Corte Suprema di Cassazione. civ. Sez. lavoro, Sentenza, 07-02-2014, n. 2837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24426-2010 proposto da:

D.C. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati QUATTROMINI GIULIANA e QUATTROMINI PAOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNILEVER ITALIA S.R.L. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

UNILEVER ITALIA MANUFACTORING S.R.L., già SAGIT S.R.L., incorporata nella UNILEVER ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TUPINI 133, presso lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GOMEZ D’AYALA GIULIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.C. C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 4667/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/06/2010 r.g.n. 1375/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto di entrambi in subordine alle S.U..

Svolgimento del processo
D.C. ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze della società SAGIT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligato ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda, e a presentarsi al lavoro 15/20 minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso.

Tali operazioni si ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti indossati.

Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze retributive dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per lavoro ordinario.

Costituitosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.l., (già SAGIT s.r.l.) Il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda. Con la sentenza oggi impugnata la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di Euro 4.910,90 oltre accessori.

Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, considerandone il carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva essere ravvisata, sul piano della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle organizzazioni sindacali sul problema del “tempo tuta”, nè da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.

La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto collettivo applicabile.

Rilevato che la pretesa azionata si riferiva al periodo dal 1996 al 2004, ha accolto l’eccezione di parziale prescrizione (quinquennale) sollevata da parte convenuta, tenuto conto della interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in mora ricevuta il 28 maggio 2003. Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata anteriormente (in data 28 giugno 1999) alla Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava inoltrata alla società datrice di lavoro.

Avverso questa sentenza D.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La società Unilever Italia Manufacturing s.r.l. resiste con controricorso e ricorso incidentale con quattro motivi.

Parte ricorrente principale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

1.2 Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. la società Unilever Italia Manufacturing s.r.l., premesso che in data 25 gennaio 2002 le parti avevano sottoscritto in sede sindacale verbale di conciliazione con il quale avevano definito la controversia oggetto del ricorso ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere. Allegato alla memoria ha depositato atto di notifica a controparte, nel domicilio eletto, del verbale di conciliazione sindacale.La richiesta non merita accoglimento. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la cessazione della materia del contendere, quale riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse a proseguire il giudizio, deve essere dichiarata dal giudice allorquando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento – ovvero della sopravvenuta caducazione – della situazione sostanziale oggetto della controversia e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice (v., tra le altre, Cass. 5 dicembre 2005 n. 26351, Cass. n. 22 maggio 2006 n 11931). E’ stato in particolare precisato che la cessazione della materia del contendere presuppone che: a) sopravvengano, nel corso del giudizio, eventi di natura fattuale o atti volontari delle parti idonei a determinare la totale eliminazione di ogni posizione di contrasto; b) vi sia accordo tra le parti sulla portata delle vicende sopraggiunte e sull’essere venuto meno ogni residuo motivo di contrasto; c) vi sia la dichiarazione di non voler proseguire la causa proveniente dalla parte personalmente ovvero dal suo difensore munito di procura ad hoc. (Cass. 8 novembre 2003 n. 16785).

Nel caso di specie tali presupposti non si sono verificati in quanto il verbale di conciliazione in sede sindacale risulta redatto in epoca molto risalente – 28 marzo 2001 – ed è quindi anteriore al deposito del ricorso per cassazione – il 27 ottobre 2010; difettano inoltre dichiarazioni successive delle parti di rinunciare al giudizio in corso.

2.1. Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza della prescrizione, censurata perchè non considera valido atto interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro.

Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943 cod. civ. e art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 c.p.p., comma 2 alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.

2.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la denuncia di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., si lamenta che la sentenza impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere una prova presuntiva dell’inoltro della comunicazione della suddetta richiesta al datore di lavoro dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente inoltrate dalla D.P.L.; e ciò anche perchè neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver ricevuto la comunicazione.

2.3. La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata.

2.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.p., comma 2 e art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la circostanza, sicchè sarebbe stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421 cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte della società.

In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost. nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L. dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione anzichè alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.

3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e art. 36 Cost., nonchè delle regole di cui all’art. 1362 ss. cod. civ., e difetto di motivazione.

La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa effettiva.

La società, premesso che la determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al godimento di riposi individuali) nonchè dalla clausola del CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa.

3.2. Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione in ordine all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a pause fisiologiche, mentre l’accordo sindacale prevedeva per la fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente tra “l’avviamento e messa a regime della linea produttiva” (corrispondente all’inizio del turno) e la “predisposizione turno seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al personale un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto dal paradigma legale.

3.3. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione degli artt. 414 e 432 cod. proc. civ. e artt. 1226 e 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si censura la determinazione, ai fini dell’accoglimento della domanda, della durata delle operazioni di vestizione e svestizione. Tale statuizione, ad avviso della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione delle allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi dimostrazione della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto di lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed altre vicende sospensive della prestazione.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia di violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.L.G.S. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione.

Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perchè il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei dipendenti.

I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.

4.1. Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo le censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo, secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame); v. anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215. E’ stato anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.L.G.S. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testè riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com.

eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).

Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010) consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.

4.3. La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’ orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva richiamata, nella quale non si rinviene alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla ricorrente incidentale, e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in ordine alle modalità della stessa prestazione.

5. Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perchè la determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale dell’art. 432 cod. proc. civ., con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato. Appare del resto del tutto infondato il rilievo in ordine alla mancata valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo assolutamente generico) posto che il parametro di misura del compenso è riferito ad un periodo complessivo di diverse annualità.

6.1. Il ricorso principale non merita accoglimento. Con il primo motivo il ricorrente invoca inutilmente a sostegno della propria tesi (secondo cui l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.p., comma 2 dovrebbe essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro) la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del licenziamento.

Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche nella formulazione L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione.

Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno 2006 n. 13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con riferimento ai termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).

Invece, solo con la comunicazione al creditore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione si verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto permanente fino al termine di venti giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre 2008 n. 27882, 16 marzo 2009 n. 6336).

Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di diritto – che va qui riaffermato – escludendo l’interruzione della prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla società datrice di lavoro.

6.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere disattesi perchè la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).

6.3. Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato, essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.

Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost. in relazione alla prova dell’atto interruttivo della prescrizione.

7. Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti, hi considerazione della reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 29-10-2013) 04-02-2014, n. 2455

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21491/2010 proposto da:

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato VINCENTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGADDINO ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), A.G. C.F. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati RASPANTI RITA, ROSSI ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

A.G. C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A., F.V. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

A.G. c.f. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA GROSSI GONDI FELICE 62, presso lo studio dell’avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASQUALE TOCCO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega nel ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 999/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 14/09/2009 R.G.N. 1498/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato ACCURSIO GALLO; udito l’Avvocato VINCENTI MARCO;

udito l’Avvocato ROSSI ANDREA (INAIL);

udito l’Avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, rigetto dell’incidentale A., accoglimento ricorso incidentale INAIL.

Svolgimento del processo
1- La sentenza attualmente impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trapani n. 511/06 del 25 maggio 2006: 1) afferma che, dalla dinamica dell’infortunio sul lavoro occorso a A.G. il (OMISSIS), si può ravvisare un concorso di colpa del lavoratore nella misura del 30%; 2) riduce, pertanto, della suddetta misura percentuale le somme dovute dal datore di lavoro F.V. rispettivamente all’ A. e all’INAIL; 3) conferma, per il resto, la sentenza appellata.

La Corte d’appello di Palermo, per quel che qui interessa, precisa che:

a) A.G., mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale, precipitò da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

b) nell’occasione egli si trovava in compagnia di due colleghi di lavoro, che non hanno saputo riferire nulla sulla dinamica dell’infortunio, perchè in quel momento erano intenti ad eseguire altri lavori;

c) lo stesso infortunato ha fornito, al riguardo, versioni contrastanti, prima dichiarando di essere scivolato e poi, dinanzi a questa Corte, affermando di essere precipitato a causa della rottura della tavola sulla quale si trovava;

d) è rimasto accertato – come risulta anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna – che: 1) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; 2) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; 3) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; 4) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto;

e) ne consegue che è indubbia la responsabilità del datore di lavoro – qualunque sia la dinamica dell’infortunio – e a tale conclusione porta anche la circostanza che il F. il giorno successivo all’incidente abbia disposto lo smontaggio del ponteggio, in quanto è chiaro che tale condotta fu posta in essere per impedire agli organi preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni;

f) tuttavia, alla determinazione dell’evento ha contribuito anche l’ A., che, essendo il lavoratore più esperto “con mansioni di coordinatore degli altri operai”, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro;

3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri;

g) per quanto si è detto il concorso di colpa del lavoratore va determinato nella misura del 30%, pertanto la maggior somma richiesta in appello dall’INAIL a fronte di ulteriori prestazioni erogate all’infortunato – la cui domanda è ammissibile, potendo l’Istituto precisare, anche in appello, l’originario petitum – deve essere ridotta nella stessa misura suindicata;

h) sui criteri adottati dal Tribunale per la liquidazione dei danni in favore dell’Ama e sulle singole voci di danno liquidate (danno biologico ed estetico, danno morale e danno derivante dalla capacità lavorativa specifica) non è stata mossa dal F. alcuna censura, sicchè sul punto si è formato il giudicato interno;

i) deve essere confermata la sentenza di primo grado nella parte relativa al rigetto della domanda con la quale il F. ha chiesto di essere garantito dalla Generali Assicurazioni Danni s.p.a., essendo indubbio che il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto, previa realizzazione di un ponteggio, rientri tra i lavori “inerenti a viadotti” che il contratto di assicurazione, con una clausola di chiara formulazione, escludeva dalla copertura assicurativa.

2.- Il ricorso di F.V. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi.

Resistono, con controricorso: 1) A.G., che propone, a sua volta, ricorso incidentale, per due motivi, cui replica il F. con controricorso; 2) l’INAIL, che ugualmente, propone, a sua volta, ricorso incidentale per un motivo; 3) le Assicurazioni generali s.p.a..

F.V. e l’INAIL depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente tutti i ricorsi devono essere riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza.

1 – Profili preliminari.

1.- Deve essere, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale dell’Ama proposta dal ricorrente principale – nel proprio controricorso di replica – sul duplice rilievo: a) della mancanza, nella copia notificata, delle pagine finali dell’atto (da pagina 38 in poi); b) dell’assenza degli elementi che consentano di individuare l’origine e l’oggetto della controversia, lo svolgimento del processo e le posizioni assunte dalle parti, nonchè della esposizione sommaria dei fatti richiesta, a pena di decadenza, dal combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 3, e art. 371 c.p.c..

1.1.- Con riguardo al primo profilo, va osservato che per costante e condiviso orientamento di questa Corte, ai fini del riscontro degli atti processuali deve aversi riguardo agli originali e non alle copie, per cui l’eventuale mancanza di una o più pagine (nella specie, tre) nella copia del ricorso per cassazione notificata può assumere rilievo soltanto se lesiva del diritto di difesa. Ciò, peraltro, va escluso quando le pagine omesse risultino irrilevanti al fine di comprendere il tenore della difesa avversaria e quando l’atto di costituzione della parte contenga una puntuale replica alle deduzioni contenute nell’atto notificato, comprese quelle contenute nella parte mancante (Cass. SU 22 febbraio 2007, n. 4112, indirizzo consolidato, vedi, fra le tante: Cass. 22 gennaio 2010, n. 1213).

Nel presente caso l’originale del controricorso con ricorso incidentale è completo e le pagine asseritamente mancanti sono, per quanto riguarda le argomentazioni delle censure, soltanto due e, come risulta dalle argomentazioni del controricorso di replica, la suindicata incompletezza non ha minimamente leso il diritto di difesa del F..

1.2.- Quanto al secondo profilo, si ricorda che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso (e del ricorso incidentale, nel caso in cui questo risulti proposto) è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, e dell’art. 366 c.p.c., comma 1, anche quando il controricorso, come nella specie, non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso, e ciò anche se il richiamo sia soltanto implicito (Cass. 2 febbraio 2006, n. 2262; Cass. 28 maggio 2010, n. 13140);

b) comunque, anche a volere ritenere che laddove il controricorso racchiuda anche un ricorso incidentale debba contenere, in ragione della propria autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 c.p.c., comma 3, e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, – diversamente dal semplice controricorso, che. avendo la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, non necessita dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, potendo richiamarsi a quanto già esposto nel ricorso principale (Cass. 11 gennaio 2006, n. 241) – in ogni caso, sotto il suddetto profilo, il ricorso incidentale è da considerare inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, mentre il requisito imposto dal citato art. 366 c.p.c., può reputarsi sussistente quando, nel contesto dell’atto di impugnazione, si rinvengano gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. 8 gennaio 2010, n. 76; Cass. 27 luglio 2005, n. 15672; Cass. 29 luglio 2004, n. 14474).

Ne consegue che, nella specie, è da escludere l’inammissibilità del controricorso del lavoratore contenente il ricorso incidentale perchè, diversamente da quanto sostiene il F., dalla lettura dell’atto risulta che il ricorrente incidentale ha rappresentato i fatti, sostanziali e processuali in modo adeguato a far intendere immediatamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo.

2 – Sintesi dei motivi del ricorso principale.

2.- Il ricorso principale è articolato in quattro motivi.

2.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in riferimento alla dinamica del sinistro.

Si sostiene che la Corte palermitana sarebbe giunta all’erronea conclusione di addossare al lavoratore solo il 30% della responsabilità del sinistro – anzichè la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità – perché dopo avere, contraddittoriamente, assunto come “pacifiche” alcune circostanze del fatto che (invece, non sono state provate), poi, in modo ulteriormente contraddittorio, ha affermato la corresponsabilità dell’ A. per non aver proceduto, prima di salire sul ponteggio, al corretto ancoraggio delle tavole della struttura, servendosi della scala fornita dal datore di lavoro e facendosi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori che stava svolgendo.

Ad avviso del F., le suddette circostanze del fatto, a suo dire, sfornite di prova sarebbero: a) la dipendenza del mancato uso delle cinture di sicurezza, da parte dell’ A., dalla loro inidoneità all’uso, perché essendo dotate di una catena lunga soli cm. 60 non consentivano al lavoratore di effettuare gli spostamenti necessari per eseguire il lavoro di montaggio del ponteggio, cui era intento al momento dell’infortunio; b) il fatto che le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme in modo tale da evitare che cadessero; c) il fatto che le tavole stesse non erano in perfetto stato di conservazione; d) il fatto che i lavori di montaggio del ponteggio erano eseguiti dal solo A. senza la collaborazione degli altri operai, nonostante la precarietà della strutture che venivano man mano montate.

Ne consegue che dalla lettura dei due brani della motivazione della sentenza impugnata nei quali vengono, rispettivamente, esaminate le responsabilità del F. e quelle dell’ A. nella causazione del sinistro si desumerebbe – data la loro contraddittorietà – che la Corte territoriale ha omesso di individuare l’esatta dinamica dell’infortunio.

Infatti, la Corte non ha appurato se la caduta dell’ A. sia stata dovuta ad un accidentale scivolata del piede sulla tavola ovvero alla rottura della tavola stessa, elemento che era fondamentale chiarire.

2.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c..

Si ribadiscono, da altra angolazione, le censure già esposte nel precedente motivo, ponendo l’accento sul fatto che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, il datore di lavoro, rispettando l’art. 2087 c.c., aveva fornito ai propri dipendenti tutti i presidi di sicurezza necessari per il tipo di lavorazione in oggetto.

D’altra parte, la Corte palermitana non poteva fondare il proprio convincimento su alcune circostanze contestate al F. nel procedimento penale a suo carico, definito con decreto penale di condanna del Tribunale di Enna, visto che tale atto non può fare stato nel processo civile ex art. 460 c.p.p., e neppure in tale processo hanno efficacia probatoria diretta gli atti raccolti nel suddetto procedimento penale, non conclusosi con una sentenza dibattimentale.

Neanche la Corte territoriale avrebbe potuto ritenere che il F. il giorno successivo all’incidente avesse disposto che il ponteggio dal quale è caduto l’ A. venisse smontato al fine di impedire agli organi all’uopo preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni alla normativa antinfortunistica.

Infatti, a prescindere dal valore giuridico nullo da attribuire alla suddetta “presunzione di colpevolezza”, comunque è emerso in modo inequivocabile, nella fase istruttoria del giudizio di primo grado, che il ponteggio è stato smontato non per ordine datoriale, bensì per applicazione della prassi abituale secondo cui tutti i venerdì i ponteggi venivano smontati, per timore di furti.

Nè possono esservi dubbi sul fatto che l’ A. fungesse da caposquadra e avesse maggiore esperienza di tutti gli altri lavoratori del cantiere, avendo nella sostanza la direzione esecutiva del cantiere e degli altri operai.

Infine, secondo il F., non essendovi alcuna responsabilità del datore di lavoro, avrebbe dovuto essere rigettata anche la domanda di rivalsa dell’INAIL. 2.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1370 c.c., con riferimento al contenuto del contratto di assicurazione, stipulato dal F. con le Assicurazioni generali s.p.a..

Si contesta la decisione della Corte palermitana di rigetto della censura del F. con la quale si impugnava la decisione di primo grado ove ha respinto la domanda di garanzia proposta dal datore di lavoro nei confronti di Assicurazioni generali s.p.a..

Si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado e dalla Corte d’appello, la clausola del contratto di assicurazione di esclusione della copertura per i lavori inerenti ponti, viadotti e gallerie non avrebbe dovuto considerarsi applicabile nella specie, in quanto la lavorazione cui era intento l’ A. al momento del sinistro consisteva nella realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante un viadotto autostradale.

Il fatto che l’allestimento del ponteggio avvenisse sotto un viadotto per eseguire futuri lavori di manutenzione dovrebbe portare ad escludere che si trattasse di lavorazione “inerente” al viadotto, perché essa non si svolgeva “sopra” al viadotto – con i conseguenti pericoli – ma al di sotto dello stesso, come attività a sè stante.

2.4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, erronea e/o omessa decisione su un punto fondamentale della controversia, relativamente alla liquidazione del danno e alle sue componenti.

Si censura la decisione della Corte palermitana di avere ritenuto passata in giudicato la parte della sentenza di primo grado relativa ai criteri ivi adottati per la liquidazione dei danni e alle voci liquidate.

Si sostiene che il F. nell’atto di appello aveva contestato la disposta liquidazione del danno biologico posta a carico del datore di lavoro, già compresa nella copertura assicurativa dell’INAIL ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000.

Si sostiene che il F. poteva essere condannato al risarcimento del solo danno morale, essendo intervenuto il decreto penale di condanna a suo carico.

3 – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale di A.G..

3.- Il suddetto ricorso incidentale è articolato in due motivi.

3.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti, in riferimento alla dinamica del sinistro.

In modo speculare rispetto al F., l’ A. sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato ad attribuire il 30% della responsabilità dell’accaduto al lavoratore e che la motivazione della sentenza impugnata adottata sul punto sarebbe viziata, nei suddetti sensi.

Infatti – a parte la dichiarazione resa in ospedale nell’immediatezza del fatto alla Questura di Enna, nella quale il lavoratore ha riferito di essere scivolato dalla tavola sulla quale si trovava – in realtà, dall’istruttoria svolta è emerso con chiarezza che la tavola di appoggio si è spezzata sotto il peso dell’Ama, il quale non indossava la cintura fornitagli perchè era munita di una catena troppo corta (circa cm. 60) per potere svolgere il lavoro di costruzione del ponteggio cui era intento al momento dell’incidente e per tale motivo è precipitato nel vuoto da un’altezza di circa sei metri, subendo le gravi lesioni accertate dalla CTU medica.

Il lavoratore stesso, sentito dalla Corte d’appello, ha rettificato l’originaria versione dei fatti, spiegando di averla fornita quando era gravato da intensissimi dolori al braccio lesionato.

Dalla stessa istruttoria è emerso che l’ A. aveva inutilmente chiesto al datore di lavoro di fornire agli operai cinture di sicurezza dotate di catene più lunghe di quelle utilizzate e di sostituire i tavoloni di legno (che erano usurati) con pedane di metallo.

In questa situazione la motivazione posta a base del rilevato concorso di colpa del lavoratore sarebbe del tutto contraddittoria, in quanto la Corte, dopo avere individuato una serie di mancanze del datore di lavoro da sole idonee a determinare il verificarsi dell’evento – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – perviene a configurare il concorso di colpa dell’ A. facendo riferimento a tre ulteriori elementi inidonei al suddetto fine.

La Corte, infatti, sottolinea che, essendo l’ A., il lavoratore più esperto, con mansioni di coordinatore degli altri operai, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro; 3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri.

Tuttavia la stessa Corte, con riguardo alle tre suddette circostanze, non considera che: 1) l’ancoraggio delle tavole non avrebbe impedito che la tavola sulla quale si trovava il lavoratore si spezzasse, tanto più che sembra che la tavola spezzata fosse ben posizionata, ancorchè non agganciata, non essendo previsti sistemi di aggancio delle tavole con elementi di ferro del ponteggio; 2) l’eventuale utilizzazione della scala in dotazione – peraltro, di altezza insufficiente a raggiungere i sei metri – non avrebbe potuto influire sul verificarsi dell’evento, perchè il lavoratore è caduto quando ormai si trovava sul piano di lavoro e non nell’atto di salire per raggiungerlo; 3) l’organizzazione del lavoro era determinata dal F. e non era nella disponibilità di un dipendente distrarre altri colleghi dalle mansioni loro assegnate per altre operazioni, comunque un maggiore peso sul tavolone sul quale si trovava l’ A. (dovuto alla ipotetica presenza di colleghi) avrebbe facilitato e non certo impedito la rottura del tavolone stesso.

Ad avviso dell’Ama, la motivazione della sentenza impugnata non è solo contraddittoria e illogica, per quanto si è detto, ma è anche insufficiente, visto che la Corte palermitana non ha spiegato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che i suddetti tre elementi avrebbero potuto impedire il sinistro o influire sulle sue conseguenze, sì da giustificare il concorso di colpa del lavoratore.

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione delle seguenti disposizioni: art. 2087 c.c.; D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4;

D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, artt. 10, 16, 17, 23, 38 e ss.; artt. 2049 e 2050 c.c.; D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3, 4, 21, 22, 35, 36, 37, 40 e ss..

Si sostiene che la Corte palermitana abbia deciso questioni di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza offrire elementi validi per giustificare il proprio dissenso.

In particolare, si fa riferimento all’attribuzione all’ A. di un ruolo e di una funzione diverse da quelle sue proprie di semplice muratore.

Si rileva che dalla circostanza che il F. quando era assente dava le direttive all’ A., come dipendente più anziano, non si poteva desumere che questi fosse responsabile della sicurezza.

Si sottolinea, altresì, che la Corte d’appello non ha attribuito il dovuto rilievo al fatto che il datore di lavoro non aveva predisposto alcuna vigilanza per l’esecuzione dei lavori e l’uso delle cinture di sicurezza, nè aveva fatto frequentare ai dipendenti dei corsi di formazione sui rischi del lavoro e neppure aveva previsto dei piani di sicurezza adeguati.

Del resto, i ponteggi sono per loro natura strutture pericolose e come tali avrebbero dovuto essere trattati, invece nella specie non è stata adottata alcuna misura volta a garantire i lavoratori dal rischio di cadute, nella fase di montaggio delle impalcature.

L’ A. aveva fatto precise richieste al riguardo,che però non sono state prese in considerazione dal F..

Comunque, è da escludere che la condotta del lavoratore, anche se imprudente, possa configurare un’ipotesi di “rischio elettivo” e quindi è da escludere che possa configurarsi un concorso di colpa del lavoratore stesso, anche se esperto, in conformità con la consolidata giurisprudenza di legittimità.

4 – Sintesi del motivo del ricorso incidentale dell’INAIL. 4.- Con il motivo del ricorso incidentale l’Istituto denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11.

Si contesta il punto della sentenza impugnata in cui la Corte palermitana, dopo aver accertato il concorso di colpa della vittima dell’infortunio sul lavoro determinandolo nella misura del 30%, ha, per questo solo fatto, ridotto, in pari misura, l’ammontare delle somme richieste dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del datore di lavoro dell’infortunato.

Si sottolinea che, nel corso del giudizio, non vi era stata alcuna contestazione sugli importi richiesti dall’Istituto, né era stato allegato o provato che si trattava di somme di importo superiore al danno conseguibile dal lavoratore infortunato.

Peraltro, il capo della sentenza di primo grado relativo alla determinazione di tali somme non era stato impugnato, sicché almeno la somma capitale non avrebbe potuto essere ridotta, pur in presenza del concorso di colpa del lavoratore.

5 – Esame dei primi due motivi del ricorso principale e dei ricorsi incidentali di A.G. e dell’INAIL. 5.- Per le ragioni di seguito esposte, il ricorso principale è da respingere, mentre sono da accogliere i due ricorsi incidentali.

Inoltre, per chiarezza espositiva, appare opportuno esaminare per primi i primi due motivi del ricorso principale e, a seguire, il ricorso incidentale dell’Ama e quello dell’INAIL e, infine, gli ultimi due motivi del ricorso principale.

6.- Sia i primi due motivi del ricorso principale sia i due motivi del ricorso incidentale dell’Ama contestano – da opposte prospettive – la sentenza impugnata nella parte relativa alla ricostruzione dell’infortunio e in particolare alla valutazione del comportamento del lavoratore, che ha portato la Corte palermitana ad affermare che la condotta colposa dell’ A. avrebbe concorso nella misura del 30% al verificarsi del sinistro.

In estrema sintesi:

1) il ricorrente principale sostiene che la Corte palermitana, in applicazione dell’art. 2087 c.c., avrebbe dovuto attribuire al lavoratore la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità della causazione del sinistro e che, comunque, la motivazione sul punto sarebbe contraddittoria o carente in quanto la Corte territoriale ha omesso di appurare se la caduta del lavoratore è stata determinata da una accidentale scivolata del piede sulla tavola dove lavorava ovvero dalla rottura della tavola stessa;

2) il ricorrente incidentale A., specularmente, afferma che, in applicazione del medesimo art. 2087 c.c., e delle altre norme antinfortunistiche richiamate la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare le accertate mancanze del datore di lavoro – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – idonee da sole a determinare il verificarsi dell’evento, mentre è pervenuta, con motivazione contraddittoria e carente, a configurare il concorso di colpa dell’Ama facendo riferimento a tre ulteriori elementi – mancata effettuazione del corretto ancoraggio delle tavole al ponteggio prima di salirvi, non utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, mancata richiesta di collaborazione agli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri – del tutto inadeguati al suddetto fine.

7.- In linea generale, deve essere ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

7.1.- Nella specie il Giudice di appello – sulla base della valutazione del materiale probatorio – ha accertato che: 1) l’ A., al momento del sinistro era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale; 2) è precipitato da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

3) nonostante la non coincidenza delle versioni sulla dinamica del sinistro fornite dall’interessato (rispettivamente alla Questura di Enna durante il ricovero ospedaliero successivo al sinistro e poi in sede giudiziaria), ciò che conta è che è comunque rimasto acclarato – anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna, dai cui atti si possono attingere elementi di giudizio, in base all’orientamento costante di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. 26 novembre 2013, n. 26401) – che: a) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto.

Sulla base di tali elementi la Corte palermitana, con congrua motivazione, ha affermato la responsabilità del F., così facendo corretta applicazione dell’art. 2087 c.c., e della normativa antinfortunistica antecedente il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, da applicare nella specie.

In base a tale normativa, infatti, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature trovano applicazione sia la norma generale del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, – che, in riferimento a qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall’alto, impone l’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti – sia l’art. 2087 c.c. – che impone l’adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l’impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – sia, infine, il citato D.P.R. n. 164 del 1956, art. 17, che impone all’imprenditore o alla persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino prima che siano stati predisposti adeguati sistemi per garantire la loro sicurezza (vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 2002, n. 6769; Cass. 25 agosto 1995, n. 9000).

8.- Ne consegue che il F. non può certamente dolersi della pretesa illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla affermazione della Corte palermitana della sussistenza della responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate dal lavoratore nè, tanto meno, della violazione dell’art. 2087 c.c., sul punto.

Questo comporta il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale.

9.- I suddetti vizi sono, invece, riscontrabili con riguardo alla parte della motivazione nella quale è stato affermato il concorso di colpa del lavoratore, nella misura del 30%.

Per costante orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:

a) le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656);

b) in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, con indicazioni che hanno trovato conferma nel sistema delineato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, prevede una distribuzione di responsabilità ripartita in via gerarchica tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, figura, quest’ultima, che ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e che presuppone uno specifico addestramento a tale scopo, nonchè il riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati (Cass. 15 dicembre 2008, n. 29323);

c) peraltro, l’attribuzione a un soggetto della qualità di “preposto” ai fini del suo assoggettamento agli obblighi previsti dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, va fatta, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa e non in base alla formale qualificazione giuridica attribuita (Cass. 16 febbraio 2012, n. 2251; Cass. 6 novembre 2000, n. 1444).

9.1.- Ne deriva che, essendo, pacificamente, da escludere che, nella specie, ricorra l’ipotesi del c.d. rischio elettivo (idoneo ad interrompere il nesso causale, ma ravvisabile solo quando l’attività posta in essere dal prestatore non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso), gli elementi accertati dalla Corte palermitana in ordine alle mancanze ascrivibili al F. avrebbero dovuto considerarsi da soli sufficiente ad affermarne la esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro, in base alla citata normativa, a partire dall’art. 2087 c.c..

Per completezza, va precisato che laddove la Corte d’appello ha affermato la sussistenza di un concorso di colpa del lavoratore – oltretutto determinandone la misura nel 30%, senza alcuna giustificazione – non solo si è discostata dall’anzidetta normativa, ma lo ha fatto con motivazione carente e illogica perché basata sul richiamo ad elementi in parte del tutto irrilevanti (come la mancata utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, visto che l’ A. già era giunto sul posto di lavoro al momento del sinistro) e in parte non ascrivibili all’ A., che essendo privo della qualità di “preposto” e della connessa direzione esecutiva dei lavoratori, non poteva sostituirsi al F. nel dare disposizioni in merito all’ancoraggio delle tavole alla struttura ovvero allo svolgimento delle mansioni impartitegli con la collaborazione degli altri operai (data l’altezza di sei metri da terra).

Di qui l’accoglimento del ricorso incidentale dell’ A..

10.- I vizi rilevati in merito all’affermazione del concorso di colpa dell’Ama nella determinazione del sinistro – pari al 30% – si riflettono anche nella parte della motivazione nella quale la Corte palermitana ha ridotto nella medesima percentuale l’ammontare delle maggiori somme richieste dall’INAIL al F., in via di rivalsa, oltretutto senza previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l’ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura dell’accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiale, come stabilito dalla costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis:

Cass. 2 febbraio 2010, n. 2350; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15633;

Cass. 16 giugno 2000, n. 8196; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13121; Cass. 20 agosto 1996, n. 7669).

Ne consegue l’accoglimento del ricorso incidentale dell’INAIL. 6 – Esame del terzo e del quarto motivo del ricorso principale.

11.- Per quel che riguarda il terzo motivo del ricorso principale, va ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) l’interpretazione della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale – che, comporta indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione – può essere censurata per erroneità nel ricorso per cassazione, ma il ricorrente, in applicazione del principio di specificità dei motivi di ricorso, ha l’onere di trascrivere integralmente le clausole contestate in quanto al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura e deve, inoltre, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (vedi, tra le tante: Cass. 18 novembre 2005, n. 24461; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2560; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2128);

b) in tema di interpretazione del contratto – che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione – ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (vedi, tra le altre: Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 23 aprile 2010, n. 9786; Cass. 29 settembre 2005, n. 19140).

11.1.- Nella specie, la pur parziale trascrizione delle clausole la cui interpretazione è contestata dal F. consente di respingere il motivo in quanto dalle relative argomentazioni si desume ictu oculi che, con esse, più che denunciarsi la mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, si contrappone l’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata, oltretutto con argomentazioni in parte erronee e in parte palesemente illogiche nelle quali si sostiene che:

a) la intenzione dei contraenti non dovrebbe desumersi dal “mero senso letterale delle parole”, mentre come si è detto, in base all’art. 1362 cod. civ., come interpretato da questa Corte, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, se di significato inequivoco;

b) la ragione della concordata esclusione della garanzia assicurativa per “i lavori inerenti a ponti, viadotti e gallerie” è stata quella del maggior grado di pericolosità di tali lavori “a causa dell’altezza” nella quale vengono svolti, senza considerare tale elemento caratterizza la presente fattispecie, nella quale il lavoratore si è infortunato cadendo da una altezza da circa sei metri.

Se a tutto ciò si aggiunge che il concetto stesso di “inerenza” non può far sorgere alcun dubbio sull’esattezza dell’interpretazione dei Giudici del merito in ordine alla clausola di cui si tratta, se ne desume il rigetto del motivo de quo.

12.- Il quarto motivo del ricorso principale è inammissibile.

12.1.- A prescindere dal fatto che il tipo di vizio denunciato è configurabile più che come vizio di motivazione, come error in procedendo – prospettabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, e che consente a questa Corte l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito a differenza della censura di vizio di motivazione – va comunque precisato che il suddetto esame presuppone l’ammissibilità del motivo di censura, essendo, quindi, circoscritto al passaggio dello sviluppo processuale in cui il vizio denunciato si colloca onde la Corte possa verificare la fondatezza del motivo di ricorso.

Peraltro la suddetta ammissibilità postula, tra l’altro, il rispetto del principio della specificità della deduzione della censura.

Tale principio – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito, sicchè ove il ricorrente contesti l’interpretazioni che di tali motivi ha dato la Corte d’appello deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi come formulati (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; Cass. 21 maggio 2004, n. 4734).

12.2.- Nella specie, il F. non riproduce nel presente ricorso le parti dell’atto di appello nella quali sarebbe contenuta la propria contestazione della liquidazione del danno biologico in favore dell’Ama, che smentirebbe l’affermazione della Corte palermitana secondo cui si è formato il giudicato interno sul punto.

Ciò impedisce a questo Giudice di legittimità di verificare la fondatezza delle censure formulate al riguardo e determina l’inammissibilità del quarto motivo del ricorso principale.

7 – Conclusioni.

13. In sintesi, il ricorso principale deve essere respinto e i due ricorsi incidentali vanno accolti, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

1) “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature e di lavorazioni che espongano i lavoratori a rischi di caduta dall’alto – cui si collegano sia l’obbligo per il dipendente dell’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti, sia l’obbligo per l’imprenditore o la persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino senza adeguati sistemi volti a garantire la loro sicurezza – il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, se non viene specificamente dimostrato che ricorrono tutti gli elementi propri dell’ipotesi del c.d. rischio elettivo. Ne consegue che è da ascrivere all’esclusiva responsabilità del datore di lavoro l’infortunio occorso ad un lavoratore precipitato al suolo mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio all’altezza di circa sei metri da terra ove – pur in mancanza di una precisa ricostruzione della dinamica del fatto in tutti i suoi particolari – sia stato accertato, anche attingendo elementi di giudizio dall’esame degli atti anche dal procedimento penale a carico del datore di lavoro definito con decreto penale di condanna, che: a) il lavoratore non aveva fatto uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, erano munite di una catena troppo corta per l’esecuzione del lavoro di montaggio del ponteggio; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio (ove operava il lavoratore) non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore stesso; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal lavoratore infortunatosi da solo, nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto”;

2) “in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, ai fini della ripartizione di responsabilità stabilita, in via gerarchica, tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, la figura del preposto ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e presuppone uno specifico addestramento a tale scopo oltre al riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati. Ne consegue che non può essere considerato “preposto”, ai suddetti fini, l’operaio più anziano di una squadra, pur dotato di maggiore esperienza rispetto agli altri, ma privo di uno specifico addestramento al ruolo di capo squadra nonché dei poteri di direzione esecutiva dei lavori della squadra stessa”.

P.Q.M.
La Corte riunisce tutti i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, accoglie gli incidentali. Cassa la sentenza impugnata, in relazione ai ricorsi accolti, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., (ud. 05-11-2013) 30-01-2014, n. 2035

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10187/2012 proposto da:

S.V. (OMISSIS) in qualità di Curatore del fallimento n. 1105/2010 in capo alla società PROFILSERRE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato DE FELICE SERGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCIO ANTONIO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 866/2011 del TRIBUNALE di LOCRI del 13.3.2012, depositato il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Antonio Ricci che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Curatela del Fallimento PROFILSERRE s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi avverso il decreto emesso nella causa N. 866/2011 e depositato il 20.03.2012 con cui il Tribunale di Locri ha accolto l’opposizione allo stato passivo del fallimento della società Profilserre a r.l. proposta da Equitalia ETR s.p.a..

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con i tre motivi di ricorso il fallimento ricorrente contesta, sotto diversi profili,il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’opposizione per tardività. Deduce che l’atto oggetto di opposizione relativo alla comunicazione di deposito dello stato passivo del fallimento era stato comunicato L. Fall., ex art. 97, dal cancelliere tramite un servizio di posta privata ad Equitalia in data 20.6.11, come risulta dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22.7.11.

Sostiene in particolare il ricorrente che doveva ritenersi che la comunicazione effettuata tramite un servizio di posta privata fosse del tutto legittima e conseguentemente la data di notifica doveva ritenersi essere quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto da Equitalia.

A sostegno della propria tesi deduce che,la comunicazione ai sensi della L. Fall., art. 97, può essere data a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ovvero tramite telefax o posta elettronica quando il creditore abbia indicato tale modalità di comunicazione e, che il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal decreto legislativo n. 58 del 2011 con entrata in vigore dal 30.4.11, prevede che sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio postale universale, e, cioè,alla Poste italiane, i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni,che riguarda le notifiche da parte dell’Ufficiale giudiziario che si avvale del servizio postale, ma non anche quelle effettuate direttamente dal cancelliere a mezzo posta per cui questi poteva avvalersi anche dei servizi di posta privati.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente appaiono infondati.

Invero, nel caso di specie non rileva la questione se il cancelliere possa avvalersi di un servizio di posta privata o meno.

Quello che qui rileva è accertare se, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.

Tale ipotesi è da escludere.

Va a tale proposito rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di contenzioso tributario, (ma il principio riveste una portata generale applicabile anche al caso di specie) che nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario.

(Cass. 17723/06 ù Cass. 13812/07).

Non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le notifiche effettuate da un servizio di posta privato. Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualità di pubblici ufficiali onde gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni.

A tale proposito è già stato chiarito da questa Corte che, in tema di tempestività del ricorso per cassazione, il termine di cui all’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dalla notifica della sentenza impugnata, la quale, nell’ipotesi in cui la notifica abbia avuto luogo a mezzo del servizio postale, va desunta, in mancanza di altri elementi, dalla busta di spedizione, ove sul retro sia stata apposta la data di arrivo presso il destinatario, non potendo essere ricavata dal timbro apposto sul plico da parte dello stesso destinatario, pur recante il numero cronologico e la data, trattandosi di atti di organizzazione interna e nonostante la natura eventualmente pubblica del predetto soggetto (nel caso di specie trattavasi dell’Agenzia delle Entrate) (Cass. 25753/07).

Ciò sta a significare che l’attestazione fidefacente dell’ufficiale postale non è surrogabile da alcun altro tipo di atto neppure nel caso in cui lo stesso sia stato compiuto al momento della ricezione da un ente pubblico.

Ciò porta a maggior ragione ad escludere che possa essere idonea ai fini in esame l’attestazione di un semplice privato. Deve conclusivamente affermarsi che,non essendovi prova circa l’effettiva data di consegna della comunicazione di cancelleria relativa al deposito dello stato passivo del fallimento della Profilserre srl, l’opposizione avverso il detto atto deve ritenersi tempestiva.

Il ricorso va in conclusione respinto. Nulla per le spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 26-11-2013) 27-01-2014, n. 1516

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sez. –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sez. –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14801/2013 proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la PROCURA GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR 12;

– ricorrente –

contro

P.M., D.C.A., G.P., R. F., D.M.D., D.A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato DE SANTIS FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avvocato BERTI ARNOALDI VELI GIULIANO, per procure speciali, in atti;

– resistenti –

avverso la sentenza n. 57/2013 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 23/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito l’Avvocato Giuliano BERTI ARNOALDI VELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale, Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- Con sentenza n. 57/2013, pronunciata in data 8 marzo 2013 e depositata il 23 aprile successivo, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha assolto, per essere rimasto escluso l’addebito, i dottori G.P., D.C. A., D.M.D., P.M., R.F., D.A. e A.R. dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e comma 2, lett. a) e g).

Ai predetti magistrati era stato addebitato di avere, nelle svolgimento delle loro funzioni di consiglieri relatori in cause civili pendenti innanzi alla Corte d’appello di Bologna, dilazionato la decisione di numerose cause mediante rinvii a distanza anche di 4/7 anni, benchè sarebbe stata possibile la definizione in termini più brevi in relazione ai carichi di lavoro, all’adeguatezza dei mezzi disponibili ed alla materia delle controversie, com’era dimostrato dal fatto che altri magistrati avevano invece rinviato oltre cento cause (per anno) negli anni immediatamente successivi al 2010.

L’azione disciplinare era stata promossa su iniziativa della Procura generale della Corte di cassazione con nota del 5.1.2011, a seguito di notizia circostanziata dei fatti acquisita in data 11.8.2010.

2.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il Procuratore generale della Corte di cassazione sulla base di un unico motivo.

Il ricorso non concerne la posizione del Dott. A..

I sei magistrati nei confronti dei quali il ricorso è rivolto hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1-. La Sezione disciplinare ha preliminarmente rilevato:

a) che non aveva trovato conferma la premessa in fatto dell’incolpazione, costituita da una rilevante diversità di comportamento fra giudici della stessa sezione;

b) che, nonostante la riformulazione dell’incolpazione (a seguito della declaratoria di nullità del procedimento, con ordinanza della Sezione disciplinare dell’11.6.2012, “per genericità ed indeterminatezza a dell’accusa”) non era stato indicato “in base a quali criteri si fosse stabilito in cento unità il numero delle decisioni ragionevolmente programmabili per ciascun anno, senza alcun riferimento alla natura ed alla complessità dei casi”;

c) che non era stato neppure dedotto che il metodo di lavoro contestato agli incolpati avesse comportato una diminuzione del numero delle definizioni ed un conseguente allungamento della durata dei processi.

Ha dunque concluso che “la fissazione da parte di un singolo giudice o, come nel caso di specie, del collegio di un’agenda del processo che non si limiti alla fissazione cronologica dei processi da decidere sulla base dell’ordine di iscrizione a ruolo ma la scaglioni sulla base delle caratteristiche dei processi pendenti sul ruolo, della loro difficoltà, dell’urgenza legata ad alcune vicende specifiche o alle caratteristiche del procedimento non costituisce una violazione disciplinare se la dilazione non appaia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro ed alla difficoltà dei processi”.

2.- Il Procuratore generale – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 2, comma 1, lettera g), nonchè carenza o contraddittorietà della motivazione – in buona sostanza censura la sentenza per non aver considerato che rinvii (ex art. 352 c.p.c.) di quattro, cinque, sei o sette anni per la decisione di numerosissime cause apparivano del tutto ingiustificabili in relazione al non elevatissimo numero di quelle fissate per la precisazione delle conclusioni negli anni precedenti.

2.1.- Ebbene, per quanto in ricorso correttamente si sostenga che per la configurabilità dell’illecito di cui alle citate disposizioni (la seconda delle quali concerne “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”) non rilevi la produttività del magistrato incolpato in relazione a quella di altri magistrati, sta il fatto che il problema che è stato posto alla Sezione disciplinare non era oggettivamente suscettibile di essere risolto indipendentemente dalla considerazione degli elementi di fatto considerati insussistenti o, addirittura, non dedotti.

Problema che, in definitiva, consiste nello stabilire fino a che punto è consentita una dilazione della decisione al fine di rendere possibile che cause oggettivamente più urgenti o più rilevanti di altre siano decise in tempi più brevi. E’, infatti, del tutto ovvio che se ogni giudice fissasse per la decisione (recte, per la precisazione delle conclusioni ex art. 352 c.p.c.) un numero di cause pari al limite delle sentenze che può redigere in un anno, non avrebbe poi spazio per poter fissare a breve le cause che presentassero connotati di urgenza. Benché vada detto che meriterebbe censura qualsiasi atteggiamento volto ad aumentare il da farsi in un più lontano futuro al precipuo scopo di alleggerire l’impegno più vicino nel tempo, come tale più probabilmente destinato ad essere adempiuto dalla stessa persona fisica del magistrato che il rinvio dispone.

La Sezione disciplinare ha ritenuto che, in relazione ai fatti emersi, non vi fossero elementi per dire violato il dovere di laboriosità o per affermare che fosse dovuto a negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 81, 82 e 115 disp. att. c.p.c.. E lo ha fatto con motivazione congrua in relazione all’incolpazione, così come formulata.

3.- Il ricorso è respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, aggiunto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2014


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 26-09-2013) 03-12-2013, n. 27057

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17376/2011 proposto da:

COMUNE DI REVERE C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio dell’avvocato ANDREONI AMOS, rappresentato e difeso dall’avvocato MAGALINI GIANFRANCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO PAGANI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 266/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 02/07/2010 r.g.n. 530/09;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato ANDREONI AMOS per delega verbale MAGALINI GIANFRANCO;

udito l’Avvocato PAGANI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

G.P., premesso di essere stato assunto il 1.10.1991 alle dipendenze del Comune di Revere con contratto a tempo indeterminato come responsabile dell’Ufficio Tecnico e di essere stato licenziato, con lettera del 28.10.2005, per assenza ingiustificata dall’8.8.05, adiva il Tribunale di Mantova contestando la legittimità formale e sostanziale del recesso in quanto egli si trovava legittimamente in ferie.

Si costituiva in giudizio il Comune di Revere, che contestava quanto dedotto, difendendo la regolarità formale e sostanziale del licenziamento e negando di dovere alcunché come differenze retributive.

Il primo giudice, sentito il superiore gerarchico del G., che riconosceva come propria la firma apposta alla domanda di ferie, accoglieva parzialmente le domande, ritenendo illegittimo il licenziamento in quanto l’assenza era giustificata dalla concessione delle ferie, e condannando il Comune alla reintegrazione e al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, detratto l’aliunde perceptum, oltre alla corresponsione di una parte degli incentivi richiesti.

Appellava il Comune lamentando l’erroneità della sentenza che non aveva tenuto conto del fatto che il licenziamento era seguito a due ordini di riprendere servizio, a cui il dipendente non aveva adempiuto; poiché egli era tenuto, da una precisa norma del contratto collettivo, ad essere reperibile, il fatto che non vi avesse provveduto rendeva automaticamente conosciute tutte le comunicazioni inviategli al domicilio inizialmente dichiarato, benché non ritirate. Il datore di lavoro, infatti, manteneva sempre il potere di revocare le ferie già concesse e il non aver adempiuto all’obbligo di presentarsi al lavoro rendeva illegittima la condotta contestata.

Si costituiva il G. resistendo al gravame e proponendo appello incidentale circa il mancato riconoscimento di taluni compensi aggiuntivi richiesti.

Quanto all’appello principale evidenziava che, essendo l’assenza legittima, il dipendente non aveva nessun obbligo di reperibilità durante le ferie.

Con sentenza depositata il 2 luglio 2010, la Corte d’appello di Brescia respingeva entrambi i gravami.

Per la cassazione propone ricorso il Comune di Revere, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste il G. con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1335 c.c., e artt. 45 e 23 del c.c.n.l. 6 luglio 1995 per il personale dipendente dalle amministrazioni del Comparto Regioni – Autonomie locali, così come sostituito dall’art. 24 del c.c.n.l. 22.1.04. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Lamenta che il giudice di appello negò erroneamente che le comunicazioni (di richiamo in servizio) inviate al dipendente presso il suo domicilio fossero irrilevanti essendo questi in ferie. Ciò in base al principio di cui all’art. 1335 c.c., nonchè al principio secondo cui, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 3 del 2010, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., la notificazione effettuata ai sensi di tale disposizione si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione (Cass. n. 4748/11).

Evidenzia che l’art. 23 del c.c.n.l. di comparto prevedeva tra i doveri del dipendente quello di “comunicare all’Amministrazione la propria residenza e, ove non coincidente, la dimora temporanea nonché ogni successivo mutamento delle stesse”.

Ne conseguiva che il dipendente in ferie fosse tenuto a comunicare la sua dimora temporanea ed i successivi eventuali mutamenti.

Il motivo è infondato. La norma contrattuale invocata tutela il diritto del datore di lavoro di conoscere il luogo ove inviare comunicazioni al dipendente nel corso del rapporto di lavoro e non già, stante la natura costituzionalmente tutelata del bene, ivi comprese le connesse esigenze di privacy, durante il legittimo godimento delle ferie (che il lavoratore è libero, salvo diverse pattuizioni, di godere secondo le modalità e nelle località che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche), risolvendosi l’opposta interpretazione in una compressione del diritto alle ferie, costringendo il lavoratore in viaggio non solo a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e tempi dei suoi spostamenti, ma anche ad una inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti.

2. Con il secondo motivo il Comune denuncia la violazione dell’art. 2109 c.c., e dell’art. 18 del c.c.n.l. 6.7.95, così come confermato dall’art. 45 del c.c.n.l. 22.1.04.

Lamenta che in ogni caso la Corte di merito avrebbe dovuto riconoscere che il datore aveva il diritto di richiamare dalle ferie il dipendente con ordine per quest’ultimo vincolante, permanendo, anche durante il godimento delle ferie, il potere del datore di lavoro di modificare il periodo feriale anche a seguito di una riconsiderazione delle esigenze aziendali, come del resto previsto dal citato art. 18 del c.c.n.l. che prevede la possibilità per il datore di lavoro di interrompere o sospendere il periodo feriale già in godimento.

3. Con il terzo motivo il Comune lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, e dell’art. 25 del c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni – Autonomie locali del 6.7.95 e 22.1.04. Lamenta che dal combinato disposto delle norme invocate doveva evincersi la legittimità del licenziamento per l’assenza ingiustificata, quale che fosse la causa dell’assenza, evidenziando che il Comune aveva inviato al domicilio del G. (in ferie) l’invito a riprendere il servizio.

4. I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati. In realtà l’invocato art. 18 stabilisce, per quanto qui interessa, che “Le ferie sono un diritto irrinunciabile, non sono monetizzabili, salvo quanto previsto nel comma 16 (attinente l’impossibilità di fruirne). Esse sono fruite nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le oggettive esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente” (comma 9); ancora che “Compatibilmente con le oggettive esigenze del servizio, il dipendente può frazionare le ferie in più periodi. La fruizione delle ferie dovrà avvenire nel rispetto dei turni di ferie prestabiliti, assicurando comunque al dipendente che ne abbia fatto richiesta il godimento di almeno 2 settimane continuative di ferie nel periodo 1 giugno – 30 settembre” (comma 10); ancora che “Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie, nonché all’indennità di missione per la durata del medesimo viaggio; il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non goduto” (comma 11); ancora che “In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell’anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell’anno successivo” (comma 12);

quindi che “Le ferie sono sospese da malattie adeguatamente e debitamente documentate che si siano protratte per più di 3 giorni o abbiano dato luogo a ricovero ospedaliero. L’amministrazione deve essere stata posta in grado di accertarle con tempestiva informazione” (comma 14).

Come risulta evidente non vi è, nell’invocato art. 18, alcuna norma che preveda un potere totalmente discrezionale del datore di lavoro di interrompere o sospendere il periodo feriale già in godimento, risultando allo scopo insufficiente il generico inciso di cui al comma 11 “Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio”, che nulla dice circa le modalità con cui l’interruzione o la sospensione possa essere adottata e debba essere comunicata. Deve anzi evidenziarsi che questa Corte, pur avendo affermato il diritto del datore di lavoro di modificare il periodo feriale in base soltanto a una riconsiderazione delle esigenze aziendali, ha al contempo ritenuto che le modifiche debbano essere comunicate al lavoratore con congruo preavviso (Cass. n. 1557/00). Ciò presuppone all’evidenza una comunicazione tempestiva ed efficace, idonea cioè ad essere conosciuta dal lavoratore prima dell’inizio del godimento delle ferie, tenendo conto che il lavoratore non è tenuto, salvo patti contrari, ad essere reperibile durante il godimento delle ferie (e salvo il diverso caso di comunicata malattia insorta nel periodo feriale, al fine di sospenderne il decorso e consentire al datore di lavoro i controlli sanitari, Cass. n. 12406/99).

Il lavoratore è infatti libero di scegliere le modalità (e località) di godimento delle ferie che ritenga più utili (salva la diversa questione dell’obbligo di preservare la sua idoneità fisica, Cass. sez. un. n. 1892/82), mentre la reperibilità del lavoratore può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio ma non già del lavoratore in ferie, salvo specifiche difformi pattuizioni individuali o collettive.

Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 26 settembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-09-2013) 29-10-2013, n. 24341

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31344-2007 proposto da:

L.A., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato DETTORI MASALA ANGELA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MINA ANDREA, giusta delega in atti e da ultimo presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA “SPEDALI CIVILI” DI BRESCIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV N.99, presso lo studio dell’avvocato FERZI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHIELLO ANGELO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 400/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 18/12/2006 R.G.N. 510/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/09/2013 dal Consigliere Dott. GIULIO FERNANDES;

è comparso l’Avvocato MANCA BITTI DANIELE per delega Andrea Mina;

udito l’Avvocato FERZI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L.A. – dipendente dell’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili ” di Brescia – dopo un periodo di malattia rassegnava le dimissioni, giusta lettera del 31.1.2002 e con decorrenza 4.2.2002, revocandole il successivo 21 febbraio ed offrendo, da tale data, le proprie prestazioni lavorative. L’Azienda, il 28.2.2002, comunicava l’accettazione delle dimissioni respingendo la richiesta di ripresa del lavoro. Il L., sull’assunto che la materia fosse ancora regolata dal disposto del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 124 – secondo cui le dimissioni del pubblico dipendente devono essere accettate per essere operative – conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia l’Azienda Ospedaliera chiedendo accertamento dell’illegittimità del provvedimento del 28.2.2002 e la reintegra nel posto di lavoro, con ogni consequenziale statuizione di ordine giuridico ed economico.

L’adito giudice rigettava la domanda, decisione questa confermata dalla Corte territoriale con sentenza del 18 dicembre 2006.

Ad avviso della Corte l’eccezione di violazione del principio della domanda e di ultrapetizione da parte del primo giudice, contenuta nel primo motivo di appello, era infondata. Nel merito, rilevava che il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 non era applicabile in quanto l’art. 37, lett. b) del CCNL di comparto 1994 -1997 aveva nuovamente regolamentato l’istituto delle dimissioni che erano, ormai, un atto unilaterale e non necessitavano di essere accettate per produrre l’effetto risolutivo del rapporto.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il L. affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso la Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia.

Motivi della decisione
Preliminarmente, va rilevata la irritualità della costituzione del nuovo difensore del ricorrente – avv. Daniele Manca Bitti – in sostituzione dell’avv. Giovanna Dettori Masala, deceduta, già costituita unitamente all’avv. Andrea Mina. Ed infatti la procura all’avv. Manca Bitti, autenticata da quest’ultimo ed apposta a margine della comparsa di costituzione del nuovo difensore, è nulla (applicandosi la disciplina anteriore alla entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, lett. a) essendo il presente processo iniziato prima del 4.7.2009) perchè apposta su un atto diverso da quelli indicati dall’art. 83 c.p.c., comma 3 (Cass. 9 ottobre 1997, n. 9799; Cass. sez. un., 5 luglio 2004 n. 12265; con riferimento al caso in cui debba sostituirsi il difensore nominato con il ricorso, deceduto nelle more del giudizio, o tale nuovo difensore – come nella specie – si affianchi al precedente cfr. Cass n. 18528 del 20/08/2009).

Ciò detto, passando al primo motivo di ricorso, si rileva che viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 416 e 420 c.p.c. e art. 2697 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di appello rilevato d’ufficio la questione relativa alla vigenza dell’art. 124 cit. a seguito della adozione del contratto collettivo, laddove la convenuta Azienda nulla aveva eccepito al riguardo. In altri termini, diversamente da quanto affermato nella impugnata sentenza, l’eccezione relativa ad una eventuale abrogazione del citato art. 124 da parte del CCNL non era questione di mero diritto e, pertanto, doveva essere allegata dall’Amministrazione resistente in sede di costituzione.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 37 del 1957, art. 124 e D.Lgs n. 165 del 2001, art. 69 nonché vizio di motivazione, per aver ritenuto possibile che una norma della contrattazione collettiva potesse abrogare il disposto di una fonte primaria quale era l’art. 124 citato.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 78, 124 e 127 in quanto la Corte di appello aveva affermato che l’ingiustificata assenza dal lavoro del L. – sul quale, secondo il regime delineato dalla norma di cui veniva chiesta l’applicazione, incombeva l’obbligo di proseguire la prestazione fino alla comunicazione dell’accettazione delle sue dimissioni – sarebbe stata già di per sè causa di risoluzione del rapporto per assenza ingiustificata.

Ed infatti, tale principio non era corretto in quanto il D.P.R. n. 3 del 1957 riconduceva la cessazione del rapporto di pubblico impiego, oltre al caso di dimissioni accettate, alle sole ipotesi di decadenza o di destituzione che presuppongono un provvedimento – nel caso in esame mai adottato – in tal senso.

Con il quarto motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 420 c.p.c. nonché vizio di motivazione per non aver il giudice del merito motivato la mancata ammissione delle prove orali articolate (interrogatorio formale e prova per testi) sulle circostanze di cui ai capi di prova intese a ricostruire l’intera vicenda.

Il primo motivo è infondato.

Vale ricordare che, per costante orientamento di questa Corte, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato fissato dall’art. 112 c.p.c. – che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del “petitum”, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda, mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. n. 23079 del 16/11/2005; Cass. n. 19475 del 06/10/2005; Cass. n. 11455 del 19/06/2004).

Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con l’altro “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo, pertanto, sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. n. 10009 del 24/06/2003).

Orbene, nel caso in esame, correttamente la Corte di appello ha considerato che il primo giudice non avesse violato il principio della domanda in quanto la questione relativa alla vigenza del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 era a fondamento della domanda proposta e si imponeva a seguito della intervenuta privatizzazione del pubblico impiego e della entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 69, a prescindere dalla allegazione o meno da parte dell’Azienda del CCNL di comparto visto che i contratti collettivi nazionali relativi al pubblico impiego possono essere conosciuti direttamente dal giudice essendone prevista la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (sul punto vedi, tra le altre, Cass. n. 17095 del 21.7.2010, in motivazione, e Cass. S.u. 4 novembre 2009, n. 23329).

In altri termini, il Tribunale, nel ricercare la norma applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio, non era certo vincolato alla posizione assunta dalle parti in merito alla vigenza o meno dell’art. 124 cit.. Infondato è anche il secondo motivo.

La tesi del ricorrente non tiene conto della riforma del pubblico impiego portata a compimento con il D.Lgs. n. 165 del 2001 che ha determinato una delegificazione del rapporto di lavoro pubblico con la sostituzione delle norme pubblicistiche con quelle previste dalla contrattazione collettiva, ragion per cui l’art. 124 cit., in virtù delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 (in particolare, art. 2, comma 2 e art. 69, comma 1), è divenuto inapplicabile a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994 -1997 – come già evidenziato nella impugnata sentenza – ed ha cessato di produrre effetti dal momento della sottoscrizione del CCNL del quadriennio 1998-2001.

Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso.

L’assunto del ricorrente è, infatti, in contrasto con quanto costantemente affermato da questa Corte secondo cui, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, essendo il c.d.

rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicchè non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (Cass. n. 5413 del 05/03/2013; Cass. n. 9575 del 29/04/2011; Cass. n. 57 del 07/01/2009; Cass n. 20787 del 04/10/2007).

Infine, anche il quarto motivo è infondato in quanto correttamente il giudice del merito ha ritenuto di non ammettere i mezzi istruttori articolati dal ricorrente stante la loro irrilevanza ai fini del decidere.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 3.000,00 per compensi ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 11-07-2013) 15-10-2013, n. 23365

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21386/2011 proposto da:

AS.TEC. S.R.L. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo STUDIO LEGALE ROMAGNOLI, rappresentata e difesa dall’avvocato GAROFALO SILVIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI 48, presso lo studio dell’avvocato SAMMARCO PIEREMILIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BONITO FRANCESCO PAOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2307/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/04/2011 R.G.N. 6743/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale del lavoro di Avellino M.G. esponeva di aver lavorato alle dipendenze della AS.Tec s.r.l. quale operaio comune e di aver ricevuto in data 1.9.2006 una contestazione disciplinare cui era seguito il 15.9.20076 il licenziamento. Veniva al lavoratore contestato di avere esercitato attività lavorativa in Trani ove si trovava in malattia. Deduceva il M., invece, di essersi reso utile occasionalmente con un proprio congiunto, titolare di una agenzia immobiliare in (OMISSIS), solo per non rimanere inattivo svolgendo attività del tutto saltuaria e compatibile con la malattia sofferta e quindi senza pregiudicare in alcun modo il recupero delle normali attività lavorative. Chiedeva quindi dichiararsi l’illegittimità del recesso con condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.

Si costituiva in giudizio parte convenuta che contestava la fondatezza del ricorso e ribadiva la legittimità del recesso. Con sentenza del 26.1.2010 il Tribunale di Avellino dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare ed ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro con condanna al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. La Corte di appello di Napoli con sentenza 24.3.2011 rigettava l’appello dell’AS. Tee s.r.l.. La Corte territoriale rilevava che effettivamente, come già ritenuto dal Giudice di prime cure, la contestazione fosse generica in quanto non offriva elementi precisi circa i fatti contestati e posti a base del licenziamento, non essendo stato specificato il numero di volte in cui l’appellato era stato visto lavorare in (OMISSIS) e la presunta attività computa. Dalla contestazione quindi non emergevano, non essendo indicate le mansioni ed i periodi in cui tali mansioni sarebbero state espletate, le possibili conseguenze pregiudizievoli sul processo di guarigione.

Anche dal rapporto investigativo di una società privata, prodotto tardivamente, emergevano attività le più varie e poco impegnative e comunque compatibili con la patologia sofferta dall’appellato così come certificata. L’investigazione comunque era durata talmente poco da non poter provare alcuna attività lavorativa così come genericamente contestata. Posto che era emerso che l’appellato era andato nell’Agenzia di Trani solo tre giorni svolgendo prestazioni varie e non per tutto il tempo dell’apertura si doveva concludere nel senso che la condotta addebitata era caratterizzata da occasionalità e sporadicità sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e si doveva escludere che fosse stata espletata una attività qualificabile come di tipo “lavorativo”. Inoltre alla luce di tali risultanze istruttorie doveva ritenersi che i canoni di correttezza e buona fede non fossero stati violati in quanto lo stato di malattia era indubitabile e le marginali attività espletate in (OMISSIS) non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un’ incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la AS TEC s.r.l.

con tre motivi; resiste l’intimato con controricorso che ha depositato anche memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c.; la violazione ed errata interpretazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e del CCNL e l’omessa e comunque errata ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. La contestazione mossa al M. era chiara e specifica; erano stati individuati tutti gli elementi per consentire al lavoratore di difendersi e per valutare la gravità dell’accaduto.

Il motivo appare infondato in quanto effettivamente la lettera di contestazione riportata a pag. 6 della sentenza impugnata appare assolutamente generica perchè non individua nè i giorni nè l’attività in concreto svolta presso l’Agenzia Immobiliare Il Monastero e quindi non offre gli elementi di ordine qualitativo e quantitativo per consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente ad al Giudice per valutare la gravità dei fatti addebitati, considerato anche che la detta contestazione fa anche riferimento ad un atteggiamento non coerente con lo stato di malattia, il che non emerge idoneamente in base ad una contestazione che non offre alcun riferimento al tipo di mansioni pretesamente svolte dall’”incolpato”.

La motivazione pertanto appare congrua e logicamente coerente ed individua lacune effettivamente sussistenti nella contestazione, in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7. Il richiamato CCNL non è stato prodotto, nè è stato indicato l’incarto processuale ove eventualmente lo stesso sia disponibile in versione integrale.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2110 e 2119 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio avendo la Corte ritenuto lo stato fisico del lavoratore compatibile con attività lavorative.

La malattia sofferta dall’intimato “epatopatia cronica evolutiva” comportava uno stato di prostrazione fisico e psichico, come ritenuto dai medici curanti, incompatibile con l’attività di collaborazione con l’Agenzia immobiliare sita in (OMISSIS).

Il secondo motivo appare infondato in quanto la Corte di appello ha già mostrato con riferimento agli accertamenti tardivamente prodotti dalla società di una Agenzia investigativa privata che era emersa solo un’attività sporadica ed occasionale e non durante l’intero orario di apertura dell’Agenzia da parte dell’intimato, non assimilabile ad una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico che, anzi, non solo- stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa- era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una più pronta guarigione. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e strettamente ancorata alle risultanze probatorie, mentre le censure in realtà sono di merito ed appaiono dirette ad una “rivalutazione del fatto”, inammissibile in questa sede. La Corte territoriale ha, quindi, esaurientemente motivato in ordine alla mancanza di un pericolo che l’attività contestata, così come emersa in base alle prove, potesse pregiudicare o rallentare il processo di guarigione.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 e degli artt. 1223, 1227 e 2727 c.c., art. 2729 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 342, 414, 416, 163, 164, 167, e 359 c.p.c. I Giudici di merito avrebbe dovuto sottrarre all’entità del risarcimento l’aliunde perceptum. La società aveva dato prova che il M. possedeva quote societarie dell’Agenzia “Il Monastero” e certamente aveva proseguito nell’attività di collaborazione svolta pendente lo stato di malattia.

Il motivo va dichiarato inammissibile in quanto non ricostruisce, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, come la questione dell’aliunde perceptum sia stata posta nelle precedenti fasi del giudizio ed in particolare se sia stata oggetto di uno specifico motivo di appello (la sentenza di appello non fa alcun cenno a tale doglianza). In ogni caso il motivo appare inammissibile per genericità in quanto non offre alcun elemento concreto in ordine al preteso aliunde perceptum: anche se l’intimato avesse avuto delle quote (ma sul punto non vi è stata alcuna produzione in merito alla detta allegazione, unitamente al ricorso in cassazione) nell’Agenzia già ricordata, questo certamente non prova che vi avesse poi svolto attività lavorativa retribuita. Nella seconda parte del motivo si reiterano, in modo assolutamente generico, censure già esposte con i precedenti motivi.

Conclusivamente si deve rigettare il ricorso. Le spese di lite- liquidate come al dispositivo della sentenza- seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore di controparte delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano Euro 50,00 per spese, nonchè in Euro 3.000,00 per compensi oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2013


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 10-04-2013) 08-10-2013, n. 22883

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FELICETTI Francesco – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15325/2007 proposto da:

T.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, FORO TRAIANO 1-A, presso lo studio dell’avvocato SCHETTINI DARIO OVIDIO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

V.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso lo studio dell’avvocato CAMPAGNOLA ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato INTORRE SALVATORE per proc. spec. del 6/6/2008 rep. n. 736;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1902/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito l’Avvocato Schettini Dario Ovidio difensore della ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Campagnola Antonio e Intorre Salvatore difensore della controricorrente che hanno chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione ritualmente notificato V.F. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma T.E., chiedendone la condanna alla eliminazione delle opere abusivamente realizzate.

2. – Il Tribunale adito dichiarò cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di demolizione del locale cassoni, condannando la convenuta alla demolizione della ringhiera-parapetto realizzata nel lastrico di sua proprietà e alla rimozione dei radiatori per lo scambio termico situati in aggetto sulla proprietà V..

Avverso tale sentenza propose appello la T..

3. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 26 aprile 2006, rigettò il gravame. Dichiarata la inammissibilità della produzione della documentazione, effettuata dalla T. solo in grado di appello, la Corte respinse la eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, rilevando che esso era stato notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti di legge erano stati effettuati, mentre nessuna rilevanza assumevano le circostanze dedotte dall’appellante con riguardo all’abbandono della corrispondenza diretta alla T. sui gradini antistanti il portone di ingresso della sua abitazione, priva di servizio di portierato e di buche per le lettere, ed al conseguente smarrimento dell’atto.

Sul secondo motivo di gravame, attinente alla mancata ammissione del giuramento decisorio deferito alla V., osservò la Corte che si trattava nella specie di giuramento de scientia, inammissibile in quanto la relativa formula era redatta in modo che la giurante dovesse rispondere sulla verità di fatti a lei non riferibili in quanto non propri della sua attività, e non sulla conoscenza che di tali fatti ella avesse.

Circa il terzo motivo di appello, con il quale si contestava la valutazione del Tribunale sulle risultanze processuali che avevano determinato la condanna della T., rilevò il giudice di secondo grado che la illegittimità del manufatto era stata ritenuta accertata in quanto la preesistente cabina idrica era stata sostituita con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi, circostanze, codeste, confermate nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo. Le testimonianze raccolte avevano poi escluso la esistenza di una ringhiera anteriore a quella realizzata dall’appellante, ed avevano indicato in modo univoco che la realizzazione degli altri manufatti era avvenuta ad opera della T..

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre la T. sulla base di sette motivi. Resiste con controricorso la V..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c.. Si contesta, in particolare, la sentenza della Corte d’appello di Roma nella parte in cui essa ha rigettato l’eccezione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, sollevata per non essere mai stata perfezionata la notifica all’attuale ricorrente, avuto riguardo alla mancanza di una buca per le lettere nello stabile in cui la stessa abita, ed alla conseguente abitudine del postino di lasciare sui gradini antistanti il portone di ingresso i pacchi posta, con la conseguente, frequente evenienza dello smarrimento degli stessi. Nella specie, dunque, l’atto di citazione non era pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, nè erano stati correttamente effettuati gli adempimenti prodromici richiesti nel caso di notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c.. Nè potrebbe avere alcun rilievo in contrario l’affermazione della controparte relativa alla notificazione dell’atto in questione anche ad un diverso indirizzo, ove esisteva un servizio di portierato e risiedeva il figlio della signora T. (come sarebbe emerso dalla relata di notifica), che avrebbe rifiutato l’atto, in quanto la madre non era convivente con lo stesso. Al riguardo, la ricorrente fa presente che dallo stato di famiglia, prodotto in appello dalla attuale ricorrente, sarebbe emerso che i suoi figli, all’epoca di cui si tratta, avevano rispettivamente tre anni ed otto mesi.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se la notifica dell’atto introduttivo del giudizio effettuata nelle modalità previste dall’art. 140 c.p.c., ha carattere eccezionale ed è subordinata all’impossibilità di eseguire la consegna a mani del destinatario medesimo, oppure, in caso di sua assenza dalla casa di abitazione o dal luogo di lavoro, ai soggetti alternativamente (ed in sequenza tassativa) indicati nell’art. 139, e cioè a persona di famiglia o addetta alla casa (o all’ufficio, ecc.), o al portiere dello stabile dove è l’abitazione (o l’ufficio, ecc.), o ad un vicino di casa che accetti di ricevere l’atto; dica altresì se l’impossibilità di consegna dell’atto nei luoghi, alle persone e alle condizioni prescritte debba risultare in modo esplicito e puntuale dalla relata dell’organo notificante e nel caso contrario se questo comporti o meno la nullità della notificazione”.

2. – La censura è immeritevole di accoglimento.

La eccezione di nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado alla T. è stata rigettata dalla Corte di merito alla stregua della considerazione che, nella specie, ritualmente la notifica era stata effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti prodromici di cui alla citata norma codicistica erano stati regolarmente svolti.

In tale quadro, il mezzo risulta non cogliere la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, che faceva riferimento alla inidoneità della circostanza della mancanza del portiere e della “buca delle lettere” nello stabile in cui abita la attuale ricorrente a dimostrare la non conoscibilità dell’atto in questione da parte della stessa.

3. – Con la seconda censura si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Avrebbe errato la Corte di merito nel dichiarare la inammissibilità, ai sensi della citata disposizione del codice di rito, della documentazione prodotta dalla attuale ricorrente solo in grado di appello senza considerare che, secondo la interpretazione che della norma in questione è stata fornita dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, il divieto di nuovi mezzi di prova in appello riguarderebbe solo le prove costituende e non quelle precostituite, quali i documenti. Per di più, nel caso di specie i documenti di cui si tratta sarebbero stati formati successivamente alla notifica dell’atto di appello. Né la sentenza impugnata recava – si rileva ancora nel ricorso – alcuna motivazione in ordine alla non indispensabilità di tali documenti.

La illustrazione del motivo si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova stabilito dall’art. 345 c.p.c., riguardi esclusivamente le prove costituende o anche quelle costituite e comunque se riguardi anche i documenti di formazione successiva al giudizio di primo grado e/o resi necessari dallo svolgimento del giudizio e/o che la parte non abbia potuto produrre prima per causa non imputabile; dica altresì in quali stadi del processo in appello i documenti vanno depositati in giudizio”.

4. – La censura non può trovare ingresso nel presente giudizio.

Essa, infatti, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, avrebbe dovuto riportare il contenuto della documentazione in questione.

A ciò deve aggiungersi che, avendo la Corte di merito espressamente fatto riferimento all’art. 345 c.p.c., nel negare l’ammissibilità della documentazione medesima, essa ne aveva con ciò stesso escluso la decisività: sicché sarebbe spettato alla ricorrente fornire la prova della indispensabilità della produzione documentale.

5. – Le suesposte argomentazioni danno conto altresì della inammissibilità del terzo motivo, avente ad oggetto il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dichiarata inammissibilità dei documenti: motivo in relazione al quale si evidenzia poi una ulteriore ragione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. – applicabile nella specie, come già chiarito, ratione temporis -, consistente, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella mancata indicazione di un momento di sintesi, concretizzantesi in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso nei cui confronti la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

6. – Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine al mancato esame di elementi probatori determinanti. Avrebbe ancora errato la Corte di merito nell’obliterare l’esame della documentazione depositata nel giudizio di appello dalla attuale ricorrente nonché degli elementi probatori forniti dalla stessa:

esame il cui esito avrebbe invalidato la efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il giudice di secondo grado aveva fondato la pronuncia impugnata. In particolare, si contestano la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta in primo grado e nel giudizio di appello ed il mancato esame dello stato di famiglia della attuale ricorrente, da cui, ad avviso della stessa, sarebbe derivato l’accoglimento della eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado; nonché la mancata valutazione della documentazione prodotta nel giudizio di appello, cui sarebbe conseguita la errata valutazione delle risultanze processuali in ordine alla illegittimità delle realizzazioni edilizie oggetto della controversia.

7. – La censura si appalesa inammissibile per un molteplice ordine di ragioni.

Ed infatti, anzitutto, ove la si riguardi, conformemente al profilo emergente dalla rubrica, quale vizio di motivazione, deve ribadirsi quella mancanza del momento di sintesi già posta in evidenza sub 5 in relazione al terzo mezzo di gravame.

La doglianza appare, peraltro, in realtà, diretta, attraverso la denunzia del vizio di motivazione, a conseguire una rivalutazione delle risultanze probatorie inibita nella presente sede in presenza di una congrua motivazione fornita dalla Corte di merito in ordine alla formazione del proprio convincimento.

Per di più, pare intravvedersi nella illustrazione della censura una incertezza tra la denuncia di vizio di omessa pronuncia, in realtà non esplicitata attraverso la espressa invocazione dell’art. 112 c.p.c., e la doglianza attinente alla carenza assoluta di motivazione sul punto controverso.

In particolare, e da ultimo, per ciò che concerne specificamente la questione del mancato esame dello stato di famiglia, esso risulta irrilevante ai fini della decisione per le ragioni già evidenziate sub 2 con riguardo al primo mezzo di gravame, del quale, per tale parte, il quarto costituisce una riproposizione sotto diversa forma.

8. – Con il quinto motivo sì denuncia “art. 360 c.p.c., n. 5: omessa motivazione relativamente alle modalità di assunzione della testimonianza; art. 360 c.p.c., n. 3: violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 253 e 122 c.p.c.”. Il giudice di appello avrebbe immotivatamente omesso di pronunciarsi sui rilievi formulati dalla attuale ricorrente in ordine alla mancata osservanza, nell’assunzione della deposizione di una testimone, delle prescrizioni dell’art. 253 c.p.c., (non essendo stata la stessa sentita dal giudice istruttore, ma solo dai difensori della attuale resistente) e dell’art. 122 c.p.c., (per non essere stato nominato un interprete in occasione dell’assunzione della deposizione).

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte se le parti possano interrogare direttamente i testimoni o se i testimoni debbano essere sentiti esclusivamente dal giudice. Dica altresì se, nel caso in cui debba essere sentito chi non conosce la lingua italiana, il giudice debba nominare un interprete. Specifichi la Corte le conseguenze delle errate modalità di assunzione della prova testimoniale”.

9. – Anche tale doglianza risulta inammissibile per la incertezza, che la connota, tra la denuncia di vizio di motivazione e di violazione di legge, invocati nella rubrica, e di vizio di omessa pronuncia, quale sembrerebbe piuttosto emergere dalla illustrazione del mezzo. Non senza considerare la mancanza di riscontri probatori delle tesi sostenute nel ricorso.

10. – Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2739 c.c.. Si contesta la decisione della Corte di merito di ritenere inammissibile il giuramento decisorio deferito alla attuale ricorrente erroneamente qualificandolo come giuramento de scientia e non de veritate senza considerare che, per fatto proprio agli effetti dell’art. 2739 c.c., deve intendersi non solo l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno nei limiti in cui possa essere stato percepito dallo stesso con i sensi e l’intelligenza. In ogni caso, anche a voler qualificare il giuramento in questione come de scientia, le formule erano state redatte in modo tale da essere pienamente ammissibili. La Corte di merito, poi, ritenendo inammissibile il giuramento decisorio, avrebbe erroneamente ritenuto irrilevanti le ulteriori censure sollevate dalla attuale ricorrente in ordine alla decisione di primo grado relativa alla pretesa intempestività del deferimento del giuramento ed alla ritenuta illiceità del fatto costituente oggetto del capitolato.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2739 c.c., si possa qualificare, nel giuramento de veritate, come fatto proprio – non soltanto l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno, e quindi anche fatti e dichiarazioni di altri soggetti, nei imiti in cui possono essere stati percepiti dal giurante con i sensi e l’intelligenza. Dica altresì la Corte se nel giuramento de scientia le formule possono essere redatte nel modo seguente: Giuro e giurando affermo essere vero o nego essere vero… seguita dalla circostanza esterna al giurante ma conosciuta dallo stesso”.

11. – Il motivo non può trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità.

Esso, al di là della formale invocazione della disposizione dell’art. 2739 c.c., che si assume violata, è sostanzialmente rivolto a porre in discussione la qualificazione, motivatamente e correttamente operata dalla Corte di merito, della natura del giuramento deferito dalla signora T. come giuramento de scientia alla stregua della considerazione che il giuramento aveva riguardo a fatti dei quali la controparte poteva avere conoscenza.

Ciò posto, il giudice di secondo grado ha conseguentemente escluso l’ammissibilità del giuramento essendo stata la relativa formula redatta come se la controparte avesse dovuto rispondere della veridicità di fatti propri della sua attività, e non già in ordine alla conoscenza che di tali fatti la stessa avesse. Resta, pertanto, assorbito l’esame degli ulteriori profili della censura.

12. – Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., e art. 2909 c.c.. Erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che i giudizi promossi innanzi al giudice amministrativo avevano ampiamente confermato la circostanza della presunta sostituzione della preesistente cabina idrica con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistici edilizi, laddove i provvedimenti giurisdizionali cui essa si riferiva avevano solo carattere interinale, sicché all’epoca era ancora in corso l’accertamento giudiziale di detta circostanza.

La illustrazione della censura si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2909 c.c., e dell’art. 324 c.p.c., si possano definire confermati circostanze e diritti oggetto di provvedimenti non passati in giudicato”.

13. – La doglianza risulta priva di fondamento.

E’ sufficiente, al riguardo, considerare che essa non tiene conto che la menzione dei provvedimenti del giudice amministrativo aveva, nell’economia della decisione impugnata, un significato meramente rafforzativo di una ratio decidendi rinvenuta dal giudice di secondo grado in diverse risultanze processuali.

14. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, che, in applicazione del principio della soccombenza, devono essere poste a carico della ricorrente, vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 5200, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2013


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 20-06-2013) 05-09-2013, n. 20365

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27768-2007 proposto da:

COMUNE DI NEMBRO (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore EUGENIO CAVAGNIS, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOBBI GOFFREDO, rappresentato e difeso dall’avvocato MESSI YVONNE giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE in persona dei legali rappresentanti pro tempore, domiciliati ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono difesi per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 777/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 26/08/2006, R.G.N. 324/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2013 dal Consigliere Dott. MAURIZIO MASSERA;

udito l’Avvocato GOFFREDO GOBBI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
.1- Il Ministero delle Finanze convenne in giudizio avanti al Tribunale di Brescia il Comune di Nembro chiedendone la condanna al risarcimento del danno, quantificato in Euro 20.198,63, cagionato per effetto della tardiva esecuzione della notifica a due contribuenti di un avviso di accertamento INVIM, tempestivamente richiesta al convenuto dall’Ufficio del Registro di Bergamo.

.2 – Con sentenza in data 29 dicembre 2003 il Tribunale di Brescia dichiarò estinto il giudizio per sopravvenuta carenza di interesse ad agire da parte del Ministero in conseguenza della condanna del messo notificatore, nel frattempo intervenuta da parte della Corte dei Conti.

.3 – Con sentenza in data 3 maggio – 26 agosto 2006 la Corte d’Appello di Brescia accolse il gravame del Ministero e, accertata la responsabilità del Comune di Nembro, lo condannò a pagare all’Agenzia delle Entrate la complessiva somma di Euro 49.384,89.

La Corte territoriale osservò per quanto interessa: la pronuncia della Corte dei Conti aveva riguardato il danno contabile emergente dalla negligente condotta del messo comunale, mentre era in discussione la responsabilità derivante da inadempimento contrattuale addebitabile al Comune, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario; al danno, coincidente con l’ammontare delle imposte e degli accessori non recuperati, doveva essere aggiunta la rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali.

. 4 – Avverso la suddetta sentenza il Comune di Nembro ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con unico controricorso.

Il ricorrente ha presentato memoria.

Motivi della decisione
.1.1 – Il primo motivo adduce violazione dell’art. 2909 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e R.D. n. 1214 del 1934, art. 52. Il ricorrente si duole del rigetto della propria eccezione di carenza di legittimazione passiva, sollevata sulla scorta della decisione della Corte dei Conti che, per i medesimi fatti, aveva condannato il messo notificatore. Egli assume che l’efficacia del giudicato della sentenza della Corte dei Conti è opponibile all’Amministrazione che, da un lato, non può considerarsi terzo rispetto all’azione di responsabilità intentata dal pubblico ministero contabile nei confronti del messo comunale e, dall’altro, subisce gli effetti riflessi del giudicato non essendo titolare di un diritto autonomo rispetto alla suddetta azione risarcitoria.

.1.2 – La censura sopra riassunta è inammissibile prima che infondata.

Inammissibile poichè si limita a riproporre la propria tesi prescindendo totalmente dalla ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha fatto leva sulla distinzione tra danno contabile, addebitato al messo comunale e responsabilità da inadempimento contrattuale, attribuita al Comune.

Ne risente il quesito finale, previsto dall’art. 366-bis c.p.c. applicabile al ricorso ratione temporis. Infatti è orientamento consolidato che è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, il ricorso per cassazione nel quale il quesito di diritto si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo. Ciò in quanto la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità, imponendo al patrocinante in cassazione l’obbligo di sottoporre alla Corte la propria finale, conclusiva, valutazione della avvenuta violazione della legge processuale o sostanziale, riconducendo ad una sintesi logico- giuridica le precedenti affermazioni della lamentata violazione.

In altri termini, la formulazione corretta del quesito di diritto esige che il ricorrente dapprima indichi in esso la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, infine formuli il principio giuridico di cui chiede l’affermazione.

Il quesito proposto dal ricorrente non soddisfa le finalità indicate poichè prescinde totalmente dalla motivazione della sentenza impugnata.

Ma la censura è anche infondata dal momento che trova insormontabile ostacolo nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui (Cass. Sez. 1, n. 13662 del 2007) l’azione di responsabilità promossa dal P.G. della Corte dei Conti per i danni conseguenti alla tardiva effettuazione da parte dei messi comunali della notifica di un accertamento tributario, in quanto volta a far valere una responsabilità amministrativa, a tutela dell’interesse generale al corretto esercizio delle funzioni amministrative e contabili, si differenzia da quella risarcitoria proposta dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del Comune e degli altri responsabili, la quale trova fondamento nella responsabilità solidale dei convenuti, in relazione al mancato adempimento da parte Comune dell’obbligazione derivante da un rapporto di mandato “ex lege”. L’azione di responsabilità contabile nei confronti del messo comunale e l’azione contrattuale nei confronti del Comune sono domande che, pur ricollegabili ai medesimi fatti, risultano diverse tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo.

Recentemente questa stessa sezione (Cass. Sez. 3, n. 23462 del 2010) ha ribadito che il comune, ove richiesto dall’amministrazione finanziaria di notificare un atto impositivo ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, assume gli obblighi di un mandatario “ex lege”; esso, pertanto, è civilmente responsabile nei confronti dell’amministrazione mandante nel caso in cui, colposamente ritardando l’esecuzione della notificazione di un avviso di liquidazione di imposta, provochi la decadenza di tale Amministrazione dalla pretesa fiscale.

.2.1 – Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2909 c.c. e 100 c.p.c..

Con il motivo in esame il ricorrente ripropone l’eccezione di difetto d’interesse ad agire nei confronti del Comune da parte dell’amministrazione finanziaria in virtù del risarcimento già ottenuto all’esito del giudizio di responsabilità amministrativo – contabile nei confronti del messo comunale.

.2.2 – La censura trova anticipata risposta nelle argomentazioni e nelle massime riferite sub.1.2 – e risulta infondata per le medesime ragioni lì esposte, in particolare laddove si è evidenziato che, seppur ricollegabili ai medesimi fatti, l’azione di responsabilità contabile nei confronti del messo comunale e l’azione contrattuale nei confronti del Comune costituiscono domande diverse sotto entrambi i profili (oggettivo e soggettivo). Il quesito finale è inidoneo perchè presente le stesse connotazione negative evidenziate con riferimento al precedente.

.3.1 – Il terzo motivo adduce violazione degli artt. 2909 e 1306 c.c. in merito alla quantificazione del danno risarcibile.

Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello non ha tenuto conto della quantificazione del danno risarcibile operata dalla Corte dei Conti.

.3.2 – La censura non considera la diversità della natura della domanda di responsabilità contabile rispetto a quella di responsabilità contrattuale.

La determinazione del quantum è stata effettuata dalla Corte territoriale con corretto riferimento alla pretesa fiscale.

Anche questo motivo si conclude con un quesito di diritto che pecca di astrattezza per le vedute ragioni.

.4.1 – Il quarto motivo lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in merito al valore probatorio della sentenza della Corte dei Conti con riguardo alla quantificazione del danno risarcibile.

.4.2 – La censura non dimostra i vizi denunciati, ma attacca il contenuto decisorio della sentenza impugnata.

Manca il momento di sintesi prescritto dall’art. 366-bis c.p.c., necessario non solo per circoscrivere il fatto controverso, ma anche per specificare in quali sue parti e per quali ragioni la motivazione della sentenza impugnata si riveli, rispettivamente, omessa, insufficiente, contraddittoria.

.5.1 – Il quinto motivo ipotizza violazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento alla prova del danno.

Si assume che la prova del danno incombe sul soggetto che fa valere in giudizio il diritto al risarcimento.

.5.2 – La censura poggia su argomentazioni assolutamente generiche e non dimostrative di errori da parte della Corte territoriale, che non ha violato i principi che regolano l’onere della prova.

Anche questo motivo è assistito da un quesito generico e astratto, quindi inidoneo a soddisfare le esigenze perseguite dall’art. 366-bis c.p.c..

.6.1 – Il sesto motivo adduce violazione dell’art. 97 Cost. e art. 1227 c.c..

Il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto irrilevante la mancata osservanza da parte dell’Ufficio delle Entrate della prassi di accompagnare la richiesta di notificazione degli avvisi di accertamento tributari con l’indicazione del termine ultimo per la notifica.

.6.2 – Pur formalmente prospettata sotto il profilo della violazione di norme di diritto, in realtà la censura attacca un profilo valutativo, quindi di merito, della sentenza impugnata, la quale ha fatto leva sul lasso temporale più che congruo a disposizione del Comune per fare eseguire la notifica.

Il quesito finale è astratto.

.7 – Pertanto il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono il criterio della soccombenza. La liquidazione avviene come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 2.800,00, di cui Euro 2.600,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2013


Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-06-2013) 03-09-2013, n. 35992

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARASCA Gennaro – Presidente –

Dott. BEVERE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. LIGNOLA Ferdinando – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 29/2009 TRIBUNALE di CHIETI, del 10/05/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/06/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO BEVERE;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IZZO Gioacchino, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza 7.6.2012, il tribunale di Chieti ha confermato la sentenza 17.2.09 del giudice di pace di Chieti con la quale B. L., capitano della polizia municipale e responsabile provinciale del sindacato Os.Pol, è stato condannato, previa concessione della attenuanti generiche, alla pena di Euro 300 di multa, al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese, in favore della parte civile, perchè riconosciuto responsabile del reato di ingiuria continuata in danno di D.G.D., comandante del corpo di polizia municipale del comune di Chieti, rivolgendole, alla presenza di più componenti del corpo di agenti municipali, le parole “in questo comando non lavora nessuno….lei è una bugiarda Io non parlo con i bugiardi…”.

Il difensore ha presentato ricorso per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 594 c.p., commi 1 e 3: l’erroneità della sentenza deriva dalla mancata contestualizzazione dei fatti.

Alle ore 8 del (OMISSIS), tra l’agente di polizia municipale del comune di Chieti, L.M. e la comandante dello stesso corpo di polizia, D.G. si era svolta una conversazione, che, grazie al congegno di viva voce, era stato ascoltato da quattro vigili urbani, presenti nella stanza della querelante.

La conversazione si era conclusa in maniera non soddisfacente per la L., sotto il profilo della sua posizione lavorativa e pertanto quest’ultima si era rivolta al proprio rappresentante sindacale B.L.. Entrambi si erano quindi recati, verso le ore 13,50 del (OMISSIS), presso l’ufficio della D.G., per trattare alcune rimostranze della L., che riteneva di essere vittima di iniqua distribuzione di carico di lavoro, sotto il profilo quantitativo, e di emarginazione, sotto il profilo qualitativo.

La conversazione si incentrava sul contenuto della telefonata, intercorsa alle 8 di quella stessa giornata; essendo sorto un contrasto tra la L. e la comandante D.G. sulla sua rievocazione, ed essendo stata invocata da quest’ultima, a conferma della propria tesi, la presenza degli altri vigili, il B. pronunciò la frase “in questo comando non lavora nessuno”.

Tale espressione eventualmente potrebbe essere ritenuta diretta verso il maresciallo Le. e l’appuntato G., presenti nell’ufficio, e comunque non aveva valenza offensiva, essendo espressa in forma dubitativa e ironica e ed essendo priva di animus iniurandi. Quanto alle altre affermazioni (bugiarda, io non parlo con i bugiardi), esse sono state ricordate solo dai predetti Le. e G. e sono state negate dalla L., tanto da giustificare l’assoluzione per insufficiente raggiungimento della prova. In ogni caso si tratta di affermazioni espresse nel corso di una discussione di contenuto sindacale, legittimante un maggiore tolleranza, in quanto caratterizzato da forte conflittualità e dalla desensibilizzazione, da parte di tutti i partecipanti, rispetto al comune linguaggio ingiurioso.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza recente, le ingiurie pronunciate nel mondo del lavoro, tra colleghi esercenti medesima attività professionale, perdono carica offensiva, e vanno collocate sotto la scriminante del diritto di critica.

Infine, secondo il ricorrente, nessun rilievo va riconosciuto alla circostanza che la comandante D.G., subito dopo il colloquio abbia fatto ricorso alle cure del locale nosocomio. Inoltre è erroneo il mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche, tenuto conto del tono della discussione(definita accesa per tutti i partecipanti),dello stato dell’imputato, della mancata presenza della parte civile nel giudizio di appello.

Il ricorso non merita accoglimento.

E’ del tutto infondata la tesi difensiva, secondo cui le frasi pronunciate dal B., in qualità di esponente sindacale e in difesa della posizione di un’aderente all’associazione Os.Pol. non hanno efficacia lesiva dell’onore della D.G.: l’affermazione circa il mancato svolgimento di attività lavorativa, da parte di addetti alla polizia municipale, si traduce inevitabilmente in un’accusa – mossa alla dirigente – di incapacità organizzativa delle delicate funzioni dei singoli vigili urbani e di carenza di controllo sul diligente ed efficace svolgimento di tali funzioni.

L’accusa, diretta alla D.G., di mentire e di violare la verità, nell’ambito di una pur accesa polemica, ugualmente costituisce un’indubitabile lesione dell’onore e del decoro della donna, sotto il profilo etico e professionale. Nessun rilievo di esimente o di maggiore efficacia attenuante può essere riconosciuto alla funzione sindacale svolta dal B.. Va infatti razionalmente respinta la tesi della speciale rimozione o attenuazione dell’antigiuridicità delle espressioni offensive, per il linguaggio dei protagonisti delle massime vicende di una civile comunità democratica. Lo scontro, la polemica, il dissenso, maturati nel confronto di opposti schieramenti o di opposte individualità, devono avvenire, come in tutti i casi riguardanti i comuni cittadini, nell’ambito del rispetto delle regole giuridiche e della civile convivenza. Non è quindi invocabile l’esimente dell’esercizio del diritto di critica sindacale qualora l’espressione consista non già in un dissenso motivato, manifestato in termini misurati e necessari, bensì in un attacco personale, con espressioni direttamente calibrate a ledere la dignità morale, professionale ed intellettuale dell’avversario e del contraddittore.

La richiesta di riconoscimento della prevalenza delle concesse attenuanti generiche è del tutto infondata: al di là della genericità e inconsistenza degli argomenti dello “stato” del B., del tono della discussione e dell’assenza della persona offesa nel giudizio di appello, va rilevato che nessuna censura è formulabile, in sede di legittimità, nei confronti della quantificazione della pena, laddove, come nel caso di specie, i giudici di merito abbiano esercitato in maniera assolutamente corretta il potere discrezionale in tema di trattamento sanzionatorio riconosciuto dal legislatore. Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 26-06-2013) 26-08-2013, n. 19579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23485-2010 proposto da:

SODEXO ITALIA S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio degli avvocati PROIETTI FABRIZIO, FORTI BRUNO che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato PANICI PIER LUIGI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

M.D., V.F., P.G., B. V., G.G., U.T., D. M., I.R., C.G., PI. F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 8969/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/03/2010 R.G.N. 1379/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/06/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato PROIETTI FABRIZIO;

udito l’Avvocato PANICI PIERLUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’appello di Roma, S.S., G.G., U.T., Pi.Fr., D.M., P.G., V.F., I. R., M.D., B.V., C.G. proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva rigettato le loro domande proposte nei confronti della loro datrice di lavoro, Sodexo Italia S.p.A., per sentirla condannare al pagamento in loro favore della somma mensile di Euro 50,00, corrispondente al costo del lavaggio dei loro abiti da lavoro di addetti al servizio mensa.

Censuravano la sentenza gravata per non aver adeguatamente valutato sia la previsione dell’art. 124 c.c.n.l. turismo pubblici esercizi, sia gli specifici obblighi contrattuali assunti dalla società datrice.

Radicatosi il contraddittorio, l’adita Corte d’appello, con sentenza depositata il 4 marzo 2010, accoglieva le domande dei lavoratori. Per la cassazione propone ricorso la Sodexo, affidato ad unico, articolato, motivo.

Resiste il solo S. con controricorso, mente gli altri lavoratori sono rimasti intimati.

Motivi della decisione
1.- La società Sodexo Italia censura la sentenza impugnata ex artt. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. Lamenta in particolare che i lavoratori in epigrafe erano,od erano stati,dipendenti della Sodexo Italia s.p.a., azienda di ristorazione collettiva, in favore di uffici, enti pubblici e privati, sanità, che, fra gli altri, ha tra i suoi clienti le 7 sedi RAI in Italia.

Lamenta che nessuna fonte, legale, contrattuale ovvero derivante da usi, imponeva all’azienda di sopportare il costo del lavaggio della divisa di lavoro, la cui fornitura e costo pure ammetteva essere tenuta a sostenere in base al c.c.n.l. di categoria, e che i dipendenti pur erano obbligati ad indossare durante il lavoro.

Lamenta tuttavia che l’art. 124 del c.c.n.l. di categoria vigente all’epoca dei fatti e non meglio individuato, così come il precedente c.c.n.l. del 1976, non prevedeva(no) alcunché per il lavaggio, ed anzi stabiliva(no) l’obbligo della divisa solo in caso in cui i dipendenti fossero a contatto con particolari sostanze (imbrattanti o corrosive).

Negava l’esistenza di prassi aziendali in tal senso e contestava la giurisprudenza affermatasi sul punto unicamente con riferimento alle divise obbligatoriamente utilizzate dal personale addetto alla nettezza urbana, che assumevano in tal caso, ed a differenza delle divise oggetto di causa, natura di presidio protettivo ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994.

1.1- Il ricorso è in larga parte inammissibile per non avere chiarito la ricorrente le norme di legge violate, mentre quelle contenute nell’invocato c.c.n.l. non possono esaminarsi a causa della mancata produzione, o specificazione in ricorso, del contratto (Cass. sez.un. 3 novembre 2011 n. 22726; Cass. ord. 30 luglio 2010 n. 17915).

Per completezza espositiva può rilevarsi, nel merito, che nella specie è pacifico, e la Corte di merito ha comunque accertato, che nel contratto di appalto tra la Sodexo Italia e la Rai la prima si fosse obbligata a dotare il personale “di cuffie, grembiuli e divise sempre pulite”.

Ne discende, pianamente, che l’azienda è tenuta a dotare il personale di divise sempre pulite, e dunque di sopportarne il relativo costo, sicché (cfr. Cass. n. 23314 del 2010; Cass. n. 22929 del 2005, pur inerenti le divise del personale addetto alla nettezza urbana) dal suo inadempimento consegue l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.. Peraltro lo stralcio dell’art. 124 c.c.n.l., riportato dalla stessa società Sodexo Italia a pag. 6 del ricorso, prevede che “quando viene fatto obbligo al personale di indossare speciali divise, diverse da quelle tradizionali di cui all’art. 98 del c.c.n.l. 14 luglio 1976, la spesa relativa è a carico del datore di lavoro”. Nella specie non è adeguatamente chiarito, in contrasto col principio di autosufficienza del ricorso, quali siano le speciali divise di cui alla pretesa norma contrattuale collettiva, e soprattutto quali quelle, diverse, di cui al menzionato art. 98 del c.c.n.l. del 1976, non risultando, come detto, depositati o riprodotti in ricorso relativi documenti.

Deduce poi la ricorrente che la tesi della Corte di merito -secondo cui dalla clausola del contratto di appalto, vincolante solo tra l’appaltante e l’appaltatrice, derivasse una prestazione in favore di terzi- era illegittima, non prevedendo l’ordinamento effetti del contratto in favore di terzi se non nei casi previsti dalla legge (pag. 10 ricorso).

La censura è infondata, posto che l’art. 1411 c.c. stabilisce che è sempre valida la stipulazione di un contratto a favore di terzi, purché lo stipulante vi abbia interesse. Nella specie è indubbio che la società appaltante, che risulta aver esplicitamente inserito nel contratto di appalto che l’appaltatrice era obbligata a far indossare ai lavoratori una divisa di lavoro (cuffie, grembiuli e divise) “sempre pulita”, ha evidentemente interesse a ciò, sicché non contrasta col principio di cui alla citata norma codicistica, l’obbligo della datrice di lavoro di sostenere le spese di lavaggio (o di rimborsare al lavoratore quelle a tal scopo personalmente sostenute).

Il ricorso deve pertanto respingersi essendo la ratio decidendi ora esaminata corretta ed idonea a sorreggere il decisum della sentenza impugnata.

Le spese, con riferimento all’unico intimato costituito, seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore dell’avv. Pier Luigi Panici, dichiaratosi antecipante.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, in favore dello S., che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per compensi, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. Pier Luigi Panici. Nulla per le spese quanto alle parti rimaste intimate.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2013


Corte Suprema di Cassazione, sentenza 01.08.2013, n. 18492

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1749-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

S.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 357/5/2010 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI – Sezione Staccata di SALERNO dell’11.10.2010, depositata il 22/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2013 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA;

La Corte, ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La CTR di Napoli, accogliendo parzialmente l’appello di S. E. – appello proposto contro la sentenza n.437/01/2007 della CTP di Avellino che aveva respinto il ricorso della parte contribuente relativo a cartelle di pagamento per IVA-IRPEF-IRAP ed addizionali comunali per gli anni 2002-2003 – ha dichiarato nullo il ruolo n. 2006/379 confermando invece gli altri oggetto del giudizio.

La CTR ha motivato la propria decisione nel senso che era risultato dalla documentazione depositata agli atti che gli avvisi di accertamento presupposti rispetto al ruolo risultavano notificati a tale F.A. (che si era dichiarata moglie capace e convivente e che aveva sottoscritto la notifica), soggetto del tutto estraneo al rapporto tributario, residente in altro comune rispetto a quello del destinatario della notifica e rispetto al quale la F. non risultava essere in rapporto nè familiare, nè di vicinanza nè di coniugio. Essendo risultata inesistente la notifica dell’atto presupposto, anche il ruolo e la cartella di pagamento risultavano viziati. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La parte contribuente non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Ed invero, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione dell’art. 2700 c.c.) la parte ricorrente si duole del fatto che il giudicante del merito abbia inficiato – sulla base della documentazione risultante in atti- la fede privilegiata della relata di notifica, dalla quale risulta che il soggetto consegnatario si era qualificato moglie convivente all’atto di ricevere la notifica e di sottoscriverla. La censura appare fondata e da accogliersi in ragione del solo primo motivo, con assorbimento del secondo.

Il giudice del merito ha dato prevalenza alla documentazione depositata in giudizio e dalla quale risultava che la F. non fosse in rapporto di coniugio nè convivente con lo S., senza curarsi del fatto che la F. medesima (con dichiarazione resa all’ufficiale che aveva curato la notifica, e perciò dotata di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.) si era qualificata moglie convivente ed aveva accettato di ricevere la notifica. Di tanto il giudice del merito avrebbe dovuto contentarsi per ritenere efficace e valida la notifica, alla luce della confermata giurisprudenza di questa Corte. Si veda, per tutte (senza che il riferimento a diversa figura soggettiva alteri la correttezza del principio e la sua applicabilità al caso qui in esame) Cass. Sez. L, Sentenza n. 239 del 10/01/2007: “In caso di notificazione effettuata a norma dell’art. 139 c.p.c., comma 2, con consegna dell’atto a persona qualificatasi (secondo le dichiarazioni rese all’ufficiale giudiziario e dal medesimo riportate nella relata di notificazione) quale dipendente del destinatario o addetta all’azienda, all’ufficio o allo studio del medesimo, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere contestate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle dipendenze esclusive di altro soggetto, se non accompagnata dalla prova che il medesimo consegnatario non era addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del destinatario”.

Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza e che la Corte possa decidere la controversia anche nel merito (non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto) respingendo integralmente il ricorso della parte contribuente avverso le impugnate cartelle di pagamento.

Roma, 25 marzo 2012.

Che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;

che le spese di lite possono essere regolate secondo il criterio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso del contribuente avverso il provvedimento impositivo. Condanna la parte contribuente a rifondere le spese di lite di questo grado, liquidate in Euro 10.200,00 oltre spese prenotate a debito e compensa tra le parti le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2013


Corte Suprema di Cassazione, Sentenza 30.07.2013, n. 18251

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 11799-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

A.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato POLCHI RODOLFO, rappresentato e difeso dall’avvocato SINISCALCO MARCO, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente al ricorrente incidentale –

e contro

EQUITALIA POLIS SPA;

– intimata –

– ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 57/15/2010 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 15.3.2010, depositata il 17/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2013 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA. La Corte, ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La CTR di Napoli ha respinto l’appello dell’Agenzia – appello proposto contro la sentenza n. 102/38/2008 della CTP di Napoli, che aveva accolto il ricorso della parte contribuente A.G., relativo ad avviso di intimazione di pagamento per Tarsu afferente il periodo 1996/2004 inviato dal Concessionario per la riscossione – ed ha perciò dichiarato nullo il provvedimento in questione per vizio di notifica dello stesso.

La CTR ha motivato la propria decisione – dopo aver dato atto che il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso evidenziando che nel procedimento di notifica al destinatario irreperibile, “alla affissione deve conseguire la comunicazione di essa al destinatario con raccomandata”- nel senso che Equitalia “non ha comunque provato che il contribuente è venuto a conoscenza della richiesta di pagamento”; ed inoltre nel senso che “sussiste la prescrizione del diritto secondo la vigente normativa”. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La parte contribuente si è costituita con controricorso ed ha formulato ricorso incidentale sul capo di regolazione delle spese di lite.

Equitalia Polis spa non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Ed invero, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. E in combinato disposto con l’art. 140 c.p.c.) la parte ricorrente principale – dopo avere dato atto che la cartella di pagamento concerneva somme dovute ai fini INVIM a seguito di registrazione di atto di compravendita e che la notifica della stessa era avvenuta ai sensi dell’art. 60 sopra menzionato – assume che la CTR ha erroneamente mostrato di ritenere che per il perfezionamento del procedimento di notifica sia necessaria la spedizione della raccomandata di cui all’art. 140 c.p.c., per quanto detto incombente non sia espressamente previsto dalla norma, secondo la quale la procedura di notificazione si conclude con l’affissione dell’avviso all’albo del comune se in esso “non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, giacchè non avrebbe senso nell’ipotesi di trasferimento del destinatario per località ignota l’invio di una raccomandata”. La censure appaiono infondate e da disattendersi, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 14316 del 28/06/2011) secondo cui: “In tema di riscossione delle imposte dirette, nell’ipotesi in cui una cartella esattoriale venga notificata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 3, e quindi con deposito presso la casa comunale, affissione alla porta del destinatario e invio della raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini della tempestività dell’impugnazione della detta cartella, il “dies a quo” della decorrenza del termine deve essere individuato, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 3 e l’ordinanza 25 febbraio 2011, n. 63, nel giorno del ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata”. Alla luce dei predetti principi (ed atteso che nella specie di causa – secondo quanto si desume dalla sentenza impugnata e senza che la contraria ipotesi sia stata dimostrata vera dalla parte ricorrente nell’assolvimento del proprio onere di autosufficienza – si versa nell’ipotesi dell’irreperibilità prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 a mezzo del richiamo alle fattispecie regolate dall’art. 140 c.p.c.), non vi è ragione di perseverare nell’affermare la necessaria distinzione tra la procedura di notifica all’irreperibile disciplinata dall’art. 140 c.p.c. e quella disciplinata dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 60 siccome -per effetto dell’interpretazione adeguatrice implicata dalle menzionate pronunce della Corte Costituzionale- entrambe le norme impongono -ormai- la comunicazione per raccomandata dell’avvenuta effettuazione delle formalità di affissione e deposito, senza la quale non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio, ciò che appunto è stato rilevato dal giudice del merito come oggetto della prova necessaria che incombe sulla parte notificante, senza che a tal fine rilevi se il giudicante ha identificato la norma precettiva nell’uno o nell’altro dei due articoli menzionati.

Non resta che ritenere che la Commissione di merito si sia correttamente attenuta al principio di diritto dianzi enunciato, senza che rilevino ai presenti fini le pronunce di questa Corte che sono state menzionate dalla parte ricorrente a sostegno della propria tesi (Cass. 6102/2011; Cass. 22677/2007), atteso che esse si riferiscono alla differente ipotesi in cui “nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi e1 abitazione, ufficio o azienda del contribuente”, sicchè poi l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione. Sulla necessaria distinzione della procedura applicabile nelle due diverse ipotesi si veda anche (di recente) Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14030 del 27/06/2011. Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sul vizio di motivazione) la ricorrente formula una sterile critica alla pronuncia impugnata, identificando come fatto controverso la questione della correttezza della notifica di cui si è detto, che invece “fatto” non è, giacchè invece è un giudizio risultante dalla corretta applicazione della disciplina di legge di cui già si è detto. Anche detto motivo appare – perciò – inammissibilmente formulato. Con il terzo motivo di ricorso (centrato sulla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3) la parte ricorrente assume che il procedimento di notifica si è concluso correttamente e che l’omessa impugnazione della cartella rende quest’ultima irretrattabile, sicchè la CTR ha errato a dichiarare prescritto il diritto alla riscossione, in ragione di un atto quale l’intimazione di pagamento, che avrebbe potuto essere impugnato solo per vizi propri.

Il motivo è assorbito dall’esito dell’esame di quello che precede, giacchè è logicamente sorretto dall’assunto della correttezza della procedura di notificazione che -come dianzi si è detto- è risultato invece smentito.

Con il quarto motivo di impugnazione (centrato sulla violazione dell’art. 2934 c.c. e contempo sul vizio di motivazione) la parte ricorrente si duole dell’erronea affermazione contenuta nella sentenza impugnata circa l’avvenuta prescrizione del diritto alla riscossione, mentre tutta l’attività descritta da controparte in ricorso è idonea a determinare l’interruzione dei termini di prescrizione. In ogni caso, l’avvenuta prescrizione del diritto era risultata del tutto indimostrata nella sentenza della CTR che -a riguardo – aveva omesso qualsiasi delucidazione.

Anche detto ultimo motivo del ricorso principale appare inammissibilmente formulato.

Quanto al primo profilo, perchè la parte ricorrente postula una idoneità astratta e non concreta, non avendo chiarito in quali termini le “attività” genericamente indicate abbiano effettivamente determinato l’interruzione del termine prescrizionale; quanto al secondo profilo, perchè la censura non identifica quel fatto controverso che potrebbe costituire l’oggetto esclusivo del vizio motivazionale.

Venendo al ricorso incidentale (centrato sulla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15 nonchè sul vizio di motivazione), la parte ricorrente si duole del fatto che il giudice del merito abbia compensato le spese di giudizio sulla scorta del semplice richiamo alla “natura del giudizio” e perciò con motivazione di stile e sostanzialmente tautologica.

Il motivo appare fondato e da accogliersi, alla luce della costante e ribadita giurisprudenza di questa Corte (si veda, per tutte Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 26987 del 15/12/2011) secondo la quale: “In tema di spese giudiziali, le gravi ed eccezionali ragioni, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2), il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio non possono essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato nè dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato compensate le spese in un giudizio di opposizione avverso l’irrogazione di sanzione amministrativa, sul presupposto della limitata attività difensiva della parte, correlata alla natura della controversia)”.

Poichè nel provvedimento qui impugnato non ha trovato rilievo alcuno – ai fini della compensazione- il fatto processuale controverso ma una generica considerazione della natura della controversia, non idonea a costituire oggetto del controllo che compete a questa Corte, non resta che concludere che la pronuncia merita – sul punto-Cassazione, con conseguente rimessione della lite al giudice del merito affinchè rinnovi l’apprezzamento in ordine alla questione relativa alla regolazione delle spese di lite ed alla loro liquidazione.

Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza e inammissibilità, quanto al ricorso principale, e per manifesta fondatezza quanto al ricorso incidentale.

Roma, 20 novembre 2012.

Che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;

che le spese di lite possono essere regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed accoglie quello incidentale. Cassa la decisione impugnata, in relazione a quanto accolto, e rinvia alla CTR Campania che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese di lite del presente grado.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2013


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 12-07-2013) 08-08-2013, n. 18980

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14392/2010 proposto da:

L.C. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. COLOMBO 436, presso l’avvocato CARUSO RENATO, rappresentata, e difesa dall’avvocato MASI MARCO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BUDRIO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. MICHELINI TOCCI 50, presso l’avvocato VISCONTI CARLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MONTUSCHI LUIGI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 20440/2009 del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il 23/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/07/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato B.M. CARUSO, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato C. VISCONTI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- L.C. ha proposto ricorso per cassazione – affidato a un solo motivo – contro la sentenza depositata il 23.6.2009 con la quale il Tribunale di Bologna ha rigettato la sua domanda di cancellazione di dati personali sensibili e giudiziari nonché‚ di risarcimento dei danni proposta ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, nei confronti del Comune di Budrio.

Il Tribunale ha ritenuto che fossero stati rispettati i principi di pertinenza e necessità e che non fossero stati diffusi dati riguardanti lo stato di salute della ricorrente (essendo generica la dizione “assenza per malattia” così come il termine “mobbing”) ovvero dati giudiziari.

Resiste con controricorso l’amministrazione comunale intimata.

Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., le parti hanno depositato memoria.

2.- Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto e formula, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, il seguente quesito di diritto: “se la pubblicazione, da parte di un’amministrazione comunale, all’Albo Pretorio nonché‚ sul sito internet ufficiale, dei dati personali di un proprio dipendente relativi allo stato di malattia dello stesso nonché‚ alla pendenza tra le parti di procedure giudiziarie aventi per oggetto il mobbing e, ancora, l’omessa pubblicazione dei dati personali dello stesso all’interno dell’organigramma comunale siano comportamenti posti in violazione delle norme in materia di protezione dei dati personali, d.lgs. n. 196/2003, ed in particolare degli artt. 3, 4, 11, 15 e 22”.

3.- Il ricorso è fondato.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 22, invero, dispone che “i soggetti pubblici conformano il trattamento dei dati sensibili e giudiziari secondo modalità volte a prevenire violazioni dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dell’interessato” (comma 1).

Inoltre, “i soggetti pubblici possono trattare solo i dati sensibili e giudiziari indispensabili per svolgere attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa” (comma 3) e “i dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi” (comma 8), mentre rispetto ai dati sensibili e giudiziari “i soggetti pubblici sono autorizzati ad effettuare unicamente le operazioni di trattamento indispensabili per il perseguimento delle finalità per le quali il trattamento Š consentito, anche quando i dati sono raccolti nello svolgimento di compiti di vigilanza, di controllo o ispettivi”.

Questa Corte, in fattispecie analoga (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 12726 del 2012), ha affermato: Gli enti locali, in quanto soggetti pubblici, possono trattare dati di carattere personale anche sensibile e giudiziario solo per svolgere le rispettive funzioni istituzionali (L. n. 675 del 1996, art. 27). La pubblicazione e la divulgazione di atti e documenti determinano una “diffusione” di dati personali, comportando la conoscenza di dati da parte di un numero indeterminato di cittadini e l’interferenza nella sfera personale degli interessati che ne consegue è legittima, solo se la diffusione è prevista da una norma di legge o di regolamento (L. n. 675 del 1996, art. 1, comma 2, lett. h), e art. 27, comma 1).

In ogni caso la diffusione deve essere rispettosa dei criteri dettati dalla L. n. 675 del 1996, art. 9, in forza del quale i dati personali devono essere “a) trattati in modo lecito e secondo correttezza” e, in ogni caso, “d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati”.

Se la menzione di dati personali relativi alla ricorrente nelle deliberazioni adottate risultava lecita, anche alla luce del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 183, il quale prevede, per l’adozione degli impegni di spesa, che debba essere indicata oltre alla somma da pagare ed al soggetto creditore anche la ragione di tale impegno, per converso, non rispettosa, dei criteri di pertinenza e proporzionalità di cui alla L. n. 675 del 1996, art. 9, sono state le modalità di diffusione dei dati della ricorrente nella versione dell’ordine del giorno della seduta del Consiglio comunale riportato nell’avviso pubblico di convocazione dello stesso.

E’ stato, altresì, affermato che “la pubblica amministrazione commette illecito se effettua il trattamento di un dato che risulti eccedente le finalità pubbliche da soddisfare” (Sez. 1^, n. 2034/2012).

I medesimi principi – benché‚ enunciati alla luce della L. n. 675 del 1996, sul punto non difforme dal D.Lgs. n. 196 del 2003, – risultano applicabili nella concreta fattispecie, tenuto conto che la “salute” è definibile come stato di benessere fisico e di armonico equilibrio psichico dell’organismo umano, in quanto “esente da malattie”, da imperfezioni e disturbi organici o funzionali. Talch‚ costituisce diffusione di un dato sensibile quello relativo all’assenza dal lavoro di un dipendente per malattia.

Inoltre, va tenuto conto della circostanza che “per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”. In particolare, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, tra l’altro, rilevanti l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente e il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore (Sez. L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009).

Il Garante della protezione dei dati personali, peraltro, sin dal 2004 (e in relazione alla Guardia di Finanza) ha ritenuto che l’indicazione del dato relativo all’assenza per “convalescenza” da luogo ad un trattamento di dati sensibili dal momento che tale informazione, pur non facendo riferimento a specifiche patologie, Š comunque suscettibile di “rivelare lo stato di salute” dell’interessato (art. 4, comma 1, lett. d) del Codice (V., ora, le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” – 14 giugno 2007 in G.U. 13 luglio 2007, n. 161 p.8.2:

“Riguardo al trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute, la normativa sul rapporto di lavoro e le disposizioni contenute in contratti collettivi possono giustificare il trattamento dei dati relativi a casi di infermità che determinano un’incapacità lavorativa (temporanea o definitiva), con conseguente accertamento di condizioni di salute del lavoratore da parte dell’amministrazione di appartenenza, anche al fine di accertare l’idoneità al servizio, alle mansioni o allo svolgimento di un proficuo lavoro. Tra questi ultimi può rientrare anche una informazione relativa all’assenza dal servizio per malattia, indipendentemente dalla circostanza che sia contestualmente indicata esplicitamente la diagnosi”). L’art. 8 della direttiva 95/46/CE, peraltro, fa riferimento semplicemente ai “dati relativi alla salute” e non può essere messo in dubbio che un’assenza dal lavoro “per malattia” costituisca un dato personale “relativo alla salute” del soggetto cui l’informazione si riferisce.

Trova quindi applicazione, nel caso di specie, la disciplina sul trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici. L’art. 22, comma 3, del Codice prevede che tali soggetti possono trattare solo i dati sensibili indispensabili per svolgere attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa.

Da ultimo va chiarito che l’omessa pubblicazione dei dati personali della ricorrente all’interno dell’organigramma comunale va apprezzata quale violazione del principio di completezza dei dati personali trattati dall’amministrazione.

Il ricorso, dunque, deve essere accolto. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per nuovo esame e per il regolamento delle spese al Tribunale di Bologna, in persona di diverso magistrato.

Non rileva, infine, nel presente procedimento (ratione temporis) la norma di cui al D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, art. 4, comma 5, (Limiti alla trasparenza), secondo la quale “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché‚ le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d)”.

Il detto provvedimento legislativo, infatti, è in vigore soltanto dal 20 aprile 2013.

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 154, comma 6, copia del presente provvedimento sarà trasmessa, a cura della cancelleria, al Garante.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese al Tribunale di Bologna in persona di diverso magistrato.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2013


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 06/03/2013) 07/08/2013, n. 18808

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 333-2008 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS) DI NUORO (OMISSIS) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 24, presso lo studio dell’avvocato MASINI MARIA STEFANIA, rappresentata e difesa dall’avvocato MOCCI ANGELO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.C. C.F. (OMISSIS), S.A. C.F. (OMISSIS) domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato BACCHIS MARCO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

D.M., C.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 343/2007 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 19/10/2007 r.g.n. 315/06 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2013 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI’;

udito l’Avvocato MOCCI ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Cagliari ha confermato la sentenza del Tribunale di Oristano che aveva accolto le domande proposte da M. D., F.C., C.L. e A. S., tutti dipendenti dell’Azienda Sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Nuoro – provenienti dalla USL (OMISSIS) di Sorgono ed in servizio presso il presidio ospedaliere (OMISSIS) con la qualifica di infermieri generici – ed accertato l’avvenuto svolgimento delle mansioni proprie della qualifica di “infermiere professionale” nel periodo dal 1.7.1998 al 11.8.2004 per sopperire a carenze organizzative e di personale ed assicurare il servizio dovuto. Per l’effetto aveva condannato la convenuta al pagamento delle differenze retributive chieste avuto riguardo da un canto alla categoria BS loro riconosciuta e dall’altro alle mansioni riconducibili alla categoria C, di infermiere professionale, effettivamente svolte.

La Corte d’appello ha verificato e confermato che, in esito all’istruttoria espletata in primo grado, era risultato provato lo svolgimento delle mansioni in relazione alle quali erano rivendicate le differenze retributive.

Ha poi accertato che sulla base della contrattazione collettiva 1998- 2001 la figura dell’infermiere generico, rivestita dai lavoratori era conservata ad esaurimento mentre era prevista come categoria generale la figura dell’infermiere professionale, categoria C, e quella del collaboratore professionale, categoria D. Ha quindi sottolineato che la domanda era stata ridotta alle differenze retributive dovute in relazione allo svolgimento delle mansioni riconducibili alla categoria C, escludendo che a ciò fosse d’ostacolo la mancanza di un formale atto di assegnazione essendo sufficiente la prova dello svolgimento in concreto di mansioni che peraltro non era stato negato, nella sua materialità, dall’azienda che in primo grado si era limitata a contestare la riconducibilità di quei compiti alla qualifica rivendicata.

Quindi esaminate comparativamente, alla luce delle declaratorie legali e, poi, di quelle collettive (D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 e ccnl comparto sanità pubblica 1998- 2001, art. 28) le mansioni proprie delle due qualifiche, ne ha evidenziato, per taluni aspetti, la coincidenza ed ha confermato la correttezza dell’accertamento che le mansioni svolte, sotto il profilo qualitativo e quantitativo davano diritto ai compensi chiesti atteso che non erano riconducibili alla qualifica di infermiere generico rivestita ed avevano il necessario carattere della continuità e prevalenza.

Quanto alla pretesa “inconsapevolezza” dell’azienda appellante del concreto svolgimento delle dette mansioni, asseritamente prestate su un piano meramente volontario, la Corte di merito ne ha escluso la credibilità stante la loro durata extraquinquennale ed il concreto coinvolgimento del personale nell’organizzazione dei turni di assistenza.

Inoltre il giudice di appello ha motivatamente escluso che la coincidenza di talune mansioni tra i due profili valesse ad attrarle nel profilo inferiore ed ha respinto l’interpretazione data dall’azienda alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56) avendo accertato da un canto che non si era trattato di una sostituzione momentanea di lavoratori con diritto alla conservazione del posto ed escludendo che si possa ravvisare una violazione dell’art. 2126 c.c. tenendo conto del fatto che l’azienda ha “tollerato” l’organizzazione del lavoro nel pronto soccorso con adibizione di personale privo di una specifica qualificazione come infermiere professionale, per oltre cinque anni prima di intervenire con un ordine di servizio che ripristinasse la regolarità delle attribuzioni al personale infermieristico.

Per la cassazione della sentenza ricorre la Azienda sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Nuoro sulla base di un solo motivo.

Resistono con controricorso F.C. ed S.A. mentre gli altri resistenti sono rimasti intimati.

Motivi della decisione
Con un unico motivo di ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3.

Sostiene la ASL ricorrente che ai lavoratori non potevano essere riconosciute le differenze retributive chieste atteso che, nel caso in cui per lo svolgimento di mansioni superiori sia necessario il possesso di uno specifico titolo di studio o di una particolare abilitazione professionale (nella specie infermiere professionale), sono ravvisabili quei profili di illiceità nello svolgimento delle mansioni che non consentono l’applicazione dell’art. 2126 c.c..

Nè ad avviso della ricorrente sarebbe risultato provato nel corso del giudizio che l’attività sarebbe stata svolta con il consenso del datore di lavoro posto che, al contrario, dalla documentazione versata in atti si evincerebbe che il Direttore Sanitario aveva provveduto a diffidare i dipendenti dallo svolgimento di mansioni non riconducibili a quelle proprie di inquadramento.

Aggiunge poi la ASL che, ove pure si ammettesse una tolleranza dell’esercizio di una attività riconducibile ad una qualifica superiore, ciò non autorizzerebbe comunque il riconoscimento delle differenze retributive stante il carattere illecito dell’attività svolta.

A conclusione della censura formula il seguente quesito:

“Dica la Corte, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2126 c.c., se lo svolgimento con carattere di continuità e di prevalenza da parte di infermieri generici di attività rientranti nel profilo di un infermiere professionale sia da considerarsi illecita perchè derivante da violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela non del prestatore ma bensì del diritto alla salute, costituzionalmente garantito in via preminente alla generalità dei cittadini e, conseguentemente, dia o meno titolo per ottenere il pagamento delle relative differenze retributive anche nel caso in cui ciò fosse avvenuto su disposizione e/o con il consenso del datore di lavoro”.

La censura è destituita di fondamento.

Occorre preliminarmente ricordare che nell’ambito della c.d.

contrattualizzazione o privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la materia dello svolgimento delle mansioni superiori è stata disciplinata dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56 che è stato novellato con il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25 e, quindi, ancora nel D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15, comma 6.

La disposizione, così complessivamente modificata, è stata, poi, testualmente riprodotta nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 (norme generali dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche) che ha confermato, anche nell’ambito del nuovo regime del lavoro dei pubblici dipendenti, il principio secondo cui l’”esercizio di fatto di mansioni diverse da quelle della qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore (…)” (art. 52, ultima parte del comma 1).

Con riguardo alle modifiche apportate nel tempo, questa Corte ha in più occasioni affermato che “nel pubblico impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6 – come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 – è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6, ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. La portata retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali” (cfr. Cass. 4.2.2008 n. 2611 e già Cass. 8.1.2004 n. 91).

Individuati i casi in cui è legittima l’assegnazione temporanea a mansioni superiori (art. 52, comma 2), precisate le caratteristiche che lo svolgimento delle mansioni superiori deve avere per essere considerato tale (comma 3 della citata norma) il quinto comma prescrive quindi che “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”.

Ritiene questa Corte che la disposizione citata costituisca norma speciale rispetto alla disposizione generale contenuta nell’art. 2126 c.c. (che nell’ultimo alinea del comma 1 prevede che, ove la nullità del contratto di lavoro derivi da una “illiceità dell’oggetto o della causa”, la prestazione di fatto resa non produca alcun effetto). Per tale ragione è infondata la tesi della ASL ricorrente, che sostanzialmente reclama l’applicazione della norma generale in luogo di quella speciale dettata dal più volte richiamato art. 52, disposizione che, nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico privatizzati, ha una portata generale. Peraltro le domande giudiziali nel caso in esame fanno riferimento ad un’attività prestata in un periodo in cui la disciplina era entrata pienamente in vigore trattandosi di attività prestate successivamente alla data di decorrenza dell’efficacia del c.c.n.l per il comparto sanità stipulato il 7.4.1999 (G.U. 19 aprile 1999), ma relativo, dal punto di vista normativo, al quadriennio 1998-2001.

Che poi l’intento del legislatore fosse inteso a bilanciare il diritto costituzionalmente garantito ad una retribuzione proporzionata (art. 36 Cost.) alla quantità e qualità dell’attività lavorativa svolta con il dovere per l’amministrazione di procedere nel rispetto dei principi di “buona amministrazione” dettati dall’art. 97 Cost. è confermato dalla disposizione di chiusura dell’art. 52 che all’u.c. prevede, a maggior garanzia di comportamenti imprudenti da parte di coloro ai quali e demandata la corretta organizzazione dei servizi, la responsabilità personale del dirigente che ha disposto l’assegnazione in relazione ai maggiori oneri sostenuti dall’Amministrazione, ove si accerti che questi ha agito con dolo e colpa grave.

A parte dunque la recisa esclusione del conseguimento del diritto all’inquadramento nella qualifica superiore (che rimane ferma pur dopo i numerosi interventi del legislatore sulla norma), l’art. 56 contiene dunque due diversi ordini di disposizioni.

In primo luogo si indicano i casi in cui è legittima la temporanea assegnazione a mansioni superiori, con la precisa specificazione dei relativi presupposti e dei limiti temporali e la previsione del diritto del lavoratore al trattamento previsto per la qualifica superiore, per il periodo di effettiva prestazione. In secondo luogo si prende in considerazione l’ipotesi dell’assegnazione “a mansioni proprie di una qualifica superiore” al di fuori delle condizioni previste dalle precedenti disposizioni, per stabilire da un lato la nullità di detta assegnazione e dall’altro il diritto del lavoratore alla differenza di trattamento economico con la qualifica superiore (comma 5).

Peraltro l’espressione “una qualifica superiore” utilizzata dalla norma ha valore generico e omnicomprensivo, e non può ritenersi equivalente alla dizione “qualifica immediatamente superiore” utilizzata dal secondo comma nel delineare i presupposti dell’assegnazione legittima a mansioni superiori. Da tanto consegue che sarebbe dovuta la retribuzione corrispondente anche per il caso in cui le mansioni di fatto svolte non siano necessariamente ricollegabili alla qualifica immediatamente superiore. Tale conclusione è giustificata dalla lettera della disposizione in esame e dalla sua ratio, che, lo si ricorda nuovamente, è quella di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost..

Il rapporto di specialità esistente tra la disciplina specifica del pubblico impiego privatizzato e quella comune dettata dall’art. 2126 c.c. in tema di svolgimento di fatto di attività lavorativa, ad avviso della Azienda ricorrente, incontrerebbe, con riferimento al diritto alla maggiore retribuzione, il limite dell’esistenza di una “illiceità dell’oggetto o della causa” che esonererebbe l’amministrazione al pari del datore di lavoro privato dall’obbligo di pagamento delle differenze retributive.

Ritiene la Corte che tuttavia, anche sotto tale profilo la norma specifica appresti, per le illegittime assegnazioni a mansioni superiori che danno luogo a carichi economici, rimedi specifici a tutela del corretto esercizio dell’attività amministrativa.

La scelta è quella di gravare della responsabilità del pregiudizio economico sofferto dall’amministrazione coloro che sono investiti del dovere di corretta attuazione delle regole per l’attribuzione delle mansioni, anche sotto il profilo del controllo delle modalità con le quali si svolge l’attività amministrativa. Dovere questo che non è altro che una esplicitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata di garanzia di “buona amministrazione”, dell’esigenza di provvedere a legittime e consentite assegnazioni a mansioni superiori.

Non può poi sostenersi sotto altro versante la tesi della ricorrente, secondo la quale lo svolgimento di fatto di un’attività per la quale è richiesta una particolare qualificazione professionale (nella specie il conseguimento del titolo per lo svolgimento della professione di infermiere professionale) sarebbe illecito perchè contrario “all’ordine pubblico” e che, conseguentemente le relative prestazioni non potrebbero essere retribuite.

Deve in contrario osservarsi che, secondo accreditata dottrina, l’ordine pubblico svolge una funzione preterlegale di repressione di abusi del diritto, di frodi alle norme giuridiche per non essere i valori del vivere sociale regolati unicamente dalle fonti legali. Si è infatti sostenuto che nell’ampia nozione dell’ordine pubblico va compreso l’insieme dei principi fondamentali immanenti nel sistema ordinamentale e desumibili da esso, e che l’applicazione del principio codicistico dell’ordine pubblico di cui all’art. 1343 c.c. è funzionale alla protezione dei diritti di dimensione sociale ed alla garanzia dei valori fondamentali ed essenziali della collettività e del vivere civile, ponendo in tal modo principi non derogabili dall’autonomia negoziale.

Alla luce di tali premesse nella fattispecie scrutinata non si rinviene una violazione dell’ordine pubblico ed una illiceità della causa nel senso denunziato dalla ricorrente.

Va al riguardo evidenziato che la Corte territoriale ha con puntualità accertato, sulla base delle declaratorie professionali contenute nel ccnl 1998/2001, che il profilo di “infermiere generico” (rivestito dagli odierni intimati) è mantenuto ad esaurimento nel livello economico Bs ed è destinato a scomparire. Al contrario la qualifica prevista a regime dal contratto è quella di collaboratore professionale sanitario, nella quale è confluito il precedente ruolo di “infermiere professionale”, che si articola in due categorie, la C e la D, le quali si differenziano in relazione alla maggiore autonomia e professionalità richiesta per la categoria D rispetto alla C. Sostanzialmente la norma collettiva, adeguandosi alla mutata realtà sociale che nel tempo ha visto una professionalizzazione e specializzazione sempre maggiore per l’accesso alle professioni sanitarie, ha riprodotto lo schema già esistente adeguandolo, nell’accesso, alla mutata realtà ma riproducendo, nella sostanza, il medesimo rapporto di cooperazione tra livelli diversi nell’ambito della medesima area professionale.

Nel caso di specie non è ravvisabile nello svolgimento di compiti propri della superiore qualifica professionale, tenuto in particolare conto il complessivo contesto fattuale nonchè le notorie modalità di svolgimento, sotto il continuo ed immancabile controllo del personale medico, delle attività in pronto soccorso, quel pericolo per la salute pubblica che potrebbe in ipotesi giustificare, per la gravità della violazione, anche il mancato riconoscimento della relativa retribuzione.

Per concludere nel caso in esame si è rettamente ritenuto che ricorresse l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, in relazione alla quale è stato più volte affermato che, nella materia dell’pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata dal citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5 non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost. (cfr. Cass. Cass. 20.2.2013 n. 4190, 18 giugno 2010 n. 14775 nonchè, negli stessi termini, Cass. 11 giugno 2009 n. 13597, Cass. 3 febbraio 2009 n. 4367 e Cass. 11 dicembre 2007 n. 25837).

Per le esposte considerazioni il ricorso, per essere infondato, va rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno regolate secondo il criterio della soccombenza. Nulla sulle spese in relazione alle parti non costituite.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore delle parti costituite che liquida in Euro 3000,00 per compensi professionali ed in Euro 50,00 per esborsi oltre accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2013