità dell’ atto; inoltre perchè anche a voler ritenere che sia stata apposta sull’ originale dopo la notifica del precetto, il suo conferimento ratifica il compimento di esso. Liquidava le spese secondo il principio della soccombenza.

Ricorre B.G.T. per “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto dell’art. 360 c.p.c., comma 3.

Omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla violazione dell’art. 480 c.p.c., comma 4, artt. 479 e 83 c.p.c., art. 225 c.p.c., comma 1, art. 137 c.p.c., comma 2 per nullità del mandato apposto sull’ originale del precetto dopo la sua notifica, potendo tutt’ al più esser conferito con atto separato.

Il motivo è manifestamente infondato poichè la sentenza impugnata si è conformata al principio secondo cui il precetto, pur rientrando tra gli atti di parte il cui contenuto e la cui sottoscrizione sono regolati dall’art. 125 cod. proc. civ., non costituisce “atto introduttivo di un giudizio” contenente una domanda giudiziale, bensì atto preliminare stragiudiziale, che può essere validamente sottoscritto dalla parte oppure da un suo procuratore “ad negotia”.

Ne consegue che, in caso di sottoscrizione del precetto da parte di altro soggetto in rappresentanza del titolare del diritto risultante sul titolo esecutivo, la rappresentanza è sempre di carattere sostanziale, anche se conferita a persona avente la qualità di avvocato, restando conseguentemente irrilevante il difetto di procura sull’originale o sulla copia notificata dell’atto (Cass. 3998/2006).

2- Con il secondo motivo deduce: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 ed omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 350 c.p.c., n. 5 o in relazione all’art. 91 c.p.c.” per esser stata condannata alle spese malgrado il suo diritto di promuovere opposizione agli atti esecutivi entro cinque giorni dalla notifica del precetto per la mancanza di procura nella copia notificata e nell’originale avendone l’ufficiale giudiziario attestato la conformità all’originale e per aver iscritto nei dieci giorni successivi la causa a ruolo come era suo onere si che non aveva dato causa alla lite e non era soccombente.

Il motivo è manifestamente infondato essendo la sentenza impugnata conformata al principio secondo cui il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare diretto riferimento all’esito finale della lite, sicchè è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta. Il ricorso perciò è da respingere”;

rilevato che il P.M. non ha depositato requisitorie e le non parti hanno depositato memorie e che il collegio ha condiviso la relazione ed ha ritenuto che il procedimento di decisione del ricorso si presti ad essere deciso sulla base della stessa, con conseguente inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 360 bis cod. proc. civ.;

ritenuto pertanto che la ricorrente debba esser condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione pari a Euro 1.000 di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2012


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 18-01-2012) 24-04-2012, n. 6472

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente

Dott. BURSESE Gaetan0 Antonio – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere

Dott. MATERA Lina – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13717/2006 proposto da:

M.G. (OMISSIS), G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso lo studio dell’avvocato PELLEGRINO Giovanni, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

B.C., C.M.A., C.C. D.;

– intimati –

sul ricorso 19503/2006 proposto da:

C.M.A. (OMISSIS), B.C. (OMISSIS), C.C.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso lo studio GARDIN, rappresentati e difesi dall’avvocato SARACINO DONATO PANTALEO;

– controricorrenti ricorrenti incidentali –

contro

G.M. (OMISSIS), M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso lo studio dell’avvocato PELLEGRINO GIOVANNI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 144/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 27/02/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/01/2012 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;

udito l’Avvocato Amina L’ABBATE con delega depositata in udienza dell’Avvocato Giovanni PELLEGRINO, difensore dei ricorrenti che ha chiesto di riportarsi agli scritti depositati;

udito l’Avvocato SARACINO, difensore dei resistenti che ha chiesto di riportarsi anch’egli;

udito il P.M., persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 9 luglio 2001 il Tribunale di Lecce, in accoglimento delle domande proposte da C.S. e B.C. nei confronti di G.M. e M.G., condannò i convenuti a demolire la porzione di una costruzione che avevano realizzato a distanza inferiore a sei metri dal confine tra i rispettivi fondi delle parti, nonchè a risarcire agli attori i relativi danni, liquidati in L. 10.000.000.

Impugnata dai soccombenti, la decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Lecce, che con sentenza del 27 febbraio 2006, ferma la condanna alla riduzione in pristino, ha escluso quella al risarcimento dei danni.

G.M. e M.G. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a tre motivi. C.M.A., C.C.D. (eredi di C.S.) e B. C. si sono costituiti con controricorso, formulando a loro volta un motivo di impugnazione in via incidentale, cui G. M. e M.G. hanno opposto un proprio controricorso.

C.M.A., C.C.D. e B. C. hanno presentato una memoria.

Motivi della decisione
In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vengono riunite in un solo processo, in applicazione dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale G.M. e M.G. contestano l’esattezza della distinzione, prospettata nella sentenza impugnata, tra norme di azione e di relazione nell’ambito della disciplina delle distanze tra costruzioni: sostengono che in materia l’unica differenziazione rilevante è tra disposizioni integrative – o non – di quelle dettate dal codice civile.

La censura è inconferente, poiché la tesi di cui si tratta è stata esposta dalla Corte d’appello in linea teorica ed astratta, senza alcuna pratica e concreta influenza sulla decisione, la quale si basa sul rilievo che in effetti G.M. e M.G. avevano violato le prescrizioni del piano regolatore di Lecce, le quali esigono il rispetto di distanze maggiori di quelle stabilite dall’art. 873 c.c., e segg..

Appunto questa affermazione del giudice a quo viene contraddetta con il secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali G. M. e M.G. sostengono che per le strutture aggettanti, come quella da loro realizzata, la regolamentazione locale impone di osservare la distanza non già di sei metri dal confine, ma di tre.

L’assunto non è fondato.

L’art. 4 del regolamento edilizio annesso al piano regolatore del comune di Lecce dispone che la distanza minima dei fabbricati dai confini deve essere misurata “in proiezione orizzontale della superficie coperta”, la quale superficie coperta è definita dall’art. 3 come “la proiezione sul piano orizzontale del massimo ingombro della costruzione sovrastante il piano di campagna, con esclusione dei soli balconi aperti a sbalzo e degli aggetti normali quali pensiline, cornicioni, gronde ed elementi decorativi”. Nessun esonero è dunque previsto per “i bow-windows e le costruzioni in aggetto”, cui si riferisce l’art. 86, il quale è invocato dai ricorrenti nella parte in cui prescrive che per tali manufatti “la distanza in proiezione orizzontale dal confine non deve essere inferiore a m 3,00”. Ma il richiamo a tale disposizione non è pertinente, poiché essa riguarda, come risulta dal contesto in cui è inserita, le strutture pensili che sporgono sul suolo pubblico, sicché le suddette distanze minime sono quelle da rispettare lateralmente, rispetto ai confini con i fondi privati contigui. Se ne ha conferma dall’ulteriore previsione dello stesso art. 86, secondo cui “qualsiasi aggetto, con la sola esclusione delle sporgenze dei tetti o dei cornicioni minori di cm. 70, si considera nei riguardi del distacco minimo tra i fabbricati e della distanza minima dai confini di cui al precedente art. 4”.

Così corretta la motivazione della sentenza impugnata (nella quale l’art. 86 era stato ritenuto inapplicabile nel diverso presupposto che non riguardasse la zona B13, in cui sono ubicati gli immobili in questione) il ricorso principale va rigettato.

Con il motivo addotto a sostegno dell’incidentale C.M. A., C.C.D. e B.C. si dolgono del mancato accoglimento della loro domanda di risarcimento di danni per equivalente pecuniario, che la Corte d’appello ha rigettato osservando che la disposta riduzione in pristino costituiva ristoro in forma specifica del diritto tutelato e che non vi era stata allegazione e prova di una diminuzione patrimoniale economicamente valutabile.

La censura deve essere accolta, alla luce della giurisprudenza di questa Corte richiamata dai ricorrenti incidentali (ribadita, da ultimo, da Cass. 16 dicembre 2010 n. 25475 e Cass. 24 maggio 2011 n. 11382) secondo cui “in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria”.

Rigettato pertanto il ricorso principale e accolto l’incidentale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d’appello di Lecce, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il principale; accoglie l’incidentale; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2012


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 06-03-2012) 28-03-2012, n. 4955

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8793/2010 proposto da:

CASE DI CURA RIUNITE SRL IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA in persona del Commissario Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA GIUNONE REGINA 1, presso lo studio dell’avvocato GROSSO ANDREA CLEMENTE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 117/2009 della COMM.TRIB.REG. di BARI, depositata l’11/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2012 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GROSSO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato DE BELLIS, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso in subordine rimessione alle Sezioni Unite.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 117/8/2009, depositata in data 11/11/2009 la Commissione Tributaria Regionale della Puglia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria di Bari 370/232006 che aveva accolto i ricorsi riuniti proposti dalla Case di Cura Riunite s.r.l., in amministrazione straordinaria, avverso quattro cartelle di pagamento con cui l’ufficio iva di Bari aveva iscritta a ruolo le somme derivanti dalle rettifiche Iva relative agli anni di imposta 1990, 1991, 1992 e 1993, divenute definitiva per mancata impugnazione, ritenendo non validamente notificati i prodromici avvisi di rettifica, effettuati presso il domicilio del commissario straordinario anzichè alla sede della società Rilevava la Commissione Tributaria Regionale la ritualità della notifica dei predetti avvisi prodromici alle impugnate cartelle, effettuate presso il domicilio del commissario straordinario.

Proponeva ricorso per cassazione la società contribuente, affidato a due motivi.

Col primo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 3, del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, art. 1, comma 6, convertito nella L. 3 aprile 1979, n. 95 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censurando la sentenza impugnata per non aver ritenuto applicabile l’art. 145 c.p.c., comma 1, all’epoca vigente, a norma del quale “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza ad altra persona addetta alla sede stessa”, mentre, sulla base di quanto sostenuto dalla ricorrente, avrebbe dovuto procedersi ai sensi del terzo comma del citato articolo (che prevede “se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione alla persona fisica indicata nell’atto, che rappresenta l’ente, può essere eseguita anche a norma degli artt. 140 o 143”) soltanto nel caso in cui non sia possibile eseguire la notificazione nel luogo dianzi indicato. Contestava la sentenza della CTR che aveva ritenuto l’equiparazione del regime di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi alla liquidazione coatta amministrativa, ritenendo erroneamente la notifica effettuata al commissario straordinario presso il suo domicilio valida ed efficace.

Col secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando come la sanatoria disposta del citato art. 156 c.p.c., comma 3, nel caso di impugnazione delle cartelle esattoriali, non possa estendersi agli avvisi di rettifica che costituiscono atti provvedimentali distinti e prodromici rispetto alle cartelle stesse, rilevando lesione delle garanzie previste dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, (statuto dei diritti del contribuente.

Eccepiva, inoltre, che la piena conoscenza degli avvisi di rettifica da parte della società contribuente era stata raggiunta soltanto nel corso del giudizio di primo grado, allorchè l’Agenzia delle entrate aveva effettuato il deposito dei riferiti atti impositivi.

L’Agenzia delle Entrate depositava controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 6.3.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
1) Con riferimento al primo motivo di ricorso, va, preliminarmente, rilevato che dalla data del provvedimento ministeriale che dispone la procedura di amministrazione straordinaria, il commissario si sostituisce agli organi di amministrazione al fine di preservare le prospettive di risanamento economico della società.

Infatti in relazione alla costituzione dei rapporti processuali attinenti ai soggetti sottoposti alla procedura di amministrazione straordinaria si radica la legittimazione processuale, attiva e passiva, nonchè la rappresentanza legale in capo al commissario straordinario che diviene l’esclusivo responsabile della procedura.

Al commissario straordinario compete la gestione dell’impresa, costituendo il centro motore dell’attività della stessa e va, quindi, affermato che la notifica dei predetti avvisi di rettifica Iva, emessi nei confronti di una società posta in Amministrazione straordinaria può anche essere effettuata, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., all’epoca vigente, richiamato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nei confronti della società stessa, non già presso la sua sede legale, bensì presso il domicilio del commissario straordinario. Infatti, similmente a quanto avviene per la liquidazione coatta amministrativa, l’assoggettamento alla procedura di amministrazione straordinaria, pur non determinando la nascita di un soggetto nuovo e diverso e anche se, a differenza della prima procedura, non comporta il venir meno dell’attività di impresa, ha quale effetto l’attribuzione della rappresentanza legale e della legittimazione processuale al commissario straordinario; in tale situazione deve ritenersi che il centro motore dell’attività opera, secondo l’”id quod plerumque accidit”, presso il domicilio del commissario straordinario, sicchè pretendere che la notifica debba essere comunque tentata presso la sede legale costituisce una pura formalità, anche perchè, sovente, l’azienda viene ceduta a terzi.

Il Commissario straordinario, infatti, costituisce il centro motore e il punto di riferimento della società di cui ha la rappresentanza.

Non rileva, ai fini della notifica, la distinzione tra la fase conservativa e liquidatoria della procedura che non potrebbe giustificare regole diverse al procedimento notificatorio, imponendo al notificante un onere ulteriore di verificare la fase in cui si trova la procedura.

Peraltro il D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 9, prevede l’opposizione alla dichiarazione di insolvenza venga notificata anche al Commissario giudiziale, ma non alla società.

Anche sulla scorta di tali considerazioni, al fine di evitare impasse e dubbi interpretetativi, la nuova formulazione dell’art. 145 c.p.c., ancorchè non applicabile ratione temporis, alla fattispecie in esame, ma con valore anche interpretativo, ha previsto due modalità alternative: la consegna dell’atto nella sede della persona giuridica, oppure, qualora vi siano tutte le necessarie indicazioni nell’atto medesimo, la consegna alla persona fisica che rappresenta l’ente, ed in mancanza ai consegnatari legittimati a norma degli artt. 139 e 141.

Specifica, infatti, il novellato art. 145 c.p.c., che la notificazione può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale (Articolo così modificato dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. c), nn. 1, 2 e 3).

Anche nel caso in esame, per le motivazioni già enunciate, ancorchè sotto la vigenza del precedente art. 145 c.p.c., l’ufficiale giudiziario poteva, procedere alla notificazione anche direttamente nella residenza del commissario straordinario.

Il primo motivo va quindi disatteso.

Il secondo motivo rimane assorbito dalla declaratoria di ritualità della notifica al legale rappresentante della procedura di amministrazione straordinaria, senza necessità di far ricorso al principio subordinato previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 156.

Conclusivamente va rigettato il ricorso.

Le spese del grado di giudizio vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali liquidate in complessive Euro 50.000,00 per onorari.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Civile Quinta, il 6 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2012


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-11-2011) 27-02-2012, n. 2959

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7997/2006 proposto da:

JSAY SRL IN PERSONA DELL’AMM.RE UNICO E LEGALE RAPP.TE SIG. S.G. P.I. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL FANTE 2, presso lo studio dell’avvocato PALMERI GIOVANNI, rappresentata e difesa dagli avvocati PETRONE Raffaele, PETRONE LIBERO;

– ricorrente –

contro

B.A.;

– intimato –

sul ricorso 8700/2006 proposto da:

B.A. C.F. (OMISSIS), domiciliato EX LEGE in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato RISPOLI LUIGI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

JSAY SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6301/2005 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 06/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2011 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per la riunione del ricorsi, l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale e l’inammissibilità del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6301/05 il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice d’appello, dichiarava la nullità della notifica della citazione introduttiva del giudizio di primo grado, svoltosi innanzi al giudice di pace di Napoli, promosso dalla Jsay s.r.l. nei confronti di B.A., rimettendo la causa al primo giudice. Osservava, al riguardo, richiamandosi a Cass. S.U. n. 458/05, che sebbene la notifica, effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., fosse completa delle formalità prescritte (deposito dell’atto presso la casa comunale, affissione dell’avviso di deposito e invio di lettera raccomandata a.r.), l’avviso di ricevimento della lettera raccomandata, quantunque allegato all’atto notificato, non recava alcuna indicazione, né del deposito della lettera raccomandata, né delle ragioni di esso, né del periodo di giacenza presso l’ufficio postale prima della restituzione al mittente.

Per la cassazione di detta sentenza ricorre la Jsay s.r.l., con due motivi.

Resiste con controricorso B.A., che propone ricorso incidentale affidato ad un solo motivo.

Motivi della decisione
Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

1. – Con il primo motivo del ricorso principale è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 156 c.p.c. e art. 48 disp. att. c.p.c., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione.

Sostiene, al riguardo, parte ricorrente che il Tribunale ha forzato l’interpretazione dell’art. 140 c.p.c. e, ignorando la norma di cui all’art. 48 disp. att. c.p.c., che specifica il contenuto dell’avviso di cui all’art. 140 c.p.c., ha rilevato disformità del procedimento di notificazione non previste dalla legge e non rilevabili d’ufficio.

2. – Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 345, 346 c.p.c., art. 329 c.p.c., comma 2, per violazione del principio del tantum devolutimi quantum appellatimi e di quello di conversione delle cause di nullità in motivi d’impugnazione, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Il giudice d’appello, si sostiene, ha rilevato d’ufficio un vizio della notifica non oggetto di censura da parte dell’appellante, il quale si era limitato a dedurre che l’avviso era stato affisso al portone d’ingresso dell’edificio condominiale e che non vi era prova dell’avvenuta ricezione della raccomandata.

3. – Il primo motivo è fondato nei termini che seguono e va accolto.

L’ordinanza n. 458/05 delle S.U. di questa Corte, cui espressamente si richiama il giudice a quo, afferma (immutando in parte il pregresso orientamento in materia) che sebbene la notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., si perfezioni con il compimento delle formalità prescritte e, quindi, con la sola spedizione della raccomandata a.r. informativa del deposito dell’atto presso l’ufficio comunale, occorre che l’avviso di ricevimento sia allegato all’atto notificato, per verificare che quest’ultimo sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario. Dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale vi appone quando lo restituisce al mittente può emergere, infatti, che la raccomandata non sia stata consegnata per trasferimento o decesso del destinatario o per qualsivoglia altra causa da cui si desuma che l’atto non è pervenuto nella sfera di conoscibilità di lui, nel qual caso la notificazione è da ritenersi nulla.

Ciò non vuoi significare, però, che a tale principio segua il corollario per cui dall’avviso di ricezione debba risultare precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza di essa presso l’ufficio postale, e che, in definitiva, l’avviso debba contenere, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale. A tale risultato non conduce né la sentenza n. 3/10 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione; né la successiva giurisprudenza che ne è derivata (cfr. Cass. nn. 4748/11 e 7809/10), la quale, come la pronuncia del giudice delle leggi, ha avuto di mira essenzialmente la diversa problematica dell’individuazione del momento in cui si perfeziona la notifica. Se la validità di essa fosse retta, in conclusione, dalle stesse norme previste dalla L. n. 890 del 1982, sulle notificazioni a mezzo del servizio postale, fra l’ipotesi dell’art. 140 e quella dell’art. 149 c.p.c. non intercorrerebbe altra differenza se non un aggravio di forme, a danno della prima, ormai deprivate di giustificazione e sostanzialmente vane, dipendendo l’esito positivo della notifica dall’attività svolta dell’agente postale.

La citata ordinanza delle S.U. va dunque intesa, all’interno del nuovo quadro di riferimento determinato dall’intervento manipolativo della Corte costituzionale, nel senso che l’avviso di ricevimento rileva, con riferimento all’esito della notificazione ex art. 140 c.p.c., in quanto da esso risulti o il trasferimento o il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso.

3.1. – Nel caso di specie, dall’esame degli atti (cui questa Corte ha accesso, trattandosi di verificare un fatto di natura processuale) risulta che l’avviso di ricevimento reca il timbro di compiuta giacenza (presente anche sulla busta di restituzione al destinatario, in raccomandazione, del piego e dell’avviso medesimo), senza indicazione della data di inizio e di fine del deposito, nonché il sigillo dell’ufficio postale in data 7.1.2002 (la spedizione della raccomandata è del 21.12.2001), il che, se da un lato non corrisponde ad una perfetta redazione dell’avviso, dall’altro non evidenzia alcuno degli anzi detti fatti ostativi al perfezionarsi della notifica, che pertanto deve ritenersi regolare.

4. – L’accoglimento del predetto motivo assorbe l’esame sia della seconda censura, sia del ricorso incidentale, che propone il vizio di omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia, relativo alla mancata ammissione dei mezzi di prova dedotti dall’appellante.

5. – Per quanto sopra considerato, la sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Napoli, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Napoli, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2012


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 24/11/2011) 30/12/2011, n. 30753

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

P.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5/2006 della COMM. TRIB. REG. di TORINO, depositata il 16/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/11/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il dr. P.L. – avvocato – propose ricorso alla commissione tributaria provinciale di Torino contro il silenzio- rifiuto serbato dall’amministrazione finanziaria su un’istanza di rimborso dell’Irap versata nel triennio 2001, 2002 e 2003. Notificò il ricorso all’agenzia delle entrate ufficio di Torino (OMISSIS). Il ricorso fu accolto.

Su gravame del suddetto ufficio dell’agenzia delle entrate -che aveva censurato la sentenza per non avere rilevato il difetto di legittimazione di esso ufficio quanto all’Irap attinente all’annualità 2001, essendo per detta annualità territorialmente competente al rimborso l’ufficio di Torino (OMISSIS), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, destinatario della relativa domanda, e per aver ritenuto insussistente il presupposto d’imposta quanto alle restanti annualità – la commissione tributaria regionale del Piemonte ha confermato la statuizione di primo grado.

L’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. L’intimato non ha svolto difese.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo, che denunzia “difetto di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5”, è inammissibile per due ragioni. Da un lato perchè non risulta concluso da idoneo momento di sintesi rappresentativo del c.d. quesito di fatto (vale a dire della specifica individuazione del fatto controverso con riguardo al quale andrebbe affermato il vizio motivazionale). Dall’altro perchè non coerente con la critica ivi esposta. E’ infatti criticata la decisione di merito perchè parametrata a un profilo giuridico (la legittimità o meno della domanda di rimborso presentata a un ufficio incompetente) diverso da quello consegnato al corrispondente motivo di appello (tale essendo quello della eccepita mancanza di legittimazione passiva dell’ufficio di Torino (OMISSIS) dell’agenzia delle entrate). Cosicchè può osservarsi che la critica nulla ha da spartire col vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vizio necessariamente limitato all’argomentazione in fatto, risolvendosi nell’affermazione di esistenza di un’omissione di pronuncia sul motivo di gravame. La quale però andava denunziata secondo il paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 4. 2. – Il secondo motivo, limitatamente all’annualità Irap 2001, deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10, 18 e 19. Si ripropone, in forma di error in iudicando in iure, la questione della eccepita carenza di legittimazione passiva dell’ufficio locale convenuto in giudizio, sul rilievo che la commissione regionale avrebbe errato nel disattendere l’eccezione detta statuendo il rigetto del corrispondente profilo di inammissibilità del ricorso introduttivo.

Giacchè – si sostiene – il ricorso avverso il silenzio-rifiuto sulla domanda di rimborso dell’Irap relativa alla detta annualità, avrebbe dovuto essere proposto – in parte qua – nei confronti dell’ufficio di Torino (OMISSIS) a cui il contribuente aveva correttamente presentato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, l’istanza di rimborso.

(Notasi sul punto una distonia dei riferimenti conclusivi di pag. 7 del ricorso per cassazione, quanto agli uffici interessati – Torino (OMISSIS) e Torino (OMISSIS) – chiaramente ascrivibile, peraltro, a mero errore materiale.) 3. – Il secondo motivo – concluso da idoneo quesito di diritto – è infondato, ancorchè debba essere corretta, al riguardo, la motivazione della sentenza impugnata. La quale, onde disattendere il gravame nel profilo appena esposto, ha osservato che l’ufficio locale di Torino (OMISSIS) (già destinatario, a sua volta, dell’istanza di rimborso) “poteva, secondo prassi, trasmettere l’istanza ricevuta all’ufficio territorialmente competente”; con ciò avallando l’affermazione che tale era da ritenere l’ufficio di Torino (OMISSIS). Ma ha pure accertato, la sentenza de qua, essere stata l’istanza di rimborso autonomamente presentate anche al citato secondo ufficio, così contraddicendo l’utilità dell’argomento adoperato per respingere la censura. Il punto, portato all’attenzione della commissione regionale, invece, investiva la questione se, formatosi il silenzio-rifiuto sulla detta istanza di rimborso, stante l’inerzia dell’ufficio periferico adito (Torino (OMISSIS)), la vocatio dell’ufficio di Torino (OMISSIS), nel susseguente giudizio di impugnazione del silenzio- rifiuto, investisse o meno la legittimazione processuale passiva dell’agenzia fiscale (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10). Ed è evidente che la risposta al riguardo fornita dal giudice d’appello, facente leva sull’onere di trasmissione dell’istanza all’ufficio competente, non coglie il profilo che rileva.

4. – Ciò stante, è considerazione preliminare che l’accertamento di fatto – vale a dire la circostanza di essere stata comunque l’istanza di rimborso presentata a entrambi gli organi dell’ufficio periferico della competente agenzia delle entrate (Torino (OMISSIS) e Torino (OMISSIS)) – sterilizza la questione, sulla quale pur si registra un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, se la presentazione dell’istanza a un organo incompetente impedisca, o meno, la formazione del provvedimento negativo, anche nella forma del silenzio- rifiuto (al punto da determinare, secondo un indirizzo recentemente ribadito, l’improponibilità del ricorso al giudice tributario per difetto di un provvedimento impugnabile: v. sez. un. n. 11217/1997, cui adde, Cass. n. 14212/2004; Cass. n. 9407/2005, nonchè, di recente, Cass. n. 4037/2010 e Cass. n. 10537/2011; mentre, in senso contrario, Cass. n. 4773/2009; Cass. n. 15180/2009; Cass. n. 2810/2010). Nel senso che, per quanto evidenziato, una simile questione nel presente giudizio non incide, così dispensando il collegio dall’assumere una specifica posizione riguardo al contrasto detto.

5. – Di contro, al quesito di diritto, che compendia il sopra riportato secondo motivo dell’odierno ricorso, devesi fornire risposta negativa, seppure con più precisa spiegazione del passaggio logico essenziale rispetto a quanto trovasi fin qui argomentato dalla giurisprudenza della Corte.

La ragione essenziale si sostanzia nel fatto che l’evocazione in giudizio dell’agenzia delle entrate, per il tramite di ricorso notificato all’una o all’altra delle sue specifiche articolazioni interne (tali essendo i singoli uffici nei quali essa è organizzata a livello periferico, provinciale e non), non incide sulla legittimazione a contraddire dell’agenzia locale. La quale si atteggia, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 come riflesso della qualità di parte del rapporto tributario che viene in considerazione in base all’atto impugnato (ove anche questo risulti assunto in forma di tacito diniego), essendo la legittimazione passiva (id est, la titolarità passiva dell’azione) attribuita all’ufficio che, secondo i casi, ha emanato o (come qui interessa) non ha emanato uno degli atti avverso i quali può essere proposto il ricorso, e che quindi riveste la posizione di controparte del rapporto giuridico azionato. A seguito, infatti, dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 300 del 1999, istitutivo delle agenzie fiscali (la cui operatività discende dal D.M. 28 dicembre 2000, con decorrenza 1.1.2001), e in esito alla soppressione dei centri di servizio (di cui al provv. Ag. Entrate 7.12.2001), le attività già ascritte a codesti organismi (istituiti dalla L. n. 146 del 1980, art. 10 nell’ambito del Ministero delle finanze con specifica competenza, tra l’altro, in ordine alla esecuzione dei rimborsi) sono state attribuite, secondo il criterio della competenza territoriale (vale a dire, in relazione al domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione alla data in cui questa è stata o avrebbe dovuto essere presentata: del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2), agli uffici locali dell’agenzia delle entrate, per tali dovendosi intendere gli uffici periferici nei quali l’agenzia si manifesta come ente. Non anche, quindi, le singole articolazioni che riflettono la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna.

In tal senso, e con la precisazione appena svolta, può conseguentemente affermarsi il principio di diritto per cui la notifica dell’impugnazione avverso il silenzio-rifiuto, da parte del contribuente, presso un ufficio della locale agenzia delle entrate diverso da quello avrebbe dovuto eseguire il rimborso in base all’istanza all’uopo presentata, non incide sulla validità dell’impugnazione del silenzio-rifiuto medesimo, stante il carattere unitario dell’agenzia delle entrate competente per territorio (l’agenzia locale), e considerata la natura impugnatoria del processo tributario che attribuisce la qualità di parte all’ente-organo (e non alle singole sue articolazioni) che ha emesso, o, in caso di diniego, non ha emesso, l’atto di cui si controverte. E v. infatti, in senso analogo, ancorchè nel non dirimente richiamo al principio di effettività della tutela giurisdizionale rispetto all’impugnazione di un atto impositivo, Cass. n. 29465/2008; Cass. n. 15718/2009; Cass. n. 3727/2010. 6. – Il terzo motivo denunzia, con riguardo alle restanti annualità d’imposta, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4, 8 e art. 2697 c.c.. Si censura la sentenza di merito perchè costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta pagata, fornire la prova della mancanza del relativo presupposto.

Il motivo è inammissibile in relazione al quesito di diritto, che si presenta redatto in termini di astratta interrogazione sulla ripartizione dell’onere della prova in tema di rimborsi dell’Irap;

ripartizione che, in linea di principio, la sentenza di merito non ha negato svolgersi nei termini riferiti dal quesito. Cosicchè la mancanza di ogni riferimento alle caratteristiche della fattispecie concreta impedisce alla Corte di enunciare un conforme principio di diritto idoneo a risolvere la controversia.

7. – Il quarto mezzo denunzia, ancora con riguardo alle suddette residue annualità 2002 e 2003, difetto di motivazione, stante che la commissione si sarebbe limitata a dire che i beni, che pur figuravano a disposizione del contribuente in base alla sua dichiarazione dei redditi, non erano individuati, così da considerare in ragione di ciò comprovata l’inesistenza assoluta di capitali investiti, di beni strumentali e di lavoro altrui. Il quarto mezzo è fondato.

8. – Con apposito motivo d’appello, l’amministrazione, a confutazione della decisione di primo grado circa la mancanza del presupposto dell’autonoma organizzazione dell’attività professionale del contribuente, aveva richiamato le risultanze del quadro RE della dichiarazione dei redditi, evidenziante spese variamente distribuite per quote di ammortamento, acquisti di beni, consumi e altro (in proporzione – 16,52% nel 2001 e 12,84% nel 2002 – assunta come non irrilevante rispetto al totale dei percepiti compensi).

Di contro la commissione regionale ha motivato la decisione di rigetto con l’affermazione che “non sono tuttavia individuati i beni in questione e pertanto si può ritenere, così come indicato dal contribuente, l’inesistenza assoluta di capitali investiti, beni strumentali e di lavoro altrui”. Può osservarsi che una simile motivazione non soddisfa l’onere che il profilo richiedeva, non essendo spiegato perchè la mancata individuazione oggettiva (fisica) dei beni oggetto della esposizione dei riferiti costi sia tale da imporre l’inferenza circa l’inesistenza di capitali investiti e di beni strumentali eccedenti l’ordinaria necessità.

Al riguardo va ribadito il principio che è soggetto passivo dell’Irap chi si avvalga, nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo, di una struttura organizzata in un complesso di fattori che per numero, importanza e valore economico sono suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al suo know- how. Sicchè si può escludere il presupposto di imposta quando il risultato economico trovi ragione esclusivamente nella autorganizzazione del professionista o, comunque, quando l’organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda necessità di coordinamento.

Nondimeno è pacifico che, nel giudizio instaurato per il rimborso dell’imposta che si assume indebitamente pagata, grava sul contribuente l’onere dimostrativo del fatto costitutivo della sua pretesa, e cioè dalla mancanza del presupposto alla base del prelievo fiscale. E, di contro, il giudice del merito può ricercare gli opposti dati di riscontro (del presupposto impositivo) attraverso l’esame della dichiarazione del contribuente, in particolare soffermandosi sul dettaglio riportato nelle pertinenti sezioni del quadro RE (riguardante la determinazione del reddito di lavoro autonomo ai fini Irpef) che specifica la composizione dei costi. Si tratta – come già da questa Corte affermato (v. Cass. n. 13810/2007) – di una regola empirica che facilita l’onere probatorio in un processo caratterizzato da limitazioni istruttorie, quale quello tributario, sostanzialmente incentrato su produzioni documentali.

9. – Conclusivamente, quindi, dichiarata l’inammissibilità del primo e del terzo motivo, e rigettato il secondo, il ricorso va accolto in relazione al solo quarto motivo. L’impugnata sentenza deve essere cassata e la causa rinviata ad altra sezione della medesima commissione regionale, la quale riesaminerà il profilo da ultimo indicato uniformandosi al suesposto principio di diritto.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il terzo motivo; rigetta il secondo; accoglie il quarto; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla commissione tributaria regionale del Piemonte, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 24 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011


Cass. civ. Sez. VI, Ord., (ud. 14-10-2011) 10-11-2011, n. 23459

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

EQUITALIA GERIT s.p.a. – Agente della Riscossione per la Provincia di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. PURI PAOLO ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via XXIV Maggio, n. 43;

– ricorrente –

contro

V.P., rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv. VALCHERA MANLIO ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via del Pozzetto, n. 117;

– controricorrente –

e COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore;

– intimato –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 24942 del 2009, depositata il 1 dicembre 2009 (non notificata);

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 ottobre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

sentito l’Avv. Paolo Puri per la ricorrente;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VIOLA ALFREDO POMPEO, che ha concluso: “nulla osserva”.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 20 aprile 2011, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.: “Con sentenza n. 24942 del 2009 (depositata il 1 dicembre 2009) il Tribunale di Roma accoglieva l’appello proposto da V.P. nei confronti della s.p.a. Equitalia Gerit e del Comune di Roma avverso la sentenza n. 3987/2007 del Giudice di pace di quella stessa città e, in riforma di quest’ultima sentenza, dichiarava la nullità della cartella esattoriale impugnata, condannava la citata Equitalia (subentrata alla MPS) a restituire all’appellante la somma di Euro 251,24 (quale importo corrisposto dal V. in dipendenza di preavviso di fermo amministrativo) e condanna la stessa società, in solido con il Comune di Roma, alla rifusione delle spese dei due gradi di giudizio.

La suddetta s.p.a. Equitalia Gerit ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 6 settembre 2009 e depositato il 20 settembre successivo) nei riguardi della richiamata sentenza di appello (non notificata) formulando tre motivi, evidenziando, in via preliminare, che il ricorso nella sede di legittimità era stato formulato al fine di ottenere l’annullamento della decisione impugnata limitatamente alla disposta sua condanna al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi della controversia. Con il primo motivo ha censurato la sentenza impugnata assumendone la nullità nella parte relativa alla condanna alle spese di giudizio di essa società quale concessionario della riscossione per violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione agli artt. 3, 24 e 24 Cost. (avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Con il secondo motivo la società ricorrente ha censurato la menzionata sentenza del Tribunale capitolino per insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con il terzo motivo la stessa ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza impugnata nella parte relativa alla condanna alle spese del Concessionario della riscossione per violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, degli artt. 201 e 206 C.d.S., e con riferimento all’art. 3 Cost., (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4).

Si è costituito in questa fase con controricorso l’intimato V.P., instando per il rigetto del ricorso, mentre non ha svolto attività difensiva l’altro intimato Comune di Roma.

Ritiene il relatore che sembrano sussistere, nella specie, le condizioni per la ravvisare la manifesta infondatezza del proposto ricorso con riferimento a tutti e tre i motivi formulati.

Si deve, in linea preliminare, rilevare che, con i tre formulati motivi, la società ricorrente, senza avanzare alcuna specifica censura avverso la pronuncia di accoglimento nel merito della domanda del V. da parte del Tribunale di Roma (anche con riguardo alla domanda di restituzione della sanzione indebitamente pagata), ha inteso contestare la legittimità della sua condanna alle spese, in via solidale con il Comune di Roma, sul presupposto della sua erronea ritenuta soccombenza in relazione al motivo per cui l’appello era stato accolto, riferibile ad un comportamento omissivo esclusivo del suddetto Comune.

Con riferimento al primo e al terzo motivo – che possono essere esaminati congiuntamente – si osserva che, sulla scorta dei sei motivi di ricorso dedotti originariamente con il ricorso dinanzi al giudice di pace, era stato richiesto l’annullamento della cartella esattoriale e della relativa ingiunzione di pagamento, sulla scorta di comportamenti asseriti come illegittimi posti in essere sia dal Comune di Roma e che dal Concessionario esattoriale, i quali, perciò, erano stati evocati in giudizio entrambi, ciascuno per il rispettivo titolo e per la conseguente conformazione all’eventuale pronuncia di annullamento domandata, con la loro necessaria partecipazione all’instaurato giudizio. In dipendenza del successivo sviluppo in secondo grado, l’attuale controricorrente aveva proposto anche la domanda restitutoria nei confronti della società Equitalia con riguardo all’importo corrisposto per la sanzione (al fine di evitare il fermo amministrativo) ove ritenuta illegittima, domanda questa che il Tribunale di Roma, con la sentenza impugnata in questa sede, ha accolto nei confronti della suddetta società oltre a quella principale di annullamento della cartella impugnata. Orbene, sulla scorta dell’impostazione della domanda originaria e del contenuto dell’appello in relazione allo svolgimento della vicenda processuale, non può mettersi in dubbio che il concessionario esattoriale fosse legittimato passivo nella introdotta controversia, avendo, peraltro, questa Corte (v. Cass. n. 24154/2007) statuito che, in sede di opposizione a cartella esattoriale, emessa per il pagamento di sanzione amministrativa, è consentito all’intimato, qualora si deduca la mancata notifica del verbale di accertamento dell’infrazione o dell’ordinanza – ingiunzione irrogativa della sanzione, contestare per la prima volta la validità del titolo esecutivo, onde, in tal caso al soggetto esattore deve riconoscersi, insieme all’ente impositore titolare della pretesa contestata, la concorrente legittimazione passiva, con la conseguenza che l’opposizione deve essere proposta anche nei confronti del medesimo esattore, che ha emesso la cartella esattoriale ed al quale va riconosciuto l’interesse a resistere anche per gli innegabili riflessi che un eventuale accoglimento dell’opposizione potrebbe comportare nei rapporti con l’ente, che ha provveduto ad inserire la sanzione nei ruoli trasmessi ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 27, (specificandosi che, trattandosi d’ipotesi di litisconsorzio necessario, la mancata integrazione del contraddittorio può essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo). Alla stregua di tale considerazione e della posizione da riconoscersi alla società concessionaria dei servizio di esattoria, oltre che della condotta dalla medesima tenuta con riguardo all’intrapresa procedura del preavviso di fermo che aveva indotto – pur in pendenza di opposizione giudiziale – il V. a pagare la sanzione, è indubbio, indipendentemente dalla circostanza che la domanda principale di annullamento sia stata accolta per omissioni pregresse riconducibili all’altro convenuto Comune di Roma riferibili alla notificazione del verbale di accertamento, che la società oggi ricorrente abbia comunque resistito al giudizio (adottando anche una condotta extraprocessuale ulteriormente lesiva della sfera giuridica dell’ingiunto), facendo valere ragioni contrarie a quelle del ricorrente in primo grado e poi appellante, risultando specificamente soccombente sulla indicata domanda restitutoria accolta in sede di gravame (indipendentemente dalla correttezza o meno di tale statuizione quanto all’individuazione del soggetto passivamente legittimato, non valutabile in questa sede per effetto della mancata impugnazione sul punto della decisione del Tribunale di Roma). Del resto è risaputo che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 19456/2008 e Cass. n. 20335/2004), la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, per il quale non è esente da onere delle spese la parte che col suo comportamento abbia provocato la necessità del processo, prescindendosi dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dagli specifici motivi di rigetto della loro pretesa, oltre che delle rispettive posizioni processuali assunte da più convenuti ritenuti passivamente legittimati. Alla luce delle argomentazioni che precedono le violazioni dedotte con il primo e terzo motivo non sembrano sussistenti.

Con il secondo motivo risulta prospettato un vizio motivazionale della sentenza impugnata con riferimento alla rilevata soccombenza della società ricorrente ritenuta ingiusta in relazione all’intervenuto accoglimento dell’appello per una condotta omissiva ricollegabile esclusivamente al Comune di Roma.

Come si è già visto, però, la condanna alle spese in via solidale della società concessionaria (odierna ricorrente), disposta in sede di gravame, appare come una logica conseguenza dei principi precedentemente esposti e, quindi, come una conseguenza della condotta processuale ed extraprocessuale della stessa, nonchè quale effetto ineludibile della pronuncia (incontestata sul punto) di condanna della medesima Equitalia Gerit s.p.a. in proprio alla restituzione di quanto indebitamente percetto in virtù dell’illegittima sanzione irrogata al V. e della conseguente esecuzione esattoriale intrapresa in suo danno. Pertanto, avendo il giudice di appello, accolto l’impugnazione nei confronti di entrambi gli appellanti, esso ha fatto corretta applicazione del principio generale della soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c., senza necessità di dover adottare in proposito una specifica motivazione.

Oltretutto, in tema di spese processuali, la giurisprudenza essenzialmente consolidata ha precisato che la, statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea, mentre in ogni altro caso e, in particolare, ove il giudice, pur se in assenza di qualsiasi motivazione, le abbia poste a carico del soccombente, anche disattendendone l’espressa sollecitazione a disporne la compensazione, la statuizione è insindacabile in sede di legittimità, stante l’assenza di un dovere del giudice di motivare il provvedimento adottato, senza che al riguardo siano configurabili dubbi di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 111 Cost..

In definitiva, si riconferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., ravvisandosi la possibile manifesta infondatezza del ricorso con riferimento a tutti e tre i motivi formulati”.

Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, non cogliendo nel segno le deduzioni reiterate nella memoria difensiva dalla società ricorrente e dal suo difensore in sede di adunanza camerale, dovendosi riconfermare, in relazione alle argomentazioni compiutamente evidenziate nella suddetta relazione, la sussistenza della legittimazione passiva della stessa società concessionaria del servizio esattoriale (come, peraltro, sostenuto dalla più recente giurisprudenza di questa Corte) e l’emergenza della sua soccombenza con riferimento all’oggetto complessivo della controversia e al suo esito finale, culminato nella sentenza di appello con la quale è stata accolta una specifica domanda anche nei confronti della medesima odierna ricorrente;

che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese della presente fase in favore del controricorrente V.P., che si liquidano come in dispositivo, mentre non bisogna adottare alcuna statuizione al riguardo con riferimento alla posizione dell’altro intimato Comune di Roma, non costituitosi in questa fase.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore del controricorrente V.P., che si liquidano in complessivi Euro 500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011


Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., (data ud. 26/05/2011) 13/09/2011, n. 18762

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MARI LUNA s.r.l., fallita, in persona del curatore pro tempore, con domicilio eletto in Roma, via Corridoni n. 15 presso l’Avv. Agnino Paolo, rappresentata e difesa dall’Avv. Miglior Alberto, come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MARI LUNA s.r.l., fallita, in persona del legale rappresentante pro tempore, ANTICA OROLOGERIA CANDIDO OPERTI DEI FRATELLI Candido e Elisabetta OPERTI s.n.c.;

– intimati –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 5/10 VG depositata il 7 aprile 2010;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Zanichelli Vittorio.

Svolgimento del processo
La curatela del fallimento della Mari Luna s.r.l. ricorre per cassazione nei confronti della sentenza in epigrafe con la quale la Corte d’appello ha accolto il reclamo proposto dalla fallita revocando la dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Cagliari il 2 ottobre 2009.

Gli intimati non hanno proposto difese.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
Con la prima censura del primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 145 e 149 c.p.c., L. n. 890 del 1982, artt. 1 e 8 per avere la Corte di merito ritenuto irregolare la notificazione dell’avviso dell’udienza della fase prefallimentare effettuata alla società debitrice dall’ufficiale giudiziario a mezzo posta ai sensi dell’art. 149 c.p.c. e a sua volta dall’ufficiale postale come previsto dell’art. 8 citato e quindi, non avendo trovato alcuna persona idonea a ricevere il plico presso la sede della società, mediante deposito presso l’ufficio postale e avviso con lettera raccomandata (mai ritirata).

La censura non è fondata. L’art. 145 c.p.c. in tema di notificazione degli atti alle persone giuridiche, attualmente vigente e applicabile alla fattispecie, prevede, due modalità alternative da tentarsi prioritariamente: la notificazione nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede;

la notificazione, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale (indicazioni presenti nell’atto di cui si tratta).

Solo nel caso in cui la consegna dell’atto non possa essere effettuata con tali modalità è previsto, sempre che nello stesso risultino l’identità e la qualità della persona fisica che rappresenta l’ente nonchè uno dei luoghi indicati, che la notifica possa essere fatta a quest’ultimo con le modalità di cui all’art. 140 o art. 143.

Risulta dunque evidente dalla lettera della disposizione che allorquando nell’atto sono contenuti gli elementi indicati circa il legale rappresentante la notifica non può essere effettuata alla società con modalità diverse dalla consegna materiale dell’atto ad una delle persone a ciò legittimate e quindi non è consentito procedere con quelle previste dagli artt. 140 o 143, riservate esclusivamente alla notifica al legale rappresentante.

Naturalmente è possibile anche la notifica a mezzo del servizio postale, non essendovi alcuna previsione di legge ostativa, ma il procedimento non può non tener conto della specifica disciplina sopra esaminata, essendo indubitabile che il legislatore ha ritenuto maggiormente probabile che la notifica con modalità diverse dalla consegna a persona legittimata possa raggiungere lo scopo se indirizzata ad una persona fisica investita di particolari responsabilità piuttosto che in relazione ad un luogo dimostratosi scarsamente presidiato.

Ne consegue che la notifica a mezzo posta alla persona giuridica può essere effettuata, se dall’atto risultino gli indicati elementi identificativi del legale rappresentante, soltanto mediante consegna a persone abilitate a ricevere il piego, mentre deve escludersi la possibilità del deposito dell’atto e dei conseguenti avvisi che costituiscono formalità equivalenti alla notificazione ex art. 140 c.p.c..

Poichè nella fattispecie, pur essendo indicati nell’atto da notificare il nominativo e la reperibilità del legale rappresentante, la notificazione alla società è stata effettuata mediante deposito presso l’ufficio postale per assenza di persone legittimate alla ricezione, mentre la notificazione al legale rappresentante non è stata ritualmente effettuata, come ha ritenuto il giudice del merito con statuizione non fatta oggetto di censura, ne consegue la violazione del disposto della L. Fall., art. 15, circa la necessaria notificazione dell’avviso di convocazione al debitore e la nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio, non essendo questi comparso nè messo in condizione di difendersi.

Inammissibile è poi la seconda ragione di censura contenuta nel primo motivo di ricorso dal momento che questa attiene ad un presunto difetto di motivazione ma la circostanza in ordine alla quale la motivazione sarebbe carente e contraddittoria non attiene ad un fatto, essendo pacifiche le modalità con cui la notificazione è avvenuta, ma all’inquadramento delle stesse nell’art. 145 c.p.c. piuttosto che nelle disposizioni sulla notifica a mezzo del servizio che è questione di diritto, come tale non censurabile se non per violazione di legge.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della L. Fall., art. 18, per avere la Corte d’appello, a fronte della ritenuta nullità della notificazione dell’avviso di convocazione, dichiarato la nullità della sentenza invece di effettuare gli accertamenti necessari nel contraddittorio delle parti cui sarebbe stata legittimata in virtù dell’effetto pienamente devolutivo del reclamo e dell’adozione del rito camerale che renderebbe inapplicabili le norme sull’appello.

Il motivo è manifestamente infondato dal momento che, prescindendo da ogni considerazione in ordine alla natura del giudizio camerale di impugnazione, è decisiva la considerazione che, in presenza della fondatezza del reclamo, l’art. 18 impone la revoca della sentenza dichiarativa del fallimento con conseguente cessazione della procedura, senza che siano previste o la rinnovazione degli atti nulli o la regressione al primo giudice. D’altra parte, l’accertata nullità dell’atto introduttivo comporterebbe, in base alle norme sull’impugnazione (art. 354 c.p.c.), non già la pronuncia nel merito ma la rimessione degli atti al primo giudice che, in tema di giudizio per la dichiarazione di fallimento, è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza della Corte con argomenti che ancora possono essere invocati: “La procedura prefallimentare non può paragonarsi ad un processo di cognizione ordinaria, essendo essa di natura inquisitoria, compatibile con la necessaria audizione delle parti, pur nella sommarietà delle prove acquisibili, tra cui quelle rilevabili e attuabili d’ufficio dal giudice. Essa mira ad accertare con celerità e senza cognizione piena la sussistenza attuale dei presupposti per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore: di modo che la conseguente sentenza positiva costituisce essa stessa il punto d’avvio per il giudizio di cognizione ordinaria in ordine a quei medesimi presupposti.

E’ evidente, quindi, che la nullità di essa, pronunciata dalla Corte di Appello, travolge tutti gli atti conseguenziali, ivi inclusi il giudizio di cognizione di 1^ grado, la sentenza relativa ed il giudizio di 2^ grado (art. 159 c.p.c.), mentre non fa neppure salvi situazioni, fatti ed effetti riferibili alla fase “quo ante”, che possano valere come vincoli assoluti per il giudice fallimentare riguardo ad una nuova dichiarazione di fallimento.

Anzi quel giudice, nell’ipotesi di inizio di una nuova fase procedimentale prefallimentare, non può non riferirsi all’attualità delle situazioni su cui fondare l’accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento, dal momento che, da un lato, l’effetto retroattivo della pronuncia della Corte di Appello induce a ritenere la dichiarazione di fallimento “tamquam non esset”, dall’altro, va fatto salvo il principio secondo cui l’accertamento dei presupposti del fallimento va eseguito con riferimento ai fatti ed alle circostanze soggettive ed oggettive esistenti all’epoca della dichiarazione medesima” (così Sez. 1, Sentenza n. 7760 del 1990 in motivazione).

Il ricorso deve dunque essere rigettato. Non si deve provvedere in ordine alle spese in assenza di attività difensiva da parte degli intimati.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2011


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-06-2011) 02-08-2011, n. 16905

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19983/2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

R.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 151/2008 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 4.6.08, depositata il 30/06/2008;

udita la reflazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO TERRUSI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. UMBERTO APICE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
– Ritenuto che è stata depositata, dal consigliere appositamente nominato, la seguente relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.:

“La commissione tributaria regionale della Campania ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’agenzia delle entrate avverso la sentenza della commissione tributaria provinciale di Caserta, n. 263/01/2006, che aveva accolto un ricorso di R.P. avverso un avviso di rettifica e liquidazione di imposta di registro. Ha motivato sul rilievo che l’appellante non aveva provato – allegando copia dell’avviso di ricevimento – il perfezionamento della notificazione dell’atto all’indirizzo del destinatario. Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’agenzia delle entrate, articolando un motivo inteso a denunciare violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3. Premesso che la notifica dell’atto di appello era stata ritualmente eseguita presso il domicilio eletto in primo grado, vi si sostiene che il giudice di merito, non avendo rinvenuto agli atti dell’appello l’originale della cartolina verde attestante la rituale notifica, avrebbe dovuto concedere un termine per il deposito dell’avviso suddetto, necessario per il controllo di ritualità e validità della notificazione.

Il motivo, seppur sorretto da quesito che può ritenersi idoneo in parte qua, sembra manifestamente infondato, dal momento che giustappunto come chiarito dalle sezioni unite di questa Corte (sez. un. n. 627/2008) la mancata produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato notificato per posta non integra un’ipotesi di nullità della notificazione, non essendo, l’avviso detto, elemento costitutivo del procedimento notificatorio. La mancata produzione (o il mancato rinvenimento) rileva ai fini della prova del perfezionamento della notificazione. Consegue che, ove l’appellante non produca, dinanzi alla commissione tributaria regionale, il documento comprovante l’avvenuto perfezionamento della notificazione (fatto pacifico in causa), legittimamente la commissione dichiara l’inammissibilità dell’appello. Nè è tenuta ad accordare d’ufficio all’appellante un termine per integrare la documentazione mancante.

D’altronde non risulta neppure dedotto – in questa sede – che l’appellante, in mancanza della costituzione dell’appellato, abbia fatto richiesta di fruire di un simile termine.

Sulla base delle esposte considerazioni, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio e definito con pronunzia di manifesta infondatezza”;

– che il collegio integralmente condivide le considerazioni di cui alla ripetuta relazione;

– che pertanto il ricorso va rigettato;

– che l’intimato non ha svolto difese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio su relazione del Cons. Dott. Terrusi, il 21 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2011


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 31-03-2011) 14-06-2011, n. 12978

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.R., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso lo studio dell’avvocato TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato MOLTENI GIORGIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 32/2007 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 07/04/2007, r.g.n. 116/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/03/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega MOLTENI GIORGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Poste Italiane s.p.a. adiva il Tribunale di Crema chiedendo che fosse accertata, nei confronti di P.R., la legittimità o meno della sanzione disciplinare, comminata a quest’ultima in data 11 aprile 2005, per essersi rifiutata di svolgere la prestazione lavorativa in sostituzione di un collega assente, secondo il sistema previsto dall’accordo sindacale del 29 aprile 2004. 2. Il Tribunale accoglieva la domanda dichiarando la legittimità della sanzione.

3. Avverso la sentenza del giudice di primo gado, proponeva impugnazione la P. dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia che, con la sentenza n. 32/2007, rigettava il ricorso.

4. Ricorre P.R. per la cassazione della suddetta sentenza del giudice di appello proponendo cinque motivi di impugnazione.

5. Resiste con controricorso Poste Italiane s.p.a.

6. Sia la P. che Poste Italiane hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106, 1175, 1375 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7; vizio di motivazione su di un fatto controverso e decisivo del giudizio.

La ricorrente si duole che la propria audizione sia stata disposta a oltre 62 Km di distanza dalla sede di lavoro e ben oltre l’orario di lavoro, mentre si sarebbe dovuta svolgere, in quanto complementare rispetto all’attività lavorativa, in orario di servizio e nello stesso luogo di lavoro.

Il quesito di diritto, articolato in ordine al suddetto motivo, ha il seguente tenore: se costituisce lesione del diritto di difesa, così come disposto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 l’aver disposto l’audizione in sede disciplinare, richiesta dal dipendente con l’assistenza del rappresentante sindacale, in altro luogo che quello della prestazione lavorativa e distante oltre 62 km da questo e al di fuori dell’orario contrattuale (alle 16, terminando l’orario di lavoro alle 13), sì da rendere estremamente gravoso l’esercizio del diritto stesso.

1.2. Il motivo non è fondato.

Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza n. 5864 del 2010), con orientamento che si intende ribadire, la disposizione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, deve essere interpretata nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte – e, quindi, per iscritto o a voce, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale – con la conseguenza che, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere “sentito a difesa” nel termine previsto dallo stesso art. 7, comma 5, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, pena l’illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare (cfr. ad es., Cass. n. 1661 del 2008; Cass. n. 7848 del 2006; Cass. n. 9066 del 2005; Cass. n. 7006 del 1999; Cass. n. 467 del 1992).

Corollario di tale principio è che la richiesta di audizione del lavoratore, al di fuori dei casi in cui appaia ambigua o incerta, non risulta sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneità difensiva, per essere tale esito, garantito dall’art. 7, comma 2, non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e,quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell’incolpato, con l’espressa previsione dell’impossibilità di applicare qualsiasi sanzione più grave del rimprovero verbale senza che il lavoratore, che ne abbia fatto richiesta, sia sentito a sua discolpa.

In tal contesto, quindi, assume particolare rilievo l’obbligo delle parti di conformare la propria condotta a buona fede e lealtà contrattuale. L’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, nel suo complesso e quindi anche con riguardo ai profili procedurali, dunque, deve essere valutato alla stregua di tali principi.

Nel caso in esame, il giudice di appello, facendo corretta applicazione dei suddetti principi, con motivazione congrua e logica, ha accertato, sulla base dei criteri indicati, che le modalità di luogo ed orario dell’audizione della lavoratrice non avevano leso il diritto di difesa della stessa. La P., ha affermato il giudice di appello, era stata convocata presso l’ufficio del personale di Cremona e non di Milano e dunque in luogo facilmente raggiungibile dalla sua sede di lavoro di (OMISSIS). Inoltre, ha statuito la Corte d’Appello, la condotta datoriale, da valutare in ragione dei suddetti principi di correttezza e buona fede, mancando una previsione legislativa sul punto, appariva legittima tenuto conto che si tratta di una azienda di vaste dimensioni organizzata sul territorio attraverso uffici rispondenti a direzioni diverse, ognuna con una sua competenza quanto ai rapporti con il personale e che la sede presso la quale era stata convocata la dipendente, ossia (OMISSIS), non rendeva in alcun modo particolarmente oneroso alla stessa (e al rappresentante sindacale) l’esercizio del diritto di difesa, che era stato, peraltro, esercitato anche per iscritto.

2. Con il secondo motivo di impugnazione è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 40 Cost., della L. n. 300 del 1970, art. 28, della L. n. 146 del 1990, artt. 1, 2, 4, 12, 13 e 14; vizio di motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Ad avviso della ricorrente, sarebbe stato leso il diritto di sciopero e la disciplina della regolamentazione di esso nei servizi pubblici essenziali. L’unica limitazione al diritto di sciopero riconosciuto dalla Costituzione, è quella prevista per i servizi pubblici essenziali dalla L. n. 146 del 1990, che attribuisce peculiare rilievo, in proposito, alla Commissione di Garanzia, i cui poteri sono stati rafforzati con la L. n. 83 del 2000, che ha attribuito alla stessa un potere di regolamentazione provvisoria. In ragione della delibera 02/37 della Commissione la vicenda in esame rientra nell’ipotesi di sciopero legittimo. Alla Commissione di Garanzia spetta, tra l’altro il compito di deliberare le sanzioni.

In ordine al suddetto motivo di ricorso è stato prospettato il seguente quesito di diritto:

se in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ex L. n. 146 del 1990, ed in particolare in quello dei dipendenti di Poste Italiane, attinente alla libertà di comunicazione, assoggettato alla normativa di regolamentazione, per sciopero deve intendersi ogni forma di azione sindacale comportante una riduzione del servizio tale da determinare un pregiudizio per i diritti degli utenti, ciò valendo anche in caso di astensione collettiva dal lavoro aggiuntivo, così come dedotta in causa, e, in ogni caso, l’esercizio del potere disciplinare relativo all’astensione dal lavoro collettiva è di esclusiva competenza della Commissione di Garanzia che eventualmente prescrive al datore di lavoro la sanzione, con la conseguenza che, nel caso di specie, l’esercizio del potere disciplinare da parte di Poste Italiane è illegittimo.

3. Con il terzo motivo di impugnazione è prospettata insufficiente o contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il fatto controverso e decisivo per il giudizio è lo sciopero oggetto di causa, così come storicamente proclamato ed attuato.

In relazione a ciò, afferma la ricorrente, del tutto erronee sono le seguenti affermazioni della sentenza impugnata. Premesso che il sindacato non ha indetto uno sciopero dal lavoro straordinario, bensì ha proclamato l’astensione da ogni forma di prestazione accessoria, comunque denominata (es. Area Territoriale), come denominata proprio dall’accordo contro cui ha reagito, ed in coerenza con ciò, gli aderenti si sono rifiutati di svolgere quella che, nell’accordo sull’area territoriale, viene definita prestazione aggiuntiva e che Poste Italiane ha definito, nel suo calendario scioperi – per l’utenza “proclamazione sciopero prestazioni accessorie”, l’affermazione della sentenza impugnata sarebbe del tutto incoerente, anche dal punto di vista logico.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione degli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c.; omessa e/o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Espone la ricorrente che manca nella fattispecie in esame la colpa del lavoratore, che costituisce presupposto dell’infrazione disciplinare. Ed infatti, essa ricorrente aveva aderito ad uno sciopero ritualmente comunicato agli organi competenti e reso pubblico da Poste Italiane e, comunque, era estranea al contendere di Poste Italiane sul sistema areola.

Il quesito di diritto è il seguente:

L’astensione dalla prestazione dalla lavorativa ritenuta dallo stesso datore di lavoro sciopero e come tale comunicata pubblicamente, senza alcuna riserva, non può fondare una responsabilità disciplinare da inadempimento, per assenza di qualsivoglia elemento colposo a carico del dipendente.

5. Con il quarto (recte: quinto) motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione: art. 1362 e segg., in relazione all’accordo collettivo 29 luglio 2004, art. 2697 c.c.;

violazione dell’art. 40 Cost., insufficiente e/o contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La P. deduce che non si verte in ipotesi di sciopero su lavoro straordinario (nè delle mansioni), ma della prestazione aggiuntiva.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore:

se, laddove un accordo collettivo contenga una disposizione che obblighi il dipendente a sostituire, oltre la sua prestazione contrattuale già determinata, in quota parte oraria, un collega assente, remunerandolo con una quota di retribuzione inferiore alla maggiorazione per lavoro straordinario, la relativa astensione collettiva da tale prestazione attiene al legittimo esercizio del diritto di sciopero, essendo in ogni caso onere probatorio di chi lo invoca fornire la prova che detta prestazione possa svolgersi nell’ordinario orario di lavoro.

6. Con il sesto motivo di ricorso è sottoposta all’esame della Corte la censura relativa alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., dell’art. 1372 c.c. e segg., dell’art. 2107 c.c.;

del CCNL Poste italiane 11.7.2003; vizio di motivazione.

7. I motivi di impugnazione da 2 a 5 devono essere trattai congiuntamente in ragione della loro intrinseca connessione. Gli stessi non sono fondati.

1 suddetti articolati motivi di ricorso, proposti dalla ricorrente in ordine alla sentenza della Corte d’Appello di Brescia, hanno un punto di chiara intersecazione consistente nelle questioni relative, sotto più profili, alla qualificazione della prestazione lavorativa il cui mancato adempimento ha determinato l’irrogazione della sanzione datoriale.

Pertanto, la Corte è chiamata a stabilire se, in ragione della disciplina in questione, l’astensione dal lavoro oggetto di questa controversia rientri o meno nel concetto di sciopero. Se il comportamento dei lavoratori che hanno aderito all’astensione proclamata da COBAS è una forma di sciopero, la sanzione disciplinare è illegittima e la sua applicazione costituisce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 28, in quanto lo sciopero è un diritto costituzionalmente sancito e il suo esercizio sospende il diritto al corrispettivo economico, ma rende immune il comportamento da sanzioni. Se, al contrario, non è sciopero, il rifiuto della prestazione costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali e l’applicazione della sanzione disciplinare è legittima.

8. Su tale punto, la Corte, condividendolo, richiama il recente orientamento (Cass., sentenze n, 548 del 2011 e n. 547 del 2011) che ha affermato quanto segue.

Non esista una definizione legislativa dello sciopero. I lineamenti del concetto sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle relazioni industriali.

Lo sciopero nei fatti si risolve nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione. Questa mancata esecuzione si estende per una determinata unità di tempo: una giornata di lavoro, più giornate, oppure periodi di tempo inferiori alla giornata, sempre che non si vada oltre quella che viene definita “minima unità tecnico temporale”, al di sotto della quale l’attività lavorativa non ha significato esaurendosi in una erogazione di energie senza scopo.

In tale logica, la giurisprudenza, dopo alcune oscillazioni, riportò entro la nozione di sciopero anche la mancata prestazione del lavoro straordinario (Cass., n. 2480 del 1976).

L’astensione anche in questo caso ha una precisa delimitazione temporale e concerne tutte le attività richieste al lavoratore.

Al contrario, ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere. E il caso del c.d. sciopero delle mansioni, comportamento costantemente ritenuto estraneo al concetto di sciopero e pertanto illegittimo dalla giurisprudenza (Cass., n. 2214 del 1986).

Tanto premesso, questa Corte, nel condividere la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata (sentenze n. 548 del 2011 e n. 547 del 2011), ritiene che il rifiuto di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell’obbligo di sostituzione previsto dal contratto collettivo non è astensione dal lavoro straordinario, nè astensione per un orario delimitato e predefinito, ma è rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute. Situazione assimilabile a quella del c.d. sciopero della mansioni, perchè, all’interno del complesso di attività che il lavoratore è tenuto a svolgere, l’omissione concerne uno specifico di tali obblighi.

L’astensione pertanto non può essere qualificata sciopero e resta un mero inadempimento parziale della prestazione dovuta. Di conseguenza, la sanzione disciplinare non è illegittima e il comportamento datoriale non è antisindacale. Questa conclusione non solo è in linea con le coordinate generali prima tracciate, ma anche con la specifica giurisprudenza di legittimità sull’argomento: Cass. n. 17995 del 2003, concernente il sistema di sostituzioni entro l’ambito della c.d. areola (antecedente dell’area territoriale nell’organizzazione delle Poste), ha affermato che il rifiuto di effettuare la sostituzione del collega assente, è “rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni, legittimamente richiedibili al lavoratore” e “non costituisce esercizio del diritto di sciopero”, con la conseguenza che deve escludersi l’antisindacalità della scelta datoriale di applicare una sanzione disciplinare.

La sentenza da ultimo richiamata (Cass. 17995 del 2003), in particolare, ha affermato che la richiesta di consegna della corrispondenza in zone di recapito diverse da quelle abitualmente assegnate non costituisce, di per sè, richiesta di prestazioni di lavoro straordinario, ma rientra nei poteri riservati al datore di lavoro che conserva la facoltà non solo di strutturare ed organizzare la propria azienda, ma anche quella di stabilire l’orario e di adeguare le prestazioni dei dipendenti in relazione alle esigenze della stessa, ancorchè, ovviamente, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e dalle norme contrattuali vigenti. Del tutto legittima appariva, pertanto, la determinazione della società di prolungare nel tempo il sistema originariamente introdotto previo accordo sindacale per il recapito della corrispondenza nella cosiddetta areola. In caso di impedimento di un portalettere titolare, questa attività si aggiungeva a quella di recapito nella zona assegnata al portalettere individualmente, ed era redistribuita tra i portalettere presenti in servizio. Il riconoscimento di un premio, collegato al raggiungimento dell’obiettivo – smaltimento del corriere – non intendeva compensare una prestazione lavorativa di maggior durata, rispetto all’orario di lavoro ordinario, bensì una prestazione che, pur svolgendosi interamente in detto orario, assumeva necessariamente maggiore intensità e gravosità, ricomprendendo – seppure in parte – il lavoro di competenza di altro lavoratore assente.

Il rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni, legittimamente richiedibili al lavoratore, attuato senza perdita della retribuzione, non costituisce esercizio legittimo del diritto di sciopero e può configurare una responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente.

In conseguenza di ciò, il comportamento tenuto dal datore di lavoro non poteva integrare un comportamento antisindacale.

9. Altre questioni poste dai suddetti motivi di ricorso riguardano il rapporto con le determinazioni della Commissione di garanzia. Si è già detto del perchè l’astensione in esame non costituisce esercizio del diritto di sciopero. Deve aggiungersi, richiamando le già sopra citate pronunce della Corte, che la nozione di sciopero proposta dalla ricorrente non è condivisibile, perchè non può definirsi sciopero ogni astensione sindacale che comporti una riduzione del servizio. Nè, invero, lo sciopero si caratterizza per il fatto che determina un danno per gli utenti. Questo può essere un effetto collaterale, ma non è elemento costitutivo dello sciopero;

molti scioperi non danneggiano gli utenti.

10. La definizione di sciopero proposta dalla ricorrente invero richiama l’espressione usata dalla Commissione di Garanzia nel provvedimento del marzo 2002 (G.U. n. 88 del 2002), che peraltro non si occupa delle astensioni contro l’accordo sulle aree territoriali, che del resto è del 2004, bensì in generale gli scioperi dei dipendenti delle Poste. In ogni caso, tale provvedimento non incide sulla soluzione delle questioni oggetto di questa controversia.

Nel delineare il suo campo di applicazione, la delibera precisa che “la presente disciplina si applica ad ogni forma di azione sindacale, comunque denominata, comportante una riduzione del servizio tale da determinare un pregiudizio per tutti gli utenti”. Ed aggiunge che si applica anche al caso di astensione dal lavoro straordinario.

La Commissione, con tali espressioni, si prefiggeva solo, nella sua ottica specifica, di limitare le conseguenze di azioni sindacali implicanti danni per l’utenza, siano o non siano qualificabili come sciopero. Qualora si tratti di azioni qualificabili come sciopero varranno le esenzioni dal diritto comune dei contratti derivanti dall’art. 40 Cost. Al contrario, in caso di azioni estranee a tale ambito, l’esenzione non opererà e si applicheranno le regole civilistiche ordinarie in materia di inadempimento delle obbligazioni prima esaminate. L’intervento della Commissione di Garanzia non incide su questo ordine di conseguenze, nè, in caso di inadempimento della prestazione non qualificabile come sciopero, incide sul potere disciplinare del datore di lavoro.

11. Correttamente, con argomentazioni interpretative della complessiva disciplina in esame che trovano conferma nei principi sopra enunciati, i quali, attribuiscono alle stesse coerenza di sistema, la Corte d’Appello di Brescia, nella sentenza impugnata, con motivazione congrua ed esente da vizi, ha affermato che la prestazione del portalettere è commisurata sul piano della durata al tempo stimato necessario per il recapito in un determinata area territoriale,secondo criteri puramente statistici di stima della corrispondenza destinata all’area medesima. Pertanto, la stessa è suscettibile di una durata giornaliera e settimanale inferiore o superiore a quella stimata, in ragione del carico di corrispondenza da recapitare, variabile da giorno a giorno, da settimana a settimana, da mese a mese. In ragione di ciò, con l’accordo 29 luglio 2004, necessariamente vincolante per tutti i dipendenti della società, indipendentemente dalla iscrizione ai sindacati stipulanti – in quanto non contenga disposizioni sostanzialmente e globalmente peggiorative per talune categorie di essi – in quanto destinato a regolare uniformemente indivisibili interessi collettivi di tutti i lavoratori (Cass., sentenza n. del 12647 del 2004), le parti firmatarie del CCNL hanno previsto che l’orario di lavoro giornaliero possa essere di mezz’ora superiore o inferiore alle sei ore, e che, fermo restando le 36 ore settimanali, oltre le quali il lavoro diventa straordinario, la società datrice di lavoro ha il potere di chiedere, con il limite di due ore giornaliere e di dieci ore mensili, che i portalettere smaltiscano, ripartendosela, anche la corrispondenza delle aree territoriali coperte da colleghi assenti.

Del tutto congruamente e in conformità alla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, quindi, il giudice di appello ha dato rilievo alla mancata prova, da parte del lavoratore, della circostanza che la prestazione lavorativa in questione costituisse lavoro straordinario ulteriore rispetto alle 36 ore settimanali.

In ragione del suddetto percorso argomentativo, quindi, la Corte d’Appello ha ritenuto la illegittimità del rifiuto di una parte della prestazione dovuta con la conseguente legittimità della applicazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro, nell’impossibilità di scorporare dall’orario di lavoro un tempo corrispondente alla prestazione accessoria negata con riduzione della retribuzione.

Nè è condivisibile la dedotta censura relativa al non avere la Corte d’Appello tenuto conto dell’assenza di colpa del lavoratore. Ed infatti, con motivazione del tutto coerente e che non viola le disposizioni invocate dalla ricorrente, la pronuncia impugnata afferma che l’adesione allo sciopero indetto da COBAS PT non è una circostanza da cui si possa desumere l’assenza di colpa nell’inadempimento, in quanto l’adesione allo sciopero è atto volontario e l’eventuale errore circa la legittimità dell’astensione, è quanto meno ascrivibile a colpa non essendo ignote alla lavoratrice, o comunque, non potendo essere presunte tali in assenza di prova contraria, le circostanze in cui il rifiuto della prestazione in sostituzione veniva posto in essere e le conseguenze dello stesso sul piano dia della organizzazione del lavoro per la datrice sia della impossibilità di procedere a una decurtazione della retribuzione.

12. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile. Ed infatti, in ordine allo stesso non è stato formulato il quesito di diritto secondo quanto previsto dall’art. 366 bis, applicabile ratione temporis, anche con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Ed infatti, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., sentenza n. 4546 del 2009) l’art. 366-bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.

Nel primo caso, ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dicta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

13. In ragione delle argomentazioni svolte, il ricorso deve essere rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 58,00 per esborsi e Euro 2000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 31 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2011


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 05-01-2011) 21-04-2011, n. 9173

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24657/2006 proposto da:

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 110 presso lo studio dell’avvocato MACHETTA MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato NOCCO GIUSEPPE ONORATO, giusta delega in calce;

– ricorrente-

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI SALERNO, in persona del Direttore pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 170/2005 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di SALERNO, depositata il 06/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/01/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 6 luglio 2005 la sezione salernitana della CTR di Napoli, riformando la decisione della CTP di Salerno del 15 dicembre 2003, accoglieva l’appello dell’amministrazione e dichiarava inammissibile il ricorso introduttivo di D.G., opponente avverso gli avvisi d’accertamento notificati il 13 dicembre 2002 a seguito di maggiori redditi per gli anni 1995 e 1996 attribuiti alla s.r.l. Iulia della quale era socia.

I giudici d’appello, andando di contrario avviso rispetto alla commissione di prime cure, rilevavano la tardività della costituzione della ricorrente in primo grado, evidenziando che il termine prescritto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, decorreva dalla spedizione postale del ricorso (e non dalla sua ricezione) e non era stato affatto prorogato dalla L. n. 289 del 2002, riguardante i termini per il ricorso (e non quelli processuali ulteriori).

Avverso tale sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione, illustrato anche con memoria, al quale resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione
Il ricorso è in parte fondato.

A. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15, comma 8, e art. 16, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

B. In proposito, sostiene che, se la sospensione dei termini di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 15, u.c., è applicabile tout court anche ai termini per il deposito del ricorso, è evidente che, una volta introdotta la lite tributaria nonostante la sospensione dei termini per la sua proposizione, la lite medesima da “potenziale” diviene “pendente” e quindi soggetta alla sospensione di tutti i termini processuali come disposta dall’art. 16 della legge medesima.

C. Pertanto formula il seguente quesito di diritto: “se la sospensione dei termini di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 15, u.c., si applichi anche ai termini processuali e se la lite, ove sia introdotta pur in pendenza di sospensione del termine per la proposizione del ricorso, debba ritenersi pendente e come tale assoggettata anche alla sospensione dei termini processuali di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16”. Il motivo, così come è stato formulato, non è fondato.

D. E’ pacifico tra le parti che il ricorso introduttivo sia stato spedito dalla contribuente con raccomandata a.r. del 27 giugno 2003, recapitata alla controparte il 3 luglio 2003, mentre la costituzione in giudizio della ricorrente è avvenuta il 29 luglio 2003.

E. L’art. 22 del rito tributario prescrive che la costituzione della parte ricorrente deve avvenire, a pena d’inammissibilità, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso.

F. L’art. 15, comma 8, della legge sul condono prescrive che dalla data di entrata in vigore della L. n. 289 e fino al 18 aprile 2003 restano sospesi i termini per la proposizione dei ricorsi.

G. Nella specie il ricorso è stato proposto il 27 giugno 2003 e dunque si è al di fuori dei limiti di cui al predetto art. 15.

H. Nè è operante nella specie la sospensione sino al 1 giugno 2004 delle liti fiscali pendenti introdotta dall’art. 16, comma 6, poichè il comma 3 (lett. a), stabilisce che ai fini del condono s’intende pendente la lite per la quale, alla data di entrata in vigore della legge 289 del 27 dicembre 2002 (1 gennaio 2003), è stato proposto l’atto introduttivo del giudizio e comunque ogni altra lite per la quale, alla data 29 settembre 2002, non sia intervenuta sentenza passata in giudicato. Dunque, ratione temporis, si è ancora al di fuori della definizione agevolata di cui al predetto art. 16.

I. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, e art. 16, commi 3 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

J. Lamenta, infatti, che la commissione regionale non abbia condiviso la tesi difensiva, secondo la quale il termine di trenta giorni per il deposito del ricorso spedito a mezzo di raccomandata decorra dalla ricezione del plico da parte dell’ufficio finanziario e non da quella della spedizione.

K. Sostiene, in proposito, che un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sul processo tributario (C. Cost. n. 477 del 2002) avrebbe dovuto condurre a una conclusione diversa da quella raggiunta dai giudici di secondo grado, atteso che: a) l’art. 22 assegna, per la costituzione della parte ricorrente, il termine generico di trenta giorni dalla proposizione del ricorso; b) l’art. 16 stabilisce che i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto; c) l’art. 20 contempla la data di spedizione al solo fine di considerare tempestivo il ricorso che sia spedito entro il termine per impugnare;

d) è ragionevole, una volta ammesso l’uso diretto del mezzo postale da parte del ricorrente, consentirgli di verificare il buon fine della notifica prima di iscrivere la causa a ruolo.

L. Pertanto la contribuente formula il seguente quesito di diritto:

“se, con riferimento ai ricorsi spediti a mezzo del posta, il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 1, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 477/2002, sia da interpretarsi come decorrente dalla ricezione del plico da parte del destinatario ovvero dalla data di spedizione del plico medesimo”. Il motivo è fondato.

M. Nella giurisprudenza della sezione tributaria di questa Corte si sono manifestati due orientamenti. Secondo la sentenza n. 20262 del 14/10/2004 (in Foro it. 2005, I, 85), “il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, atteso che il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, prevede modalità di deposito (copia del ricorso e fotocopia della ricevuta di spedizione della raccomandata postale) che presuppongono solo la spedizione del ricorso e non la sua ricezione e sottrae, quindi, il detto adempimento alla regola di cui al medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 5, secondo periodo, (il quale dispone che i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto e che trova applicazione, fra l’altro, nel caso di deposito del ricorso notificato attraverso ufficiale giudiziario)”.

N. Affermazioni similari si rinvengono anche nelle pronunzie n. 14246 del 19/06/2007 in Riv. giur. trib., 2007, 1035) e n. 1025 del 18/01/2008 (Rv. 601180).

0. Invece, secondo la più recente sentenza n. 12185 del 15/05/2008 (in Foro it. 2008, I, 2849; Riv. giur. trib., 2008, 677; Il Fisco, 2008, 4198), “qualora la notificazione del ricorso introduttivo abbia avuto luogo mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, dev’essere effettuato il deposito presso la segreteria della commissione tributaria decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell’atto da parte del destinatario:

la regola, desumibile dall’art. 16, ultimo comma, secondo cui la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione, in quanto volta ad evitare che e-ventuali disservizi postali possano determinare decadenze incolpevoli a carico del notificante, si riferisce infatti ai soli termini entro i quali la notificazione stessa deve intervenire, ed avendo carattere eccezionale non può essere estesa in via analogica a quelli per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale, trovando in tal caso applicazione il principio generale secondo cui la notificazione si perfeziona con la conoscenza legale dell’atto da parte del destinatario”.

P. Il più recente orientamento è meritevole di condivisione.

Q. Nel processo tributario le notificazioni sono fatte secondo le norme dell’art. 137 c.p.c. e ss., (art. 16, comma 2); tuttavia esse possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico (senza busta) raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3). La disciplina della fase introduttiva prevede che il ricorso è proposto mediante notifica a norma dei commi 2 e 3 del precedente art. 16 (art. 20, comma 1).

Qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione (art. 16, comma 5) e, quando la spedizione del ricorso è fatta a mezzo posta, il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione (art. 20, comma 2). Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, copia del ricorso spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (art. 22, comma 1); i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5).

R. Cosi comèè stato da taluni osservato, l’art. 20, comma 2 (“il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione”) riproduce l’esordio del quinto comma dell’art. 16 (“qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione”); però quest’ultima norma prosegue stabilendo che “i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”. Siccome il termine di trenta giorni fissato dall’art. 22 per la costituzione in giudizio del ricorrente ha inizio dalla proposizione – vale a dire dalla notificazione- del ricorso esso non può che decorrere dalla data di recapito postale dell’atto al destinatario, così come avviene per il termine assegnato per la costituzione dell’amministrazione resistente (art. 23, comma 1).

S. E’ vero che, ai fini della costituzione dell’attore, l’art. 22 non parla del deposito dell’avviso di ricevimento, mentre menziona, tra gli atti da depositare, la ricevuta di spedizione postale del ricorso, ma ciò sta significare soltanto che il ricorrente si può costituire in giudizio anche prima e indipendentemente dal recapito dell’atto al destinatario, e non che dalla spedizione inizia a decorrere, a pena d’inammissibilità, il termine per costituirsi senza neppure poter conoscere gli esiti della notifica postale.

T. Non v’è alcuna ragione logica e giuridica (artt. 3 e 24 Cost.) per distinguere il regime della notifica diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite l’ufficiale giudiziario (come invece fa l’orientamento che s’ispira al “precedente” del 2004), atteso che in quest’ultimo caso è pacifico che il termine per la costituzione del ricorrente decorre dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario (anche in caso di notifica a mezzo del servizio postale), dovendo essere depositato “l’originale del ricorso notificato a norma dell’art. 137 c.p.c. e ss.”.

U. In un procedimento a carattere latamente impugnatorio come il processo tributario, non può non valere il principio generale, più volte affermato riguardo agli artt. 347 e 165 c.p.c., secondo cui il termine per la costituzione decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di gravame nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione (cfr., nel processo civile, Cass. Sez. 3, n. 9329 del 20/04/2010).

V. Per tale via si riconduce a unità l’intera disciplina della fase introduttiva del processo tributario, con una pluralità di modi che valorizzano comunque la ricezione dell’atto da parte del destinatario, sia con notifica tramite l’ufficiale giudiziario (originale dell’atto notificato), sia mediante consegna diretta all’amministrazione (ricevuta di deposito), sia per raccomandata con avviso di ricevimento.

W. Inoltre, l’orientamento accolto è coerente sia ai principi di semplificazione del processo tributario espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 520 del 2002, sia ai principi sull’osservanza dei termini posti a carico del notificante fin dal momento in cui l’atto è consegnato per la notifica e sul consolidarsi degli effetti al momento della ricezione dell’atto sanciti dalla Corte Costituzionale nelle decisioni n. 28 e n. 107 del 2004.

X. La sentenza impugnata deve, dunque, essere cassata in relazione al secondo motivo accolto e rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della commissione tributaria regionale, che dovrà uniformarsi al principio di diritto così enunciato: “Ai fini della costituzione in giudizio del ricorrente, il ricorso tributario direttamente notificato con raccomandata a mezzo del servizio postale deve essere depositato nella segreteria della commissione tributaria, a vena d’inammissibilità, entro trenta giorni dalla ricezione da parte del destinatario e non dalla spedizione da parte del ricorrente”.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo e accoglie il secondo.

Cassa e rinvia in relazione alla censura accolta, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della commissione tributaria regionale di Napoli – sezione staccata di Salerno.

Così deciso in Roma, il 5 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2011


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 14-02-2011) 12-04-2011, n. 8310

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere

Dott. LANZILLO Raffaella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2910/2009 proposto da:

T.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA BUFALOTTA 174, presso lo studio dell’avvocato BARLETTELLI Patrizia, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMANUELA RUTIGLIANO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

e contro

C.S. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 2594/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO, Sezione Prima Civile, emessa il 02/04/2008, depositata il 29/09/2008;

R.G.N. 2107/2005. udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/02/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato PATRIZIA BARLETTELLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
T.E. ha proposto azione di responsabilità contro l’avv. C.S. poichè – in una vertenza promossa contro il medico psicanalista, Dott. L.M. – il suddetto difensore ha omesso di eseguire l’ordine del giudice di rinnovare la notificazione dell’atto di citazione, provocando l’estinzione del giudizio.

L’avv. C. è rimasto contumace ed il Tribunale di Como ha accolto la domanda, condannando il convenuto a pagare in risarcimento dei danni la somma di Euro 12.000,00, oltre interessi e spese.

Il T. ha proposto appello contro il capo della sentenza relativo alla liquidazione dei danni e l’appellato ha resistito, proponendo appello incidentale contro l’accertamento della sua responsabilità.

Con sentenza 2 aprile – 29 settembre 2008 n. 2594, notificata il 9 dicembre 2009, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento dei danni, compensando le spese dei due gradi di giudizio.

Con atto notificato il 23 gennaio 2009 il T. propone due motivi di ricorso per cassazione.

L’intimato non ha depositato difese.

Motivi della decisione
1.- La sentenza impugnata ha preliminarmente dichiarato nulla la procura conferita in corso di causa dal T. all’avv. Emanuela Rutigliano, in sostituzione del precedente difensore, perchè la sottoscrizione del mandante non è stata autenticata da notaio, nè dal difensore nominato. Ha quindi ritenuto inefficace l’atto di precisazione delle conclusioni depositato nell’apposita udienza dall’avv. Rutigliano – tramite l’avv. Simona Sivori – attenendosi alle conclusioni precisate dal T. con l’atto di appello.

2.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 83 cod. proc. civ., rilevando che in corso di causa la procura può essere conferita con qualunque atto difensivo, senza necessità di autentica notarile della sottoscrizione della parte. Quanto poi alla mancata autentica del difensore, si tratta di mera irregolarità, che non comporta nullità dell’atto se non quando la controparte contesti specificamente l’autenticità della sottoscrizione e che non può essere rilevata di ufficio.

2.1.- Il motivo non è fondato.

In primo luogo non risulta quale interesse abbia il ricorrente a proporre la doglianza, considerato che egli stesso dichiara che le conclusioni precisate nell’atto di appello – a cui)la Corte di appello si è attenuta – sono identiche a quelle assunte nell’udienza di precisazione delle conclusioni e ritenute inefficaci.

Essenziale è tuttavia rilevare che nella specie la procura all’avv. Rutigliano è stata conferita dal T. non in calce o a margine di un qualunque atto difensivo, redatto da un difensore astrattamente abilitato a stare in giudizio, ma è contenuta in una scrittura privata sottoscritta dal solo T., pur se recante nell’intestazione nome e indirizzo dell’avv. Rutigliano.

I principi richiamati dal ricorrente sono irrilevanti nel caso in esame, poichè presuppongono che l’atto in cui la procura è contenuta sia un atto difensivo, redatto e sottoscritto da un soggetto abilitato a svolgere attività di difesa davanti al giudice investito della causa. Occorre cioè che, se non la procura, quanto meno l’atto in cui la procura è contenuta sia sottoscritto dal difensore (cfr. Cass. civ. S.U. 28 novembre 2005 n. 25302).

Un mero atto di parte è irrilevante: non può valere come atto difensivo, perchè sottoscritto solo dalla parte, non abilitata a stare in giudizio da sola; non può valere come documento contenente l’atto di conferimento della procura, perchè la sottoscrizione non è stata autenticata da notaio (nè dal difensore costituito).

3.- Per quanto concerne il merito della controversia, la Corte di appello ha rilevato che la notificazione avrebbe dovuto essere rinnovata previa ricerca della residenza del convenuto L.M. negli USA, residenza conoscibile tramite il registro dell’AIRE- Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero, esistente presso il Comune di ultima residenza del destinatario, e che l’eventuale omissione delle ricerche avrebbe comportato la nullità della notificazione. Ha conseguentemente respinto la domanda risarcitoria sul rilievo che l’inadempimento dell’avvocato – pur sussistente – non ha prodotto alcun danno, per il fatto che, se la notificazione dell’atto di citazione fosse stata ritualmente rinnovata, dopo avere svolto le opportune ricerche, il convenuto si sarebbe costituito ed avrebbe eccepito la prescrizione dell’azione risarcitoria; se vi si fosse proceduto ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., il convenuto avrebbe potuto eccepirne la nullità anche in sede di opposizione all’esecuzione della sentenza favorevole, venendo rimesso in termini per proporre le sue difese.

4.- Il ricorrente denuncia, con il secondo motivo, che la suddetta motivazione è insufficiente e contraddittoria e si fonda sull’omessa od errata valutazione delle prove, per il fatto che il rinnovo della notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ. – come disposto dal giudice – non avrebbe permesso al destinatario di venire a conoscenza dell’atto di citazione e della pendenza della causa e che la Corte di appello ha omesso di prendere in esame la lettera 15 gennaio 1998 dell’avv. C., che menziona la corrispondenza intercorsa con il Comune di Muggia (ultima residenza in (OMISSIS) del L.M.), in esito all’esame della quale è stato disposto il rinnovo della notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ..

3.1.- Il motivo non è fondato.

La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha specificato che non è consentito procedere alla notificazione nelle forme previste per le persone irreperibili, ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., se non quando risulti sul piano soggettivo l’ignoranza incolpevole del richiedente circa la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario dell’atto e, sul piano oggettivo, l’avvenuto esperimento di tutte le indagini necessarie od opportune al fine di reperire i suddetti residenza, domicilio o dimora, indagini che non è sufficiente si fondino sulle risultanze anagrafiche, ma debbono essere estese ad accertamenti ed informazioni sul reale avvenuto trasferimento del destinatario in luogo sconosciuto (Cass. civ. Sez. 1^, 27 marzo 2008 n. 7964; Cass. civ. Sez. 3, 23 giugno 2009 n. 14618).

Quando poi si tratti di cittadini italiani che abbiano trasferito all’estero la propria residenza, non è sufficiente l’omessa comunicazione da parte del destinatario della sua nuova residenza all’ufficio dell’anagrafe per l’annotazione nei registri dell’AIRE, ma occorre che il notificante proceda, con l’impiego dell’ordinaria diligenza, ad ulteriori ricerche presso l’Ufficio consolare, ai sensi della L. 27 ottobre 1988, n. 470, art. 6 (Cass. civ. 6 settembre 2007 n. 18717).

I suddetti principi valgono anche nel caso in cui la notificazione ai sensi dell’art. 143 venga eseguita per ordine del giudice, in quanto un tale ordine non è sufficiente di per sè a salvaguardare la validità di un atto, ove non ne ricorrano i requisiti prescritti dalla legge.

Correttamente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto che il notificante avrebbe dovuto comunque procedere ad ulteriori accertamenti, prima di poter validamente notificare l’atto di citazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., ed ha posto in evidenza che, in mancanza, il convenuto avrebbe potuto eccepire la nullità della notificazione anche in sede di opposizione all’esecuzione.

Quanto all’asserito, omesso esame della lettera 15.1.1998 dell’avv. C., nè dal ricorso, nè dal contenuto del documento che ivi è riportato, risulta quale fosse il contenuto della corrispondenza intercorsa con il Comune di Muggia, e se essa fosse tale da dimostrare l’irreperibilità del L.M..

Neppure è reperibile nel fascicolo del ricorrente la copia dell’atto notificato la prima volta negli USA al L.M., con la relazione di notifica, nè la copia dell’ordinanza che ha disposto il rinnovo della notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., al fine di dimostrare a quale indirizzo del L.M. negli USA l’atto di citazione sia stato notificato la prima volta; se tale indirizzo coincida o meno con quello risultante dall’AIRE del Comune di Muggia;

se l’ordine di rinnovo abbia dato atto dell’avvenuto svolgimento di adeguate ricerche, ecc: documenti tutti rilevanti al fine di valutare se il Tribunale, nel disporre il rinnovo della notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., avesse già accertato l’irreperibilità dell’indirizzo del L.M., sulla base di documentazione adeguata; quindi al fine di dimostrare l’asserito errore della Corte di appello nell’affermare la necessità di effettuare ulteriori ricerche.

Per questa parte il ricorso risulta anche inammissibile ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 6, che impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, la specifica indicazione degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda (cfr. sul tema Cass. civ. Sez. 3^, 17 luglio 2008 n. 19766;)Cass. civ. S.U. 2 dicembre 2008 n. 28547).

Quanto sopra anche senza volersi soffermare sul problema della rispondenza ad interessi meritevoli di tutela di un’azione di responsabilità e di danni, già prescritta nel momento in cui viene proposta, le cui possibilità di successo si fondino sull’auspicio che il convenuto non venga a conoscenza della notifica dell’atto di citazione e non abbia la possibilità di difendersi e di eccepire la prescrizione.

4.- Il ricorso deve essere rigettato.

5.- Non essendosi costituito l’intimato non vi è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 11-11-2010) 16-03-2011, n. 6102

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19628-2006 proposto da:

B.A., R.E., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DI BRAVETTA 237, presso lo studio dell’avvocato SABATUCCI LUCIANA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato SORVILLO ANTONIO TOMMASO, giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI AVERSA, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 145/2005 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 06/12/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2010 dal Consigliere Dott. POLICHETTI Renato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’inammissibilità.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’inammissibilità.

Quanto segue:

Che B.A. impugnò dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Caserta l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate di Aversa relativamente ad IRPEF ed ILOR per l’anno 1995;

che la Commissione adita dichiarò inammissibile il ricorso per tardività;

che l’appello proposto dal B. venne rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Campania, la quale, con sentenza depositata l’11 aprile 2005, osservò che, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), il termine per la proposizione del ricorso – avvenuta il 1 aprile 2003 – decorreva dall’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione alla porta dell’abitazione dell’avviso del deposito dell’atto nell’albo comunale, cioè, nella fattispecie, dal 27 dicembre 2002, ed era pertanto scaduto il 25 febbraio 2003;

che avverso tale sentenza B.A. ed il coniuge R.E. propongono ricorso per cassazione, illustrato anche con memoria, al quale resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Che, con i due motivi formulati, con i quali denunciano rispettivamente “violazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 48 disp. att.” e “falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in combinato disposto ex art. 137 c.p.c.”, nonchè vizio di motivazione, i ricorrenti assumono che, ai sensi del citato art. 140, per il perfezionamento della notificazione occorre che siano adempiute tutte e tre le formalità previste dalla norma (deposito dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso del deposito e spedizione della raccomandata);

che va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto da R.E., la quale non è stata parte del giudizio di merito;

che il ricorso proposto da B.A. – i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione – è manifestamente infondato e va, pertanto, rigettato;

che, infatti, premesso che il vizio di motivazione non può costituire oggetto di ricorso per cassazione quando riguarda l’applicazione di principi giuridici (da ult., Cass., sez. un., n. 21712 del 2004), secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi -, la notificazione dell’avviso di accertamento al contribuente D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. e), il quale deroga, in materia, all’art. 140 c.p.c., è ritualmente effettuata quando nel comune nel quale deve eseguirsi non v’è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, mediante l’affissione dell’avviso del deposito prescritto dal citato art. 140 nell’albo comunale, senza necessità di spedizione mediante raccomandata, e la notificazione stessa si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione, senza, peraltro, che ciò dia adito a dubbi di legittimità costituzionale (cfr. Cass. nn. 8363 del 1993, 7120 e 9922 del 2003, 7773 del 2006).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2011


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-01-2011) 28-02-2011, n. 4962

Cartelle di pagamento: non è valida la notifica effettuata ad una società a mani del portiere dello stabile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CENTRO MERIDIONALE s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Luigi Rizzo n. 50, presso l’avv. Alfredo Iorio, rappresentata e difesa dall’avv. IODICE ROBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sez, staccata di Salemo, n. 248/04/07, depositata il 26 novembre 2007;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 dal Relatore Cons. Biagio Virgilio;

udito l’avv. Roberto Iodice per la controricorrente;

udito il P.G., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Federico Sorrentino, il quale ha dichiarato di aderire alla relazione ex art. 380 bis c.p.c..

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sez. staccata di Salerno, 248/04/07, depositata il 26 novembre 2007, con la quale, rigettando l’appello dell’Ufficio, è stata confermata l’illegittimità della cartella di pagamento emessa, per imposta di registro, nei confronti della Centro Meridionale s.r.l., a seguito di mancata impugnazione di avviso di rettifica e liquidazione: in particolare, il giudice a quo ha ritenuto che l’atto prodromico era stato invalidamente notificato, in violazione dell’art. 145 c.p.c., non risultando dall’avviso di ricevimento la qualifica della persona che aveva ricevuto l’atto.

Il contribuente resiste con controricorso.

2. Con i due motivi di ricorso (il quale, contrariamente a quanto eccepito dalla resistente, è tempestivo, poichè il termine annuale d’impugnazione va computato, ai sensi dell’art. 155 c.p.c., secondo il calendario comune, ex nominatione dienim, con la conseguente irrilevanza del fatto che in esso sia compreso il mese di febbraio di un anno bisestile: Cass., Sez. un., n. 1547 del 1989 e Cass. n. 991 del 1992), si denuncia l’insufficienza della motivazione e la violazione degli artt. 156 e 160 c.p.c., sostenendo che era provato che la consegna dell’avviso di liquidazione era stata effettuata al portiere dello stabile in cui aveva sede la società e che l’eventuale nullità della notifica era stata comunque sanata dall’impugnazione della successiva cartella.

Il ricorso appare manifestamente infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, a norma del combinato disposto degli artt. 139 e 145 c.p.c., la notificazione alla persona giuridica non può essere effettuata, in mancanza delle persone menzionate da quest’ultima norma, in mani del portiere dello stabile in cui essa ha sede, ed il richiamo all’art. 139 cit. opera soltanto per l’eventualità che l’atto da notificare faccia menzione della persona fisica che rappresenta l’ente (Cass. nn. 5918 del 1981, 9897 del 2010).

La conseguente nullità della notifica, poi, non può certo ritenersi sanata a seguito dell’impugnazione della cartella di pagamento, essendo evidente che il raggiungimento dello scopo non può che essere rappresentato dall’impugnazione dell’atto invalidamente notificato e non di un atto diverso, che nella definitività del primo trovi soltanto il suo presupposto (Cass. n. 15849 del 2006).

3. In conclusione, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza”:

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione (rilevando, in ordine alla tempestività del ricorso, nuovamente contestata dal difensore della controricorrente sentito nell’adunanza, che l’ultimo giorno utile era l’11 gennaio 2009, festivo, con conseguente proroga del termine al giorno successivo, in cui Patto è stato consegnato all’ufficiale giudiziario);

che, pertanto, riaffermati i principi di diritto sopra richiamati, il ricorso deve essere rigettato;

che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 1500,00, di cui Euro 100,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2011


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 25-01-2011) 22-02-2011, n. 4315

Ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie – Valido anche se notificato in copia fotostatica

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 26369/2007 proposto da:

B.E., titolare della ditta “Pizzeria – Trattoria da Ezio”, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 50, presso lo studio dell’avvocato ROMITI MASSIMO, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 63/2006 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di VENEZIA, depositata il 23/11/2006;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/01/2011 dal Consigliere Relatore Dott. GIOVANNI GIACALONE;

è presente il P.G. in persona del Dott. MASSIMO FEDELI.

Svolgimento del processo
Nella causa indicata in premessa è stata depositata in cancelleria la seguente relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Il contribuente ricorre avverso la sentenza emessa dal C.T.R. del Veneto che aveva dichiarato inammissibile l’appello in quanto l’atto depositato rappresentava copia fotostatica del ricorso originale e pertanto a parere della Commissione non idoneo ad introdurre regolarmente il giudizio d’Appello. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Nella specie, il contribuente aveva notificato il ricorso mediante consegna all’ufficio finanziario di una copia fotostatica, depositando l’originale dell’atto presso la segreteria della commissione tributaria adita.

Il motivo del ricorso si rivela manifestamene fondato in quanto la decisione impugnata non è in armonia con il consolidato orientamento di questa Corte che, ai fini dell’applicazione della sanzione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 18 e 53, ritiene che l’omessa sottoscrizione dell’atto deve essere intesa in senso restrittivo, ossia come mancanza radicale del requisito imposto dalla legge, la quale non ricorre allorchè la copia dell’atto, notificata all’ufficio finanziario, sia una fotocopia dell’originale regolarmente sottoscritto e depositato nella segreteria della commissione tributaria, ben potendo, in tal caso, l’amministrazione finanziaria riscontrare l’esistenza della firma della parte o del suo difensore tramite consultazione di detto originale, cui la fotocopia notificatale implicitamente rinvia (Cass. n. 21170 del 2005, 4307 del 2005, 11728 del 2005).

Si propone la trattazione in camera di consiglio e l’accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri mezzi”. La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti costituite.

Non sono state depositate conclusioni scritte nè memorie.

Motivi della decisione
Che, preliminarmente, va rilevato che il ricorso è ammissibile, perchè, diversamente da quanto sostenuto in controricorso, i quesiti di diritto sono stati formulati specificamente, sia pure se riportati alla fine del ricorso (pag. 20); che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e pertanto, ribaditi i principi di diritto sopra enunciati, il primo motivo di ricorso deve essere accolto, assorbita ogni altra censura, la sentenza deve essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della medesima Commissione tributaria regionale.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Veneto.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2011