Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 14/02/2013) 20/03/2013, n. 6881

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 924/2007 proposto da:

IMMOBILIARE BONGIOVANNI & CALO’ S.N.C. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona dei Liquidatori pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati MARZO RICCARDO, LEO LANFRANCO, giusta procura a margine del controricorso;

– ricorrente –

contro

P.G. (C.F. (OMISSIS));

– intimato –

avverso la sentenza n. 702/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 04/10/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2013 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per il ricorso infondato, accoglimento del primo motivo, assorbimento degli altri motivi.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 1.04.1989 alla Società Immobiliare di Bongiovanni Luigi e Calò Fernando S.n.c., P. G. adiva il Tribunale di Lecce e premesso che la società convenuta gli aveva conferito il mandato, da lui espletato, di svolgere gli adempimenti necessari al conseguimento di un mutuo fondiario, ne chiedeva la condanna al pagamento della somma di L. 35.000.000, oltre interessi e rivalutazione, quale dovuto compenso, che assumeva convenuto in misura percentuale rispetto al conseguito mutuo.

La società Immobiliare si costituiva in giudizio contestando la pretesa creditoria azionata dal P. e chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarcimento dei danni subiti.

Il giudizio di primo grado, interrotto a seguito del decesso del difensore della società convenuta, veniva riassunto dal P. nei confronti di quest’ultima, in persona dei liquidatori, la quale in tale successiva fase rimaneva contumace.

Con sentenza pubblicata il 23.05.2002 il Tribunale di Lecce accoglieva la domanda del P. e condannava la Società Immobiliare a pagargli la somma di L. 35.000.000, oltre interessi dalla domanda al soddisfo.

La sentenza di primo grado veniva impugnata da entrambe le parti. Con sentenza del 23.06-4.10.2006, la Corte di appello di Lecce dichiarava inammissibili sia il gravame principale della Società Immobiliare che quello incidentale del P.. La Corte territoriale osservava e riteneva che:

– il P. aveva provveduto a notificare l’impugnata sentenza, in uno con il precetto, direttamente alla società appellante e nella sua sede legale;

– la notifica della sentenza di primo grado era ritualmente avvenuta e si era perfezionata il 26.09.2002, con la conseguenza che l’appello introdotto dalla società con atto notificato il 12.02.2003, doveva ritenersi tardivo, rispetto al termine breve di 30 giorni di cui all’art. 325 c.p.c.;

– in particolare la notificazione della sentenza era stata rituale in quanto:

a) effettuata a mezzo posta nei confronti della società in persona del suo rappresentante pro tempore, nella sua sede legale sita alla via (OMISSIS) (come risultante dalla visura in atti e comunque mai contestato), ai sensi dell’art. 145, comma 1, secondo cui la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante legale o alla persona incaricata di ricevere la notificazione o, in mancanza ad altra persona addetta alla sede stessa;

b) l’agente postale aveva svolto tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 giacchè non avendo potuto effettuare il recapito per “assenza” del destinatario, gli aveva inviato la rituale comunicazione di avvenuto deposito Atti Giudiziari, dichiarando che in data 21.09.2002 aveva tentato il recapito e provveduto ad affiggere avviso alla porta della sua azienda in via (OMISSIS): questo con raccomandata restituita al mittente per mancato ritiro;

c) non vi era alcuna necessità di ricorrere all’art. 140 c.p.c., atteso che non era stata mai certificata l’irreperibilità del destinatario ma solo la sua assenza. Avverso questa sentenza, notificatale il 24.10.2006, la Società Immobiliare di Dongiovanni Luigi e Calò Fernando s.n.c. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e notificato il 20.12.2006 al P., che non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
A sostegno del ricorso Società Immobiliare di Dongiovanni Luigi e Calò Fernando s.n.c. denunzia:

1. “Violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8 nella interpretazione additiva resa dalla sentenza della Corte Costituzionale del 23-12-1998 n. 346 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 7 comma di detta norma nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale. (Art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Conclusivamente formula il seguente quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. applicabile ratione temporis “La notifica a mezzo posta della sentenza nella sede di una disciolta società in liquidazione è nulla se il plico è restituito al mittente e non trattenuto in custodia dall’Ufficio Postale anche dopo la scadenza del termine di dieci giorni previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 e se l’attestazione di non curato ritiro è resa sul documento restituito al mittente prima della scadenza del decimo giorno successivo alla data di deposito”.

2. “Violazione e falsa applicazione dell’art. 19, 138, 139, 141 e 145 c.p.c. in relazione agli art. 2308, 2309 e 2310 c.c. (Art. 360 c.p.c., n. 3)”, di nuovo con riguardo alla notificazione a mezzo posta della sentenza di primo grado.

Sostiene che la Corte distrettuale ha errato nel ritenere la regolarità della notifica della sentenza di primo grado, anche se era pacifico che essa fosse stata effettuata a “S.n.c. Bongiovanni &

Calò in persona del legale rappresentante p.t. con sede in (OMISSIS)”. Deduce che dalla relazione di notificazione e dalla ricevuta di ritorno restituita al mittente non si evinceva innanzi tutto l’esatta denominazione della società (mancava la locuzione “Immobiliare”), neppure si evincevano lo stato di liquidazione di essa, il nome di almeno uno dei liquidatori, l’indicazione del numero civico e che, poichè al momento della richiesta notificazione risultava che la società era stata già sciolta, era in liquidazione ed aveva cessato ogni attività nella sede legale di Via (OMISSIS), i soli legittimati a ricevere il plico erano i liquidatori nella loro rispettiva residenza.

Formula i seguenti quesiti:

“In tema di notifiche a società prive di personalità giuridica, è invalida la notifica effettuata nella sede sociale di una società in nome collettivo già disciolta ed in liquidazione, che non sia anche luogo di abitazione o domicilio della persona fisica che, in qualità di liquidatore, rappresenta l’ente”.

“Le notificazioni alle società non aventi personalità giuridica (nella specie, società in nome collettivo) si eseguono ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 2, nella sede indicata dall’art. 19 c.p.c., comma 2, solo se esse vi svolgano attività continuativa. Nel caso l’attività presso la sede sia cessata per essere stata la società già sciolta ed essere in liquidazione, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., u.c., la notificazione deve essere eseguita, ai sensi degli artt. 138, 139, 141 e 149 c.p.c., nella sede di residenza di uno dei liquidatori, se essa risulti dalla pubblicità presso la competente Camera di Commercio”.

“La notifica di una sentenza effettata a mezzo del servizio postale presso la sede legale di una disciolta e disattiva società in nome collettivo in liquidazione, la cui ragione sociale, lo stato di liquidazione ed almeno uno dei liquidatori non siano esattamente indicati, è invalida se il plico non sia stato ritirato da alcuno dei liquidatori o da persona da loro incaricata”.

“La società in nome collettivo in stato di liquidazione non può ritenersi che svolga attività continuativa nella sede sociale perchè lo stato di liquidazione conseguente al già deliberato scioglimento, ne comporta l’implicita inattività”.

“Se la sentenza non sia stata validamente notificata a chi sia il legittimato liquidatore di una disciolta società in nome collettivo in liquidazione, il termine di cui all’art. 325 c.p.c. non decorre, essa non diviene giudicato formale e l’appello proposto dai liquidatori entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c., è ammissibile”.

3. “Violazione e falsa applicazione degli artt. 300 e 305 c.p.c. in relazione agli artt. 2308, 2309, 2310 c.c.. Violazione degli artt. 19, 138, 139, 141 e 145 c.p.c. in relazione agli artt. 2308, 2309 e 2310 c.c.. Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione ai motivi sub 1), sub 2) e sub 3) dell’atto d’appello. (Art. 360 c.p.c., n. 3).”.

Si duole che i giudici d’appello non abbiano rilevato l’estinzione del giudizio di primo grado conseguente alla mancata tempestiva sua riassunzione nel termine semestrale, con riguardo al fatto che all’udienza del 26.03.1996 il difensore della società aveva dichiarato che essa era stata posta in liquidazione con nomina del liquidatore da parte dell’A.G..

Aggiunge che il giudizio era stato dichiarato interrotto non per tale evento, ma solo successivamente, il 22.11.1999, a seguito della morte del difensore della medesima società.

Formula i seguenti quesiti:

“Alla dichiarazione del procuratore relativa alla perdita della capacità della parte costituita di stare in giudizio consegue l’effetto interruttivo del processo per il solo fatto che essa sia resa nella sede e nei modi stabiliti dalla legge, senza necessità che la finalità interruttiva sia manifestata da parte del procuratore”.

“Il termine di sei mesi di cui all’art. 305 c.p.c. utile per la riassunzione decorre dal giorno in cui è avvenuto l’effetto interruttivo conseguente alla dichiarazione della perdita della capacità di stare in giudizio della parte costituita, anche se a questa non sia conseguito un formale provvedimento di interruzione”.

“La notifica dell’atto di riassunzione e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo deve essere effettuata presso la sede di almeno uno dei liquidatori della società in nome collettivo”.

“Se la notifica dell’atto di riassunzione e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo è effettuata presso la sede inattiva di una disciolta società in nome collettivo in liquidazione e non presso la sede di almeno uno dei liquidatori, essa è nulla e priva di alcun effetto ed il processo si estingue per mancata riassunzione se, nel frattempo, sia inutilmente decorso il termine di sei mesi di cui all’art. 305 c.p.c.”.

“La Corte del merito che ingiustamente dichiari inammissibile l’appello, in realtà tempestivamente proposto, senza esaminare la domanda di pronuncia di estinzione del processo per mancata tempestiva riassunzione, viola la norma dell’art. 112 c.p.c.”.

“L’estinzione del processo per mancata tempestiva riassunzione o per la nullità della notifica dell’atto di riassunzione, non dichiarata dal Giudice d’appello, può essere dichiarata, senza rinvio, dalla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., u.c., perchè il processo non poteva essere proseguito a causa la intervenuta estinzione”.

4. “Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione ai motivi 5), 6), 7), 8) di appello, innanzi indicati. Omessa motivazione sui punti decisivi corrispondenti ai suddetti motivi. (Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).”, in riferimento al mancato esame dei suoi motivi di appello contro la sentenza di primo grado, attinenti al merito della lite.

Formula il seguente quesito “Illegittimamente la Corte del merito non esamina i motivi d’appello se, senza fondamento, dichiara l’inammissibilità dell’appello. Sicchè, accolto il motivo del ricorso sull’ingiusta pronuncia d’inammissibilità dell’appello e non dichiarata l’estinzione del processo, il giudice del rinvio dovrà esaminare tutti i motivi d’impugnazione non esaminati dalla Corte del merito”.

Il primo motivo del ricorso è fondato ed al relativo accoglimento segue anche l’assorbimento degli ulteriori tre motivi del medesimo ricorso.

Vero è che la messa in liquidazione della società non comporta la perdita della capacità processuale della medesima ma il passaggio della rappresentanza dagli amministratori al liquidatore, con la conseguenza che la notifica degli atti processuali va effettuata nella sede di tale società e non nella residenza o nel domicilio del rappresentante (cfr tra le altre, Cass. n. 5283 del 1989; in tema cfr anche Cass. SU n. del 4060 del 2010; Cass. n. 12796 del 2012), tuttavia l’impugnata sentenza si dimostra carente nel punto in cui si è concluso per la ritualità dell’attuata notificazione della sentenza di primo grado perfezionatasi il 26.09.2002 in rapporto all’accertato compimento in data 21.09.2002, da parte dell’agente postale, di tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 (nel testo, applicabile ratione temporis, precedente le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 174, comma 16) quali anche integrati dall’invio alla destinataria della raccomandata con avviso di ricevimento, resosi necessario dopo la sopravvenuta sentenza d’incostituzionalità n. 346 del 1998 della Corte Costituzionale. La datazione al 26.09.2002 del perfezionamento della notificazione in questione non appare aderente al dettato normativo (L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4) e, quindi, non può legittimare l’avversata conclusione di ritualità di tale notificazione: Rispetto al compimento in data 21.09.2002 delle prescritte formalità, la notificazione avrebbe potuto aversi per eseguita solo dopo il decorso del prescritto termine di compiuta giacenza, pari ad almeno 10 giorni dalla data del deposito del piego nell’ufficio postale, mentre del rispetto di questo ulteriore incombente incidente sulla validità della notificazione, i giudici del merito non risultano avere tenuto e comunque dato conto.

Conclusivamente si deve accogliere il primo motivo del ricorso con assorbimento di tutte le altre censure e cassare l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, cui si demanda anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Lecce, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 11-12-2012) 05-02-2013, n. 2612

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2127/2010 proposto da:

C.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato MENGHINI Mario, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARAPELLE ROBERTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

FIAT GROUP AUTOMOBILES S.P.A. (OMISSIS) (nuova denominazione della FIAT AUTO S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo STUDIO TOFFOLETTO – DE LUCA TAMAJO, rappresentata e difesa dagli avvocati DE LUCA TAMAJO Raffaele, BONAMICO FRANCO, DIRUTIGLIANO DIEGO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 867/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 30/07/2009 R.G.N. 556/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2012 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito l’Avvocato DE MICHELI CINZIA per delega MENGHINI MARIO;

udito l’Avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o. in subordine, rigetto.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 30 luglio 2009 la Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale, ha respinto la domanda di C.T., operaio di terzo livello, volta ad affermare l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Fiat Group Automobiles.

La società datrice di lavoro aveva contestato al lavoratore di essere rimasto assente dal lavoro per malattia per complessivi 14 giorni nel corso dell’anno; di essere stato assente ingiustificato il giorno 18 maggio 2007; di aver svolto durante l’assenza per malattia dal 21 al 25 maggio 2007 attività lavorativa presso un esercizio commerciale di sua proprietà; di essersi nuovamente assentato per malattia il 30 maggio 2007 dopo solo due giorni dalla ripresa del lavoro.

La Corte territoriale ha rilevato che dalla relazione redatta dagli investigatori incaricati dalla Fiat e dalle loro deposizioni testimoniali era risultato con chiarezza che il giorno 25 maggio 2007 il C. era stato visto intento a collaborare nei lavori di ristrutturazione del locale dove a giorni sarebbe stato trasferito l’esercizio commerciale di cui lo stesso era titolare, attività del tutto incompatibile con lo stato di malattia.

La Corte ha osservato che in modo singolare la malattia del lavoratore, lombalgia con dolori agli arti inferiori sebbene il C. fosse dedito con regolarità e con brillanti risultati a gare podistiche, si fosse verificata proprio in concomitanza con i lavori di ristrutturazione del locale. Ha dedotto, altresì, che il lavoratore in sede di libero interrogatorio, nell’illustrare i motivi della sua astensione dal lavoro per malattia dal 21 al 25 maggio, aveva riferito di avere forti cefalee a causa dei denti, sebbene il certificato medico portasse la diversa diagnosi di lombalgia agli arti inferiori.

La Corte territoriale, inoltre, ha riferito, in ordine alle visite domiciliari di controllo effettuate da parte dei medici della Asl che avevano confermato lo stato di malattia, che non erano di ostacolo, ove concorrevano come nella specie circostanze di fatto che inducevano ad escludere l’effettiva esistenza dello stato di malattia, a ritenere accertata la simulazione della malattia e l’ingiustificatezza dell’assenza del lavoratore. Infine la corte ha affermato l’irrilevanza del fatto che il C. aveva collaborato alle attività di ristrutturazione del negozio tra le 7.50 del mattino e le 18 della sera, orario compatibile con il turno di lavoro assegnatogli che era quello notturno fisso dalle 22 alle sei, atteso che il lavoratore non avrebbe potuto dedicarsi di giorno ai lavori di ristrutturazione del negozio se avesse dovuto lavorare durante la notte.

Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione il C. formulando un unico motivo.

Si costituisce la Fiat Group con controricorso. Le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il C. censura la sentenza per violazione degli artt. 2110, 1175, 1375, 2729, 2697 cod. civ., in combinato disposto con gli artt. 115 e 116 c.p.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. Rileva che presupposto indefettibile del licenziamento del lavoratore che svolge attività lavorativa durante un periodo di assenza per malattia è quello della prova dell’effettuazione di attività lavorativa incompatibile con lo stato di malattia tanto da far presumere inesistente la malattia o, comunque, da pregiudicare la guarigione, prova che deve fornire il datore di lavoro e che può essere data anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti; la Corte, invece, aveva dato rilievo a fatti assolutamente e logicamente inveritieri ed irrilevanti.

Censura inoltre la sentenza che non ha dato alcuna rilievo alla circostanza che le malattie del lavoratore erano state confermate dai medici dell’Asl.

Il motivo è infondato. La sentenza impugnata appare adeguatamente motivata, priva di difetti logici o contraddizioni, oltre che immune da errori di diritto, circa l’affermata legittimità del licenziamento intimato dalla Fiat Group Automobiles al C..

11 ricorrente, pur denunciando vizi di violazione di norme, ha omesso di indicare in quale punto la decisione si pone in contrasto con la legge. In realtà con l’unico vizio denunciato il C. si limita a sottoporre all’esame di questa Corte le questioni di merito già valutate e motivate dalla Corte d’Appello senza formulare specifiche censure tese a dimostrare il denunciato contrasto con norme di legge.

Le censure mosse dal ricorrente si limitano a proporre una diversa valutazione dei fatti risolvendosi in una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che “Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione” (Cass n. 2357 del 07/02/2004; n 7846 del 4/4/2006; n 20455 del 21/9/2006; n 27197 del 16/12/2011).

La Corte territoriale, invece, ha esaminato la relazione redatta dagli ispettori incaricati dalla datrice di lavoro nonché i risultati della prova testimoniale pervenendo ad affermare, con valutazione in fatto non censurabile in Cassazione, che il C., assente dal lavoro per malattia nel periodo 21/25 maggio 2007 per “lombalgia con dolore agli arti inferiori”, era stato visto intento a collaborare nei lavori di ristrutturazione del locale dove avrebbe dovuto essere trasferito l’esercizio commerciale di cui lo stesso era titolare. La Corte territoriale ha, poi, esposto che il C. era stato visto scaricare materiale, svolgere lavori sul soffitto del locale stando su una scala, pulire il pavimento, raschiare le vecchie insegne, attività del tutto incompatibili con lo stato di malattia.

La Corte ha, inoltre, valutato la singolare concomitanza della malattia del lavoratore con i lavori di ristrutturazione del locale dove, di lì a pochi giorni, sarebbe stato trasferito il suo esercizio commerciale; la circostanza che il lavoratore nel corso dell’interrogatorio libero aveva indicato quale malattia idonea a giustificare l’assenza nel periodo 21/25 maggio 2007 dolori derivanti dai denti in contrasto con quanto risultante dal certificato medico di “lombalgia agli arti inferiori”; l’irrilevanza ai fini della prova dell’effettività dello stato di malattia, delle visite domiciliari di controllo eseguite dalla ASL che avevano sempre confermato la prognosi, tenuto conto delle circostanze di fatto emerse dall’istruttoria che inducevano ad escludere l’effettiva esistenza dello stato di malattia.

Per le considerazioni che precedono le censure del ricorrente non sono idonee ad invalidare la decisione impugnata con conseguente rigetto del vizio denunciato.

Le spese di causa liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.

P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali alla contro ricorrente liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre accessori di legge, per compensi professionali.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 22-11-2012) 04-02-2013, n. 2512

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29682/2007 proposto da:

VIRGINIO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato BOURSIER NIUTTA Carlo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati BELLIGOLI GIANPIERO, MURA ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.A.D., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato DEMARTIS Francesco, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 326/2007 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 04/06/2007 R.G.N. 260/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2012 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato ARMENTANO ANTONIO per delega CARLO BOURSIER NIUTTA;

udito l’Avvocato DE MARTIS FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, e ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 6/4/06 il giudice del lavoro del Tribunale di Tempio Pausania, accogliendo la domanda di P.A.D., infortunatosi sul lavoro, accertò la responsabilità della Virginio s.r.l., quale datrice di lavoro, e la condannò al risarcimento del danno biologico e morale, mentre rigettò la domanda di quest’ultima nei confronti della compagnia assicuratrice Reale Mutua, ritenendo che per i suddetti danni non vi era copertura assicurativa.

A seguito di impugnazione principale della Virginio s.r.l. e di impugnazione incidentale del lavoratore, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 23/5 – 4/6/07, ha rigettato il gravame proposto dalla datrice di lavoro ed ha, invece, accolto quello del P., dichiarando che la responsabilità dell’infortunio era da ascrivere anche al preposto B.P., condannandolo in solido con la società al risarcimento del danno, come determinato dal primo giudice, incrementato degli interessi legali, con decorrenza dalla sentenza di primo grado al saldo.

Ha spiegato la Corte che l’accertata violazione delle doverose cautele antinfortunistiche era da addebitare anche alla condotta del preposto B., il quale non aveva verificato i macchinari, aveva costretto i dipendenti a lavorare in condizioni estremamente precarie dal punto di vista della sicurezza e non si era preoccupato di verificare che venissero adottati i dispositivi di sicurezza;

inoltre, la Corte ha ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione dell’azione nei confronti del B., sia perchè sollevata da un terzo, vale a dire la società assicuratrice, sia perché il corso della stessa era stato interrotto con la richiesta risarcitoria nei cinque anni dall’infortunio; infine, i giudici d’appello hanno condiviso la decisione del primo giudice di rigettare la domanda proposta per il danno differenziale nei confronti della società assicuratrice, in quanto la copertura assicurativa concerneva solo i danni rilevanti ai fini del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, e non anche il danno biologico, contemplato dal D.Lgs. n. 38 del 2000, entrato in vigore in epoca successiva alla sottoscrizione della polizza assicurativa che, sotto tale aspetto, era rimasta invariata nel tempo.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Virginio S.r.l., che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso P.A.D..

Entrambe le parti depositano memoria.

Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente, nel sostenere che la polizza assicurativa oggetto di causa le garantiva anche la copertura del danno biologico e morale eventualmente causato ai propri dipendenti, denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento al rigetto della domanda di manleva avanzata nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni s.p.a. e formula, al riguardo, il seguente quesito: “Una polizza assicurativa stipulata dal datore di lavoro a copertura della propria eventuale e residuale responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro (D.P.R. n. 1124 del 1965, ex art. 10) comprende anche i danni biologico e morale senza che sia necessaria una clausola espressa di estensione della garanzia per tali danni. Essi, infatti, rientrano nella nozione di danno in quanto tale e, cioè, di tutte le conseguenze lesive dell’infortunio sulla persona del lavoratore che costituiscono, appunto, oggetto dell’assicurazione”.

Il motivo è infondato.

Invero, si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 16376 del 18/7/2006) che “l’interpretazione delle clausole di un contratto di assicurazione in ordine alla portata ed all’estensione del rischio assicurato rientra tra i compiti del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed assistita da congrua motivazione.

(Nella specie per il periodo sottratto “ratione temporis” al disposto del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 (che ha ricondotto il danno biologico nella copertura assicurativa obbligatoria), la corte di merito aveva ritenuto che l’ambito della copertura assicurativa in caso di infortunio sul lavoro riguardasse unicamente il danno patrimoniale collegato alla riduzione dell’attività lavorativa, e non anche il danno biologico e il danno morale)”.

Si è, altresì, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 7593 del 15/5/2003) che “nella interpretazione della clausola di un contratto di assicurazione, con il quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne il datore di lavoro per quanto questi sia tenuto a pagare a norma del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11, il giudice del merito deve individuare la volontà delle parti, secondo i criteri di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., tenendo presente il contenuto normativo delle disposizioni legali, cui le parti hanno rinviato, al momento della stipula del contratto di assicurazione e, in particolare, ai fini della inclusione nella manleva anche del danno biologico e del danno morale, del fatto che l’art. 10 del citato D.P.R., nel regime anteriore al D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, afferma la responsabilità civile del datore di lavoro per tali componenti del danno sottraendola alla copertura dell’assicurazione antinfortunistica obbligatoria”.

Nel caso in esame rimane, pertanto, insuperata la deduzione della Corte di merito, la quale, con interpretazione ermeneutica corretta e con argomentazione logica, ha ben spiegato che, trattandosi di polizza stipulata precedentemente all’epoca del riconoscimento normativo (D.Lgs. n. 38 del 2000) del danno biologico, il riferimento in essa a quanto l’impresa assicuratrice era tenuta a pagare ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 ed 11, non poteva avere altro significato che quello limitato al tipo di prestazioni allora erogabili, vale a dire quelle riferibili al danno patrimoniale.

2. Col secondo motivo, nel sostenere che l’obbligo datoriale di far osservare le norme per la prevenzione degli infortuni non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, nè il dovere di affiancamento di un preposto, la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento all’art. 2087 c.c.. A conclusione del motivo la medesima formula il seguente quesito di diritto: “In tema di responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio sul lavoro subito da un suo dipendente, l’obbligo del datore stesso di vigilare affinchè siano impediti atti o manovre rischiose del dipendente nello svolgimento del suo lavoro e di controllare l’osservanza da parte dello stesso delle norme di sicurezza e dei mezzi di protezione non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, nè il dovere di affiancare un preposto ad ogni lavoratore impegnato in mansioni richiedenti la prestazione di una sola persona o di organizzare il lavoro in modo da moltiplicare verticalmente i controlli fra i dipendenti, richiedendosi solo una diligenza rapportata in concreto al lavoro da svolgere e cioè all’ubicazione del medesimo, all’esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica della produzione”.

3. Col terzo motivo, nel sostenere la necessità anche di una valutazione del concorso colposo del lavoratore nella verificazione degli infortuni sul lavoro alla luce delle novità legislative introdotte dal D.Lgs. n. 626 del 1994, là ricorrènte deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., proponendo il seguente quesito di diritto: “In caso di infortunio sul lavoro la valutazione della condotta posta in essere da parte del lavoratore, ai fini del riconoscimento del concorso di colpa, deve essere fatta anche alla luce delle novità legislative introdotte con il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che pongono, anche a carico del lavoratore, particolari obblighi attivi in materia di sicurezza sugli ambienti di lavoro e che fanno mutare il ruolo del lavoratore stesso che da soggetto passivo della sicurezza transita al ruolo attivo. Di tale fatto occorre tener conto, con il possibile riconoscimento di un concorso di colpa prevalente da parte del lavoratore nella determinazione dell’infortunio”.

Atteso che le questioni poste col secondo e col terzo motivo di censura comportano la disamina di problematiche giuridiche connesse è opportuna una loro trattazione unitaria.

Entrambi i motivi sono infondati.

Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. Lav. n. 1994 del 13/2/2012) che “il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; pertanto, la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell’iter produttivo del danno imposta dal regime di subordinazione, va addebitata al datore di lavoro, il quale, con l’ordine di eseguire un’incombenza lavorativa pericolosa, determina l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso”.

Si è, altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 4656 del 25/2/2011) che “le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere”.

Orbene, nella fattispecie l’indagine compiuta dalla Corte di merito in maniera esente da vizi di natura logico-giuridica ha consentito di accertare, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo la responsabilità di quest’ultima in ordine al grave infortunio occorso al lavoratore, per effetto del quale il medesimo subì la perdita di un occhio, ma anche un concorso di colpa del preposto B., per cui se ne deduce che correttamente i giudici d’appello sono giunti alla conclusione che nessun elemento di colpa era ravvisabile nel comportamento del lavoratore in merito alla produzione dell’evento lesivo verificatosi in suo danno, dal momento che questi non aveva fatto altro che ubbidire a precise direttive datoriali tramite gli ordini del preposto B..

4. Con l’ultimo motivo è denunziata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c., con riferimento alla sussistenza e risarcibilità del danno morale. In particolare, la ricorrente si duole sia della conferma della condanna risarcitoria, nonostante la eccepita mancanza di prova in merito alla ritenuta sussistenza del danno morale, sia del disposto cumulo degli accessori di legge, asserendo che il credito da danno biologico e morale non costituisce un credito da lavoro per il quale possa applicarsi l’art. 429 c.p.c..

A conclusione del motivo sono posti i seguenti quesiti di diritto:

“Pur essendo il danno morale suscettibile di risarcimento anche a prescindere dall’accertamento di un reato deve essere, comunque, fornita una prova precisa e puntuale in ordine alla sussistenza e all’entità del danno lamentato”. “Il credito del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, volto al risarcimento del danno biologico e morale derivatogli in occasione di un infortunio sul lavoro, non ha natura giuridica di credito di lavoro, trovando nel rapporto di lavoro soltanto l’occasione di contatto sociale che ha determinato la sua insorgenza, ma ha natura di credito risarcitorio; ne consegue che, avendo la sentenza di liquidazione del credito operato la trasformazione di esso, ex art. 2043 c.c., da credito di valore in credito di valuta, dalla data della sentenza e fino al pagamento il danno da ritardo è disciplinato non dall’art. 429 c.p.c., comma 3, ma dall’art. 1224 c.c., che esclude il cumulo tra interessi e rivalutazione”.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, il danno morale, rappresentato dalle inevitabili conseguenze pregiudizievoli scaturite della perdita di un occhio, è stato correttamente ricondotto dalla Corte territoriale alla verificata sussistenza della colpa della datrice di lavoro nella determinazione del sinistro che comportò una tale grave menomazione fisica al proprio dipendente, per cui la medesima non poteva essere esentata dal ristoro effettivo di tutti i danni provocatigli a causa delle sue accertate colpevoli omissioni nel rispetto delle norme antinfortunistiche.

Quanto al secondo rilievo, concernente la dedotta questione del divieto di cumulo degli accessori, si osserva che questa Corte ha già chiarito (Cass. Sez. Lav. n. 14507 dell’1/7/2011) che “la domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall’art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perchè non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dall’art. 429 cod. proc. civ., comma 2. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6”. (conforme a Cass. Sez. Lav. n. 3213 del 18/2/2004).

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

Non va, invece, adottata alcuna statuizione nei confronti della società Reale Mutua Assicurazioni rimasta solo intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nei confronti di P.A.D. nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., 24-01-2013, n. 1668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12 rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

LA GAIA SRL in persona del curatore;

– intimata –

avverso la sentenza n.92/36/07 della Commissione Tributaria regionale del Lazio con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della Commissione Tributaria provinciale di Roma 64/08/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2012 dal Consigliere Dott.ssa Marina Meloni;

udito l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa ZENO Immacolata che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Su ricorso del contribuente La Gaja srl avverso la cartella di pagamento notificata in data 28/1/2003, con cui era stato richiesto il versamento della somma di Euro 1.915.501,79 a titolo di IRPEG, ILOR ed IVA 1996, oltre interessi e sanzioni, si pronunciava la Commissione tributaria provinciale del Lazio con la sentenza nr. 64/08/05 di primo grado la quale dichiarava la nullità della notifica dell’avviso di accertamento. Con sentenza nr.92/36/07 pronunciata in data 23/5/2007 la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava il ricorso in appello proposto dalla Agenzia delle Entrate Ufficio di Roma avverso la predetta sentenza, ritenendo che la notifica effettuata ex art. 140 c.p.c. non poteva essere applicata qualora il destinatario dell’atto fosse una persona giuridica irreperibile.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello con un motivo.

Motivi della decisione

1. Con il primo ed unico motivo l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 145 c.p.c., comma 3 nonchè D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nella parte in cui il giudice territoriale ha affermato che la cartella di pagamento impugnata doveva essere considerata illegittima in quanto non era stata preceduta dalla notifica dell’avviso di accertamento finalizzato a rendere edotto il contribuente dell’oggetto della natura del tributo e dei motivi posti a fondamento della rettifica.

2. Secondo l’appellante occorre considerare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, la notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norma stabilite dagli artt. 137 e segg. c.p.c. con alcune modifiche e che pertanto nella fattispecie erano stati rispettati i principi in quanto la notifica dell’avviso di accertamento era stata effettuata in base all’art. 140 c.p.c. e non in base all’art. 145 c.p.c., comma 3, come erroneamente ritenuto dalla CTR secondo la quale l’art. 140 c.p.c.: era applicabile “solo nei confronti della persona fisica legale rappresentante della società dopo che sia stata esperita nei suoi confronti la notifica e constatata la sua irreperibilità”.

3. Il ricorso è infondato. Infatti, premesso che il messo notificatore aveva dichiarato che all’indirizzo della società La Gaja srl Via (OMISSIS) risultava un negozio chiuso e pertanto aveva depositato l’atto nella casa comunale a norma dell’art. 140 c.p.c. e D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, appare condivisibile l’orientamento espresso nella sentenza di appello dalla CTR di Lazio, secondo la quale, se il destinatario della notifica è una persona giuridica irreperibile, è escluso il ricorso alla proceduta regolata dall’art. 140 c.p.c., che può essere validamente adottata solo nei confronti della persona fisica irreperibile, legale rappresentante della società. In tema di notifiche alla persona giuridica risulta consolidato l’orientamento della Corte secondo il quale, in caso di irreperibilità presso il domicilio fiscale noto, si deve procedere ex art. 145 c.p.c., comma 3 alla notifica dell’atto alla persona fisica che rappresenta l’ente, nella specie il curatore del fallimento, come affermato per esempio in Cass. 5 sezione, nr. 15856 del 7/7/2009 secondo la quale: Gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa, entro l’ambito del domicilio fiscale, secondo la disciplina dell’art. 145 c.p.c., comma 1. Qualora tale modalità risulti impossibile, si applica il successivo terzo comma dell’art. 145 cod. proc. civ., e la notifica dovrà essere eseguita ai sensi degli art. 138, 139 e 141 cod. proc. civ., alla persona fisica che rappresenta l’ente. In caso d’impossibilità di procedere anche secondo questa modalità, la notifica dovrà essere eseguita secondo le forme dell’art. 140 cod. proc. civ., ma se l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente non si trovano nel comune del domicilio fiscale, la notifica dovrà effettuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), e si perfezionerà nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione del prescritto avviso di deposito nell’albo del Comune”. Le considerazioni che precedono inducono al rigetto del ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese stante l’assenza di attività difensiva dell’intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5 sezione civile, il 29 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-10-2012) 10-01-2013, n. 440

Ricordano i giudici, “l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto” e, di conseguenza, “è nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate” dalla norma.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5426-2008 proposto da:

CURATORE FALLIMENTO ITALCASA DI COSTANTINO A. & COSTANTINO M. SNC in persona del Curatore del fallimento, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUCA DELLA ROBBIA 3, presso lo studio dell’avvocato CAPORILLI MARIA ROSARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato MACCARI RAFFAELE con studio in MESSINA VIALE SAN MARTINO 116, (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/2006 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 21/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di avvisi di accertamento per IRPEG ed ILOR relativi agli anni 1995 e 1996 a carico del Fallimento ITALCASA snc di Costantino A. e Costantino M., notificati il 5-11-2001 dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Padova 1 e divenuti definitivi per mancata impugnazione, il Curatore del Fallimento proponeva ricorso dinanzi alla CTP di Padova avverso la cartella di pagamento, con la quale veniva richiesto il pagamento della somma di Euro 417.356,68, per il titolo e per gli anni di cui sopra.

Il ricorrente sosteneva la nullità della cartella per vari motivi e, in particolare, perchè gli avvisi di accertamento, presupposto della cartella stessa, non erano stati ritualmente notificati nel domicilio eletto (studio professionale del Curatore), bensì irregolarmente consegnati a tale O.S., nella sua presunta qualità di portiere dell’abitazione del Curatore.

L’adita CTP accoglieva il ricorso.

In seguito ad appello dell’Ufficio ed appello incidentale del Curatore, la CTR di Venezia, in riforma della sentenza impugnata, rigettava il ricorso proposto dal Curatore avverso la cartella di pagamento.

In motivazione la CTR, in particolare, evidenziava:

che la Italcasa snc era stata dichiarata fallita, sicchè legittimamente l’Ufficio aveva notificato gli avvisi presso la residenza del Curatore;

che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3 e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Curatore, affidato a quattro motivi, cui resisteva l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60 e art. 145 c.p.c., ritenendo che, in base alle su citate norme, l’Ufficio avrebbe potuto notificare gli avvisi di accertamento in questione presso la residenza del Curatore soltanto ove non fosse stato possibile notificarli presso lo studio o domicilio eletto dallo stesso curatore.

Siffatto motivo è infondato Al riguardo va, invero, condiviso il principio già espresso da questa stessa S.C., secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la notifica degli avvisi e degli atti presupposti rispetto alla cartella di pagamento, emessi nei confronti di una società dichiarata fallita, è validamente effettuata presso la residenza anagrafica del curatore fallimentare, anche se questi abbia eletto il domicilio nel suo studio professionale, perchè la disposizione che prevede la “facoltà del contribuente” di eleggere domicilio in luogo diverso dalla residenza anagrafica – il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. d), – non riguarda l’ipotesi della notifica fatta a persona diversa dal contribuente, anche se legittimata a ricevere la notifica” (Cass. 26178/2011), come, nel caso di specie, è il Curatore.

Con il secondo e terzo motivo deduceva, ex art. 360, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia nonchè insufficiente motivazione su un fatto decisivo.

In particolare, rilevava che, in base al su citato art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 la consegna al portiere poteva avvenire solo in mancanza delle persone indicate in ordine tassativo di successione preferenziale nei rispettivi commi 2 dei predetti articoli; di conseguenza il Giudice di merito avrebbe potuto pronunciarsi nel senso della validità della notifica solo previo accertamento (omesso invece nel caso di specie) che dalla relata in atti risultasse che la consegna al portiere era avvenuta esclusivamente in ragione della mancanza dei predetti soggetti; lo stesso Giudice del merito, inoltre, aveva insufficientemente motivato, ritenendo che la qualità di “portiere” si doveva presumere alla luce delle dichiarazioni rese all’ufficiale notificatore, senza tuttavia prendere in considerazione la prova contraria fornita dal ricorrente, e cioè la dichiarazione resa dall’amministratore p.t. del Condominio, dalla quale risultava che O.S. era solo custode (e non “portiere”) dello stabile, senza alcun obbligo di ricevere notifiche o lett. racc..

Detto motivo è fondato.

Va, invero, condiviso il principio ripetuta mente stabilito da questa Corte, secondo cui “in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 cod. proc. civ., comma 2 secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. E’ pertanto nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata (Cass. 8214/2005; conf. 11332/2005; 6101/2006).

La CTR non ha fatto corretto uso di tale principio, avendo affermato che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3, e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile, senza tuttavia avere previamente verificato che l’ufficiale giudiziario, nella sua relata, avesse o meno dato atto, oltre che dell’assenza del destinatario anche dell’effettuazione delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto.

L’accoglimento del detto motivo, comporta l’assorbimento del quarto, con il quale il ricorrente deduceva, ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Giudice d’Appello totalmente trascurato di prendere in considerazione la censura (rivolta direttamente contro la cartella) riguardante la mancata indicazione del responsabile del procedimento.

In conclusione, pertanto, in accoglimento del ricorso, va cassata la gravata sentenza e la causa va rinviata ad altra sezione della CTR di Venezia al fine di decidere la stessa sulla base del su riportato principio di diritto; detta CTR provvedere, inoltre, anche sui compensi di lite.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la impugnata sentenza e rinvia, anche per provvedere sulle spese di lite, alla CTR di Venezia, diversa sezione.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della sez. tributaria, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 30-10-2012) 05-12-2012, n. 21817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 10542/07 proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del suo Direttore Centrale pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., in persona del suo legale rappresentante M.B., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Paridi n. 43, presso lo Studio dell’avv. Francesco D’Ayala Valva, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23/41/06 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, depositata in data 21.2.2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 30.10.2012 dal Consigliere Dott. Ernestino Bruschetta;

udito l’Avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia, per la ricorrente Agenzia delle Entrate, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Francesco D’Ayala Valva, per la controricorrente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso e comunque il suo rigetto;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 215/03/02 depositata in data 12.11.2002 la Commissione Tributaria Regionale della Campania – respinto l’appello proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l.

– confermava la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Benevento n. 49/04/02 depositata in data 2.4.2002 che aveva dichiarata “legittima” la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 emessa dalla Agenzia delle Entrate di Benevento a seguito del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e quest’ultimo ritenuto definitivo perchè correttamente notificato e non tempestivamente opposto.

In particolare la CTR della Campania – rilevato che non era stata proposta querela di falso – considerava incontestabile il contenuto della relata di notifica del “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. E, specificatamente, laddove il messo aveva dato atto che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non era più presso la sede legale di via (OMISSIS) e che per tale ragione si era proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” di via (OMISSIS) a mani di M.G. “addetto” alla ricezione.

In proseguo di lite questa Suprema Corte, con sentenza n. 4377/05 depositata in data 2.3.2005, cassava con rinvio la ridetta decisione n. 215/03/02 della CTR della Campania statuendo il principio per cui la relata di notifica dell’avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 poteva invece contestarsi senza necessità di proporre querela di falso e sia con riguardo alla dichiarazione ivi contenuta di aver proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. e sia con riguardo alla dichiarazione secondo cui M.G. era “addetto” al ricevimento di atti. E, per di qui, la Suprema Corte derivava la conseguenza per cui i ridetti contestati fatti indicati in relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 “avrebbero dovuto essere accertati dal giudice di merito”.

Con sentenza n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006 la Commissione Tributaria Regionale della Campania, definendo il giudizio di rinvio, annullava la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 per cagione la inesistenza della notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. La sentenza del giudice del rinvio, era fondata sulle ragioni appresso:

1. veniva dapprima premesso che, ai fatti indicati in relata di notifica, la Suprema Corte non aveva invero assegnata “alcuna validità”;

2. veniva poi ritenuto che gli “elementi” di prova forniti dalla Agenzia delle Entrate di Benevento circa l’esistenza della sede “effettiva” indicata in relata, come ad es. la presenza di tre linee telefoniche intestate alla contribuente nella sede indicata quale “effettiva” di via (OMISSIS), avevano in realtà la consistenza di semplici “illazioni”;

3. veniva ritenuto, infine, che l’Agenzia delle Entrate di Benevento non aveva fornito “elementi” che potessero far pensare ad un collegamento tra la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. ed il sedicente “addetto” alla ricezione M.G..

Contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006, sentenza appunto terminativa del giudizio di rinvio, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a numero tre motivi.

La contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. resisteva con controricorso, in limine eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione ex adverso.

Motivi della decisione
1. La resistente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., come anticipato in narrativa, ha sotto vari profili preliminarmente eccepita l’inammissibilità dell’avversario ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c. E, nello specifico, perché:

1. il ricorso difettava “del tutto” di “una compiuta e fedele rappresentazione, almeno sinottica e narrativa, della sentenza di cassazione con rinvio”;

2. il ricorso non dava inoltre “conto compiutamente dello svolgimento del processo”;

3. il ricorso non riproduceva “tutta la parte della sentenza del giudice del rinvio concernente la ricostruzione dello svolgimento del processo”.

I plurimi profili della eccepita inammissibilità, ut supra riassunti, possono esser congiuntamente esaminati stante la loro stretta connessione.

L’eccezione è infondata.

Deve in effetti osservarsi che il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, nella sua parte espositiva, ha dato conto con sufficiente chiarezza della vicenda processuale descrivendone sinteticamente come ex lege richiesto ogni suoi fase e grado e gli esiti degli stessi. E cosicchè, anche a mezzo della integrale trascrizione della parte motiva della sentenza sub iudice, ha ricostruito il fatto processuale senza lacune o incertezza. E per tal modo permettendo a questa Suprema Corte l’esercizio nomofilattico su dati fattuali e processuali sicuri e quindi senza necessità di ricerche integrative.

Non si da pertanto luogo a quella assoluta incertezza alla quale solamente devesi far conseguire la sanzione di inammissibilità per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (Cass. 13550/04; Cass. 2432/03).

2. Col primo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394 c.p.c., ed a riguardo deduceva come la CTR della Campania avesse “trasgredito” i compiti commessi dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente e ciò in quanto non era punto vero che la Suprema Corte fosse entrata nel merito negando “validità” di prova al contenuto della relata di notifica e per tal modo esonerando la CTR dal riesaminare le prove che dall’Agenzia delle Entrate di Benevento erano state portate a sostegno della verità dei fatti riportati nella relata di notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. 82351299 IVA 1994 e per il che sottoponeva il quesito: “se violi il principio di diritto affermato e contravvenga ai compiti assegnati dalla sentenza di cassazione il giudice di rinvio che travisi il contenuto di quella pronuncia, erroneamente ritenendo che la denegata attribuzione della fede privilegiata al contenuto intrinseco delle attestazioni dell’Ufficio giudiziario comporti la negazione della legittimità dell’attività da lui svolta”. Con riferimento a questo primo motivo deve peraltro andare precisato che, per causa il travalicare dai poteri processuali assegnati, il giudice del rinvio che non si uniformi ai principi indicati dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente compie un error in procedendo denunciatale à sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. 6441/05; Cass. 17564/04).

Tuttavia deve in proposito andare rammentata la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte per cui, quando sia stato denunciato come error in iudicando ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quello che in realtà sarebbe un error in procedendo, il motivo è da ritenersi lo stesso ammissibile quando sia come qui stato esattamente e chiaramente prospettato il fatto costitutivo dell’errore. E, ciò, sul rilievo per cui in tutte e due i casi trattasi di un vizio di violazione di legge e cosicchè la certa individuazione dell’errore permette l’esercizio nomofilattico (Cass. 19661/06; Cass. 3941/02).

3. Col secondo complesso motivo l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 145 e 148 c.p.c., e artt. 2697, 2699 e 2700 c.c., e oltrechè per insufficiente e illogica motivazione su punti decisivi della controversia ed a riguardo deduceva che la circostanza che il contenuto intrinseco della relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 non fosse assistito da fede pubblica “non escludeva la fede privilegiata di ogni altra attestazione” di fatti avvenuti alla presenza del messo e come ad es. erano sia il mancato rinvenimento della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. presso la sua sede legale e sia le indicazioni ricevute circa la sede “effettiva” e sia le dichiarazioni di M.G. di esser “addetto” alla ricezione degli atti e cosicchè la CTR della Campania avrebbe da qui dovuto ricavare “che la notifica presso la sede dichiarata era risultata impossibile” e che pertanto era di necessità tentare la notifica presso la sede “effettiva” e che “sarebbe stato onere della società dimostrare che la sede fosse stata effettivamente dove la notifica era risultata impossibile” e colla conclusione per cui in mancanza di una tale prova si doveva ritenere che la notifica presso la sede “effettiva” era stata “eseguita correttamente” a mani dell’”addetto” M.G. e per il che venivano formulati i plurimi quesiti:

1. “se abbiano fede privilegiata le affermazioni rese dal messo notificatore nella relata di notifica in merito all’attività compiuta, al mancato rinvenimento della sede della società destinataria dell’atto da notificare all’indirizzo indicato ed alla acquisizione di informazioni attestanti l’avvenuto trasferimento della sede effettiva”;

2. “se può presumersi la veridicità delle dichiarazioni rese al Messo notificatore dalle persone sentite in merito all’avvenuto trasferimento della sede ad altro indirizzo”;

3. “se, nel caso in cui il messo notificatore non abbia rinvenuto all’indirizzo dichiarato la sede della persona giuridica destinataria di un atto ed abbia acquisito notizia del suo trasferimento ad altro indirizzo del suo circondario, sia legittimo l’esperimento della notifica presso la nuova sede, anzichè presso il domicilio del suo legale rappresentante”;

4. “se – in mancanza di prova contraria – debba ritenersi legittima la notifica di un atto effettuata ad una persona giuridica nella sede individuata dal messo notificatore mediante consegna a mani di persona ivi rinvenuta, che si sia dichiarata addetta alla società e capace di riceverlo”.

4. I motivi ut supra riassunti, stante la loro stretta connessione, debbono esser esaminati congiuntamente. I due motivi sono, peraltro, fondati.

In effetti questa Suprema Corte è sempre stata costante nell’insegnamento per cui – se pur è vero che il contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche non possono far fede fino a querela di falso e differentemente ad es. da quanto in relata vien scritto esser avvenuto davanti al ridetto messo notificatore o dalla attività che questi dichiara di aver compiuta – è altresì vero che i ripetuti contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche debbono presumersi veritiere sino a contraria dimostrazione e questa ovviamente da darsi a chi contesta la notifica (Cass. 25860/08; Cass. 12311/07). Una contraria prova, circa la non veridicità del luogo di rinvenimento della sede “effettiva” e della ricezione dell’”addetto”, che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non ha invero allegato. Il giudice a quo, come correttamente denunciato dalla ricorrente Agenzìa delle Entrate, ha quindi violato le regole sul riparto della prova fissate in subiecta materia e ciò allorquando ha onerato l’Ufficio della dimostrazione della realtà della sede “effettiva” e dell’”addetto” alla ricezione della notifica. Fatti la cui contrarietà a verità, seppur dimostrabile senza querela di falso, spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di provare. Il principio di diritto da enunciarsi ex art. 384 c.p.c., comma 1, è pertanto:

“Quando l’ufficiale giudiziario attesti di non avere rinvenuto la Società destinataria della notifica presso la sua sede legale, perchè, secondo quanto appreso, questa aveva la sua sede “effettiva” altrove, e recatosi presso la sede “effettiva” abbia fatta consegna a persona qualificatasi “addetta” alla ricezione per la Società ridetta, le attestazioni in parola sono da ritenersi assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale. Laddove, invece, il contenuto delle notizie apprese circa la sede “effettiva” ed il contenuto della dichiarazione di chi si sia qualificato “addetto” alla ricezione di atti per conto della Società notificata, sono assistiti da presunzioni iuris tantum, che, in assenza di prova contraria, non consentono al giudice di disconoscere la regolarità dell’attività di notificazione”.

4. Col terzo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5, epperò senza indicazione alcuna delle norme assunte come violate o falsamente applicate e soltanto in rubrica indicando i vizi di “omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione” ed a riguardo deduceva “gravi lacune ed incongruenze nella valutazione degli elementi di fatto emersi dai documenti di causa” e particolarmente per aver la Commissione Tributaria Regionale della Campania “prestato nessuna attenzione al fatto che il messo notificatore aveva rinvenuto un altro luogo certamente riferibile alla società” e nel quale dovevasi individuare la “sede effettiva” e tenuto conto che ivi la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. risultava intestataria di utenza telefonica e che sempre ivi chi aveva ricevuta la notifica risultava aver nome identico a quello del legale rappresentante della contribuente e col che la valutazione negativa dei fatti controversi era da intendersi siccome “assai superficiale e perciò illogica”.

Il motivo rimane assorbito.

5. Il giudice a quo in assenza della contraria prova che abbiamo veduto spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di dare – e che invece nemmeno era stata allegata – avrebbe quindi dovuto ritenere correttamente eseguita la notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e col conseguente rigetto del ricorso proposto contro la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994. E, questo, perchè non c’erano altri fatti da accertare ed in quanto erano da ritenersi presunti la sede “effettiva” e la ricezione della notifica da parte dell’”addetto”. Ciò che, in effetti, à sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, consente ora a questa Suprema Corte di statuire nel merito e quindi di pronunciare il rigetto del ricorso avverso la cartella sub iudice.

6. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, mentre nella particolarmente difficoltosa vicenda processuale stanno quei giusti motivi che permettono per il resto di compensare integralmente le spese.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza e decidendo nel merito respinge il ricorso proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994.

Condanna la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. a rimborsare all’Agenzia delle Entrate le spese del presente grado che si liquidano in Euro 15.000,00 per compensi oltre a spese prenotate;

compensa integralmente nel resto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 09-10-2012) 29-11-2012, n. 21253

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9240-2008 proposto da:

D.S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE TOMASSETTI 3, presso lo studio dell’avvocato BRUNI CARLO, rappresentato e difeso dall’avvocato FILEGGI ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SOCIETÀ ITALIANA DISTRIBUZIONE MODERNA S.P.A., (già LA RINASCENTE S.P.A.);

– Intimata –

e sul ricorso 13243-2008 proposto da:

S.I.D.M. S.P.A.,(già LA RINASCENTE S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LUCA DI PAOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.S.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 281/2007 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 27/03/2007 R.G.N. 651/2006;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato FILEGGI ANTONIO;

udito il p.m. in persona dei sostituto procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Pescara, D.S.E. ha chiesto che venisse dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla Società Italiana Distribuzione Moderna spa (già La Rinascente spa), per avere svolto attività lavorativa consistente nel servizio della clientela presso un locale pubblico mentre si trovava in congedo per ragioni di salute, ed ha chiesto altresì la condanna della società convenuta al pagamento di somme dovute a titolo di lavoro straordinario e notturno.

Il Tribunale ha accolto la domanda relativa all’accertamento della illegittimità del licenziamento e ha respinto quella riguardante la pretesa del compenso per lavoro straordinario, con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello dell’Aquila, che ha ritenuto invece la legittimità del licenziamento, rigettando sul punto la domanda del lavoratore, ed ha accolto la domanda relativa al compenso per lavoro straordinario e notturno, condannando la società al pagamento, per questi titoli, della complessiva somma di Euro 40.984,85 (di cui Euro 37.928,55 a titolo di lavoro straordinario diurno e Euro 3.056,30 a titolo di lavoro notturno), oltre rivalutazione e interessi. A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta osservando che il lavoratore era stato sorpreso a svolgere attività di servizio della clientela in un locale pubblico in occasione di due assenze dal lavoro motivate da uno stato di malattia (lombosciatalgia) e che, in tali occasioni, era apparso in condizioni fisiche normali, sì da legittimare l’insorgenza di fondati dubbi circa la stessa esistenza della malattia e giustificare così il recesso del datore di lavoro. Quanto al compenso per lavoro straordinario diurno e notturno, la Corte di merito ha osservato che dalle risultanze istruttorie era emerso che il D.S. aveva svolto settimanalmente numerose ore di lavoro straordinario e, in alcune occasioni, anche un certo numero di ore di lavoro notturno, che dovevano essere compensate con le maggiorazioni previste dalla contrattazione collettiva, a nulla rilevando che il D.S., per la sua funzione di capo reparto, godesse di una certa autonomia operativa riguardo al reparto affidatogli.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione D.S.E. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la SIDM spa, che ha proposto anche ricorso incidentale fondato su due motivi. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente, deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ex art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 “in relazione a consolidati principi giurisprudenziali in materia di svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia”, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che sarebbe assolutamente vietato al lavoratore assente per malattia lo svolgimento di una qualsiasi altra attività lavorativa, a prescindere da ogni valutazione circa la compatibilità tra tale attività lavorativa e la malattia medesima.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione al principio di immutabilità della contestazione disciplinare, nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se la sentenza impugnata abbia violato tale principio laddove ha ritenuto giustificato il licenziamento sotto il profilo, che non formava oggetto di specifica contestazione, del presunto svolgimento di una attività lavorativa idonea a compromettere la guarigione.

3.- Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione degli artt. 414, 164, 244 c.p.c., dell’art. 2697, 2108, 2099, 1241 c.c., art. 36 Cost., nonchè vizio di motivazione, in ordine all’omesso rilievo, da parte della Corte di merito, delle carenze dell’atto introduttivo e dell’inammissibilità dei capitoli di prova articolati dal ricorrente, oltre che per aver disatteso l’eccezione di compensazione formulata in via subordinata dalla società, sostenendo che, sulla base di tali carenze, il giudice d’appello avrebbe dovuto ritenere il ricorso nullo ovvero rigettarlo nel merito, o comunque, in accoglimento della suddetta eccezione, contenere la condanna entro una diversa e più ridotta misura.

4.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2108 c.c., R.D.L. n. 1955 del 1923, art. 3 R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 nonché vizio di motivazione, sostenendo che, in base alle normativa sopra richiamata, non doveva essere riconosciuto al ricorrente, che svolgeva funzioni di capo reparto e non era, quindi, tenuto ad osservare l’orario normale di lavoro, alcun compenso per lavoro straordinario.

5. – I motivi del ricorso principale, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

6.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

7.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

8.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che, nella fattispecie, le modalità dello svolgimento dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto al servizio ai tavoli e alla riscossione alla cassa presso un locale pubblico, in orario notturno) durante l’assenza per malattia erano di per sè sufficienti a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed erano comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato anche l’impegno fisico richiesto dall’espletamento di tale attività.

9.- Tale affermazione risulta in tutto conforme ai principi enunciati in materia da questa Corte e non presuppone affatto l’esistenza di un divieto assoluto, per il lavoratore, di svolgere una qualsiasi altra attività lavorativa durante l’assenza per malattia, prescindendo da ogni valutazione circa la compatibilità tra detta attività e la malattia; nè può ritenersi che la Corte di merito, cosi argomentando, abbia preso in considerazione fatti diversi da quelli che formavano oggetto della contestazione disciplinare, che la contestazione riguardava appunto il fatto di essere stato sorpreso, in più occasioni, a lavorare con mansioni di servizio ai tavoli durante l’assenza per malattia.

10.- Non sussistono, inoltre, i vizi motivazionali denunciati nella seconda parte del secondo motivo, in quanto la decisione impugnata si fonda, in primo luogo, sul rilievo della inidoneità dello stato di malattia ad impedire l’espletamento dell’attività lavorativa e la fondatezza di tale rilievo non può certo ritenersi inficiata per effetto delle indicazioni contenute nella documentazione medica richiamata nel ricorso, che attesta sì l’esistenza di una lomobosciatalgia (esistenza che non viene, peraltro, disconosciuta dal giudice del merito), ma non ha diretta attinenza alla specifica situazione di impedimento dell’attività lavorativa che si sarebbe verificata a carico del D.S. nei periodi di tempo in contestazione.

11.- Le ulteriori osservazioni svolte nell’ultima parte del ricorso si riferiscono al profilo relativo alla idoneità (o meno) del comportamento del lavoratore ad incidere sulla guarigione della malattia e non hanno comunque rilievo decisivo ai fini della prova della effettiva esistenza di uno stato della malattia impeditivo della prestazione lavorativa.

12.- Il ricorso principale non può pertanto trovare accoglimento.

13.- Il primo motivo del ricorso incidentale è in parte infondato e, per la restante parte, assorbito, come si dirà, dall’accoglimento del secondo motivo.

14.- Deve escludersi anzitutto la sussistenza della dedotta violazione degli artt. 414 e 164 c.p.c., posto che, come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 3126/2011, Cass. n. 820/2007, Cass. n. 17076/2004), nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo per mancanza di determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda è ravvisabile solo quando, attraverso l’esame complessivo dell’atto, sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa; ipotesi, questa, che non si riscontra nel caso in esame, posto che, nella specie, le indicazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda hanno consentito alla convenuta di apprestare adeguatamente le proprie difese e al giudice di impostare e svolgere l’attività istruttoria indispensabile ai fini della decisione. Le censure formulate dalla società, d’altra parte, si incentrano in gran parte sulla genericità e sulla inattendibilità degli elementi di fatto indicati nel ricorso a sostegno delle pretese fatte valere, oltre che sulla omessa indicazione di altri elementi che si assumono idonei a modificare o a ridurre tali pretese, ed attengono quindi alla fondatezza della domanda più che alla insufficienza della esposizione degli elementi di fatto su cui questa si fonda, sicchè deve ritenersi che, sotto questo profilo, la valutazione della Corte di merito risulti del tutto immune dalle censure che le sono state mosse, al riguardo, dalla controricorrente.

15.- Anche la censura relativa alla valutazione della idoneità della specificazione dei fatti dedotti nei capitoli di prova, ex art. 244 c.p.c., non può trovare accoglimento, in quanto la parte avrebbe dovuto riportare, in ossequio al principio di autosufficienza, lo specifico contenuto dei capitoli di prova, onde rendere edotta la Corte del modo in cui la prova era stata formulata con il ricorso introduttivo.

16.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve ritenersi fondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che ai fini dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, con conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, il concetto di “personale direttivo” di cui al R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 è comprensivo – come chiarito dal R.D. n. 1955 del 1923, art. 3, n. 2, (regolamento per l’applicazione del citato R.D.L. n. 692 del 1923) – non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì anche, in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, del personale dirigente c.d. minore, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni d’azienda, i capi ufficio e i capi reparto (cfr. ex plurimis Cass. n. 12367/2003), precisando che il personale direttivo, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, ha diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per il medesimo l’orario normale, e tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della prestazione lavorativa ecceda il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e della integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori (cfr. ex plurimis Cass. n. 16050/2004, Cass. n. 13882/2004, Cass. n. 7201/2004, Cass. n. 12301/2003, Cass. n. 11929/2003, Cass. n. 7577/2003).

17.- Nella specie, è pacifico che il D.S. abbia prestato la propria attività lavorativa con la qualifica e le mansioni di capo reparto, qualifica che lo escludeva dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, applicabile, all’epoca, al rapporto di lavoro. Anche la disciplina collettiva (art. 39 c.c.n.l.) escludeva il diritto di direttori tecnici, capi ufficio e capi reparto ad un compenso per lavoro straordinario.

18.- La Corte d’appello ha ritenuto di riconoscere il diritto dell’appellante al compenso per lavoro straordinario – superando così, implicitamente, l’impedimento che derivava al riconoscimento di tale diritto dalle previsioni della disciplina legale e della normativa collettiva – in base alla considerazione che la stessa società aveva riconosciuto al dipendente, facendone menzione nelle buste paga, un compenso per lavoro straordinario, seppure “forfettizzato”.

19.- L’argomentazione non merita condivisione in quanto l’attribuzione di un compenso per lavoro straordinario “forfettizzato”, in presenza di una normativa legale e contrattuale che esclude determinate categorie di lavoratori dall’applicazione della disciplina in tema di limitazioni dell’orario di lavoro, non può assumere, per sè solo, il significato di un riconoscimento, da parte del datore di lavoro, dell’esistenza di una limitazione dell’orario normale, nè del diritto ad un compenso per il lavoro prestato oltre tale limite, ma, se mai, solo quello di un trattamento più favorevole determinato e corrisposto dal datore di lavoro al dipendente, al quale non si applica la disciplina delle limitazioni dell’orario di lavoro, proprio in conseguenza degli svantaggi eventualmente derivanti al lavoratore dalla suddetta esclusione.

20.- In definitiva, alla stregua della disciplina legale e contrattuale delle limitazioni dell’orario di lavoro applicabile al rapporto – e non essendo in questione nella presente controversia, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti, il limite della “ragionevolezza” -, deve escludersi il diritto del ricorrente al compenso per lavoro straordinario.

21.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere pertanto accolto e la sentenza deve essere cassata relativamente alla statuizione con cui la società è stata condannata al pagamento del compenso per lavoro straordinario diurno (ferma restando la statuizione di condanna della medesima società al pagamento della somma di _ 3.056,30 a titolo di compenso per lavoro notturno), con l’assorbimento di ogni altra censura svolta sul punto dalla controricorrente.

22.- Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al pagamento del compenso per lavoro straordinario (diurno).

23.- Avuto riguardo alla peculiarità della materia che ha dato luogo a diverse e contrastanti soluzioni nel corso del giudizio di merito, si ritiene che sussistano giusti motivi per compensare interamente fra le parti anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale, accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, rigettato il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovuta al D.S. la somma liquidata dalla Corte d’appello a titolo di compenso per lavoro straordinario diurno;

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 04-10-2012) 05-11-2012, n. 18921

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3609/2007 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., (già FERROVIE DELLO STATO SOCIETA’ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.M., + ALTRI OMESSI elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO TRIESTE 56/A, presso lo studio dell’avvocato PENNA CLAUDIO, rappresentati e difesi dall’avvocato MARZIALE GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

V.L., + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

avverso la sentenza n. 96/2006 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 23/01/2006 r.g.n. 44814/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.C., + ALTRI OMESSI quali dipendenti della Ferrovie dello Stato spa (oggi Rete Ferroviaria Italiana spa), negli anni ’80 dello scorso secolo erano addetti alle Officine Grandi Riparazioni di (OMISSIS), ove, fino al marzo 1987, venivano effettuate operazioni di rimozione dell’amianto da vagoni ferroviari, mentre successivamente la Società aveva affidato tali operazioni all’esterno, restando in proposito alle Officine il compito di procedere, in un’area dedicata (Zona A ed, eccezionalmente, Zona B), unicamente a lavori di rimozione di eventuali residui di amianto, prima di effettuare le necessarie riparazioni e manutenzioni dei vagoni.

In tale contesto operativo, già nel maggio – giugno 1988, i lavoratori dell’Officina avevano ripetutamele chiesto, anche astenendosi temporaneamente dalle lavorazioni da effettuare a contatto con l’amianto, interventi aziendali di bonifica degli impianti, effettivamente poi realizzati dall’Ente tra il giugno e il novembre del medesimo anno; ritenendo, anche a seguito della conoscenza di un verbale di sopralluogo del 1 dicembre 1988 sugli impianti da parte del medico e dell’ufficiale sanitario delle Ferrovie, che l’ambiente lavorativo non presentasse ancora sufficiente sicurezza per la salute degli addetti, le organizzazioni sindacali interne avevano in data 8 febbraio 1989 riproposto all’Ente Ferrovie dello Stato la richiesta di immediata sospensione del lavoro nei settori ritenuti pericolosi per procedere a più risolutivi interventi; al diniego da parte della parte datoriale, i lavoratori decisero di astenersi dal 14 febbraio 1989, a tempo indeterminato, dalle sole lavorazioni di bonifica dell’amianto, timbrando ogni giorno il cartellino all’entrata e quindi restando in attesa di eventuali richieste di lavori diversi.

Tale situazione si protrasse fino al 31 marzo 1989, data nella quale, anche a seguito di un provvedimento del Pretore di Firenze (intervenuto il 7 marzo 1989 su denuncia di alcuni dipendenti) di immediata chiusura dei capannoni di lavorazione dei rotabili esistenti presso lo stabilimento, con prescrizioni relative ad una serie di modifiche agli impianti e ai sistemi di lavorazione (capannoni poi riaperti su provvedimento del Pretore di Firenze del 21 giugno 1989 – dichiarato dalla Cassazione incompetente in ordine al procedimento penale avviato – e del Pretore di Torre del Greco del 24 giugno 1989), l’astensione cessò.

Poiché la parte datoriale non aveva erogato ai partecipanti all’astensione la retribuzione relativa al periodo 14.2 – 31.3.1989, gli odierni intimati, assumendo di avere, con l’astensione, reagito all’inadempimento della datrice di lavoro in relazione agli obblighi sulla stessa incombenti in materia di sicurezza, adirono il Pretore di Napoli per ottenerne la condanna al pagamento della retribuzione non corrisposta a titolo di risarcimento del danno, originato a loro carico da tale inadempimento.

Il Giudice adito accolse le domande.

Con sentenza del 5.12.2005 – 23.1.2006, il Tribunale di Napoli rigettò il gravame proposto dalla Ferrovie dello Stato spa; pur dando atto che in precedenti procedimenti penali il responsabile delle Officine era stato assolto dal Pretore di Torre del Greco per non aver commesso il fatto dalla imputazione di lesioni colpose ai danni di alcuni dipendenti (sentenza del 6 aprile 1998 n. 117) e prosciolto per amnistia in relazione all’imputazione di violazione delle norme di cui del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, e del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 354, (sentenza del 25 luglio 1990), il Tribunale, soprattutto sulla base dell’analisi di due perizie svolte nell’ambito di quest’ultimo procedimento e acquisite agli atti, rilevò una serie di difetti negli impianti e nell’organizzazione del lavoro afferente alle operazioni di bonifica dall’amianto, ritenuti pericolosi per la salute degli addetti a tali lavorazioni e che, pertanto, avevano giustificato il rifiuto della prestazione nei relativi ambienti lavorativi da parte dei lavoratori, che, in tal modo, avevano reagito all’inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi di cui alle leggi citate e più in generale a quelli nascenti dall’art. 2087 c.c..

Avverso l’anzidetta sentenza resa in grado d’appello, la Rete Ferroviaria Italiana spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

Gli intimati D.C., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonchè per violazione dell’art. 2087 c.c., deducendo che il contenuto dell’obbligazione di cui alla suddetta norma va valutato in relazione alle conoscenze e ai mezzi a disposizione al tempo cui si riferisce il fatto esaminato e che il rispetto di tale obbligo si misura alla stregua delle tecnologie e degli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti e praticati in quel determinato momento storico; la sentenza impugnata avrebbe invece omesso di effettuare tale operazione di storicizzazione dei doveri imprenditoriali, non considerando in maniera adeguata che nel periodo oggetto di causa (anno 1989, quando l’uso dell’amianto non era stato ancora vietato e non erano stati ancora stabiliti i valori limite di tollerabilità nel trattamento dello stesso) le precauzioni adottate dalla Società nella scelta dei macchinari e degli impianti istallati nelle Officine e nella relativa organizzazione del lavoro erano in perfetta sintonia con la legislazione e con le conoscenze scientifiche del tempo, come del resto accertato nella sentenza del Pretore di Torre del Greco del 6 aprile 1998, che aveva testualmente affermato che l’imputato (responsabile dell’Officina) “ha adottato, dal 1982 al 1993, tutte quelle misure antinfortunistiche che l’evoluzione tecnologica ha, nel corso degli anni, consentito di applicare”: il Tribunale, pur citando tale sentenza, non aveva poi tenuto alcun conto delle relative motivazioni, fondando sostanzialmente le proprie valutazioni su rilievi ampiamente estrapolati dalle due perizie svolte nel 1989 su incarico del Pretore di Torre del Greco nell’altro procedimento penale concluso nel 1990, sostanzialmente peraltro ignorando altri preziosi ed importanti elementi emergenti da tali perizie, esprimenti una valutazione positiva in ordine al comportamento delle Ferrovie sul piano considerato (quali i risultati dei campionamenti effettuati; la limitata esposizione alle fibre di amianto per ciascun lavoratore; il fatto che nessuno dei trentasette lavoratori esaminati era risultato affetto da asbestosi; che 17 su 33 lavoratori esposti al rischio presentavano fibre di amianto nell’espettorato, tracce che peraltro avevano presentato anche tre su quattro lavoratori mai addetti ai reparti a rischio); in definitiva, quindi, la valutazione di responsabilità della parte datoriale risultava fondata su semplici presunzioni, non avendo i lavoratori fornito in giudizio elementi sufficienti a provarla.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonché violazione dell’art. 1460 c.c., deducendo che il Tribunale aveva ritenuto legittima l’eccezione di inadempimento formulata dai lavoratori omettendo di accertare se effettivamente ciascuno di essi fosse stato adibito alle lavorazioni ritenute pericolose.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, per avere il Tribunale escluso che in realtà gli odierni intimati avevano posto in essere un’azione di sciopero, operando una ricostruzione solo parziale del loro comportamento nel periodo considerato; secondo la prassi aziendale, infatti, la presenza in azienda veniva certificata non solo dalla timbratura del cartellino all’ingresso, ma anche dalla attestazione di successiva presenza nel reparto di appartenenza; poichè i lavoratori non si erano mai presentati in quei giorni nel reparto di appartenenza per porsi eventualmente a disposizione per l’espletamento di lavori diversi da quelli in cui era implicato l’amianto, la loro astensione collettiva avrebbe dovuto essere qualificata come sciopero e non come reazione al preteso inadempimento della società.

2. In ordine al primo motivo, osserva il Collegio che, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 2491/2008; 644/2005, ambedue in materia di cautele contro il rischio da amianto, anche in anni tra i ’60 e gli ’80 del secolo scorso), la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico; inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell’art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute (cfr, Cass., n. 11664/2006).

La sentenza impugnata non si è discostata da tali principi nella valutazione delle risultanze istruttorie relative ai fatti rappresentati in giudizio a sostegno delle domande e delle eccezioni delle parti; infatti, facendo corretta applicazione della regola per cui compete al giudice di merito la valutazione delle risultanze istruttorie, attingendo a quelle che ritiene più attendibili e idonee a sostenere il proprio convincimento e fornendo al riguardo una motivazione che dia conto della formazione di esso sulla base dell’esame complessivo di tutte le prove (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 898/1999), il Tribunale (che in questa attività valutativa di merito è censurabile in sede di legittimità unicamente per errori evidenti e vizi logici cadenti su di uno snodo decisivo di essa) ha anzitutto tenuto adeguato conto delle considerazioni svolte dal Pretore di Torre del Greco nella sentenza di assoluzione del 1998, valutando come scarsamente rilevanti, nel presente procedimento, gli accertamenti operati in quella sede e posti alla base delle valutazioni del giudice penale, in ragione del fatto che essi erano consistiti in sopralluoghi e analisi della organizzazione aziendale di gran lunga posteriori all’anno 1989, nonché nella elencazione di macchinai acquistati nel tempo dalla Società per predisporre le tutele nel settore in esame, e tenendo poi contro delle perizie ambientale e medico legale svolte nel luglio 1989, in prossimità quindi dell’epoca dei fatti, nell’ambito dell’altro procedimento penale concluso con una sentenza di non doversi procedere per amnistia, che avevano evidenziato gravi difetti soprattutto nella organizzazione del lavoro negli ambienti ove avveniva la bonifica dall’amianto.

Tali difetti attenevano, tra l’altro, all’imperfetto isolamento dei suddetti ambienti, con conseguente possibile dispersione di polveri e fibre di amianto nelle zone circostanti; al difettoso trattamento delle acque di lavaggio del sottocassa; al fatto che le superfici delle pareti della zona deputata alla bonifica avevano una consistenza tale da rendere difficile una loro decontaminazione attraverso gli interventi di pulizia predisposti dalla società, anche nella zona in cui venivano effettuati operazioni di sostituzione dei filtri ed ove quindi potevano trovare sviluppo e dispersione fibre di amianto; alla inidoneità dell’impianto di immissione e di estrazione dell’aria in tale ambiente;

all’inidoneità del casco a evitare l’introduzione di fibre di amianto all’interno di esso.

Pertanto i giudici d’appello hanno valutato che tali perizie dimostravano che nell’Officina di Santa Maria La Bruna, nel periodo in questione, si era creato un rischio ambientale di esposizione ad inalazione di fibre di amianto per tutti i lavoratori dipendenti e tanto sia per la colpevole gestione della zona B, sia per le carenze di tutela nella zona A, coerentemente concludendo nel senso che la Società si era resa inadempiente agli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento da essa stessa dettate in materia di trattamento dell’amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell’evolvere delle conoscenze mediche e dell’adozione da parte della Comunità delle direttive del 1980, del 1982 e del 1983, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto.

In proposito, la ricorrente deduce peraltro che i giudici avrebbero trascurato alcuni elementi delle perizie che militerebbero nel senso della piena adozione da parte della società di misure idonee alla salvaguardia della salute dei lavoratori della officina; tale eccezione è però sostenuta dalla estrapolazione di alcune frasi o parti di frasi dalle perizie, delle quali non è pertanto possibile cogliere completamente il significato, anche alla luce di ciò che di diverso ampiamente riproduce il testo della sentenza impugnata, cosicché deve ritenersi che tali rilievi non siano stati evidentemente ritenuti sufficientemente significativi dal Tribunale nel contesto della integrale lettura delle relazioni peritali.

Deve quindi convenirsi che, esclusa la erroneità della interpretazione dell’art. 2087 cc, le censure formulate con il motivo all’esame non incidono sulla correttezza, sul piano dell’iter logico seguito e della corrispondenza delle argomentazioni alle risultanze istruttorie, delle conclusioni assunte con la sentenza impugnata, onde il motivo va rigettato.

3. La questione svolta con il secondo motivo non risulta trattata nella sentenza impugnata, nè la ricorrente specifica i termini e i modi con cui la stessa sarebbe stata devoluta al Giudice del gravame.

Configurandosi quindi come questione nuova, il secondo motivo deve ritenersi inammissibile.

4. In ordine al terzo motivo deve rilevarsi che il Tribunale ha ritenuto che il comportamento dei lavoratori, che avevano marcato il cartellino di presenza, ma si erano poi rifiutati di lavorare nelle zone a rischio, coincidenti con quelle contrassegnate dalle lett. A e B, esprimesse una giustificata reazione all’altrui inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., implicitamente valutando come irrilevante il fatto che, dopo la timbratura all’orologio marcatempo, i lavoratori medesimi si fossero trattenuti nelle vicinanze, senza recarsi ai singoli reparti di produzione, ma neppure allontanandosi dall’officina.

Trattasi di valutazione che non appare irragionevole, tenuto conto dei motivi dell’iniziativa, indicati dal Tribunale nell’avvenuta conoscenza da parte dei lavoratori del contenuto del verbale di sopralluogo del medico delle F.S. che riportava notizie allarmanti con riguardo a detto luogo di lavoro e del fatto che alcuni dipendenti (evidentemente ritenuti diversi da quelli esposti allo specifico rischio) avevano regolarmente lavorato.

Anche il motivo all’esame non merita quindi accoglimento.

5. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese a favore dei controricorrenti, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; non è luogo a provvedere al riguardo per gli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione in favore dei controricorrenti delle spese di lite, che liquida in Euro 4.040,00 (quattromilaquaranta), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge; nulla sulle spese quanto agli altri intimati.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2012


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 26-09-2012) 18-10-2012, n. 17904

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 763/2008 proposto da:

G.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZIO 9, presso lo studio dell’avvocato BALLA PAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato CIANCIMINO Rino, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

HDI ASSICURAZIONI S.P.A. (OMISSIS), in persona del suo Direttore P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato ROMAGNOLI MAURIZIO, rappresentato e difeso dall’avvocato SCHIFANO Sabina, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

C.G. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 488/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 09/08/2007, R.G.N. N. 1663/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2012 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato MAURIZIO LANIGRA per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. G.G. propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo, depositata il 9.08.2007 e di cui si deduce la notifica in data 6.12.2007, la quale ha confermato quella di primo grado, che, a sua volta, aveva ritenuto il G. e C.G. corresponsabili, nella misura del 50%, del sinistro stradale in lite.

2. Come raccomandato dal Collegio, viene adottata una motivazione in forma semplificata.

3. Dall’esame degli atti, emerge che il ricorrente non ha depositato la copia notificata della sentenza impugnata.

4. Al riguardo, deve confermarsi il principio secondo cui la previsione – di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2 – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente, alleghi (come nella specie) che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con a relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 cod. proc. civ., comma 2, applicabile estensivamente, purchè entro il termine di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione (Cass. S.U. 2009/9005;

nonché Cass. 11376/2010; 25070/2010, ord.).

5. Il ricorso deve perciò essere dichiarato improcedibile. Le spese seguono la soccombenza nel rapporto con la parte costituita. Nulla per le spese nel rapporto con l’altro intimato, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.
Dichiara improcedibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti della Compagnia assicuratrice, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2012


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 19-07-2012) 03-10-2012, n. 16817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GOLDONI Umberto – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 3191/2011 proposto da:

SERIT SICILIA SPA (OMISSIS) – Agente della Riscossione per le Province della Regione Siciliana in persona del Direttore Generale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIBULLO 20, presso lo studio dell’avv. URBANI DANIELE, (avv. MARIA TARANTINO), rappresentata e difesa dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 4, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GEMMA, rappresentata e difesa dall’avvocato CATERINA GIUNTA, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1382/2010 del TRIBUNALE di PALERMO del 9.3.2010, depositata il 18/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/07/2012 dal Consigliere Relatore Dott. MILANA FALASCHI;

udito per la ricorrente l’Avvocato Giovanni Di Salvo che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La SERIT Sicilia s.p.a. – Agente Riscossione Province Regione Siciliana ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello del Tribunale di Palermo del 18 marzo 2010 che nell’ambito del giudizio di opposizione L. n. 689 del 1981, ex art. 22, promosso da G.M. relativo ad ordinanza ingiunzione applicativa di sanzioni amministrative per plurime violazioni del Codice della Strada, ha rigettato il gravame e, per l’effetto, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, di accoglimento dell’opposizione proposta per avere dichiarato la nullità della notifica delle cartelle di pagamento. Il ricorso è affidato ad un unico motivo di impugnazione.

La G. si è costituita con controricorso.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., formulando una proposta per il rigetto del ricorso.

All’udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RITENUTO IN DIRITTO Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con l’unica censura la ricorrente Serit Sicilia s.p.a. denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., per avere i giudici di merito ritenuto non essere state ritualmente notificate alla G. le cartelle di pagamento di cui al preavviso di fermo di beni mobili registrati effettuate con le forme delle notificazioni agli irreperibili, perchè l’Ufficiale giudiziario procedente aveva depositato i plichi presso l’Ufficio nella “Casa del Comune” di (OMISSIS), luogo da considerarsi equipollente alla Casa comunale, attuando una forma di decentramento amministrativo.

La censura è infondata.

E’ incontestato che l’Ufficiale giudiziario addetto ha provveduto alla notifica delle cartelle esattoriali in atti nelle forme di esposte dalla stessa Agenzia di riscossione in ricorso. Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) l’intimata ha eccepito la inesistenza della notifica perchè, come si è detto, il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di via (OMISSIS), che dunque non era la sede ufficiale ma ufficio decentrato del comune di (OMISSIS). Orbene, accertato che via Orsini n. 11 all’epoca delle notifiche non era la sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo della G., recepita integralmente dai giudici di merito.

Infatti anche se a seguito di delibera comunale alla sede di via Orsini n. 11 risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato), è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso l’Ufficio centrale del Comune.

Si deve quindi riconoscere che a via (OMISSIS), quand’anche esistesse un ufficio comunale, questo non può costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Secondo risalente orientamento di questa corte, che appare da condividere, l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente a.1 notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento (non altrimenti sanate) (in tal senso, Cass. 3 febbraio 1993 n. 1321).

La censura mossa alla decisione impugnata è, quindi, infondata per avere la corte di merito applicato in modo corretto l’art. 140 c.p.c.”.

Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni contenute nella relazione di cui sopra, giacchè non è in discussione il potere di decentramento della pubblica amministrazione, come dedotto dalla ricorrente (su cui ha insistito anche nella memoria illustrativa), ma nella specie l’atto amministrativo è intervenuto solo successivamente alla data di notificazione delle infrazioni. Infatti la delibera amministrativa (che peraltro ha disposto il decentramento non presso uffici del Comune, ma nella sede dello stesso ente esattore) in atti reca la data dell’agosto 2006 a fronte della notificazione dell’ordinanza ingiunzione del 3.3.2003.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 900,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione 6 – 2 Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 19 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-06-2012) 26-09-2012, n. 16375

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9653/2010 proposto da:

M.M. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati CATALANO Agostino, BRESSANINI CETORINO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

INTERBRENNERO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo Studio dell’avvocato PETRETTI Alessio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTI IVAN, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7/2010 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 29/01/2010 R.G.N. 28/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
M.M. ha impugnato davanti al Tribunale di Trento il licenziamento disciplinare comminatogli dalla società Interbrennero spa, per avere ripetutamente svolto attività lavorativa quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche locali mentre si trovava in congedo per ragioni di salute.

Il Tribunale di Trento ha accolto la domanda con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto la legittimità del licenziamento sia sotto il profilo della proporzionalità tra la sanzione e la condotta illecita sia sotto il profilo della tempestività della contestazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.M. affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Interbrennero spa.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2118 e 2106 c.c., nonchè vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione con la quale il giudice d’appello ha ritenuto la sussistenza del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, evidenziando, da un lato, che non potevano sorgere dubbi circa l’effettività dello stato di malattia e sostenendo, dall’altro, che l’illecito disciplinare, consìstente nello svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, doveva ritenersi temporalmente ristretto, in concreto, ad un solo giorno di lavoro effettivo.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione delle stesse disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata circa la gravità dell’infrazione commessa dal lavoratore, contestando, in particolare, che dalla condotta in questione potesse essere derivato un nocumento di qualsiasi natura all’attività aziendale o che fosse stata fornita la prova della insostituibilità del ricorrente nel l’espletamento delle mansioni a lui affidate.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione delle ridette disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, in relazione alla statuizione con la quale la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente la proporzionalità tra la sanzione e la condotta addebitata al lavoratore, considerata anche l’inesistenza di precedenti disciplinari ed il fatto che l’illecito disciplinare risultava limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo.

4,- Tali motivi, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

5.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi di contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

6.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

7.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che,nella fattispecie, la natura dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche) durante l’assenza per malattia era di per sè sufficiente a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed era comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato che la malattia da cui egli risultava affetto (“cefalea in sinusite frontale riacutizzata”) non era certamente compatibile con lo svolgimento di un’attività che, come quella di sorvegliante di discoteche, richiedeva piena efficienza e prestanza fisica.

8.- Le contrarie affermazioni del ricorrente, secondo cui i giudici d’appello non avrebbero adeguatamente valutato l’esiguità del periodo di effettiva coincidenza tra turni di lavoro, giorni di assenza per malattia e giorni di svolgimento di altra attività lavorativa (periodo che, secondo la prospettazione del ricorrente, dovrebbe ritenersi limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo), nè il fatto che lo stesso ricorrente aveva comunque sempre ripreso regolarmente il suo lavoro, non tengono conto del rilievo correttamente assegnato dalla sentenza impugnata all’incidenza del lavoro di sorvegliante di discoteche sulla completa guarigione della malattia – oltre che del fatto che, ai fini della valutazione di detta incidenza, non può non venire in rilievo il lavoro prestato durante tutto il periodo di malattia, ivi compresi i giorni festivi e quelli in cui non era previsto un turno lavorativo – e si risolvono nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra accennato, alla necessità che lo svolgimento di altra attività lavorativa, valutata in relazione alla natura della malattia e delle mansioni svolte, non pregiudichi o ritardi la guarigione e il rientro in servizio.

9.- Come si è già detto, la valutazione in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione è costituita da un giudizio ex ante, che ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio e prescinde dalla avvenuta o meno tempestiva ripresa del lavoro, sicchè restano irrilevanti le considerazioni svolte al riguardo con il primo e il terzo motivo.

10.- Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso per cassazione, inoltre, l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con le proprie condizioni di salute, ed in particolare con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa – e conseguentemente l’inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative – grava sul dipendente che, durante l’assenza per malattia, sia stato sorpreso a svolgere attività lavorativa a favore di terzi (cfr. ex plurimis Cass. n, 3647/99).

11.- Quanto alle altre censure svolte dal ricorrente in ordine alla gravità dell’infrazione ed alla proporzionalità della sanzione irrogata, è sufficiente ribadire, richiamando quanto già detto in precedenza, che “lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede; e questa violazione giustifica il recesso del datore di lavoro” (così Cass. n. 14046/2005 cit.).

12.- Il ricorso deve essere pertanto respinto con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2012


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-06-2012) 05-09-2012, n. 14865

La Corte Suprema di Cassazione civile, con ordinanza n. 14865 del 5 settembre 2012, ha dichiarato come sia da considerarsi valida la notifica di un atto, indirizzato a una persona giuridica, effettuata a un dipendente della società, il quale in quel momento risulta essere addetto alla sede della società stessa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

COMMERCIALE AUTOMOBILI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via F. Barnabei n. 5, presso l’avv. Gualtieri Cesidio, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Di Ramio Giuseppe, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 giugno 2012 dal Relatore Cons. Dott. Biagio Virgilio.

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“1. La Commerciale Automobili s.r.l., propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata l’inammissibilità del ricorso da questa proposto avverso cartella esattoriale relativa ad IVA, 1RPEG ed IRAP del 1998 contestando la fondatezza della pretesa tributaria sul presupposto della omessa notificazione del prodromico avviso di accertamento.

Il giudice a quo ha ritenuto che la notifica doveva ritenersi validamente eseguita a mani di una impiegata della società e quindi addetta alla sede, come risultava dalla relazione di notificazione (peraltro – ha precisato – la stessa ricorrente definisce la consegnataria una dipendente).

L’Agenzia delle entrate non si è costituita.

2. L’unico motivo di ricorso, con il quale si chiede se “in ipotesi di notifica a persona giuridica, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., la consegna dell’atto ad un qualunque di lei dipendente, senza che consti la previa infruttuosa ricerca del legale rappresentante e, successivamente, della persona incaricata di ricevere le notificazioni, renda la notificazione nulla”, è manifestamente infondato: premesso, infatti, che la norma indicata non richiede affatto la previa ricerca, presso la sede della persona giuridica, del suo legale rappresentante, ai fini della regolarità della notificazione è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventualmente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza; sicchè, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere una sua dipendente, non era neppure addetta alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno, nel senso che la prova dell’insussistenza di un rapporto siffatto non è adempiuto con la sola dimostrazione dell’inesistenza d’un rapporto di lavoro subordinato tra la persona in questione ed il destinatario della notifica, attesa la configurabilità di altri rapporti idonei a conferire la richiesta qualità (Cass. nn. 13935 del 1999, 904 e 7113 del 2001, 19201 del 2003, 12754 del 2005, 16102 del 2007).

3. Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”;

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti (l’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato “atto di costituzione”);

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso deve essere rigettato;

che non v’è luogo a provvedere in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2012


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/04/2012) 27/07/2012, n. 13461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CARIERI SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BENEDETTO CAIROLI 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DAGNINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

SERIT SICILIA SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

Nonchè da:

SERIT SICILIA SPA in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ORAZIO 3, STUDIO MALVAGNA presso lo studio dell’avvocato MARIA TARANTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta delega in calce;

– ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente a ricorso incidentale –

e contro

CARIERI SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 68/2010 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO, depositata il 24/05/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2012 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DAGNINO e DI SALVO, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso, l’Avvocato DI SALVO chiede l’accoglimento del ricorso incidentale con riguardo alle spese, e rigetto del ricorso principale;

udito per il controricorrente l’Avvocato TIDORE, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza n 68/29/2010, depositata il 24.5.2010, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, appellata dall’Agenzia delle entrate, rigettava l’appello proposto dalla società Carieri s.p.a. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.p.A. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo che aveva, invece, accolto il ricorso presentato dalla Carieri s.p.a. avverso la cartella di pagamento per Iva e Irap 2000 e 2001.

La Carieri s.p.a. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:

a) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per l’omessa sottoscrizione autografa della cartella di pagamento che non contiene la firma del rappresentante del Concessionario della riscossione;

b) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla mancata sottoscrizione della cartella di pagamento;

c) violazione falsa applicazione dell’art. 111 Cost. in relazione alla obbligatorietà della sottoscrizione autografa delle cartelle di pagamento;

d) violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per il mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario);

e) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in ordine alla obbligatorietà dell’avviso bonario qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti nella dichiarazione;

f) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla intervenuta decadenza dell’Amministrazione dal potere di iscrizione a ruolo delle somme vantate contro l’atto impugnato, ritenendo applicarsi alla fattispecie il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17 e non l’art. 25 novellato del citato D.P.R., rilevando come la cartella di pagamento avrebbe dovuto essere notificata, relativamente all’anno di imposta 2000, entro il 31/12/2004 e, in relazione all’anno imposta 2001, entro il 31/12/2005.

g) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dovendo essere dichiarato inammissibile l’appello principale con conseguente perdita di efficacia dell’appello incidentale tardivo.

Rilevava, in particolare come l’appello fosse stato proposto dall’Agenzia delle entrate che non aveva interesse processuale a proporre appello, mancando di legittimazione processuale, mentre la Serit Sicilia s.p.a. non ha proposto un proprio mezzo di gravame, ma si era costituita in segreteria con atto di controdeduzioni e non con appello incidentale tardivo che, tutt’al più, avrebbe potuto essere proposto solamente dalla Carieri s.p.a..

h) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della inesistenza o della nullità insanabile della notificazione della cartella;

i) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della nullità della cartella di pagamento per essere la relata di notifica apposta sul frontespizio anzichè in calce alla stessa.

Si sono costituite nel giudizio di legittimità con controricorso l’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.pA, quest’ultima formulando anche ricorso incidentale eccependo violazione di legge in ordine alla omessa motivazione delle spese processuali.

La Carieri s.p.a. presentava memoria.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 27/4/2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
Sono infondati i motivi del ricorso principale.

1) I primi tre motivi di ricorso concernenti, sotto diversi profili, la mancata sottoscrizione autografa della cartella impugnata, vanno trattati congiuntamente, stante la connessione logica.

Non era necessaria, anche con riferimento all’epoca di emanazione del provvedimento, la sottoscrizione della cartella da parte del legale rappresentante della Serit Sicilia s.p.a..

Gli atti tributari privi della sottoscrizione del dirigente responsabile sono sicuramente legittimi a partire dal 1 luglio 2009 D.L. n. 78 del 2009, ex art. 15, comma 7, che prevede: “la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione dalle norme che disciplinano le entrate tributarie erariali amministrate dalle Agenzie fiscali e dall’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto in tutti i casi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati.

Quindi, la firma autografa non è più essere necessaria e può sostituirsi con la mera indicazione del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto (es. il capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1).

Il D.L. n. 79 del 2009, art. 15, comma 7 specifica che “Con provvedimento dei Direttori della Agenzie fiscali e del Direttore generale dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato sono individuati gli atti di cui al comma 7”.

Peraltro anche in precedenza non era elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del legale rappresentante, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promanava, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge” (Corte Cost. 117/2000; cfr Cass. n 4923/2007; Cass. 29/10/2007 n. 22692).

Un primo provvedimento del Direttore dell’Agenzia fiscale risulta emanato in data 2.11.2010 e riguarda liquidazioni, accertamenti e riscossioni e prevede che anche la firma a stampa del funzionario responsabile può sostituire quella autografa per atti prodotti da sistemi informativi automatizzati per attività a carattere seriale, realizzandosi una economia di scala e maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse.

Anche in precedenza, tuttavia, si riteneva che non fosse elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del provvedimento, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promana, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge”. (Cass. 29.10.2007 n. 22692).

Solo nel caso in cui la mancanza di sottoscrizione dell’atto non consente di individuare l’Autorità da cui provenga il provvedimento, ne va pronunciata la nullità, circostanza non sussistente e neanche prospettata nella fattispecie.

2) Il quarto e quinto motivo di ricorso, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Con riferimento al mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario) va rilevato che in tema di riscossione delle imposte, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5, non impone l’obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis ma soltanto “qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”, situazione, quest’ultima, che non ricorre nel caso in cui nella dichiarazione vi sia un mero errore materiale, che è l’ipotesi tipica disciplinata dall’art. 36-bis citato, poichè in tal caso non v’è necessità di chiarire nulla e, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi, non avrebbe indicato quale presupposto di esso l’incertezza riguardante “aspetti rilevanti della dichiarazione”. (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7536 del 31/03/2011, Cass Sez. 5, Sentenza n. 795 del 14/01/2011).

Anche nella fattispecie in esame non vi era, quindi, una necessità di notificare una prodromica comunicazione contenente gli esiti della liquidazione in mancanza di incertezza sull’esito della stessa, non avendo, peraltro, la stessa società contribuente eccepito nulla in ordine alla debenza delle somme iscritte a ruolo.

3) In seguito alla declaratoria, con sentenza n. 280 del 25 luglio 2005, di illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, come modificato dal D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, il legislatore, con la L. 31 luglio 2005, n. 156, al dichiarato “fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione del crediti tributari”, ha aggiunto al D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1, (da essa convertito), tra altri, il comma 5 bis, con cui ha fissato i termini entro i quali deve essere effettuata, a espressa “pena di decadenza”, la “notifica delle … cartelle di pagamento” relative alla “pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni”.

E stato altresì introdotto (n. 2 della lett. b), all’enunciato “fine di conseguire … la necessaria uniformità dei sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto”, il comma 5 ter, con cui si è sostituito il D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36, comma 2, con il seguente:

“in deroga al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1, lett. a), per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento è notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre:

a) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003;

b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001″.

La fattispecie qui esaminata risponde ai canoni, in relazione ai quali la giurisprudenza di questa Corte precedentemente richiamata (cfr Cass. 16826/06, 20384/06, 4255/07, 14861/07, cit.) prevede l’assoggettamento, in via di applicazione retroattiva della norma, allo ius superveniens costituito dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 bis, (convertito in L. n. 156 del 2005, art. 1, comma 5 bis).

Quindi, con riferimento al termine di decadenza per la notifica, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, il D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1 convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156 – emanato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 di declaratoria di incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 -, che ha fissato, al comma 5- bis, i termini di decadenza per la notifica delle cartelle di pagamento relative alla pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni ed ha stabilito all’art. 5-ter, sostituendo il comma 2 del D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36 che per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento debba essere notificata, a pena di decadenza, per le dichiarazioni presentate negli anni 2000 e 2001 (come nel caso di specie) , rispettivamente entro il quinto e quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ha un inequivoco valore transitorio e trova applicazione non solo alle situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore, ma anche a quelle ancora non definite con sentenza passata in giudicato.

Pertanto i termini da osservare, ai fine di non incorrere nella decadenza, per la notifica della cartella di pagamento per le due diverse annualità d’imposta era, per entrambe, il 31/12/2006, termine rispettato essendo la notifica intervenuta, per la stessa ammissione della Carieri s.p.a. in data 10/5/2006.

4) Anche il motivo sub g) è infondato, anche se occorre correggere la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Essendo stato contestato anche il mancato invio dell’avviso bonario, l’Agenzia aveva interesse e quindi legittimazione processuale autonoma alla proposizione del gravame.

Pertanto l’Agenzia delle entrate era legittimata ad impugnare la sentenza, senza che potesse essere opposta la carenza di legittimazione passiva, per le motivazioni dianzi indicate.

La stessa Carieri s.p.a. ha citato in giudizio davanti alla Commissione tributaria provinciale sia l’Agenzia delle entrate che la Serit Italia e, in via generale, non può pretendere di avvantaggiarsi da un presunto errore dalla stessa compiuta, eccependo la carenza di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate dalla stessa evocata in giudizio.

La Commissione regionale ha erroneamente ritenuto, che l’atto “tempestivamente” proposto dalla Serit, ancorchè denominato “controricorso” fosse da qualificare quale appello incidentale tardivo.

La regola dell’art. 334 cod. proc. civ., che consente l’impugnazione incidentale tardiva (ammissibile nei confronti di qualsiasi capo della sentenza impugnata “ex adverso”) trova applicazione solo per l’impugnazione incidentale tardiva in senso stretto, rivolta contro la stessa parte che ha proposto l’impugnazione, e non opera per ogni altra impugnazione spiegata a tutela di un interesse autonomo della parte, non derivante dalla impugnazione della controparte. (Sez. L, Sentenza n. 10291 del 17/05/2005).

Quindi, nella specie, vanno esclusi i presupposti di ammissibilità dell’appello incidentale tardivo proposto dalla Serit Sicilia s.p.a.

rimasta soccombente nel giudizio di primo grado e non intimata nel ricorso principale del soccombente nei confronti di altra parte.

La partecipazione al giudizio di secondo grado della Serit Sicilia s.p.a. appare comunque legittima, potendosi alla stessa attribuire natura di intervento volontario, in forza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 il quale stabilisce che possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio solo i soggetti che, insieme al ricorrente, siano destinatari dell’atto impugnato o parti nel rapporto controverso che avrebbero potuto proporre autonoma impugnazione.

Inoltre l’intervento adesivo dipendente è stato ritenuto ammissibile nel processo tributario e anche in appello, posto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49 dispone che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo terzo, capo primo del libro secondo del c.p.c. escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto” (Cass. 12 gennaio 2012 n. 255) e, a maggior regione deve ritenersi ammissibile anche l’appello adesivo della Serit Sicilia che ha emanato la cartella impugnata.

5) Gli ultimi due motivi di ricorso costituiscono domande nuove, proposte per la prima volta in sede di legittimità, difettando anche dei requisiti dell’autosufficienza, trattandosi di considerazioni generiche, non pertinenti con l’oggetto del giudizio, essendo inidonee le circostanze di fatto evidenziate, mai contestate nei giudizi di merito, ad acclarare la pretesa nullità della notifica dell’atto o della cartella di pagamento.

6) Va accolto il ricorso incidentale della Serit Sicilia S.p.A..

L’intimata eccepisce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione alla compensazione delle spese, dato che, secondo la formulazione dell’art. 92 applicabile ratione temporis (essendo stato il giudizio instaurato dopo l’entrata in vigore della L. n. 263 del 2005), il giudice può compensare le spese tra le parti solo se vi è soccombenza reciproca o se ricorrono altri giusti motivi che devono essere esplicitamente indicati nella motivazione. Nel regime successivo a quello introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a) il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale.

Nella sentenza impugnata non vi è alcuna motivazione in ordine alle ragioni che hanno indotto la commissione alla compensazione delle spese del grado di appello e la cui regolamentazione può essere applicata da questa Corte, trattandosi di violazione di legge, ponendole a carico della Carieri s.p.a., in forza del principio di soccombenza, liquidate come in motivazione.

Anche le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della Carieri s.p.a. in forza del principio di soccombenza e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale della Serit Sicilia s.p.a. e, decidendo nel merito, liquida a favore della Serit Sicilia s.p.a. le spese del giudizio di appello che determina in complessive Euro 9.000,00, di cui Euro 7.000,00 per onorario e Euro 300,00 per spese, oltre accessori di legge. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida a favore della Agenzia delle Entrate in Euro 13.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito e a favore della Serit Sicilia s.p.a. in Euro 13.500,00 per onorari, oltre Euro 100,00 per spese, oltre accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 27 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012


Corte Suprema di Cassazione, civ., sez. VI, n. 13016 del 24.7.2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –
Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24233/2010 proposto da:

Omissis – Agente della Riscossione per le Province di Avellino, Benevento, Bologna, Campobasso, Caserta, Isernia, Napoli, Padova, Rovigo, Salerno e Venezia appartenente al Gruppo Omissis in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 1/A, presso lo studio dell’avvocato Omissis, rappresentata e difesa dall’avvocato  Omissis, giusta procura ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Omissis SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TORTONA 4, presso lo studio degli avvocati Omissis e Omissis, che la rappresentano e difendono, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 166/41/2009 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 26.6.09, depositata il 17/07/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/04/2012 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO VALITUTTI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RAFFAELE CENICCOLA.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte;

– rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“Con sentenza n. 166/41/09, la CTR della Campania rigettava l’appello proposto dall’Omissis s.p.a. avverso la decisione di prime cure, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla Omissis s.r.l. nei confronti della cartella di pagamento, emessa ai fini IRPEF per gli anni di imposta 2000 e 2001. Il giudice di appello riteneva, invero, affetta da nullità la notifica di tali atti, poiché effettuata in (OMISSIS), anziché al n. civico (OMISSIS), corrispondente alla residenza effettiva del legale rappresentante della società.

Avverso la suddetta decisione della CTR della Campania ha proposto ricorso per cassazione la Omissis s.p.a. articolando due motivi, con i quali deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 145 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

L’intimata ha replicato con controricorso.

I due motivi di ricorso – che, attesa la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – si palesano manifestamente fondati.

Ed invero, va osservato che la notificazione degli avvisi di accertamento tributario a soggetti diversi dalle persone fisiche non si sottrae alla regola generale, enunciata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti tributari al contribuente dev’essere fatta nel comune dove quest’ultimo ha il domicilio fiscale.

In riferimento alla notifica di atti alle società commerciali, il necessario coordinamento di tale disciplina con quella di cui all’art. 145 c.p.c., comporta, pertanto, che, in caso d’impossibilità di eseguire la notificazione presso la sede sociale, il criterio sussidiario della notificazione alla persona fisica che la rappresenta è applicabile soltanto se tale persona fisica, oltre ad essere identificata nell’atto, risiede nel comune in cui l’ente ha il suo domicilio fiscale, da individuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58 (Cass. 3618/06, 6325/08).

In caso contrario, non potrà che farsi ricorso al criterio di cui all’art. 60, lett. e) (affissione nell’albo del Comune del luogo un cui la società contribuente ha il domicilio fiscale), puntualmente seguito, nel caso, concreto, dall’amministrazione sia pure in concorso con il tentativo – non riuscito – di notifica presso il domicilio dell’amministratore della società.

Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1″;

– che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

– che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione. Pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, mentre vanno compensate le spese dei gradi di merito.

La Corte Suprema di Cassazione

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; condanna il resistente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.600,00, oltre alle spese generali e accessori di legge; dichiara compensate le spese dei gradi di merito.


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-05-2012) 20-06-2012, n. 10143

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente Sezione –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6269-2009 proposto da:

HAPIMAG ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 151, presso lo studio dell’avvocato ROSATI ANGELO, rappresentata e difesa dall’avvocato NORSCIA ANTONIO per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.T.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1342/2008 della CORTE D’APPELLO de L’AQUILA, depositata il 08/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2012 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

udito l’Avvocato ANTONIO NORSCIA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 15 luglio 2008 la società Hapimag Italia s.r.l. impugnava la sentenza del tribunale di Teramo del 10 – 17 dicembre 2007, che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a I.T., per mancata osservanza della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, sul presupposto che tale recesso si inserisse nell’ambito di un licenziamento collettivo.

Negava di essere soggetta alla disciplina sui licenziamenti collettivi, sia perchè svolgeva un’attività stagionale che, come tale, era esclusa, per espressa previsione della L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 4, da tale disciplina, sia perchè non aveva una consistenza occupazionale superiore a 15 dipendenti, comunque richiesta per l’applicabilità della legge stessa. Ribadiva poi l’esistenza del giustificato motivo oggettivo, giacchè la decisione di non tenere inoperosi lavoratori con contratto a tempo indeterminato per alcuni mesi l’anno e, quindi, di darsi un diverso assetto economico-produttivo, rientrava nel potere dell’imprenditore, insindacabile da parte del giudice.

Sosteneva, infine, di aver fatto richiesta al Centro per l’impiego e all’Agenzia delle entrate per conoscere i redditi dell’appellata dal 2005, e se la stessa si fosse iscritta alle liste di collocamento, riservandosi di produrre la relativa documentazione fino all’udienza.

Resisteva la I., contestando che l’attività svolta dall’appellante fosse stagionale, giacchè, anche dopo la richiesta della relativa licenza, nel 2004, essa aveva continuato a svolgere la propria attività per tutto l’anno solare e con lo stesso numero di dipendenti, mentre all’indomani del licenziamento di tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, aveva riassunto una dipendente sempre a tempo indeterminato. Rilevava che, ai fini della consistenza occupazionale, andavano computati anche i dipendenti con contratto a termine, che non fossero stati assunti per sopperire ad esigenze contingenti ed eccezionali. Quanto poi all’esistenza del giustificato motivo oggettivo, rinviava alla difesa spiegata sul punto in primo grado.

2. La corte d’appello dell’Aquila con sentenza del 18 settembre 2008 – 8 ottobre 2008 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese del grado. In particolare la corte d’appello riteneva che il licenziamento non potesse che qualificarsi come individuale, essendo stato intimato come tale dalla società datrice di lavoro. Riteneva inoltre che la trasformazione in stagionale dell’attività della società, che in precedenza si svolgeva nel corso di tutto l’anno, non costituiva giustificato motivo oggettivo dell’intimato licenziamento per mancanza di nesso di causalità con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. Non teneva conto delle deduzioni della società quanto al requisito numerico perchè fatte in riferimento alla prospettazione del licenziamento collettivo. Nulla poi la società aveva provato quanto all’aliunde perceptum.

3. Avverso questa pronuncia la società propone ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

L’intimata non ha svolto difesa alcuna.

4. La Sezione Lavoro di questa corte, con ordinanza interlocutoria del 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702, ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite ravvisando un contrasto di giurisprudenza in ordine all’interpretazione dell’art. 82 regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37.

In tale ordinanza la Sezione Lavoro pone in rilievo che la società Hapimag Italia s.p.a. ha notificato il ricorso per cassazione a I.T. presso il procuratore domiciliatario costituito in secondo grado, non presso il suo studio (secondo l’indicazione del domicilio data dalla parte nella procura alle liti), ma nella cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila. Trattandosi di procuratore esercente fuori della circoscrizione del tribunale cui era assegnato (il giudizio di appello si è svolto dinanzi alla Corte d’appello dell’Aquila, il procuratore domiciliatario era residente in Atri, circondario di Teramo), deve valutarsi se alla fattispecie trovi applicazione, o no, il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, per il quale il procuratore che esercita il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi in difetto che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

Ricorda l’ordinanza citata che fino ad epoca recente la giurisprudenza (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) ha ritenuto che tale elezione di domicilio ex lege assume rilievo tanto ai fini della notifica della sentenza per il decorso del termine breve per l’impugnazione, che per la notifica dell’atto di impugnazione, rimanendo di contro irrilevante l’indicazione della residenza o anche la elezione del domicilio fatta dalla parte stessa nella procura alle liti, senza che il principio incontri deroghe per il rito del lavoro (Cass., sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001). In prospettiva diversa si pone Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che, partendo da un’interpretazione letterale del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, ritiene che la disposizione da esso denunziata si applica al giudizio di primo grado (come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”) e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la ratio della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione.

5. Fissata la causa all’odierna udienza pubblica innanzi a queste Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. in cui sostiene la ritualità della notifica del ricorso per cassazione fatta presso la cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila essendo il difensore della parte intimata domiciliato ex lege presso la cancelleria di quella corte in quanto iscritto nell’albo professionale del tribunale di Teramo e quindi in una circoscrizione diversa da quella in cui aveva sede la corte d’appello.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3. In particolare contesta la ritenuta assenza di nesso causale tra la scelta per la riduzione dell’attività da annuale a stagionate ed il licenziamento intimato.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. e della L. n. 108 del 1990, art. 2. Sostiene la deducibilità di un giudicato esterno formatosi in altra controversia con altri due dipendenti licenziati nelle stesse circostanze. Il giudicato secondo la ricorrente concernerebbe la consistenza occupazionale inferiore a 15 dipendenti con conseguente applicabilità della cosiddetta tutela obbligatoria.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 108 del 1990, art. 1. La sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che il motivo d’appello sulla consistenza occupazionale riguardasse solo l’applicabilità della L. n. 223 del 1991 e non anche il licenziamento individuale.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora violazione della L. n. 108 del 1990, art. 1 con riferimento alla deducibilità dell’aliunde perceptum.

2. Preliminare all’esame del merito del ricorso è la verifica della sua ammissibilità in ragione della ritualità, o no, della sua notifica alla parte intimata presso il suo procuratore in appello, domiciliato ex lege presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila in applicazione dell’art. 82 cit.. Tale verifica implica l’esame della questione di diritto posta nella richiamata ordinanza interlocutoria della sezione lavoro (ord., 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702) e che ha ad oggetto l’interpretazione di tale disposizione; questione sulla quale si è radicato il denunciato contrasto di giurisprudenza della cui composizione sono state investite queste sezioni unite.

3. Il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 recante norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore – disposizione questa che, pur essendo risalente nel tempo, è rimasta immutata e tuttora vigente anche dopo l’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940 e delle varie leggi di riforma che si sono succedute nel tempo – prevede che gli avvocati – e, prima della soppressione dell’albo dei procuratori legali L. 24 febbraio 1997, n. 27, ex art. 3, i procuratori – i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati – devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. Ed aggiunge che, in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

L’onere di elezione di domicilio non esclude che comunque – come recita il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 4 – gli avvocati iscritti in un albo possano esercitare la professione davanti a tutte le Corti d’appello ed i Tribunali (nonchè, in passato, alle Preture) della Repubblica. Mentre davanti alla Corte di cassazione (ed altri organi giurisdizionali, quali in particolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti in sede giurisdizionale) il patrocinio può essere assunto soltanto dagli avvocati iscritti nell’apposito albo speciale.

L’art. 82 contiene quindi un duplice riferimento topografico: alla circoscrizione del tribunale e alla sede dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

3.1. Il primo riferimento si raccorda all’albo degli avvocati di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 17 tenuto dal consiglio dell’ordine degli avvocati presso ciascun tribunale, al quale sono iscritti, a domanda, gli avvocati per l’esercizio della professione forense e che presuppone che l’avvocato abbia la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata (art. 26, R.D.L. cit.); cfr. l’art. 31, R.D.L. cit. che prescrive che la domanda per l’iscrizione all’albo degli avvocati è rivolta al Consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori nella cui circoscrizione il richiedente ha la sua residenza. L’art. 10 r.d.l. cit. poi prescrive che l’avvocato debba risiedere nel capoluogo del circondario del Tribunale al quale è assegnato, ma il Presidente del Tribunale, sentito il parere del Consiglio dell’ordine, può autorizzarlo a risiedere in un’altra località del circondario, purchè egli abbia nel capoluogo un ufficio presso un altro procuratore.

L’iscrizione a tale albo deve costantemente sussistere per svolgere l’attività difensiva; la cancellazione dall’albo costituisce tipica sanzione disciplinare (art. 40 r.d.l. cit.).

Alla circoscrizione del tribunale fa riferimento anche il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, art. 6 (sull’esercizio della professione in uno Stato membro dell’UE) che prevede che per l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato, i cittadini degli Stati membri in possesso dei prescritti titoli, sono tenuti ad iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui hanno fissato stabilmente la loro residenza o il loro domicilio professionale. Gli avvocati possono chiedere il trasferimento dell’iscrizione all’albo di altra circoscrizione, anche di un diverso distretto, nella quale intendano fissare la propria residenza (L. 4 marzo 1991, n. 67, art. 6). La perimetrazione del circondario dei singoli tribunali è stata rivista dal D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l’istituzione del giudice unico di primo grado.

3.2. Il secondo riferimento topografico coincide con la sede – e quindi con il comune dove è ubicata la sede – dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

Quindi l’avvocato che è assegnato a una determinata circoscrizione del tribunale può esercitare innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria che ha sede in quella circoscrizione senza necessità di elezione di domicilio altrove. Ma se quest’ultima ha sede in una diversa circoscrizione, l’avvocato è onerato dell’elezione di domicilio nel luogo sede dell’autorità giudiziaria adita; altrimenti opera ex lege l’elezione di domicilio presso la cancelleria di quella autorità giudiziaria.

Il collegamento topografico posto dall’art. 82 comporta una vicinanza dell’avvocato alla sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio per essere quest’ultima interna al territorio della circoscrizione del tribunale dove è l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato. La finalità è quella di agevolare le comunicazioni e le notificazioni all’avvocato;

finalità questa che è maggiormente evidente se si pensa all’epoca in cui la norma è stata posta e al diverso contesto dei mezzi di comunicazione che la connotava a fronte del progresso tecnologico dell’epoca attuale. Basti considerare che recentemente il D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 48, lett. d), conv., con mod., dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito nel codice di rito l’art. 149- bis sulla notificazione a mezzo di posta elettronica. E prima ancora la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, aveva aggiunto un terzo comma nell’art. 136 c.p.c. che prevede la possibilità delle comunicazioni di cancelleria mediante telefax o posta elettronica.

Pur in questo diverso contesto di comunicazioni e notifiche effettuabili anche in via telematica, la finalità dell’art. 82 è rimasta quella originaria: l’avvocato, in quanto iscritto all’albo del tribunale nella cui circoscrizione ricade la sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio, deve essere “prossimo” a quest’ultima. In difetto di tale prossimità topografica, scatta un onere di elezione di domicilio che, ove disatteso, comporta la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria. La giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 9 marzo 1977, n. 976) ha sottolineato come l’art. 82 mira a rendere più agevoli e sollecite le comunicazioni e notificazioni degli atti processuali.

4. Questa esigenza di prossimità topografica si ritrova anche in altre disposizioni processuali.

L’art. 58 disp. att. c.p.c., con riferimento alla costituzione delle parti nel giudizio innanzi al giudice di pace, prevede che alla parte, che non ha fatto dichiarazione di residenza o elezione di domicilio a norma dell’art. 319 c.p.c., le notificazioni e le comunicazioni durante il procedimento possono essere fatte presso la cancelleria, salvo contrarie disposizioni di legge.

L’art. 366 c.p.c., prima della modifica introdotta dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), (di cui si dirà infra), prevedeva che, se il ricorrente non avesse eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sarebbero state fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.

L’art. 480 c.p.c., prescrive che il precetto deve inoltre contenere, tra l’altro, la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione ed in mancanza le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato e le notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice stesso. Analoghe disposizioni, nel codice di rito, sono contenute nella L. n. 689 del 1981, art. 492 (con riferimento al pignoramento), art. 638 (quanto al procedimento per ingiunzione), art. 660 (relativamente alle intimazioni di licenza o di sfratto) e art. 22 (in tema di opposizione all’ordinanza-ingiunzione prima della novella di cui al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34, comma 1, lett. b)).

Anche nel giudizio amministrativo c’è analogo onere processuale.

L’art. 25 cod. proc. amm. (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, come sostituito dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195, art. 11, lett. e)) prevede che la parte, se non elegge domicilio nel comune sede del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata dove pende il ricorso, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata; e nei giudizi davanti al Consiglio di Stato, la parte, se non elegge domicilio in Roma, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del Consiglio di Stato.

5. Il disposto dell’art. 82 cit. comporta quindi, per l’avvocato che difende in un giudizio innanzi ad un’autorità giudiziaria con sede in una circoscrizione diversa da quella del tribunale presso il quale è l’albo dove egli è iscritto, un onere di elezione di domicilio al fine di assicurare la “prossimità” dell’avvocato per ogni comunicazione o notifica.

La conseguenza del mancato rispetto di tale onere, che ha una connotazione quasi sanzionatoria in senso lato, è l’elezione di domicilio ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria suddetta; ciò che significa in concreto una marcata difficoltà per l’avvocato di avere notizia di comunicazioni e notificazioni fattegli presso la cancelleria, anche se, fin da epoca risalente (Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919), si è precisato che comunque vi è, non già un obbligo, ma solo una facoltà per il notificante di effettuare la notifica presso la cancelleria (cfr. anche Cass., sez. lav., 22 novembre 1995, n. 12064; sez. 2, 4 maggio 2005, n. 9225). Ma se il notificante si avvale di tale facoltà, la notifica è rituale.

Si è quindi dubitato della proporzionalità (e quindi della ragionevolezza: art. 3 Cost., comma 1) di una così radicale conseguenza dell’inosservanza di un onere processuale, nonchè della sua compatibilità con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e, più recentemente, con il canone del giusto processo (art. 111 Cost., comma 1); e la questione è stata più volte portata con incidente di costituzionalità innanzi alla Corte costituzionale.

La quale, dopo aver ritenuto ragioni di inammissibilità della questione, preclusive dell’esame del merito (ord. n. 455 del 1999 e n. 13 del 2006), con una successiva ordinanza (ord. n. 5 del 2007) ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 82 cit., in combinato disposto con l’art. 330 c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.. Ha affermato la Corte che la prescrizione dell’onere di indicazione della residenza o dell’elezione di domicilio nel Comune sede del giudice adito, con i sacrifici che ad essa si correlano, esprime una scelta ragionevole e quindi non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione; mentre tale mancata elezione di domicilio non impedisce nè rende particolarmente gravoso il diritto di difesa, in quanto il difensore ben può con l’ordinaria diligenza informarsi presso il cancelliere, ritirare l’atto e provvedere così alla sua difesa, in quanto detta forma di notificazione, fra l’altro, consegue al mancato adempimento dell’onere imposto al difensore dalle norme impugnate e quindi è a lui imputabile. La Corte ha poi evidenziato che l’operatività della domiciliazione nella cancelleria deriva da una scelta volontaria del difensore, il quale, pur essendo consapevole di esercitare fuori dal circondario in cui è iscritto, ha omesso l’elezione di domicilio; ed ha aggiunto che la parte ha comunque il diritto di chiedere al proprio difensore il risarcimento integrale dei danni patiti, in ragione dell’agire non diligente di quest’ultimo, che non sia venuto a conoscenza del processo di appello e che non abbia conseguentemente apprestato una difesa.

In precedenza la Corte (ord. n. 62 del 1985) aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480 c.p.c., comma 3, nella parte in cui dispone che, ove il precetto non contenga la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante, le notificazioni si eseguono presso la cancelleria del giudice stesso ed il cancelliere non è tenuto a darne notizia alla parte interessata. Parimenti la Corte (ord. n. 231 del 2002) aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, che prevedeva analogo onere di elezione di domicilio, atteso che tale prescrizione “risulta ragionevole e non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione” (conf. ord. n. 391 del 2007); disposizione questa che però è stata successivamente dichiarata incostituzionale, nel suo quarto e quinto comma, dalla stessa Corte (sent. n. 365 del 2010) proprio in ragione del mutato contesto normativo con la previsione di nuove modalità (e tecniche) di notifica (per questo profilo v. infra).

6. La questione di costituzionalità, di cui si è appena detto, è stata sollevata e decisa nel contesto e sul presupposto dell’interpretazione corrente dell’art. 82 cit..

6.1. La giurisprudenza di questa Corte da una parte, fin da epoca risalente, ha innanzi tutto affermato la permanente vigenza della disposizione anche dopo l’introduzione del nuovo codice di procedura civile del 1940; cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 31 luglio 1954, n. n. 2823, che, interpretando il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, posto in relazione agli artt. 285 e 170 c.p.c., ha affermato che, nella ipotesi in cui il procuratore legalmente esercente ometta di eleggere domicilio nel luogo ove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale è in corso il processo se fuori della circoscrizione del tribunale cui egli è assegnato, devono ritenersi pienamente valide le notificazioni eseguite presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria medesima. Ed ha precisato che l’art. 82 non può ritenersi tacitamente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito (e segnatamente dell’art. 170 c.p.c.), nè delle norme che disciplinano l’iscrizione nell’albo dei procuratori. Conf.

Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919, che ha ribadito la perdurante vigenza dell’art. 82 dato che l’art. 170 c.p.c. – a cui rinvia l’art. 285 c.p.c. per la notificazione della sentenza agli effetti della decorrenza del termine per l’impugnazione – si limita ad indicare soltanto la persona nei cui confronti la notifica deve essere effettuata, senza determinare anche il luogo in cui la notifica deve essere eseguita. Conf. Cass., sez. 2, 23 maggio 1975, n. 2053; sez. 2, 5 agosto 1976, n. 3018.

6.2. D’altra parte la giurisprudenza di questa Corte ha accolto un’interpretazione letterale, come palesata dalla chiara lettera della disposizione: gli avvocati esercenti il proprio ufficio fuori della circoscrizione del tribunale dove, tenuto dal locale consiglio dell’ordine degli avvocati, è l’albo al quale essi sono iscritti, hanno l’onere di domiciliarsi nel comune dove ha sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale svolgono la loro attività difensiva ove tale comune non sia ricompreso nella circoscrizione suddetta. Il riferimento generico all’autorità giudiziaria comprende ogni giudice, sia quello di primo grado che quello dell’impugnazione. Per il giudizio di cassazione l’art. 82 non opera sol perchè l’onere di elezione di domicilio è previsto specificamente dall’art. 366 c.p.c.; ma la disciplina è analoga (salvo quanto si dirà oltre):

l’avvocato, iscritto all’albo speciale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 33, è anch’egli tenuto ad eleggere domicilio nel comune di Roma.

Il riferimento al tribunale, contenuto nell’art. 82, vale ad individuare, non già l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, bensì l’albo professionale al quale l’avvocato è iscritto. L’assegnazione dell’avvocato al tribunale significa null’altro che iscrizione nell’albo professionale tenuto da ciascun ordine circondariale degli avvocati presso ogni tribunale che ha quindi come riferimento territoriale la circoscrizione del tribunale stesso (v. R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 14 che prevede che per ogni Tribunale civile e penale sono costituiti un albo di avvocati e, in passato, un albo di procuratori).

Invece ampio – e nient’affatto limitato al tribunale – è il riferimento all’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso”, sicchè, in disparte le disposizioni speciali quali quelle dettate per il giudizio civile di cassazione dall’art. 366 c.p.p. e ora per il giudizio amministrativo dall’art. 25 cod. proc. amm., la disposizione riguarda anche i giudizi proposti in sede di impugnazione e segnatamente quelli instaurati innanzi alle corti d’appello.

Del resto mentre esistono gli ordini circondariali che provvedono alla tenuta degli albi degli avvocati presso ciascun tribunale, non esiste un albo distrettuale costituito dall’insieme degli albi del circondario compresi nel distretto. Nè l’art. 82 fa in alcun modo riferimento all’insieme degli albi dei circondario compresi nel distretto sia perchè manca un dato testuale da cui ciò possa desumersi, sia perchè quando la legge professionale ha inteso assegnare rilevanza al livello distrettuale, pur in mancanza di un albo distrettuale, lo ha fatto espressamente. L’art. 5 prevedeva, prima della soppressione dell’albo dei procuratori, che i procuratori legali potevano esercitare la professione davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui era compreso l’ordine circondariale presso il quale erano iscritti. Analoga disposizione è tuttora prevista dall’art. 8 per i praticanti procuratori.

Ma nell’art. 82 il livello distrettuale non viene in rilievo.

6.3. Questa giurisprudenza ha trovato ripetute conferme: cfr. Cass., sez. lav., 26 ottobre 1987, n. 7899; sez. 1, 3 aprile 1992, n. 4081;

sez. 1, 17 febbraio 1995, n. 1736. Inoltre in senso conforme: Cass., sez. 2, 23 dicembre 1999, n. 14476; sez. 1, 23 febbraio 2000, n. 2059; sez. 3, 28 luglio 2004, n. 14254; sez. 2, 25 febbraio 2008, n. 4812; sez. 2, 11 marzo 2008, n. 6502; sez. lav., 20 giugno 2008, n. 17005; sez. lav., 23 febbraio 2009, n. 27166; nonchè sia pur solo implicitamente, anche Cass., sez. 2, 11 aprile 2002, n. 5185; sez. 1, 26 ottobre 2007, n. 22542; sez. 3, 7 aprile 2009, n. 8377.

In particolare Cass., sez. 3, 25 maggio 1977, n. 2170, ha poi precisato che la disposizione dell’art. 82 deve essere interpretata nel senso che il luogo di elezione del domicilio deve trovarsi nel comune ove siede l’autorità giudiziaria e non già in un comune diverso, sia pure sito nello stesso circondario; se si verifica quest’ultima ipotesi, il domicilio si intende eletto ex lege nella cancelleria del giudice procedente.

Con riferimento specifico al giudizio d’appello questa Corte (Cass., sez. 2, 15 maggio 1996, n. 4502) ha affermato che il R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – secondo cui il procuratore che si trovi ad esercitare il proprio ufficio in giudizio istituito dinanzi ad un’autorità giudiziaria avente la sede fuori dalla circoscrizione del tribunale al quale è assegnato deve, al momento della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede detta autorità e mantenervelo per tutto il corso del processo e, in caso di mancato adempimento di tale onere, il suo domicilio si intende eletto presso la cancelleria del giudice adito – trova applicazione anche nei giudizi innanzi alle corti di appello, in quanto si riferisce all’attività svolta dal procuratore innanzi a qualsiasi giudice avente sede in luogo non compreso nella circoscrizione del tribunale al quale egli è assegnato, ed opera, altresì, nel caso in cui, in un giudizio pendente innanzi alla corte di appello, a seguito dell’istituzione di un nuovo tribunale (nella specie, quello di Nola operante in forza della L. n. 125 del 1992), il procuratore risulti iscritto all’ordine professionale costituito presso il nuovo tribunale e privo, nella città sede della corte di appello (nell’ipotesi, Napoli), di un domicilio eletto diverso da quello presunto ex art. 82 R.D. cit.; con la conseguenza che, nell’indicata ipotesi, le comunicazioni al predetto procuratore devono ritenersi validamente e ritualmente effettuate presso la cancelleria della corte medesima.

In senso conforme cfr. anche Cass., sez. 6 – 2, 5 maggio 2011, n, 9924; sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001; sez. 3, 19 giugno 2009, n. 14360; sez. 1, 9 maggio, 2002, n. 6692.

Può infine ricordarsi che queste stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) hanno affermato che ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – tuttora vigente e non abrogato neanche per implicito dalla L. n. 27 del 1997, artt. 1 e 6 – il procuratore che eserciti il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi, in difetto, che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

7. Questo orientamento tradizionale e più volte ripetuto è stato recentemente disatteso da Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che all’opposto ha affermato che il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 – secondo cui i procuratori che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge “fuori della circoscrizione del tribunale” al quale sono assegnati devono, all’atto della costituzione in giudizio, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso e, in mancanza dell’elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la rado della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione; ne consegue che, ove il procuratore sia esercente all’interno del distretto, la notifica della sentenza di primo grado effettuata presso la cancelleria della corte d’appello è inidonea a far decorrere il termine breve di sessanta giorni per l’impugnazione. Successivamente Cass., sez. 2, 12 maggio 2010, n. 11486, ha ritenuto di dover aderire a questo nuovo orientamento limitandosi a ribadire che il richiamato art. 82 si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”, e trova applicazione al giudizio di appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori dal distretto (conf. da ultimo, Cass., sez. 3, 20 settembre 2011, n. 19125).

8. Il contrasto di giurisprudenza, denunciato dalla Sezione Lavoro con la citata ordinanza di rimessione della questione a queste Sezioni Unite, va risolto ribadendo l’orientamento tradizionale di cui si è finora detto.

L’interpretazione accolta da Cass. n. 13587/2009, che in realtà non costituisce un vero e proprio revirement perchè non si pone in critico confronto con l’opposto orientamento fino ad allora seguito dalla giurisprudenza di questa Corte, offre una lettura dell’art. 82 che contrasta con la sua lettera. Afferma infatti che “la disposizione, facendo riferimento alla “circoscrizione del tribunale” si riferisce evidentemente al giudizio di primo grado.”.

Ma, in disparte il rilievo che il tribunale può essere anche giudice di secondo grado atteso che l’appello nei confronti delle sentenze del giudice di pace è deciso dal tribunale (art. 341 c.p.c.), il riferimento topografico alla “circoscrizione del tribunale” – come già sopra rilevato – vale ad identificare non già l’autorità innanzi alla quale è in corso il giudizio, bensì l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato, albo che è tenuto su base della circoscrizione di ciascun tribunale e non già del distretto della corte d’appello.

Invece per identificare il giudice innanzi al quale è in corso il giudizio l’art. 82 utilizza un termine assai ampio (autorità giudiziaria) che comprende sia il tribunale che la corte d’appello;

ed in tanto non opera per la corte di cassazione perchè è previsto un albo speciale ed una disposizione specifica (art. 366 c.p.c.).

Non può quindi dirsi che l’art. 82 sia stato dettato solo per il giudizio di primo grado.

Inoltre l’orientamento qui disatteso, se da una parte trae dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” una limitazione dell’operatività della regola processuale dettata dall’art. 82, confinandola al solo giudizio di primo grado, d’altra parte però non si limita a negarne l’applicazione al giudizio d’appello, ma per quest’ultimo individua un precetto similare affermando che l’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 sussiste nel caso in cui l’avvocato non sia iscritto in nessun albo professionale di alcuna delle circoscrizioni che compongono il distretto della corte d’appello. Ossia l’art. 82 conterrebbe anche l’ulteriore regola per cui il procuratore iscritto in un distretto di corte d’appello diverso da quello dove ha sede la corte d’appello innanzi alla quale si svolge il giudizio d’appello deve eleggere domicilio nel luogo dove ha sede la corte d’appello presso la quale il giudizio è in corso. Ciò però non è affatto detto dall’art. 82 che non considera l’ipotesi del procuratore che esercita fuori distretto (della corte d’appello), ma solo quella del procuratore che esercita fuori circoscrizione (del tribunale). Per predicare la diversa regola processuale ritenuta dall’orientamento qui disatteso non vi è alcun aggancio testuale nell’art. 82 che, al fine dell’onere di elezione di domicilio, non contiene alcun riferimento al distretto; rilievo che appare insuperabile, tanto più che – come già notato – quando la legge professionale ha ritenuto rilevante la dimensione distrettuale, espressamente l’ha prevista (R.D.L. n. 1578 del 1933, artt. 5 e 8).

Va quindi confermato l’orientamento in precedenza più volte affermato da questa corte, e sopra illustrato, alla stregua del quale deve ritenersi, nella specie, che il ricorso per cassazione sia stato correttamente notificato presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila giacchè il procuratore costituito dalla parte appellata ed attualmente intimata era assegnato alla circoscrizione del tribunale di Teramo nel cui territorio non ricadeva la sede della corte d’appello dell’Aquila. Quindi, ai sensi dell’art. 82 come sopra interpretato, tale procuratore aveva, nel giudizio d’appello, l’onere di eleggere domicilio nella sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale si procedeva (L’Aquila). Non avendo ottemperato a tale onere, le notifiche potevano ritualmente essergli fatte presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila; così anche la notifica del ricorso per cassazione.

9. Deve però aggiungersi che l’indirizzo giurisprudenziale, qui disatteso con conferma di quello tradizionale, esprime comunque un comprensibile disagio nel continuare a fare applicazione di una norma processuale “datata”, perchè risalente negli anni, negli stessi termini in cui per lungo tempo è stata interpretata.

Le regole del processo civile però hanno carattere strumentale della tutela dei diritti e la loro interpretazione, rispetto all’evoluzione di questi (ossia delle situazioni sostanziali), è tendenzialmente stabile sicchè la fedeltà ai precedenti (stare decisis), in cui si esprime la funzione nomofilattica di questa Corte, ha una valenza maggiore, così come è in linea di massima giustificato (e tutelabile) l’affidamento che le parti fanno nella stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle regole del processo.

In proposito da una parte queste Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864) hanno elaborato una sorta di principio di precauzione, affermando che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l’interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell’ambiente processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono e consentano, pertanto, l’adozione dell’esegesi da ultimo formatasi.

D’altra parte, da ultimo, si è dato ingresso ad un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo, avendo queste sezioni unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144) ritenuto che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, ove tale “overruling” si connoti del carattere dell’imprevedibilità, si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante “ex post” non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’”overruling” nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo. Si tratta di una limitata applicazione della dottrina del c.d.

prospettive overruling: l’atto processuale compiuto al tempo della precedente giurisprudenza non è travolto da decadenza (o preclusione) sulla base di una nuova giurisprudenza, se connotata da imprevedibilità, la quale, sotto questo limitato aspetto, opera, in un certo senso, solo per il futuro.

Dopo quest’ultimo arresto giurisprudenziale risulta evidenziata la simmetria del profilo diacronico nel parallelismo tra controllo di costituzionalità e sindacato di legittimità.

Da una parte è possibile che una disposizione, oggetto di censura, sia inizialmente legittima e solo nel tempo divenga costituzionalmente illegittima per il mutamento del contesto normativo. La giurisprudenza costituzionale ha infatti elaborato la categoria dell’incostituzionalità sopravvenuta talchè, ricorrendo tale evenienza, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale a partire da una certa data (cfr. da ultimo sent. n. 1 del 2012).

D’altra parte, sul piano del sindacato di legittimità, in particolare di questa Corte, è possibile non di meno ipotizzare che l’interpretazione di una disposizione muti nel tempo in ragione del diverso contesto normativo in cui si innesta e che quindi ci sia parimenti una modulazione diacronica del suo significato precettivo senza che ciò smentisca la natura meramente dichiarativa dell’interpretazione della legge fatta dalla giurisprudenza.

E’ questo il caso dell’art. 82 cit..

10. Deve infatti considerarsi che il quadro normativo in cui va letto l’art. 82 ha subito di recente una significativa evoluzione che rifluisce anche sull’interpretazione della disposizione stessa.

Dapprima il D.L. 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito in L. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito un nuovo articolo – il 149-bis – nella sezione 4 “Delle comunicazioni e delle notificazioni” del libro 1 del codice di procedura civile; articolo, intitolato “Notificazione a mezzo posta elettronica”, che prevede, al comma 1, che, se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo.

Più recentemente il novellato art. 125 c.p.c., nel disciplinare il contenuto e sottoscrizione degli atti di parte, prescrive in generale che il difensore deve indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine. Il periodo “Il difensore deve, altresì, indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax” è stato aggiunto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, lett. a), conv., con mod., dalla L. 14 settembre 2011, n. 148. Successivamente le parole “l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state così sostituite a quelle “il proprio indirizzo di posta elettronica certificata” dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. a). Per espressa previsione dell’art. 25, comma 5, L. cit.: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge” (id est: 1 febbraio 2012 considerato che la legge è entrata in vigore il 1 gennaio 2012: art. 36). Tale prescrizione ha carattere generale e riguarda sia il giudizio di primo grado che quello d’appello. Quanto poi al giudizio di cassazione è stato parallelamente novellato anche l’art. 366 c.p.c. che ora prevede che se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione. Le parole “ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state inserite dalla L. n. 183 del 2011 cit., art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), operante anch’esso decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa. Quindi ora l’avvocato che difende davanti alla Corte di cassazione devesi eleggere domicilio in Roma; ma ha un’alternativa: può indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

Il progressivo mutamento del contesto normativo è poi alla base della sentenza n. 365 del 2010 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 22, commi 4 e 5, “nella parte in cui non prevede, a richiesta dell’opponente, che abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria”. La L. n. 689 del 1981, art. 22, disposizione ora abrogata, prevedeva che se, nell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, mancava la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente venivano eseguite mediante deposito in cancelleria.

Analoghe censure di costituzionalità in passato erano state ritenute manifestamente infondate (ord. n. 231 del 2002). Nuovamente investita, la Corte ha tenuto conto proprio del mutato contesto normativo in cui si inseriva l’onere di elezione di domicilio previsto dalla disposizione censurata osservando infatti che, in considerazione dei mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi di comunicazione, il legislatore aveva modificato il quadro normativo riguardante le notificazioni. Ha quindi affermato: “Le recenti modifiche del quadro normativo mostrano un favor del legislatore per modalità semplificate di notificazione, divenute possibili grazie alla diffusione delle comunicazioni elettroniche. Sia lo sviluppo tecnologico e la crescente diffusione di nuove forme di comunicazione, sia l’evoluzione del quadro legislativo, hanno reso irragionevole l’effetto discriminatorio determinato dalla normativa censurata, che contempla il deposito presso la cancelleria quale unico modo per effettuare notificazioni all’opponente che non abbia dichiarato residenza o eletto domicilio nel comune sede del giudice adito nè abbia indicato un suo procuratore. La L. n. 689 del 1981, art. 22, commi 4 e 5, pertanto, viola gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, a richiesta del ricorrente, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria”.

Marginalmente può ricordarsi che la stessa Corte, esercitando il suo potere regolamentare, ha novellato la disposizione che prevedeva per le parti l’onere di elezione di domicilio in Roma (in simmetria con l’art. 366 c.p.c.), lasciando solo l’onere di eleggere domicilio tout court (art. 3, Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

Ed allora – una volta che è divenuto operante in particolare il nuovo art. 125 c.p.c. con la previsione dell’obbligo del difensore di indicare negli atti di parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto) il proprio indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, ciò che consente una modalità semplificata di notificazione (art. 149 bis c.p.c.), talchè l’art. 366 c.p.c., che prescriveva analogo specifico onere di elezione di domicilio per il giudizio di cassazione, ha previsto l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata come modalità alternativa alla domiciliazione – anche l’interpretazione dell’art. 82 cit., in chiave di prospective overrulling (ossia a partire dalla data suddetta – 1 febbraio 2012 – sicchè non rileva ratione temporis nel caso di specie), va riadattata a questo mutato contesto normativo.

Si è infatti venuta a determinare una irragionevolezza intrinseca (giacchè l’introduzione di una modalità di notificazione estremamente agevole, quale quella a mezzo di posta elettronica certificata, viene a soddisfare ex se l’esigenza di semplificazione e rapidità di comunicazioni e notificazioni, quale sottesa all’art. 82, non giustificandosi più, in tal caso, la domiciliazione ex lege in cancelleria), nonchè un’ingiustificata differenziazione (perchè per il giudizio di cassazione l’indicazione in ricorso dell’indirizzo di posta elettronica certificata già esclude la domiciliazione ex lege in cancelleria, mentre nel giudizio d’appello è espressamente previsto ex art. 125 solo l’obbligo di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata). In questo così modificato contesto normativo – che ha già visto un sostanziale overruling anche della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 365 dei 2010, cit., rispetto alle ord. n. 231 del 2002 e n. 391 del 2007, cit.) con l’introduzione, con pronuncia additiva, di modalità alternative all’elezione di domicilio in caso di opposizione ad ordinanza ingiunzione – sarebbe di assai dubbia ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 1) e compatibilità con la garanzia della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) far derivare dalla mancata elezione di domicilio di cui all’art. 82 l’effetto della domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio anche nel caso in cui il difensore abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine; ciò che parimenti soddisfa l’esigenza sottesa all’art. 82 di semplificazione del procedimento di notificazione e comunicazione degli atti.

Occorre allora accedere all’interpretazione adeguatrice affermando che, in simmetria con l’art. 366 c.p.c. e coerentemente alla nuova formulazione dell’art. 125 c.p.c., anche ai sensi dell’art. 82 cit.

all’onere dell’elezione di domicilio si affianca – a partire dall’entrata in vigore delle recenti modifiche delle disposizioni appena citate – la possibilità di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (che, rispetto alla notifica in cancelleria, è più spedita ed offre una garanzia molto maggiore per l’avvocato destinatario della notifica). L’esigenza di coerenza sistematica e di interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, a partire dalla data suddetta, l’art. 82 cit. debba essere interpretato nel senso che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

11. Quindi conclusivamente – nel comporre il denunciato contrasto di giurisprudenza – può enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Il R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – che prevede che gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, e che in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori dalla circoscrizione cui l’avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo ordine professionale del circondario e quindi anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto ad un ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d’appello, ancorchè appartenente allo stesso distretto della medesima corte d’appello. Tuttavia, dopo l’entrata in vigore delle modifiche degli artt. 366 e 125 c.p.c., apportate rispettivamente dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), e dallo stesso art. 25, comma 1, lett. a), quest’ultimo modificativo a sua volta del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, lett. a), conv. in L. 14 settembre 2011, n. 148, e nel mutato contesto normativo che prevede ora in generale l’obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, si ha che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine”.

12. Verificata l’ammissibilità del ricorso per essere rituale e tempestiva la sua notifica alla parte intimata presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila, deve passarsi all’esame delle censure che esso muove alla sentenza impugnata.

Il ricorso – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

13. Con valutazione di merito sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria la corte d’appello ha escluso, al fine della valutazione della legittimità dell’Intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il nesso di causalità tra l’avvenuta trasformazione in stagionale dell’attività della società e il recesso dal rapporto.

In particolare, mentre il giudice di primo grado aveva ritenuto la illegittimità del licenziamento argomentando che non era stata adottata la procedura sui licenziamenti collettivi, ricorrendone i presupposti, essendo stati licenziati 11 lavoratori, compresa l’odierna intimata, nell’arco di 120 giorni ed avendo la società una consistenza occupazionale maggiore di 15 dipendenti, la corte d’appello, dopo aver verificato che il licenziamento era stato in realtà intimato alla lavoratrice per giustificato motivo oggettivo e che quindi si trattava di un licenziamento individuale e non già collettivo, ha comunque confermato la valutazione di illegittimità del recesso ritenendo insussistente il giustificato motivo oggettivo allegato dalla società.

La quale, essendosi determinata, nell’esercizio della sua libertà di impresa, a ridimensionare la sua attività (di gestione di villaggi turistici) trasformandola da annuale in stagionale, non era certo tenuta a conservare a tempo pieno tutto il suo personale anche per i mesi dell’anno in cui l’attività era sospesa. Correttamente la corte d’appello ha ritenuto che tale scelta di un diverso assetto economico- produttivo rientrasse nel potere discrezionale dell’imprenditore, non sindacabile in sede giudiziale. Tuttavia tale scelta doveva raccordarsi in concreto con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. In proposito più volte questa corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 22 agosto 2007, n. 17887) ha affermato che il licenziamento per motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva è scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicchè essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità. Nel caso di specie – ha ritenuto la corte d’appello con valutazione squisitamente di merito – la ragione fornita dalla società per giustificare il licenziamento era in realtà pretestuosa, perchè la circostanza della trasformazione da annuale in stagionale dell’attività d’impresa non giustificava la risoluzione del rapporto con i lavoratori licenziati, giacchè non solo la società aveva continuato ad utilizzare tutti i lavoratori anche dopo la variazione di attività (la licenza per l’attività stagionale è dell’ottobre 2004, mentre i licenziamenti sono del novembre 2005), ma inoltre, sia pure in un arco di tempo più limitato, la sua attività continuava a svolgersi, per cui la predetta trasformazione avrebbe giustificato l’offerta di una conseguente trasformazione dei rapporti di lavoro in part-time verticale in concomitanza con la delimitazione temporale dell’attività. Ossia – stante il c.d. obbligo di repechage più volte predicato dalla giurisprudenza di questa corte in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro (ex plurimis, Cass., sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7046) – la riduzione dell’attività da annuale a stagionale avrebbe giustificato la corrispondente riduzione del tempo di lavoro, anch’esso da annuale a stagionale.

Corretta quindi (nel senso di non contraddittoria) è l’inferenza deduttiva della corte d’appello che ha ritenuto non sussistere il nesso causale tra la trasformazione dell’attività della società da annuale in stagionale ed il licenziamento di tutti i lavoratori a tempo indeterminato senza che agli stessi venisse offerta, secondo correttezza e buona fede, una diversa modalità d’impiego e segnatamente la trasformazione in lavoro stagionale o part-time verticale.

Il licenziamento pertanto è stato dichiarato illegittimo non perchè la corte d’appello abbia ritenuto censurabile la scelta imprenditoriale, sotto il profilo della congruità ed opportunità, di svolgere un’attività stagionale, scelta che rientrava senz’altro nella discrezionalità della società, ma perchè quella corte, con valutazione di merito ad essa devoluta, ha ritenuto che non vi fosse nesso causale tra la scelta stessa ed il licenziamento della lavoratrice.

14. Parimenti rientra nella valutazione di merito della corte d’appello la ritenuta applicazione del regime di tutela c.d. reale della disciplina limitativa di licenziamenti individuali in ragione della sussistenza del requisito occupazionale (nella specie, occupazione di più di 15 dipendenti); valutazione di fatto peraltro confermativa di quella del giudice di primo grado che, seppur al diverso fine dell’applicabilità del regime di licenziamenti collettivi, parimenti aveva ritenuto sussistere tale requisito occupazionale. Mentre non rileva il giudicato formatosi inter alios in parallele, ma distinte, controversie tra la società ed altri lavoratori anch’essi licenziati nello stesso torno di tempo.

Giova solo ribadire che questa corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 13 marzo 2008, n. 6754) ha più volte affermato che al fine dell’operatività della disciplina riguardante il regime di stabilità reale, il requisito dimensionale dell’impresa in rapporto al numero dei dipendenti occupati, stabilito dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1, deve tenere conto dei lavoratori a tempo parziale in proporzione della sola quota di orario effettivamente svolto e tale modalità di calcolo va applicata, per non incorrere in irragionevoli e quindi costituzionalmente illegittime disparità di trattamento, anche in riferimento a periodi precedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6, che una siffatta regola ha esplicitato. Cfr.

anche Cass., sez. lav., 10 2 febbraio 2004, n. 2546, che, con riferimento proprio alla variabilità del livello occupazionale strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al part-time verticale, ha precisato che il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è quello riferito all’anno. Sicchè, con questa puntualizzazione, devono ritenersi computabili anche i lavoratori a termine o con part-time verticale.

15. Nulla ha provato la società quanto all’aliunde perceptum da conteggiare eventualmente in detrazione rispetto alle spettanze della lavoratrice illegittimamente licenziata.

Va ribadito (Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5532) che il risarcimento dei danni spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, parametrato economicamente dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 alla misura delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito qualora non fosse stato illegittimamente licenziato, può essere diminuito solo se il datore di lavoro assolve all’onere di provare che il lavoratore ha goduto, nel periodo dell’illegittimo licenziamento, di altra retribuzione in una diversa occupazione, che faccia diminuire l’ammontare dei danni subiti a causa del licenziamento (aliunde perceptum).

16. Il ricorso quindi è nel suo complesso infondato.

In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; nulla sulle spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2012