Cass. civ. Sez. VI – 3, Sent., (ud. 22-05-2014) 05-09-2014, n. 18812

Viola la privacy il comune che non utilizza il plico chiuso per notificare la sanzione “particolare”

Se il Comune non assume i dovuti accorgimenti, è tenuto a risarcire il danno per violazione del diritto alla privacy del destinatario di provvedimento sanzionatorio inerente violazione amministrativa legata al fenomeno della prostituzione, nel caso in cui la notifica avvenga non in plico sigillato. E’ quanto ha confermato la Suprema corte avallando la decisione del giudice del merito, dichiarando in parte inammissibile il ricorso proposto da un Comune italiano. L’ordinanza ingiunzione, dopo un primo tentativo (fallito) di notifica a mezzo servizio postale presso il domicilio eletto dal resistente, era stata affidata per la notifica ai messi comunali, i quali provvedevano alla stessa a mezzo plico, non in busta chiusa, alla residenza del destinatario, dunque a mani alla madre dello stesso. Il destinatario della sanzione lamentava che sua madre era venuta in questo modo a conoscenza della vicenda. L’uomo si trovava in una particolare situazione dato che era in corso una causa di separazione e la conoscenza da parte di terzi di una simile sanzione sarebbe stata idonea a provocargli serio pregiudizio. La Suprema corte, pur disconoscendo l’esistenza di un vero e proprio obbligo a carico della pubblica amministrazione di procedere in ogni caso alla notifica presso il domicilio eletto dal destinatario – e non, come nel caso di specie, eseguirla presso la residenza – fa riferimento ai principi generali di trasparenza, lealtà e imparzialità della pubblica amministrazione, data l’evidente manifestazione di preferenza del destinatario ad interloquire con l’ente pubblico in modalità particolare. La Cassazione conferma come sia applicabile al caso di specie l’art. 15 del d.lgs. 196/2003 (codice privacy) il quale afferma che “sussiste responsabilità per i danni cagionati per effetto del trattamento illegittimo dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”. In questo senso, la pubblica amministrazione procedente avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo risarcitorio solo provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; circostanza non dimostrata in grado di merito. Nella specie, il Comune avrebbe dovuto provare di non aver potuto ricorrere a nessun’altra forma di notifica, che, “seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propagazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza ingiunzione”. Di conseguenza, il comportamento dell’ente comunale “non si è affatto concretato nell’aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell’art. 2050 c.c. Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25852/2010 proposto da:

COMUNE DI MONTECATINI TERME (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZION CLODIA 86 – Int. 5, presso lo studio dell’avvocato MARTIRE ROBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSSANA PARLANTI, giusta delibera G.M. n. 400 del 26.10.2010 e giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI (OMISSIS) in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

e contro

M.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 39/2010 del TRIBUNALE di PISTOIA – Sezione di MONSUMMANO TERME del 13.2.2010, depositata il 13/02/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2014 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito per il ricorrente l’Avvocato Sandro Coccioli (per delega avv. Roberto Martire) che si riporta al ricorso.

Svolgimento del processo
p.1. Con ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, M. E. chiedeva al Tribunale di Pistoia – Sezione distaccata di Monsummano Terme, la condanna del Comune di Montecatini Terme al risarcimento del danno sofferto in conseguenza di una pretesa violazione, addebitabile al Comune, delle norme sul trattamento dei dati personali. Esponeva, al riguardo, che il Comune convenuto gli aveva notificato una ordinanza-ingiunzione di pagamento, con cui aveva confermato il verbale di contestazione elevato nei suoi confronti in relazione alla violazione di un’ordinanza sindacale, consistita nell’essersi fermato per consentire la salita ad una persona che per comportamenti ed atteggiamenti era dedita all’attività di prostituzione.

L’ordinanza-ingiunzione era stata emessa nei suoi confronti ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, a seguito dell’esame della memoria difensiva, che egli aveva presentato a mezzo del proprio legale di fiducia, presso il cui studio in essa aveva altresì eletto domicilio.

p.1.1. L’ordinanza, dopo l’esito negativo di un primo tentativo di notificazione a mezzo posta, era stata rimessa dal Comune convenuto ai messi del Comune di Buonabitacolo, luogo in cui il M. risultava residente, affinchè gli stessi provvedessero alla notifica ai sensi della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1.

I detti mesi avevano però provveduto alla notifica del plico, tuttavia non in busta chiusa, alla residenza del ricorrente a mani della madre del medesimo, la quale, per quanto lui sosteneva era così venuta a conoscenza della vicenda.

p.2. Sulla base di tali deduzione il ricorrente, sulla premessa che era stata lesa la propria privacy, chiedeva il risarcimento dei danni adducendo, che, se la notifica fosse stata fatta al domicilio eletto, nè la madre, nè gli abitanti di Buonabitacolo, tra cui la notizia si era invece, a suo dire, diffusa, ne sarebbero venuti a conoscenza.

Adduceva, inoltre, che nelle more egli aveva in corso una causa di separazione e la diffusione della notizia avrebbe potuto incidere sul diritto di visita al figlio minore.

p.3. Il Comune convenuto si costituiva e chiedeva il rigetto del ricorso. Si costituiva altresì il Garante per la Protezione dei Dati Personali, per far tutelare asseriti aspetti di interesse pubblico generale della vicenda.

p.4 Con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., il M. affermava che, come risultava dalla relata di notifica nella seconda pagina del provvedimento, l’ordinanza ingiunzione era stata trasmessa in plico aperto dal Comune di Montecatini a quello di Buonabitacolo.

Il Comune dichiarava di non accettare il contraddittorio su questo nuovo profilo, che sosteneva rappresentare la deduzione di una nuova causa petendi.

p.5. Con sentenza del 18 febbraio 2010, il Tribunale, dopo avere dichiarato inammissibile la domanda quanto al profilo introdotto con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., perchè integrante nuova causa petendi, condannava il Comune convenuto, in accoglimento della domanda originaria, al pagamento – ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 – della somma di Euro 5000,00 oltre accessori.

p.6. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi il Comune di Montecatini Terme. Ha resistito con controricorso il Garante per la Protezione dei Dati Personali, tramite l’Avvocatura Generale dello Stato.

p.7. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “Violazione e falsa applicazione art. 141 c.p.c. – art. 170 c.p.c. – art. 360, n. 3 Omessa motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, sulla premessa della natura contenziosa del procedimento di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 18, ha ritenuto sussistente un comportamento illegittimo del Comune per non avere notificato l’ordinanza ingiunzione, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel domicilio eletto presso il suo legale nella memoria difensiva depositata nella fase contenziosa amministrativa ai sensi della L. n. 689 del 1989, art. 17, e art. 18, comma 1. A parere del ricorrente questa statuizione, essendo errata l’assimilazione del procedimento nella fase amministrativa a quello giurisdizionale e, quindi, l’applicazione dell’art. 170 c.p.c., avrebbe violato oltre che tale norma, anche la norma dell’art. 141 c.p.c., rifluendo la vicenda sotto di essa e tenuto conto che essa considera la notificazione presso il domicilio eletto obbligatoria solo in caso di espressa previsione contrattuale, siccome emerge dal suo comma 2, mentre in tutti gli altri casi l’elezione di domicilio sarebbe facoltativa.

p.2. Con un secondo motivo si fa valere “Violazione falsa applicazione L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, in combinato disposto con l’art. 141 c.p.c., comma 1”, nonchè “motivazione contraddittoria”.

Il ricorrente, con una prima censura, imputa alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che il Comune non potesse avvalersi della notifica a mezzo dei messi comunali per il sol fatto che il tentativo di una precedente notifica a mezzo posta non era andato a buon fine, a motivo che il principio di residualità dell’utilizzo dei messi comunali sancito dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, imponeva comunque che il Comune, prima di trasmettere l’atto ai messi comunali, dovesse provvedere alla notifica presso lo studio del difensore domiciliatario.

Il Comune contesta questo assunto perchè, a suo avviso, il citato art. 10, comma 1 – ai sensi del quale “le pubbliche amministrazioni possono avvalersi per le notifiche dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle forme di notificazione prevista dalla legge” – prevedrebbe due ipotesi alternative fra loro, come emergerebbe dall’uso della disgiuntiva “o”. Per cui, posto che la notifica a mezzo posta non era andata a buon fine, il Comune avrebbe legittimamente fatto ricorso ai messi comunali.

p.2.1. D’altro canto – e l’argomento integra una seconda censura parametrata ad una ulteriore motivazione del Tribunale – il carattere meramente facoltativo della notificazione presso il domicilio eletto, comportando che nel non effettuarla il Comune non avesse violato alcuna norma, escludeva – ad avviso dello stesso ricorrente – la violazione, pure ritenuta dal Tribunale, della disciplina del trattamento dei dati sensibili.

p.3. I primi due motivi del ricorso possono esaminarsi congiuntamente, essendo strettamente connessi tra loro.

Va considerato che il Tribunale ha giustificato l’assunto che la notificazione, per evitare di incorrere in responsabilità, doveva farsi al domicilio eletto nella fase amministrativa, con una motivazione alternativa, che correttamente viene censurata dai due motivi con riferimento ai suoi due termini.

L’alternatività delle due motivazioni comporta che l’eventuale riconoscimento della fondatezza di una di esse, renderebbe irrilevante l’altra e, per tale ragione, precluderebbe comunque la cassazione della sentenza impugnata, ma semmai comporterebbe solo la correzione della motivazione sbagliata.

Ciò, naturalmente, prescindendo dalla terza ulteriore motivazione, oggetto della seconda censura del secondo motivo.

p.3.1. Tanto premesso, ritiene il Collegio che la prima motivazione esposta dalla sentenza impugnata a giustificazione dell’obbligatorietà della notificazione al domicilio eletto, cioè quella – criticata dal primo motivo – secondo cui l’elezione di domicilio nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio avrebbe comportato l’effetto di determinare una domiciliazione ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel successivo procedimento contenzioso di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, non appare fondata.

In tanto va osservato che, in mancanza di una norma che attribuisca alla domiciliazione, effettuata dal preteso responsabile nel procedimento amministrativo che prelude all’emanazione dell’ordinanza- ingiunzione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, effetti per il successivo procedimento contenzioso e, dunque nel silenzio della legge in proposito, non è in alcun modo possibile sostenere una simile estensione di effetti. Non è, dunque, possibile argomentare una valenza ai sensi dell’art. 170 della domiciliazione fatta nella fase amministrativa, in ragione di una previsione di una sua estensione al successivo eventuale processo. Estensione che, al contrario, l’avvalorerebbe.

Ne segue che la domiciliazione fatta nel procedimento in fase amministrativa ha valore solo come tale e, quindi, per esso.

Ne consegue che come fattispecie di domiciliazione essa va ricondotta solo alla norma generale sull’elezione di domicilio, quella dell’art. 141 c.p.c..

p.3.1.1. Aggirare il dato della mancata previsione della detta estensione osservando lapidariamente che “quello in esame sarebbe un procedimento contenzioso”, come ha fatto il Tribunale, è un’operazione assolutamente priva di base normativa per l’assorbente ragione che il processo in tema di sanzioni amministrative secondo la citata legge è costruito come processo di impugnazione di un atto amministrativo qual è l’ordinanza-ingiunzione, che è manifestazione di un caso di giurisdizione esclusiva (anche su interessi legittimi) dell’A.G.O. ai sensi dell’art. 113 Cost., u.c., e dunque come processo oppositivo.

Come tale il processo nasce e la giurisdizione comincia con il ricorso in opposizione.

Anteriormente vi è solo un procedimento di carattere amministrativo, sebbene a contenuto c.d. giustiziale, ma ad esso non possono applicarsi i principi in tema di notificazione alla parte costituita tramite difensore nel processo.

Il Tribunale ha, dunque, errato nel postularlo.

p.3.1.2. Nè il suo avviso trova giustificazione in Cass. n. 16882 del 2006, che ha richiamato in modo del tutto anodino, ma concerne fattispecie in alcun modo apparentabile a quella di cui è processo, atteso che si trattava di ipotesi di notifica dell’ordinanza ingiunzione nulla non perchè eseguita presso un domicilio eletto nel procedimento amministrativo, bensì perchè eseguita in un luogo non costituente la residenza dell’ingiunto (ma in cui l’atto era stato consegnato alla sua madre), in situazione nella quale alla P.A. la sua residenza risultava per averla egli indicata nel ricorso amministrativo: nella specie la Corte ha ritenuto, peraltro, che la nullità fosse rimasta irrilevante in quanto l’ingiunto aveva proposto tempestiva opposizione.

p.3.1.3. Ne segue che deve affermarsi che la fattispecie dell’elezione di domicilio in sede di memoria depositata ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 1, non può in alcun modo essere ricondotta all’ambito di disciplina di cui all’art. 170 c.p.c., ma deve essere ricondotta all’ambito dell’art. 141 c.p.c., e, quindi, il domicilio eletto rappresenta, conforme a tale norma, solo un luogo possibile di notificazione dell’ordinanza-ingiunzione.

p.3.2. Peraltro, proprio tale riconduzione dell’elezione di domicilio nel procedimento giustiziale che precede l’emanazione dell’ordinanza all’art. 141 c.p.c., non può considerarsi nella specie irrilevante, come pretenderebbe il Comune.

Essa costituisce certamente, una volta effettuata, un dato che la P.A. deve tenere presente nel procedere alla notificazione dell’ordinanza-ingiunzione, le cui forme sono determinate innanzitutto per relationem dalla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 4, il quale rinvia all’art. 14 della legge, e, quindi, dal sesto comma, che prevede la possibilità di ricorrere alla notificazione a mezzo posta.

Ora, il quarto comma dell’art. 14 (che si occupa della notificazione della contestazione della violazione nell’ambito del procedimento amministrativo), nel suo secondo inciso, dopo che nel primo ha disposto l’applicazione delle disposizioni vigenti, prevede che la P.A. possa in ogni caso procedere alla notificazione, sebbene anche tramite un suo funzionario (e, dunque senza ricorrere all’ufficiale giudiziario), nelle forme previste dal codice di procedura civile.

Ebbene, qualora nell’ambito del procedimento amministrativo il preteso responsabile abbia eletto domicilio, come nella specie, tra le forme di notificazione previste dal codice di procedura civile per il tramite dell’art. 14 rientra certamente, quale forma di notificazione facoltativa possibile, per non essere esistente, secondo il testo dell’art. 141 c.p.c., un caso di domiciliazione vincolante ed obbligatoria all’effetto della notificazione, proprio quella al domicilio eletto.

Essa anzi assume anche un certo tendenziale carattere preferenziale alla stregua di un agire della P.A. improntato a trasparenza, lealtà e imparzialità, dato che il responsabile ha certamente manifestato una preferenza per interloquire con la stessa P.A..

p.3.3. Tale connotazione, peraltro, non giustifica, però, una sua obbligatorietà, come s’è già detto.

p.3.4. Il Comune, e si viene all’esame del secondo motivo quanto alla sua prima censura, non era, d’altro canto, obbligato – come invece ha ritenuto il Tribunale – dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, ad esperire anche la notificazione presso il detto domicilio prima di ricorrere alla notificazione tramite i messi.

Deve, infatti, ritenersi che la semplice lettura della norma evidenzia che, come prospetta il ricorrente, per poter ricorrere a quella particolare forma di notifica è sufficiente che anche una sola delle altre possibili forme di notifica non sia andata a buon fine, come fa manifesto la disgiuntiva “o”.

E’ sufficiente, cioè, perchè ci si possa avvalere dei messi a norma della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, o che sia tentata la notificazione a mezzo posta o che si siano tentate le altre forme di notificazione previste dalla legge, ma non è necessario che si siano prima praticate entrambe le alternative.

Il Comune avrebbe, dunque, certamente potuto avvalersi dei messi anche soltanto dopo aver tentato la notificazione presso il domicilio eletto, quale forma di notificazione prevista dalla legge, ma, poichè nel caso di specie aveva tentato già la notifica a mezzo posta, era abilitato a far ricorso ai messi comunali senza prima tentare la pur possibile forma di notificazione prevista dalla legge, di ci all’art. 141 c.p.c..

Il secondo motivo, quanto alla prima censura, sarebbe, dunque, fondato.

p.3.5. Va rilevato a questo punto che la fondatezza del primo motivo in ordine all’applicabilità dell’art. 170 c.p.c., e quella del secondo motivo quanto alla prima censura concernente le condizioni di notificazione tramite i messi comunali, non giustificano, tuttavia, la cassazione della sentenza, atteso che il Tribunale, oltre a spendere le due ragioni criticate dal primo motivo e dalla prima censura del secondo motivo, ne ha enunciato un’altra, che non solo è idonea a giustificare l’avere ravvisato nel comportamento del Comune una condotta di violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, ai fini risarcitori, ma, a monte risulta criticata in modo del tutto privo di pertinenza con la motivazione e del tutto generico nell’argomentazione svolta nel secondo motivo.

Ha osservato il Tribunale che “altresì il principio di correttezza stabilito dall’art. 4 codice privacy ed il carattere di dato sensibile delle informazioni contenute nell’atto notificando imponevano al Comune di optare senz’altro in prima battuta per la notifica nel domicilio eletto, ossia quello scelto dal trasgressore perchè più rispondente alle proprie esigenze; tra l’altro nella specie il luogo del domicilio eletto era lo studio del difensore, massima garanzia di riservatezza. La scelta del Comune per un procedimento di notifica più defatigante e complesso non ha alcuna giustificazione, considerato che la comunicazione al difensore era pure quella che garantiva la massima probabilità di successo e che in precedenza il Comune aveva scelto proprio queste modalità per la comunicazione di un atto. La violazione invocata pertanto sussiste sotto il profilo della mancata notifica al domicilio eletto, e comporta la responsabilità del Comune ai sensi dell’art. 15 cod. privacy”.

Ebbene con tale motivazione il Tribunale ha in realtà aggiunto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo motivo, un’ulteriore motivazione del tutto autonoma, tendente a ravvisare nel comportamento del Comune, rappresentato dal non essersi avvalso della notificazione presso il domicilio eletto, pur in ipotesi facoltativa, una condotta riconducibile ad un illecito trattamento di dati personali, come tale riconducibile alla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 15 citato.

p.3.5.1. Ora, nella parte finale dell’illustrazione del secondo motivo tale terza autonoma motivazione viene criticata semplicemente assumendo che, una volta escluso il carattere obbligatorio della notificazione presso il domicilio eletto, la facoltatività della notificazione presso di esso escluderebbe la responsabilità del Comune perchè non sarebbe “stata violata alcuna norma”.

La critica appare del tutto generica e tanto integra inammissibilità della censura, giusta il seguente principio di diritto. “Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo”. (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi).

p.3.5.2. In ogni caso, se la censura in esame si ritenesse ammissibile, la critica non coglierebbe nel segno ed essa sarebbe infondata.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, afferma la responsabilità per danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose.

Tale norma, com’è noto, consente di sottrarsi all’obbligo risarcitorio soltanto provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Sulla portata e sul significato del rinvio operato dall’art. 15, è sorto un dibattito tra gli interpreti, fra chi sostiene che così si sia qualificato il trattamento dei dati personali come una attività pericolosa e chi invece reputa che ci sia limitati a richiamare per tale forma di responsabilità la regola probatoria sancita dall’art. 2050.

Si discute, poi, sulla natura della responsabilità ex art. 15 citato, ma per l’orientamento maggioritario si tratterebbe di una responsabilità extracontrattuale.

In disparte tali problematiche, che non è necessario affrontare, interessa allora rilevare che, nella giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. n. 8457 del 2004), per la sussistenza di una responsabilità ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danneggiato si deve limitare a provare l’evento di danno e il nesso di causalità tra l’attività ed esso, spettando invece all’esercente dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Applicando questi principi alla fattispecie che si giudica si devono svolgere i seguenti rilievi.

p.3.5.3. Nella vicenda in questione il Comune di Montecatini Terme, per sottrarsi all’obbligo risarcitorio, avrebbe dovuto dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

A questo scopo non è sufficiente dimostrare, come pure il Comune ha fatto e deve ritenersi, che la notifica a mezzo dei messi comunali era consentita (per essere stata tentata la notificazione a mezzo posta) e che quella al domicilio eletto non era obbligatoria, ma sarebbe stato necessario altresì dimostrare che non si poteva ricorrere ad alcun altra forma di notifica, che, seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propalazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza-ingiunzione.

Quest’altra possibile forma di notifica nel caso di specie c’era ed era rappresentata dalla pur facoltativa, ma pur sempre possibile e pienamente lecita, notifica al domicilio eletto dal M. presso il proprio legale. Infatti, sebbene tale forma di notifica non fosse obbligatoria, giacchè non trovava applicazione, al caso di specie, come s’è già detto, l’art. 170 c.p.c., e la L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, non la rendeva necessaria prima dell’avvalimento dei messi comunali di Buonabitacolo, era però una forma di notificazione possibile ai sensi dell’art. 141 c.p.c., comma 1.

L’avere il Comune scelto di non praticarla lo pone in una condizione per cui deve escludersi ed anzi è conclamato che il suo comportamento non si è affatto concretato nell’aver “adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” ai sensi dell’art. 2050 c.c..

Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto.

E’ appena il caso di considerare che nel caso di specie non può trovare applicazione il principio affermato di recente dalle Sezioni Unite, secondo cui in tema di protezione dei dati personali non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47, allorquando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo (così Cass. sez. un. n. 3034 del 2011). Infatti nel caso di specie viene in considerazione un’ipotesi di trattamento dei dati personali che è avvenuta nell’ambito di un non di un processo bensì all’esito e nell’ambito di un procedimento amministrativo, che come si è detto non può assimilarsi ad un processo in senso proprio.

p.4. Conclusivamente, poichè la seconda censura proposta dal secondo motivo è gradatamele inammissibile e infondata, là dove critica la motivazione della sentenza circa l’attribuzione di rilevanza alla mancata notificazione presso il domicilio eletto del carattere di comportamento rilevante ai fini della configurazione della fattispecie di trattamento illecito fonte di danno, la natura di motivazione autonoma dell’avviso del Tribunale oggetto della censura stessa, rispetto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo, rende irrilevante la fondatezza di questi ultimi, sì che è solo giustificata la corrispondente correzione delle altre due motivazioni nei sensi sopra indicati, ma la sentenza impugnata non può cassarsi (art. 384, ultimo comma, c.p.c.).

p.5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione art. 2043 c.c.. Inesistenza del nesso eziologico tra mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e evento dannoso (notifica ordinanza alla madre del M. non in busta chiusa.”, nonchè “Insufficiente e contraddittoria motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata per non avere considerato la assoluta mancanza di nesso eziologico tra la mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e la notifica effettuata dai messi di altro Comune a mani della madre del ricorrente. Questo perchè, come detto dallo stesso Tribunale, la notifica dell’atto non in busta chiusa a persona diversa al destinatario “è avvenuta per il mancato rispetto da parte del messo comunale delle forme che il novellato art. 138 c.p.c., pone a carico dell’organo notificante e non del richiedente la notifica alla cui organizzazione il messo di altro Comune è estraneo”. Erroneamente il Tribunale, pur dando atto di ciò (avendo ritenuto domanda nuova la prospettazione che già il Comune qui ricorrente avesse trasmesso l’incarto “aperto”), avrebbe affermato la responsabilità del Comune di Montecatini Terme, reputando che “il vizio di forma di una notifica non è evento assolutamente imprevedibile ma rientra nel novero di eventi con una certa probabilità di verificazione”. In tal modo il Tribunale avrebbe attribuito al Comune la responsabilità di un comportamento altrui e quindi, avrebbe affermato la responsabilità senza ricorrenza di nesso causale.

p.5.1. Ebbene, la motivazione enunciata dal Tribunale palesa che quel giudice in buona sostanza non ha considerato il fatto dei messi comunali di Buonabitacolo (erroneamente ricondotto all’art. 138 c.p.c., senza rilievo dell’errore da parte del ricorrente: in realtà la norma cui il Tribunale intende fa riferimento e che sarebbe stata violata dai messi è chiaramente quella dell’art. 137 c.p.c., comma 4, inserito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 174) come un concausa efficiente sopravvenuta, avente i requisiti del caso fortuito, cioè quelli della eccezionalità ed imprevedibilità, ed idonea, dunque, da sola a causare l’evento recidendo il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, cioè il trattamento dei dati personali concretatosi nell’avere il Comune omesso di far ricorso alla notificazione presso il domicilio eletto nello svolgimento dell’attività procedimentale amministrativa diretta a sanzionare il M.. Il Tribunale ha, cioè, ritenuto che il principio causa causae est causa causati, cioè l’inserirsi nella serie causale originata dall’attività procedimentale sanzionatorio del Comune di Montecatini Terme della mancata notificazione, pur possibile e cautelativamente imposta dall’art. 2050 c.c., non fosse stato nel caso di specie eliso dal verificarsi di un comportamento certamente inosservante della norma dell’art. 138 c.p.c., da parte dei messi notificatori del Comune di Buonabitacolo.

p.5.2. Ora, della motivazione in tal senso enunciata dal Tribunale, il ricorrente non si fa carico e tanto varrebbe ad evidenziare l’inammissibilità del motivo, che avrebbe dovuto articolarsi, ponendo una quaestio iuris nella necessaria attività argomentativa di come il ragionamento seguito dal Tribunale stesso contenesse un error iuris sui principi regolatori del nesso causale in relazione alla fattispecie dell’art. 2050 c.c. (norma riguardo alla quale la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare il seguente principio di diritto: “In tema di illecito aquiliano, perchè rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento, (nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto), e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sè idoneo a determinare l’evento.

Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c.c., la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva imprevedibilità) e sia idonea, da sola, a causare l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo”: così Cass. n. 8457 del 2004

In disparte il rilievo di inammissibilità (che così sarebbe giustificato alla stregua di Cass. n. 359 del 2005, perchè non si critica nella sostanza la motivazione della sentenza impugnata), il Collegio osserva comunque che la valutazione della Tribunale appare anche corretta in quanto il nesso causale, allorquando taluno si avvalga, nel caso di specie sulla base di una previsione di legge, di altri per il compimento di un’attività non risulta interrotto dalla tenuta da parte dell’ausiliario di un comportamento semplicemente inosservante delle norme che doveva osservare nel compimento dell’attività commessagli, occorrendo all’uopo, per spezzare il nesso causale, che egli si sia posto, con un’attività di natura illecita, su un piano di antigiuridicità. Tale principio trova applicazione anche in un caso come quello di specie in cui a giovarsi dell’attività dell’ausiliare è stata una struttura amministrativa, nell’esercizio di un potere amministrativo, sebbene controllabile dalla giurisdizione ordinaria, quale quello di sanzione della violazione delle norme amministrative.

Poichè nell’attività dei messi modificatori del Comune di Buonabitacolo non si configura dunque e comunque non è stato nemmeno allegato che si configuri alcuna attività illecita, tanto giustifica la conclusione che nella specie il nesso causale bene è stato ritenuto esistente dal Tribunale.

D’altro canto, se si volesse configurare invece nel comportamento dei messi de quibus, quali titolari, per effetto dell’incarico del Comune ricorrente, di un trattamento, un illecito ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, si dovrebbe comunque ritenere che il non avere il Comune provato, come era suo onere ai sensi dell’art. 2050 c.c., di avere raccomandato ai messi di osservare l’art. 137 c.p.c., comma 4, (raccomandazione che, nel momento in cui il Comune correva il rischio del mancato utilizzo della notifica al domicilio eletto, tanto più presso un legale, il che evidenziava la particolare importanza della vicenda per il M.), non sottrarrebbe il Comune comunque, in forza di tale duplice condotta omissiva a diretta responsabilità, sebben concorrente con quella dei messi, verso il M..

p.5.3. Il motivo è pertanto inammissibile e gradatamente infondato.

p.6. Con un quarto motivo si fa valere “violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, art. 2050 c.c., artt. 113, 115 e 116 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., mancata prova del danno, errato ricorso ai criteri di qualificazione equitativa del danno”, nonchè “Insufficiente contraddittoria motivazione”.

Il ricorrente censura la sentenza gravata per avere violato i principi fondamentali dell’onere della prova – a carico dell’attore – in ordine al previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico tra l’attività e l’evento dannoso ed ancor prima in ordine alla sussistenza vera e propria del danno, la cui dimostrazione incombe sempre e comunque sul danneggiato.

In realtà, tuttavia, la doglianza imputa alla sentenza impugnata di avere riconosciuto un danno senza che ne fosse stata dimostrazione ed è questa la censura che si mostra adeguata alla motivazione della stessa.

p.6.1. Il motivo è fondato sotto tale profilo.

La motivazione della sentenza impugnata, che viene ripresa dal ricorrente, ha avuto il seguente tenore: “Venendo alla quantificazione del danno, deve rilevarsi che i profili di pregiudizio concreto all’immagine ed alla reputazione del ricorrente sono stati per lo più mero flatus vocis, non corroborato da alcun riscontro. Il ricorrente ha sostenuto che la madre non fosse al corrente dell’infrazione contestata al M., che l’intero municipio di Buonabitacolo e poi forse l’intera cittadina fossero venuti a conoscenza del fatto. Nulla risulta al riguardo dal’istruttoria. Certamente al momento della notifica la madre non era a conoscenza dell’esito infausto del procedimento (non lo era neppure il figlio), certamente i messi comunali di Buonabitacolo hanno preso conoscenza del fatto. Questi ultimi peraltro sono soggetti tenuti al segreto d’ufficio e quindi sino a prova contraria non vi è stata propagazione della notizia all’esterno del loro ufficio. Il limitato pregiudizio accertato i concreto per il ricorrente a fronte di un’indubbia seria violazione alla tutela dei dati sensibili da parte di soggetto della qualità di Ente Pubblico, induce a stimare congrua ed equa riparazione la somma di Euro 5.000,00 oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo”.

p.6.2. Ebbene, anche se il Tribunale non l’ha detto espressamente deve ritenersi che il danno che ha ritenuto esistente sia un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., cioè “un danno determinato la lesione di interessi inerenti la persona non connotate da rilevanza economica” (Cass. Sez. Un. n. 26972 del 2008), dato che l’art. 15, comma 2, del D.Lgs. prevede espressamente la risarcibilità del danno di cui a detta norma con specifico riferimento all’ipotesi dell’art. 11, del D.Lgs. e in aggiunta alla risarcibilità normale dei danni scaturente dalla qualificazione della responsabilità alla stregua dell’art. 2050 c.c..

Ora, secondo la citata decisione delle Sezioni Unite anche il danno non patrimoniale dev’essere dimostrato, dato che costituisce danno conseguenza.

Esso, dunque, dev’essere allegato dal danneggiato e, quindi, da lui provato. Il danno di cui all’art. 15, non si può, dunque, identificare nell’evento dannoso, cioè nell’illecito trattamento dei dati personali, ma occorre che si concreti in un pregiudizio della sfera non patrimoniale di interessi del danneggiato.

Il danno riconosciuto dal Tribunale, come fa manifesto il riferimento ad una indubbia seria violazione dei dati sensibili, risulta, invece, essere stato identificato proprio nell’illecito trattamento.

Tanto è sufficiente a giustificare la cassazione della decisione impugnata.

Il Tribunale avrebbe dovuto individuare il danno non patrimoniale sofferto dal M. come conseguenza dell’illecito trattamento, mentre non lo ha fatto ed anzi ha mostrato di non ritenerlo necessario.

Emerge anzi dalla motivazione che il Tribunale ha ravvisato e dato per esistente una situazione delle allegazioni del M. che palesava l’assoluta mancanza di elementi idonei ad evidenziare la verificazione del danno non patrimoniale, tanto che non si palesa la necessità di un rinvio.

Invero, una volta considerato che la previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale supposta dal legislatore in relazione ad un trattamento illecito di dati si correla ad un danno che deve essere risentito dalla persona come tale e che è identificabile in danni comunque correlati ad aspetti del modo di essere della persona ricollegati in primo luogo alla lesione di diritti fondamentali, come il diritto all’immagine, alla reputazione e all’onore (per le implicazioni no patrimoniali della loro lesione), che pure possono essere lesi dall’illecito trattamento, nonchè all’attitudine del fatto dannoso costituito dal trattamento illecito a comportare anche un patema, una sofferenza psichica al danneggiato, si deve prendere atto di quanto che il Tribunale ha detto sostanzialmente inesistenti e non dimostrati i danni all’immagine ed all’onore ed alla reputazione. Si deve, dunque, reputare che abbia riconosciuto il danno non patrimoniale alla stregua dell’art. 2059 c.c., che ha provveduto a liquidare equitativamente, soltanto identificandolo nella sofferenza da percezione dell’illecito trattamento come idoneo a propalare i dati sensibili.

Ne segue che sarebbe stato essenziale dimostrare in che termini la percezione della propalazione od anche del pericolo di essa da parte del M. si era verificata.

Poichè dal silenzio della sentenza impugnata emerge che il M. non si è preoccupato di dimostrare alcunchè al riguardo, cioè circostanze idonee ad evidenziare una sofferenza ricollegabile all’illecito trattamento, come conseguenza della percezione della vicenda risultante dall’atto notificato da parte della madre o di altri parenti e del paventare la possibile incidenza sul diritto di visita del figlio nel procedimento di separazione che il M. aveva detto pendente (come emerge dalla sentenza nell’esposizione del fatto), si deve ravvisare che un rinvio sarebbe del tutto inutile, in mancanza di apporti istruttori valutabili ed esperibili, dato il carattere chiuso del giudizio di rinvio.

D’altro canto, è vero che l’unico elemento certo risultante dall’istruzione, cioè che i messi sicuramente avevano preso conoscenza del contenuto dell’atto notificato, è stato considerato dal Tribunale privo di influenza, con una motivazione – quella dell’essere i medesimi vincolati al segreto d’ufficio – di più che dubbia validità, se non altro perchè anche il rischio di una violazione di tale segreto era pur sempre esistente, ma non v’è traccia di un’attività dimostrativa del M. idonea a dimostrare, anche per presunzioni, che la percezione di tale possibilità sarebbe stata fonte di patema.

A tacer d’altro, il M. avrebbe potuto, per esempio, dedurre prova per testi in ordine all’esistenza di un suo stato di disagio, di patema, di sofferenza a causa della vicenda.

L’assenza totale di attività probatoria, lo si ribadisce, induce a ravvisare i presupposti per decidere nel merito, non occorrendo accertamenti di fatto per evidenziarsi il mancato assolvimento dell’onere della prova circa il danno conseguenza.

p.6.3. In tale situazione il Collegio ritiene, dunque, inutile cassare con rinvio e deve prendere atto, pronunciando nel merito, che il M., pur essendo sussistito un illecito trattamento di dati personali da parte del Comune ricorrente, non risulta aver adempiuto all’onere di provare il danno conseguenza ai sensi dell’art. 2059 c.c., sotto l’unico aspetto cui il Tribunale l’ha – per quanto s’è detto – correlato e liquidato equitativamente, quello del patema e della sofferenza derivanti dai rischi della possibile propalazione dei dati.

La domanda dev’essere, pertanto, rigettata.

p.7. L’oggettiva novità e delicatezza delle questioni esaminate integra gravi ed eccezionali ragioni per la compensazione delle spese per tutti i due gradi di giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso per quanto di ragione.

Rigetta i primi tre motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, pronunciando nel merito, rigetta la domanda di M.E.. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 22 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2014


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 09-05-2014) 15-07-2014, n. 16133

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARLEO Giovanni – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28962/2008 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TRE ((OMISSIS)), in persona del suo Magnifico Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTEZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato BERNARDI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M. ((OMISSIS)), M.P. ((OMISSIS)) e V.P. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato MONZINI MARIO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

CITTADINANZATTIVA ONLUS;

– intimato –

avverso la sentenza n. 14435/2008 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 02/07/2008, R.G.N. 21403/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2014 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato MARIO MONZINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – P.M., M.P. e V.P. proponevano ricorso D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ex art. 152, per ottenere tutela del proprio diritto alla riservatezza, violato dall’illecito trattamento, ad opera della Università degli Studi Roma Tre, dei rispettivi dati personali.

In particolare, risultava possibile, oltre che attraverso l’indirizzo, inserito direttamente in Internet, ” (OMISSIS)”, anche con la sola digitazione del nome e cognome o soltanto il cognome sul motore di ricerca “Google”, avere accesso al file excel “(OMISSIS)”, recante il nominativo di 3.724 studenti specializzandi e/o ex studenti specializzati, tra cui quello dei ricorrenti, con evidenziazione dei relativi dati personali e cioè generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva.

2. – Con sentenza resa pubblica il 2 luglio 2008, l’adito Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e cosi disponeva la cancellazione dal web dei dati personali ed identificativi dei medesimi, contenuti nel predetto file excel, inibendone la diffusione all’Università resistente, che condannava, altresì, al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dagli stessi attori, liquidati nella somma di Euro 3.000,00, oltre interessi legali, in favore di ciascuna parte.

Il Tribunale, ritenuto che la divulgazione delle informazioni personali dei ricorrenti risultava sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento, escludeva che gli stessi avessero subito un danno patrimoniale, mentre, quanto al danno non patrimoniale, pur essendo stato dedotto “il patema d’animo sofferto per rischio di possibili furti della propria identità, con la necessità di continui controlli”, riteneva non dimostrata “tale ultima circostanza”, riscontrando, però, a fondamento del liquidato pregiudizio, un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’Università degli Studi di Roma Tre, affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da memoria.

Resistono con unico controricorso P.M., V.P. e M.P..

Motivi della decisione
1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dai controricorrenti sul presupposto che l’impugnazione è stata tardivamente proposta rispetto al termine di sessanta giorni, di cui all’art. 325 c.p.c..

1.1. – A sostegno dell’eccezione si deduce: che la sentenza impugnata in questa sede veniva notificata all’Università degli Studi di Roma Tre in data 3 ottobre 2008; che l’Università provvedeva a notificare il ricorso per cassazione soltanto il 16 dicembre 2008 e, dunque, oltre il termine di legge; che un primo tentativo di notificazione in data 27 novembre 2008, effettuato presso il domicilio eletto, non era andato a buon fine per il trasferimento del difensore di essi attuali controricorrenti; che, tuttavia, lo stesso difensore aveva comunicato al proprio Ordine professionale già in data 4 novembre 2008 il nuovo indirizzo e questo, a far data dal successivo 10 novembre, era visibile sul sito web dell’Ordine; che in data 28 novembre 2008 veniva notificata all’Università altra copia della sentenza con indicazione del nuovo indirizzo del difensore e, in pari data, venivano inviate una missiva via fax ed altra comunicazione per lettera raccomandata, quest’ultima pervenuta il 1 dicembre 2008.

I controricorrenti assumono, dunque, che la prima notificazione del 27 novembre 2008 era “inesistente” (dovendo essere effettuata presso il domicilio reale del procuratore trasferitosi) e che, comunque, l’Università, venuta tempestivamente a conoscenza del nuovo indirizzo del domicilio eletto, era stata negligente nel notificare ivi il ricorso ben 14 giorni dopo la scadenza del termine di cui all’art. 325 c.p.c..

1.2. – L’eccezione va respinta alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità.

A tal riguardo rileva, infatti, il principio – enunciato da Cass. 30 settembre 2011, n. 19986 (nello stesso senso, anche Cass., 26 marzo 2012, n. 4842) – per cui, “in tema di notificazione di un atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per cause non imputabili al notificante (quale, in particolare, l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario, non conoscibile da parte del notificante) e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, non potendo ridondare su di lui la mancata immediata rinotifica dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario, non dipendente dalla sua volontà, ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la richiesta di notificazione, a nulla rilevando che quest’ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame”.

Nella specie, la documentazione versata in atti non consente di evincere con certezza che il nuovo indirizzo del difensore degli attuali ricorrenti fosse effettivamente conoscibile in base a consultazione del sito web dell’Ordine degli Avvocati già prima del 26 novembre 2008, allorquando l’Università ebbe a richiedere all’Ufficiale giudiziario la notificazione del ricorso per cassazione.

In ogni caso, non è dato ascrivere a negligenza della stessa Università, che aveva ricevuto la notificazione della sentenza in data 6 ottobre 2008 (giacchè ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione rileva la data di ricezione della notificazione da parte del destinatario e non già quella di spedizione ad opera del mittente), prima del trasferimento del difensore dei notificanti presso altro domicilio, la mancata consultazione del predetto sito web nel ridotto lasso temporale utile per impugnare il provvedimento, in assenza di previe sollecitazioni che potevano far presumere il mutamento di indirizzo.

Sicchè, il momento in cui l’Università degli Studi Roma Tre ha avuto contezza del nuovo indirizzo va collocato non prima del 27 novembre 2008 e, segnatamente, allorquando l’Ufficiale giudiziario, investito della originaria richiesta di notificazione del ricorso in data 26 novembre 2008 (dunque, entro il termine di sessanta giorni di cui all’art. 325 c.p.c., che scadeva il 5 dicembre 2008), ebbe a restituire l’atto da notificare con la relata in cui risultava indicato il nuovo domicilio presso il quale si era trasferito il legale degli attuali controricorrenti. E’ da ritenere, dunque, rispettosa del criterio di ragionevolezza la riattivazione del procedimento notificatorio il successivo 15 dicembre 2008.

2. – Del pari infondata è l’eccezione, sollevata sempre dai controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per carente esposizione dei fatti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, giacchè detta carenza non è affatto ravvisabile nell’atto della presente impugnazione, in cui è sintetizzata in modo intelligibile la vicenda storica e processuale, nonchè l’oggetto della pretesa azionata in giudizio.

3. – Con il primo motivo è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (di seguito anche codice della privacy o soltanto codice), in combinato disposto con l’art. 2059 c.c..

Il Tribunale di Roma avrebbe errato a ritenere che quanto dedotto dai ricorrenti – e cioè il “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” – concretasse un danno non patrimoniale risarcibile ai sensi D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.

Ciò, anzitutto, perchè si trattava di c.d. danno morale soggettivo, che le Sezioni Unite civili della Cassazione (sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008) hanno ritenuto “irrisarcibile”, negando che esso possa configurarsi come “categoria concettuale”.

Inoltre, e sotto diverso profilo, il giudice del merito “ha radicalmente omesso di accertare nel caso di specie la serietà del danno ipoteticamente risarcibile e la gravità della lesione dei diritti fondamentali della persona”.

Vengono, quindi, formulati i seguenti quesiti ex art. 366 bis c.p.c.:

“Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno, è autonomamente risarcibile il patema d’animo lamentato dal danneggiato? Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, quest’ultimo è risarcibile anche se non è stata accertata la sua serietà e la gravità della lesione?” 4. – Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Integrerebbe fatto controverso decisivo ai fini del presente giudizio l’omessa valutazione, da parte del tribunale, “di serietà del danno e di gravità della lesione”, malgrado anche la contestazione mossa da essa Università degli Studi Roma Tre circa la mancanza di prova del danno lamentato e del nesso di causalità tra il comportamento ascritto al danneggiante e l’evento dannoso.

5. – Con il terzo motivo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 18 e 19, art. 24, lett. c).

Il Tribunale di Roma avrebbe omesso di considerare che la disciplina giuridica applicabile al trattamento dei dati personali non sensibili, nè giudiziari, deriva dalla natura giuridica del suo titolare che, se pubblico, deve utilizzare i dati in modo tale che il loro trattamento sia finalizzato allo svolgimento delle funzioni istituzionali, anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, codice della privacy). La sentenza che si impugna, pur non negando, nel caso di specie, l’asservimento alla finalità istituzionale del trattamento dei dati, ha, tuttavia, ritenuto il trattamento stesso eccedente le finalità istituzionali perseguite dal soggetto pubblico che lo effettua. Invero, l’utilizzo di dati desumibili da pubblici registri, la cui consultazione li avrebbe resi altrimenti disponibili, non deve essere necessariamente proporzionato rispetto alle finalità istituzionali. Infatti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. c), del codice, non è richiesto alcun consenso da parte dell’interessato per il trattamento di dati provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque.

Viene formulato il seguente quesito di diritto: “I dati personali provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque possono essere trattati da un ente pubblico anche indipendentemente dal nesso di proporzionalità rispetto alle sue finalità istituzionali?”.

6. – E’ logicamente prioritario lo scrutinio del terzo motivo, che veicola una quaestio iuris attinente all’an debeatur e cioè alla sussistenza, o meno, della violazione della disciplina dettata a tutela del diritto alla protezione dei dati personali.

6.1. – Il Tribunale di Roma ha ritenuto che la condotta tenuta dall’Università Roma Tre integrasse una “divulgazione del contenuto del file sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento” dei dati personali degli interessati.

Tale convincimento, nella sua intrinseca portata, non è affatto censurato dalla ricorrente Università, che incentra la denuncia soltanto su un asserito error in indicando, sostenendo che il requisito della proporzionalità non sarebbe necessario in presenza di un trattamento sottratto al consenso dell’interessato, come quello di specie, riguardante dati provenienti da pubblici registri.

La doglianza è infondata.

I principi relativi alle modalità di trattamento ed ai requisiti dei dati, recati dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, – e che si compendiano in quelli di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti – hanno carattere generale, nel senso che trovano applicazione in riferimento a tutti i trattamenti, pubblici e privati, segnando i confini di liceità degli stessi, ove la stessa regolamentazione specifica di settore non ne limiti o conformi diversamente la portata.

Il fatto, dunque, che per gli enti pubblici non sia necessario il consenso dell’interessato per il trattamento dei dati nell’ambito delle finalità istituzionali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 18, comma 2), che può essere effettuato (ove non riguardi dati sensibili) anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, stesso D.Lgs.) – e, quindi, a maggior ragione se trattasi di dati provenienti da pubblici registri, per i quali anche i soggetti privati e gli enti pubblici economici sono esentati dall’acquisire il consenso art. 24, comma 1, lett. c), del medesimo D.Lgs.; cfr. in tale prospettiva Cass., 11 luglio 2013, n. 17203, in motivazione – non esclude, alla stregua di quanto contempla la stessa disciplina appena richiamata ed applicabile nella fattispecie, che il trattamento debba comunque essere effettuato in modo lecito e corretto ai sensi del citato art. 11 e, dunque, nel rispetto degli anzidetti principi generali e, tra questi, di quello di proporzionalità o non eccedenza del trattamento rispetto alle finalità proprie (cfr. anche Cass., sez. un., 8 febbraio 2011, n. 3033).

7. – I primi due motivi, che vanno congiuntamente scrutinati per la loro stretta connessione, sono fondati nei limiti appresso specificati.

7.1. – Occorre da subito sfrondare il thema decidendum dalla censura con cui si deduce l’erroneità della decisione impugnata là dove la stessa avrebbe risarcito il “danno morale soggettivo”, che le Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 26972 del 2008) avrebbero “viceversa ritenuto irrisarcibile”, giacchè – prima ancora della non corretta e, comunque, parziale lettura della citata pronuncia su cui viene imperniata la doglianza – quest’ultima non coglie, in parte qua, l’effettiva ratio decidendo della sentenza del giudice del merito, che riconosce la sussistenza del danno non patrimoniale non già nel “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” (ritenuto anzi non dimostrato), ma per l’esistenza, in capo ai ricorrenti, di un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione anche di carattere economico”. E cioè di un tipo di pregiudizio che, astrattamente, non può dirsi estraneo al paradigma del danno non patrimoniale risarcibile in base al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, come “effetto del trattamento di dati personali”.

7.2. – Fondato, per quanto di ragione, è invece il profilo di censura che investe la c.d. “soglia di risarcibilità” (secondo un’espressione icastica che intende soltanto riassumere la quaestio iuris) del danno non patrimoniale anche ai sensi del citato art. 15 del codice della privacy.

7.2.1. – Nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, il danno risarcibile non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione.

Il superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, è frutto di successive elaborazioni giurisprudenziali, tributarie del revlrement operato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994, i cui esiti possono compendiarsi nelle parole della sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008 delle Sezioni Unite di questa Corte (che, unitamente alle coeve decisioni n. 26973, n. 26974 e n. 26975, ha segnato l’approdo del diritto vivente in tema di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.), secondo cui “gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva)… consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata…)”.

Nell’alveo dell’art. 2043 c.c., va ricondotto anche il danno indicato dall’art. 2059 c.c., nel senso che tale ultima norma non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., bensì “regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c.” (così Cass., 9 aprile 2009, n. 8703, che ribadisce in sintesi l’elaborazione della citata Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, sulla scia delle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, di questa stessa Corte).

Sicchè, in una lettura costituzionalmente orientata, l’art. 2059 c.c., nell’affermare la risarcibilità del danno non patrimoniale, è norma di rinvio “ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili presidiati dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario)” (ancora la citata Cass. n. 8703 del 2009).

7.2.2. – Può, dunque, affermarsi in via generale che la “gravità della lesione” attiene al momento determinativo dell’evento dannoso, quale incidenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato (dal legislatore o dall’interprete) come meritevole di tutela aquiliana, e la sua portata è destinata a riflettersi sull’ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una minima offensività della lesione stessa. In definitiva, la gravità dell’offesa è funzione plastica del requisito dell’ingiustizia del danno, che ne modella il suo orbitare nella cerchia gravitazionale dell’illecito.

La “serietà del danno” riguarda, invece, il piano delle conseguenze della lesione e cioè l’area dell’obbligazione risarcitoria, che si appunta sulla effettività della perdita subita (il c.d. danno- conseguenza); il pregiudizio “non serio” esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia di offensività.

Ed è questo il piano rispetto al quale la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, escludendo che, nel sistema della responsabilità civile, al risarcimento del danno possa ascriversi una funzione punitiva, afferma l’insussistenza di un “danno in re ipsa” e ciò, per quanto qui interessa, non solo in riferimento alle ipotesi di lesione di diritti inviolabili (tra le altre, Cass., 21 giugno 2011, n. 13614; Cass., 14 maggio 2012, n. 7471; Cass., 24 settembre 2013, n. 21865), ma anche in quelle in cui il risarcimento del danno non patrimoniale sia previsto espressamente dalla legge (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo:

Cass., 26 maggio 2009, n. 12242).

7.2.2.1. – L’accertamento della gravità della lesione e della serietà del danno spetta al giudice, in forza del “parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico” (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, cit.).

Dunque, è accertamento di fatto ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi.

E’ accertamento di fatto che, naturalmente, richiede la previa allegazione di parte degli elementi fattuali atti ad innescarlo, sui quali incentrare il thema probandum, alla cui definizione possono ben concorrere le presunzioni di cui all’art. 2727 c.c..

7.2.3. – La giustificazione della cosi modulata “soglia di risarcibilità” del danno non patrimoniale, dettata dall’esigenza di arginare la “proliferazione delle c.d. liti bagatellari”, si rinviene – come affermato dalla citata sent. n. 26972 del 2008 – nel “bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.

Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.)”.

7.2.3.1. – Il principio che configura una soglia nell’accesso alla tutela risarcitoria non rimane, del resto, isolato nell’ambito dei confini nazionali, giacchè non solo, de iure condendo, è campo di elaborazione di regole Europee in materia di tort law, ma trova espressione, direttamente positiva o frutto di interpretazione giurisprudenziale, in altri, ed a noi vicini, ordinamenti.

Nondimeno, quello che icasticamente viene indicato come il principio de minimi s non curat praetor guida la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella delibazione di ricevibilità dei ricorsi, ai sensi dell’art. 35, p.2 b), della Convenzione, alla stregua del criterio del “pregiudizio significativo”, che porta a vetrificare, in concreto, se la violazione di un diritto abbia raggiunto “una soglia minima di gravità per giustificare l’esame da parte di una giurisdizione internazionale” (cosi, da ultimo, Corte EDU, sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, n. 77/07, 7 gennaio 2014).

7.2.3.2. – Invero, quel che più preme porre in rilievo è che alla radice delle ragioni giustificative della “soglia di risarcibilità” opera il principio di solidarietà, di cui quello di tolleranza è intrinseco precipitato, il quale, nella sua portata etica, è immanente nello stesso concetto di societas umana e la cui trasposizione in norma giuridica costitutiva si è avuta, nel nostro ordinamento, con l’art. 2 Cost., ponendosi esso, insieme ai diritti inviolabili, tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico stesso, “come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).

Un principio, dunque, che informa lo stesso sistema costituzionale- democratico, che per sua propria vocazione è orientato dal valore cardine rappresentato dalla persona umana e dalla sua dignità. Con ciò, il vincolo solidale è destinato a segnare l’agire sociale di ogni sua componente, sia pubblica, che privata, operando, inscindibilmente con il principio di uguaglianza, quel necessario contemperamento tra posizioni idiosincratiche e socialità, attraverso doveri che si impongono per la tutela e protezione di beni e valori della comunità nel suo complesso.

Il principio di solidarietà costituisce allora il punto di mediazione che consente al sistema ordinamentale di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito della collettività; esso, pertanto, non giustifica in sè la necessità di un apparato di tutela dei diritti inviolabili, ma, tuttavia, ne sorregge l’effettività, rendendolo sostenibile come sistema operante all’interno di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva.

7.2.4. – Il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., “nei casi previsti dalla legge”, presuppone, dunque, una previa individuazione positiva, da parte del legislatore, del diritto/interesse meritevole di una siffatta tutela, oppure l’opera selezionatrice del giudice, tenuto ad individuare esso stesso i diritti inviolabili già inscritti nella Carta Fondamentale, inverandone la portata valoristica che ruota intorno alla dignità della persona.

Gravità della lesione e serietà del danno sono, però, connotazioni logicamente indipendenti dalla selezione (legislativa o giudiziale) del diritto/interesse giuridicamente rilevante e suscettibile di tutela aquiliana ai sensi dell’art. 2059 c.c., nel senso che esse presuppongono che tale selezione sia già avvenuta.

Ciò consente di affermare, in linea di principio, che la verifica di gravità della lesione e di serietà del danno, giustificata a monte dalla forza pervasiva del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è operazione consentanea anche al risarcimento del danno non patrimoniale nelle ipotesi in cui sia lo stesso legislatore ad avere positivamente tipizzato tale rimedio rispetto a quel determinato diritto/interesse.

In altri termini, la mera inclusione da parte del legislatore di un dato diritto/interesse nell’alveo del rimedio risarcitorio del danno non patrimoniale non si risolve, di per sè, nell’affermazione stessa di gravità della lesione del diritto/interesse medesimo e di serietà del danno che ne consegue.

Tuttavia, essendo rimessa all’esercizio ragionevole della discrezionalità legislativa la conformazione stessa della tutela, anche nella sua modulazione di grado ed intensità, occorre verificare, caso per caso, quale sia la concreta disciplina che la legge ha dettato per quel determinato diritto/interesse che ha ritenuto di selezionare come suscettibile di essere ristorato, in caso di lesione, anche sotto il profilo del danno non patrimoniale.

Invero, de iure condendo, la interpositio del legislatore nella tipizzazione delle ipotesi di danno non patrimoniale potrebbe concentrarsi soltanto nella selezione dell’interesse giuridicamente meritevole di tale tutela risarcitoria e lasciare interamente al momento applicativo della legge l’indagine sull’ingiustizia del danno e sulla sua serietà; ovvero potrebbe attrarre nell’orbita della operata selezione anche la gravità della lesione, attraverso un bilanciamento effettuato a priori, in ragione di esigenze complessive che non attengano di per sè alla preminenza del diritto/interesse tutelato – posto che istituire tra i diritti inviolabili una rigida gerarchia inibirebbe il loro fisiologico dispiegarsi – bensì alla interazione tra il principio di solidarietà ed il tipo di rapporti che tali diritti innestano. Potrebbe, infine, lo stesso legislatore, confezionare misure rimediali ancor più intense, in ipotesi derogando anche al principio di effettività della perdita subita e, in un’ottica (diversa da quella attuale) privilegiante piuttosto una funzione meramente sanzionatoria della responsabilità civile, ipotizzare un danno in re ipsa, che prescinda dalla stessa effettività della perdita subita, magari valutando che lo stesso vincolo di solidarietà imponga, in quel dato contesto, una assoluta preminenza di salvaguarda dei diritti implicati.

E così, in una prospettiva questa volta de iure condito, se può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione (ma non quello sulla serietà del danno) sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato (quale ipotesi che da luogo al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 185 c.p., comma 2; per l’ingiustizia in re ipsa del danno da reato, cfr. Cass., 11 febbraio 1995, n. 1540), la stessa gravità della lesione, oltre che la serietà del danno, è delibazione che la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, (c.d. legge Pinto), nella sua attuale formulazione, sembra affidare complessivamente all’apprezzamento del giudice, salvo poi ravvisare – al comma 2 quinquies – talune ipotesi in cui la pur esistente violazione della durata ragionevole del processo non da luogo ad alcun indennizzo.

7.2.5. – Nel caso che qui interessa, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, prevede che chiunque è tenuto a risarcire, ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danno ad altri cagionato “per effetto del trattamento di dati personali” (comma 1) e che il “danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’art. 11” (comma 2).

Posto che il significato della congiunzione “anche” utilizzata dal citato comma 2 è quello di non confinare la risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di pregiudizio conseguente ai fatti incriminati dalle disposizioni previste dallo stesso codice della privacy (art. 167, sul trattamento illecito di dati), occorre valutare in che termini l’accesso al risarcimento, che il legislatore ha ancorato alla “violazione dell’art. 11”, si atteggi sulla verifica di gravità della lesione e serietà del danno. Con l’ulteriore precisazione che dall’ambito applicativo dell’art. 11 sono escluse talune ipotesi (trattamento effettuato per scopi esclusivamente personali e rispetto a dati non destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione; trattamento effettuato da soggetto non annoverabile tra le figure, di titolare e responsabile, tipizzate dagli artt. da 28 a 30 del codice), le quali, tuttavia, possono dar luogo (rispettivamente: la prima, per effetto della esplicita previsione dell’art. 5, comma 3, del codice; la seconda, per la clausola soggettiva generale del “chiunque” di cui al comma 1 dell’art. 15 del codice) ad un danno di natura non patrimoniale, la cui risarcibilità dovrà essere vagliata, già in punto di antigiuridicità della condotta, in base alle comuni regole sulla responsabilità aquiliana.

7.2.5.1. – Invero, la questione appare problematica unicamente sotto il profilo della gravità della lesione, e dunque dell’ingiustizia del danno, giacchè la necessità di una delibazione giudiziale sulla serietà dello stesso, come conseguenza della lesione, non può essere revocata in dubbio neppure ove si ritenesse che la legge abbia configurato la lesione apprezzabile dell’interesse tutelato con il rimedio risarcitorio come effetto diretto di una mera violazione dell’art. 11. Ciò in quanto la norma dell’art. 15, prevedendo espressamente come “risarcibile” il “danno non patrimoniale”, lascia impregiudicato il profilo della sussistenza, o meno, di una perdita (non patrimoniale) effettivamente subita dal danneggiato, non esibendo ulteriori indici significativi dai quali possa evincersi che l’interpositio legislatoris sia giunta sino a configurare un danno in re ipsa.

7.2.5.2. – Ciò premesso, più di un elemento milita nel senso che l’art. 11 del codice costituisce l’architrave su cui verificare l’antigiuridicità della condotta di trattamento dei dati personali, ma non già l’ingiustizia del danno, intesa come lesione al diritto/interesse tutelato dalla normativa di settore, necessaria per dare ingresso al risarcimento del pregiudizio patito, là dove esso si presenti serio.

Sotto un primo profilo, che attiene al dato letterale delle disposizioni implicate, rileva la circostanza per cui la violazione dell’art. 11 – in quanto la norma è volta a delineare i criteri di comportamento, lecito e corretto, ai quali si deve conformare il titolare o il responsabile del trattamento dei dati personali – non assorbe in sè tutte le componenti materiali dell’illecito, mentre l’art. 15, sia pure non aggettivandolo come ingiusto, indica in ogni caso la necessità dell’esistenza di un danno che sia effetto di un trattamento di dati personali.

Tale rilievo è da coniugare con l’ulteriore considerazione – fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la tutela apprestata dal codice della privacy al diritto alla protezione dei dati personali non è espressione di una concezione “statica” della riservatezza, bensì “dinamica” di essa, “tesa al controllo dell’utilizzo e del destino dei dati” (Cass., 18 luglio 2013, n. 17602).

Tale evoluzione esalta, per contro, le finalità rispetto alle quali è improntato il sistema delineato dallo stesso decreto, in cui diventa prioritaria la tutela “dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, e in particolare della riservatezza” e, per l’appunto, “del diritto alla protezione dei dati personali nonchè dell’identità personale o morale del soggetto”, indicati dall’art. 2 del codice (tra le molte, oltre alla già citata Cass. n. 17602 del 2013, anche Cass., 8 agosto 2013, n. 18981 e, in precedenza, Cass., 8 luglio 2005, n. 14390). Di qui, la necessità di un bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, in cui, seppur senza posizioni gerarchicamente definite, dovrà trovare adeguata considerazione anche il diritto fondamentale “alla protezione dei dati personali, tutelato agli artt. 21 e 2 Cost., nonchè all’art. 8 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni che, spettando a chiunque (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 1) e ad ogni persona (art. 8 Carta), nei diversi contesti ed ambienti di vita, concorre a delineare l’assetto di una società rispettosa dell’altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza” (cosi Cass. n. 17602 del 2013, cit.; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

Sicchè, nel sistema del d.lgs. n. 196 del 2003, il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali non vive isolatamente, ma simbioticamente con gli altri ed implicati diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana, operando strumentalmente per la sua integrale tutela.

In tale quadro, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 determinerà, quindi, una lesione ingiustificata del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, ma soltanto quella che ne offenda in modo sensibile (e cioè oltre la soglia di tollerabilità) la sua portata effettiva, calata in un contesto in cui si combinano strettamente i diritti e le libertà contemplate dai primi due articoli del codice, perchè il risultato sia quello di una tutela piena della persona umana a fronte di un vulnus concreto ed effettivo, che, come tale, necessita di essere ristorato.

Agli evidenziati rilievi va aggiunto che il rimedio risarcitorio si accompagna, nel disegno del legislatore del codice, ad una tutela inibitoria composita, che rende pertanto suscettibile di graduare la risposta in funzione delle concrete esigenze di salvaguardia dell’interessato. Tra i vari rimedi (si veda, segnatamente, l’art. 7 del codice) è da annoverare anche quello della inutilizzabilità dei dati personali “trattati in violazione della disciplina rilevante in materia”, prevista dallo stesso art. 11, comma 2; inutilizzabilità che, questa volta, opererà direttamente in ragione della illiceità e/o scorrettezza della condotta del responsabile e/o del titolare del trattamento.

Vi è, dunque, una sinergia tra tutela preventiva (eminentemente inibitoria) e quella risarcitoria che il legislatore, nel costruire l’apparato rimediale, ha tenuto presente, cosi da far convergere la seconda là dove il pregiudizio risulti attuale, effettivo ed apprezzabile.

Conclusivamente può, quindi, essere enunciato il seguente principio di diritto:

“il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (c.d. codice della privacy) non si sottrae alla verifica di “gravità della lesione” (concernente il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, quale intimamente legato ai diritti ed alle libertà indicate dall’art. 2 del codice, convergenti tutti funzionalmente alla tutela piena della persona umana e della sua dignità) e di “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), che, in linea generale, si richiede in applicazione dell’art. 2059 c.c., nelle ipotesi di pregiudizio inferto ai diritti inviolabili previsti in Costituzione. Ciò in quanto, anche nella fattispecie di danno non patrimoniale di cui al citato art. 15, opera il bilanciamento (siccome pienamente consentito all’interprete dal modo in cui si è realizzata nello specifico l’interpositio legislatoris) del diritto tutelato da detta disposizione con il principio di solidarietà – di cui il principio di tolleranza è intrinseco precipitato -, il quale, nella sua immanente configurazione, costituisce il punto di mediazione che permette all’ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva. L’accertamento di fatto rimesso, a tal fine, al giudice del merito, in forza di previe allegazioni e di coerenti istanze istruttorie di parte, dovrà essere ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine, illuminata dal bilanciamento anzidetto, proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. Un siffatto accertamento – che, ove l’offesa non superi la soglia di minima tollerabilità o il danno sia futile, può condurre anche ad escludere la possibilità di somministrare il risarcimento del danno – è come tale sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato”.

8. – Nella specie, il Tribunale di Roma, nell’accertamento del danno non patrimoniale poi liquidato ai ricorrenti D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, ha fatto riferimento al mero “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”, mancando, altresì, di rendere pienamente intelligibile lo sviluppo dei criteri che hanno guidato un tale giudizio, il quale, come sopra evidenziato in linea di principio, avrebbe dovuto formarsi all’esito di una verifica in concreto circa la gravità della lesione e la serietà del danno.

9. – Sicchè, rigettato il terzo motivo di ricorso ed accolti, per quanto di ragione, i primi due motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata in punto di riconoscimento del danno non patrimoniale e la causa rinviata al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, che nel delibare nuovamente la questione dovrà attenersi al principio di diritto innanzi enunciato.

Al giudice del rinvio spetterà anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il terzo motivo di ricorso ed accoglie i primi due per quanto di ragione;

cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2014


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 11/03/2014) 07/04/2014, n. 8053

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. FORTE Fabrizio – Presidente Sezione –

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente Sezione –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso R.G. 971/13 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

AOM ROTTAMI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via della Giuliana 32, presso l’avv. FISCHIONI GIUSEPPE, che, unitamente all’avv. Luigi Ferrajoli, la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Milano – Sezione staccata di Brescia), sez. 63, n. 201/63/12 del 18 settembre 2012, depositata il 9 ottobre 2012, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 marzo 2014 dal Consigliere Raffaele Botta;

udito l’avv. Gianni De Bellis per l’Avvocatura Generale dello Stato e gli avv.ti Giuseppe Fischioni e Luigi Ferrajoli per la società controricorrente;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo.

Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnazione da parte della società AOM Rottami S.p.A. di due avvisi di accertamento relativi ad IRES ed IRAP per gli anni 2005 e 2006, con i quali l’amministrazione aveva recuperato a tassazione costi ritenuti indeducibili perchè attinenti sia a traffico illecito di rifiuti, sia ad operazioni soggettivamente inesistenti.

La Commissione adita rigettava il ricorso, ma la decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe, che annullava gli avvisi di accertamento impugnati.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con due motivi. Resiste la società contribuente con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, l’amministrazione ricorrente formalmente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.

1.1. Nella sostanza la parte ricorrente, dopo aver precisato che oggetto di censura è il solo capo della sentenza d’appello concernente la ripresa a tassazione di costi relativi ad operazioni inesistenti, rileva che il giudice a quo ha erroneamente motivato l’illegittimità dell’atto impositivo, affermando:

– da un lato, l’irrilevanza, ai fini della deducibilità dei relativi costi, della falsità ideologica delle fatture alla luce delle disposizioni di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, commi 1 e 2, in assenza (o in mancanza di prova della ricorrenza nella specie) delle condizioni previste dalle richiamate norme;

– dall’altro, la mancata contestazione da parte dell’amministrazione dell’inerenza dei costi in questione nell’avviso di accertamento e comunque nel giudizio di primo grado.

1.2. L’amministrazione, tuttavia, evidenzia che il giudice d’appello non avrebbe in realtà esaminato gli “avvisi di accertamento e i fatti che essi rappresentavano”, altrimenti non avrebbe potuto non rilevare che “l’Ufficio non aveva contestato la deduzione dei costi invocando la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, – poi modificato nel corso del giudizio – ma aveva, ben diversamente, sostenuto l’indeducibilità dei costi medesimo in quanto non inerenti (ai sensi dell’art. 109 TUIR)”, implicitamente richiamando l’orientamento di questa Corte “secondo il quale la derivazione dei costi da un’attività che integra oggettivamente un illecito penale fa presumere la distrazione di essi verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa”.

2. Con il secondo motivo, l’amministrazione ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), una nullità processuale derivante da violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, per aver il giudice di appello qualificato inammissibile, in quanto nuova e tardiva, la contestazione di non inerenza dei costi documentati nelle fatture ideologicamente false, laddove, invece, tale contestazione era già stata esternata negli avvisi di accertamento.

3. Chiamata la causa innanzi alla VI Sezione di questa Corte, il Collegio rilevava che dalla lettura del primo motivo di ricorso emergeva, dietro la “forma”, la “sostanza” di una dedotta “insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”, cioè del vizio previsto nel testo dell’art. 360 n.5), anteriore alla recente riforma che si applica ai ricorsi avverso sentenze depositate dopo il giorno 11 settembre 2012: di modo che la decisione del ricorso presupponeva che fosse preliminarmente risolto “il problema della applicabilità o meno ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie delle disposizioni modificative del codice di procedura civile contenute nel D.L. 22 giugno 2012, n. 83, c.d. Decreto crescita convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134”.

3.1. Ad avviso del Collegio sia la nuova formulazione restrittiva del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sia, indirettamente, la sua radicale espunzione in caso di c.d. doppia conforme troverebbero applicazione in relazione ai ricorsi per la cassazione delle sentenze del giudice tributario. A tanto non osterebbe l’art. 54, comma 3 bis, della citata legge (L. n. 134 del 2012) secondo cui “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”: la predetta disposizione, infatti, “riguarda solo il processo tributario vero e proprio (primo e secondo grado) delineato dalla L. n. 546 del 1992, mentre il giudizio di cassazione, anche ove verta in materia tributaria, non è più processo tributario ed è disciplinato dalle disposizioni del codice di procedura civile”.

3.2. Per quanto attiene ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze del giudice tributario il citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, “contiene un rinvio all’art. 360 c.p.c., n. 5, (ed alle disposizioni del codice di procedura civile relative al giudizio di cassazione) che è sempre stato applicato come un rinvio alle norme processuali comuni così come via via plasmate dal legislatore e non al testo vigente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 546 del 1992”.

Sicchè non esiste nell’attuale sistema normativo un “giudizio di legittimità tributario”, come comprova l’ispirazione riformatrice che connota un progetto, elaborato di recente dal CNEL, inteso ad introdurre nell’ordinamento un tale speciale “giudizio di legittimità”, disciplinato da proprie specifiche norme.

3.3. Sulla base di siffatte considerazioni il Collegio – constatata, da un lato, l’esistenza di un maggioritario orientamento della dottrina “secondo cui la riforma (di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83) non tocca il processo di cassazione, quando formino oggetto di ricorso sentenze delle Commissioni tributarie” e, dall’altro, la rilevanza della questione, che si palesa come “questione di massima di particolare importanza” – ha ritenuto necessario sollecitare, con ordinanza interlocutoria del 14 ottobre 2013, n. 23273, l’intervento monofilattico delle Sezioni Unite.

4. Nella logica che l’ordinanza di rimessione propone, è necessario verificare preliminarmente se le disposizioni modificative del codice di procedura civile contenute nel D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, trovino applicazione con riferimento ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dal giudice tributario. Ciò perchè, come è facile intuire, l’eventuale applicabilità della riforma condiziona il parametro al quale occorrerà far riferimento per la valutazione dell’ammissibilità e della fondatezza del motivo di ricorso che sollecita al giudice di legittimità il controllo critico sulla motivazione della sentenza impugnata.

5. Il dubbio sull’applicabilità della riforma trova ragione della previsione di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 bis, (aggiunto dalla Legge di conversione n. 134 del 2012), secondo la quale “Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”.

5.1. Tra le disposizioni previste nei precedenti commi di tale norma vi sono, oltre quelle relative al processo d’appello, anche quelle relative specificamente al giudizio di cassazione, che stabiliscono:

– la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5), la cui previsione dell’impugnabilità “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” è sostituita dalla previsione di impugnabilità “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

– l’introduzione nel codice di rito di un articolo 348-ter il cui ultimo comma prevede la proponibilità del ricorso per cassazione esclusivamente per i motivi di cui ai nn. 1), 2), 3) e 4), del primo comma dell’articolo 360, qualora l’impugnazione sia proposta avverso una sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata.

5.2. L’eccezione all’applicazione delle disposizioni previste dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, concerne, per espressa previsione normativa, il processo tributario che il d.lgs. n. 546 del 1992 compiutamente disciplina con norme speciali per quanto riguarda la fase di primo grado e quella d’appello. Si tratta di un processo che si svolge innanzi ad una giurisdizione speciale, la giurisdizione tributaria, che a norma dell’art. 1, comma 1, del predetto decreto “è esercitata dalle Commissioni tributarie provinciali e dalle Commissioni tributarie regionali di cui al D.P.R. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1”.

6. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, non prevede, invece, una disciplina speciale per il giudizio di legittimità concernente l’impugnazione delle sentenze d’appello pronunciate dal giudice tributario, ma si limita a rinviare, in proposito, alle norme del codice di rito che regolano il ricorso per cassazione avverso le sentenze d’appello pronunciate dal giudice ordinario.

6.1. L’art. 62, del citato decreto, infatti, dispone, al comma 1, che “avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale può essere proposto ricorso per cassazione per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. da 1) a 5)”; e al comma 2, “al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto”.

7. Se questo è, come non v’è dubbio che sia, il sistema che emerge dalla complessa regolamentazione predisposta dal D.Lgs. n. 546 del 1992, risulta meglio comprensibile il senso dell’eccezione che il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 bis, ha inteso stabilire.

7.1. Questa norma trova giustificazione nel fatto che, essendo il giudizio d’appello, per quanto concerne le controversie tributarie, regolato da una specifica disciplina dettata dalla normativa speciale, sarebbe contrario all’assetto del sistema rendere a quel giudizio applicabili modificazioni delle norme che il codice di rito detta per il giudizio d’appello innanzi al giudice ordinario.

7.2. Per la stessa logica, appare manifestamente contrario all’assetto del sistema pensare ad un’inapplicabilità delle modifiche che il richiamato art. 54 apporta alle regole per il ricorso per cassazione (quelle relative all’art. 360 c.p.c., n. 5, in particolare), quando tale ricorso investa una decisione emessa dal giudice tributario: infatti, per esplicito richiamo disposto proprio dal D.Lgs. n. 546 del 1992, le regole per il ricorso per cassazione non divergono se la sentenza impugnata sia stata emessa dal giudice ordinario o dal giudice tributario, restando sempre, nell’uno e nell’altro caso, quelle dettate dal codice di rito.

7.3. Pervenire a conclusioni diverse, ammettendo che l’eccezione prevista dal surrichiamato art. 54, comma 3 bis, riguardi anche la novellata norma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, significherebbe prevedere in buona sostanza l’esistenza di un giudizio per cassazione “speciale” in materia tributaria: ne conseguirebbe un inammissibile ampliamento, per via interpretativa, della specialità della giurisdizione tributaria, che, invece, il legislatore del 1992 ha voluto si arrestasse sulle soglie della Corte di Cassazione, eletta a simbolo di garanzia dell’unità del sistema di tutela giurisdizionale dei diritti del cittadino. Mediante il ricordato rinvio alle norme del codice di rito disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, la giustizia tributaria riduce lo spessore della propria specialità e si colloca, sia pur al livello di ultima istanza, nel più generale e complesso sistema di giustizia funzionale all’affermazione e alla tutela dei diritti del cittadino che costituisce l’orizzonte costituzionale dell’ordinamento giuridico italiano. Sicchè leggere la riforma del D.P.R. n. 636 del 1972, realizzata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, come ispirata ad un criterio di riduzione dello spessore della specialità del processo tributario in seno all’ordinamento giurisdizionale (in particolare con riferimento all’impugnabilità per cassazione in via ordinaria delle sentenze dei giudici tributari), significa dare di quella riforma una interpretazione costituzionalmente orientata.

7.4. Questa sottile linea di confine tra processo tributario e processo civile, che la normativa traccia con riferimento al giudizio per cassazione, trova una sua ragione essenziale nel principio cardine che la legge delega aveva posto al legislatore delegato nella disciplina del processo tributario.

7.4.1. Nel dettare tale sistema di regole, il legislatore delegato avrebbe dovuto realizzare un tendenziale adeguamento del processo tributario al processo civile, le cui norme, dettate dal codice di rito, il giudice tributario sarebbe stato tenuto ad applicare per quanto non disposto dalla normativa speciale e nei limiti di compatibilità con questa disciplina: la L. n. 413 del 1991, art. 30, comma 1, lett. g), stabiliva, infatti, l’”adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”.

7.5. Nella delineata prospettiva si è costantemente mossa la giurisprudenza di questa Corte, dichiaratamente affermando che “alla proposizione del ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali devono ritenersi esclusivamente applicabili le disposizioni dettate dal codice di procedura civile, atteso il richiamo di queste da parte del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 2, e l’inesistenza, in tale decreto legislativo, di qualsivoglia disposizione peculiare in ordine alle modalità di proposizione di detto ricorso” (Cass. n. 17955 del 2004). “L’esame delle disposizioni sul processo tributario contenute in detto decreto legislativo”, afferma il Collegio, “evidenzia l’inesistenza, nella sedes materiae od altrove, di qualsivoglia disposizione peculiare in ordine alle modalità di proposizione del ricorso per Cassazione avverso sentenza di una commissione tributaria regionale per cui non si evidenzia nessun problema di compatibilità delle norme dettate all’uopo dal vigente codice di procedura civile con quelle contenute nel D.Lgs. n. 546 del 1992: da tale constatazione discende che alla proposizione del ricorso per Cassazione debbono ritenersi applicabili esclusivamente le disposizioni dettate dal codice di procedura civile per presentare qualsiasi ricorso giurisdizionale innanzi a questa Corte” (Cass. n. 17955 del 2004, in motivazione; nello stesso senso Cass. n. 19577 del 2006, in motivazione).

7.6. Nella ricerca di un ragionevole equilibrio tra norme speciali e norme ordinarie, il vaglio di compatibilità, prescritto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, ha sempre avuto un esito positivo.

7.6.1. Così questa Corte ha evidenziato la significativa contrapposizione tra le disposizioni di rinvio contenute nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art. 49, relative al processo e alle impugnazioni in generale, e la disposizione di rinvio contenuta nel successivo art. 62, relativa al giudizio di cassazione: gli artt. 1 e 49, istituiscono un’autentica specialità del rito tributario, sancendo la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale ultima si applica, quindi, in via del tutto sussidiaria, oltre che nei limiti della compatibilità; l’art. 62, viceversa, per il giudizio di cassazione, “fa espressamente riferimento all’applicabilità delle norme del codice di procedura civile, invertendo così, per questa sola ipotesi, la prevalenza delle norme processuali ordinarie” (Cass. nn. 5504 del 2007; 10961 del 2009).

7.6.2. Così ancora è stato affermato che “al ricorso per cassazione avverso le decisioni delle commissioni tributarie e al relativo procedimento si applicano, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 2, le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili, tra le quali è compresa, direttamente, quella, dettata dall’art. 365, che impone che il ricorso sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale, e, indirettamente, quella, di cui all’art. 82, comma 3, che prescrive che davanti alla Corte di cassazione le parti stiano in giudizio col ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo, per il necessario fondamento tecnico di quel ricorso, implicitamente richiamato tanto dall’art. 365 c.p.c., che dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, nella parte in cui fa riferimento all’art. 360 c.p.c.” (Cass. nn. 8818 del 2003; 8024 del 2011).

7.6.3. Oppure la ritenuta applicazione al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali della “disposizione di cui all’art. 373 c.p.c., comma 1, secondo periodo, secondo cui l’esecuzione della sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, essere sospesa dal giudice a quo, dovendo peraltro evidenziarsi come la specialità della materia tributaria e l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte renda necessaria la rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora” (Cass. n. 2845 del 2012). Come emerge chiaramente la “specialità della materia tributaria” non osta all’applicazione della “regola ordinaria”, ma esaurisce la propria rilevanza in un “ambito esterno” nell’imporre al giudice un particolare rigore nella valutazione dei requisiti della sospensione.

E non è privo di senso il fatto che l’applicabilità dell’art. 373 c.p.c., sia riconosciuta “anche in caso di impugnazione davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione delle pronunce dei giudici speciali, nulla prevedendo al riguardo l’art. 111 Cost., sul ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti” (Cass. S.U. nn. 4112 del 2007; 14503 del 2013): un altro esempio del valore costituzionale dell’unità della giurisdizione e della limitatezza dei margini di specialità ammessi dal nostro ordinamento, che “fisiologicamente”, si potrebbe dire, fissa livelli oltre i quali la specialità di una giurisdizione(riconosciuta come tale in relazione alla particolare natura del suo oggetto) non può comunque eccedere.

7.7. In questa visione della concreta realtà ordinamentale si iscrivono tante pronunce di questa Corte che hanno rafforzato un più completo riconoscimento delle commissioni tributarie come effettivi organi giurisdizionali di fronte ai quali le parti, in ambito processuale, si trovino in una situazione di parità, superando definitivamente ogni posizione di privilegio dell’Amministrazione finanziaria di fronte al cittadino, accentuando un processo di assimilazione, sul piano delle garanzie processuali, tra contenzioso tributario e contenzioso civile.

7.7.1. Oltre alle già ricordate sentenze, possono esemplificarsi l’affermazione (Cass. SU ord. n. 13899 del 2013) che “il giudice tributario può conoscere anche la domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., potendo, altresì, liquidare in favore di quest’ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall’esercizio, da parte della Amministrazione finanziaria, di una pretesa impositiva temeraria”.

7.7.2. O ancora (Cass. n. 21396 del 2012) la ritenuta applicabilità al processo tributario della sospensione necessaria di cui all’art. 295 cod. proc. civ., “qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisca indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati”.

8. In buona sostanza questa Corte ha costantemente riconosciuto ed affermato che il legislatore delegato del 1992 non ha istituito un giudizio tributario di legittimità, ma, semplicemente, ha esteso il giudizio ordinario di legittimità alla materia tributaria, che prima ne era esclusa. Il legislatore delegato, peraltro, nemmeno avrebbe potuto istituire un siffatto giudizio alla luce dei principi dettati dalla legge delega che alla L. n. 413 del 1991, art. 30, comma 1, lett. d), imponeva l’”articolazione del processo tributario in due gradi di giudizio da espletarsi da commissioni tributarie di primo grado con sede nei capoluoghi di provincia e da commissioni tributarie di secondo grado con sede nei capoluoghi di regione, con conseguente applicazione dell’articolo 360 del codice di procedura civile e soppressione della commissione tributaria centrale”: ciò implicava una riduzione dei margini di specialità del processo tributario destinata ad arrestarsi, nel quadro di una prospettiva costituzionalmente orientata, alla soglia del giudizio di legittimità senza possibilità che in quest’ultimo quella specialità esondasse anche indirettamente.

8.1. L’esclusione del giudizio di legittimità dall’area di specialità del processo tributario è, peraltro, confermata, sul piano normativo, anche dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 261, (testo unico sulle spese di giustizia), che, in materia di contributo unificato, prevede, con riferimento al processo tributario, che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”.

8.2. Sicchè il rinvio all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. da 1) a 5), operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, non può ritenersi un rinvio “materiale” e “fisso”, diretto, cioè, a recepire il testo storico della norma richiamata, cristallizzandone il contenuto. Se la voluntas legis, come più prove dimostrano, era nel senso di parificare la giurisdizione tributaria alla giurisdizione ordinaria in punto di sindacato di legittimità, esimendola dai limiti del ricorso straordinario, il rinvio alla norma del codice di rito non può che essere “formale” e “mobile”, idoneo a conservare, nel tempo, la raggiunta parificazione. La specializzazione del giudizio di legittimità in materia tributaria, può solo costituire una mera prospettiva de iure condendo.

8.3. Ne è conferma il fatto, ricordato nell’ordinanza di rimessione, che il CNEL abbia confezionato un progetto di legge delega “per razionalizzare e codificare l’attuazione e l’accertamento dei tributi e per la revisione delle sanzioni amministrative e del processo tributario”, caratterizzato da una ispirazione alquanto diversa e incline più ad approfondire, che a ridurre, la separatezza tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria, arrivando fino a prevedere l’istituzione di una sorta di BFH – Bundesfinanzhof italiana. Sicchè la specialità di un giudizio di legittimità in materia tributaria è manifestamente una questione de iure condendo e non di diritto vigente.

8.4. Quanto tuttavia alle attuali prospettive di riforma, diversamente orientata sembra essere la “delega fiscale” approvata con la L. 11 marzo 2014, n. 23, che entrerà in vigore il 27 marzo 2014. Ed invero, all’art. 10, recante disposizioni relative alla “revisione del contenzioso tributario e della riscossione degli enti locali”, il legislatore delegato è invitato “ad introdurre… norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante”: una scelta questa che non è certamente intesa a favorire un accrescimento dello spessore di specialità del processo tributario, sotto il decisivo profilo della tutela giurisdizionale dei diritti, ma semmai a incoraggiare quel processo di assimilazione alle regole ordinarie che questa Corte ha costantemente perseguito. E nessuno dei principi enunciati nel citato art. 10, lett. a) e b), legittima l’idea di un differente percorso.

9. Alla luce di siffatte considerazioni non vi sono elementi per affermare che il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 bis, oltre a preservare la specialità del giudizio tributario di merito, introduca, peraltro per via indiretta ed implicita, la specializzazione del giudizio di legittimità in materia tributaria, senza che possa aver rilievo l’asserito “difetto di professionalità” dei giudici tributari come causa di giustificazione del mantenimento di un più penetrante controllo sulla motivazione delle sentenze emesse da tali giudici in sede di giudizio di legittimità.

9.1. Una riforma così rilevante, e per di più non immediatamente percepibile come coerente attuazione del sistema normativo vigente, quale è quella dell’istituzione di uno speciale giudizio di legittimità in materia tributaria, esige una espressa, specifica e consapevole espressione di volontà legislativa. Mentre resta nel limbo del “non giuridico” ogni discorso sulla (mancanza di adeguata) “professionalità” del giudice tributario, che non reclama come ineludibile corollario logico una specialità del controllo di legittimità, ma semmai pone l’accento sulla irrinunciabile professionalizzazione del giudice quale elemento determinante della tutela giurisdizionale dei diritti (e in ciò sembra rientrare, a pieno titolo, la previsione della ricordata L. n. 23 del 2014, art. 10, comma 1, lett. b), n. 8), circa la doverosa ispirazione del legislatore delegato all’adozione di misure volte al “rafforzamento della qualificazione professionale dei componenti delle commissioni tributarie, al fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica” nel quadro una prospettiva di una crescita dello spessore della tutela giurisdizionale del contribuente con l’assicurata terzietà dell’organo giudicante).

10. Da ultimo, e sempre nel solco tracciato con i ragionamenti fin qui svolti, è doveroso richiamare l’attenzione su quanto dichiara la relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 83 del 2012, a proposito dell’art. 54. Questa norma, secondo la relazione, ha il dichiarato scopo di “migliorare l’efficienza delle impugnazioni sia di merito che di legittimità, che allo stato violano pressochè sistematicamente i tempi di ragionevole durata del processo”.

10.1. In questa prospettiva si colloca sia la riduzione dei motivi di impugnazione della c.d. doppia conforme, con l’esclusione del “vizio di motivazione contraddittoria o insufficiente, la cui strumentalizzazione ad opera delle parti sta rendendo insostenibile il carico della Suprema Corte di Cassazione”; sia la “riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), mirata (anch’essa) a evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali”. Tutto ciò a supporto della “generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di Cassazione quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris”: un’idea che non ammette alcuna comprensibile distinzione tra controllo di legittimità sulle sentenze del giudice ordinario e controllo di legittimità sulle sentenze del giudice tributario.

11. Sicchè si deve concludere per l’applicabilità ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionale delle disposizioni di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazione dalla L. n. 134 del 2012, che sono riferite alla disciplina del giudizio di cassazione. Tra quest’ultime rientra certamente, nonostante la non felice collocazione “topografica” tra le norme preposte alla regolamentazione dell’appello, la disposizione di cui all’art. 348 ter, u.c., aggiunto dalla norma in esame, al codice di rito, giusta il cui disposto non è ammesso ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), avverso quelle sentenze d’appello che confermino la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata. E’ facile accorgersi, infatti, che si tratta di una disposizione che attiene non all’appello, ma alle condizioni (e ai limiti) di ricorribilità per cassazione avverso una sentenza d’appello, che avrebbe avuto forse maggior senso prevedere come comma aggiuntivo all’art. 360 c.p.c..

12. Può, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto:

“Le disposizioni di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie regionali e ciò sia per quanto riguarda la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), secondo la quale la sentenza d’appello è impugnabile “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sia per quanto riguarda l’ultimo comma dell’aggiunto art. 348 ter c.p.c., secondo il quale la proponibilità del ricorso per cassazione è ammessa esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), qualora l’impugnazione sia proposta avverso una sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata”.

13. Ciò posto è possibile passare all’esame del merito del ricorso che ha dato origine all’ordinanza di rimessione discussa nelle precedenti analisi e valutazioni, precisando che dei due motivi di ricorso, solo il primo coinvolge la riconosciuta applicabilità delle disposizioni di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, relative al giudizio di cassazione, limitatamente peraltro alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), non ricorrendo nella specie l’ipotesi della c.d. “doppia conforme”.

14. Per poter procedere, tuttavia, all’analisi del motivo proposto occorre preliminarmente stabilire il senso della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), prevista dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, e definire i limiti entro i quali il nuovo testo abbia ammesso la valutazione da parte del giudice di legittimità della motivazione del provvedimento innanzi a lui impugnato.

14.1. Il legislatore del 2012 ha riformulato l’art. 360 c.p.c., n. 5), riferendolo all’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ritornando, quasi letteralmente, al testo originario del codice di rito del 1940, che prevedeva quale motivo di ricorso in cassazione, l’”omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Appare immediatamente evidente che l’unica differenza testuale è l’utilizzo della preposizione “circa” da parte del legislatore del 2012, rispetto all’utilizzo della preposizione “di” da parte del legislatore del 1940: ma è una “differenza testuale” irrilevante, trattandosi, dell’uso di una forma linguistica scorretta (un solecismo, come talvolta suoi dirsi), che non ha forza di mutare in nulla il senso della disposizione del codice di rito del 2012, rispetto alla disposizione del codice di rito del 1940.

14.2. Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (che pur cambia in buona misura d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. La ratio legis è chiaramente espressa dai lavori parlamentari, laddove si afferma che la riformulazione dell’art. 360, n. 5), è “mirata…..a evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris”.

14.3. In questa prospettiva, volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Ritorna così pienamente attuale la giurisprudenza delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione ex art. 111 Cost., come formatasi anteriormente alla riforma del D.Lgs. n. 40 del 2006: il vizio si converte in violazione di legge nei soli casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale.

14.4. Nel quadro di tale orientamento le Sezioni Unite (sent. n. 5888 del 1992) avevano sottolineato che la garanzia costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali dovesse essere correlata alla garanzia costituzionale del vaglio di legalità della Corte di cassazione, funzionale “ad assicurare l’uniformità dell’interpretazione ed applicazione del diritto oggettivo a tutela dell’uguaglianza dei cittadini”. Esse avevano, quindi, stabilito che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante atteneva solo all’esistenza della motivazione in sè, prescindente dal confronto con le risultanze processuali, e si esauriva nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

14.4.1. Le Sezioni Unite evidenziavano, altresì, che “il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla sino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, devono essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa, e devono comunque essere attinenti ad una quaestio facti (dato che in ordine alla quaestio juris non è nemmeno configurabile un vizio di motivazione).

In coerenza con la natura di tale controllo, da svolgere tendenzialmente ab intrinseco, il vizio afferente alla motivazione, sotto i profili della inesistenza, della manifesta e irriducibile contraddittorietà o della mera apparenza, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, sì da comportare la nullità di esso;

mentre al compito assegnato alla Corte di Cassazione dalla Costituzione resta estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, la quale implichi un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito”.

14.5. Siffatte conclusioni che erano state costantemente riaffermate nella giurisprudenza di legittimità sino alle modifiche al testo dell’art. 360 c.p.c., introdotte con la riforma del 2006, appaiono oggi nuovamente legittimate dalla riformulazione dello stesso testo adottate con la riforma del 2012, che ha l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

14.5.1. In proposito dovrà tenersi conto di quanto questa Corte ha già precisato in ordine alla “mancanza della motivazione”, con riferimento al requisito della sentenza di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4: tale “mancanza” si configura quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass. n. 20112 del 2009).

14.6. Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.

14.7. Il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5), concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

14.7.1. La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.

14.8. Per quanto riguarda specificamente il processo tributario la descritta riforma del 2012 non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al “valore” e alla “operatività” delle presunzioni, che nel predetto processo hanno una loro specifica e particolare rilevanza.

14.8.1. Infatti, la peculiare conformazione del controllo sulla motivazione non elimina, sebbene riduca (ma sarebbe meglio dire, trasformi), il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l’art. 2729 c.c., comma 1, subordina l’ammissione della presunzione semplice. In realtà è in proposito possibile il sindacato per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Ciò non solo nell’ipotesi (davvero rara) in cui il giudice abbia direttamente violato la norma in questione deliberando che il ragionamento presuntivo possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 c.c., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della “fattispecie astratta”, ma erroneamente applicata alla “fattispecie concreta”.

14.8.2. In altre parole, poichè la sentenza, sotto il profilo della motivazione, si sostanzia nella giustificazione delle conclusioni, oggetto del controllo in sede di legittimità è la plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze. L’implausibilità delle conclusioni può risolversi tanto nell’apparenza della motivazione, quanto nell’omesso esame di un fatto che interrompa l’argomentazione e spezzi il nesso tra verosimiglianza delle premesse e probabilità delle conseguenze e assuma, quindi, nel sillogismo, carattere di decisività: l’omesso esame è il “tassello mancante” alla plausibilità delle conclusioni rispetto alle premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

14.8.3. Ciò non significa che possa darsi ingresso, in alcun modo, ad una surrettizia revisione del giudizio di merito, dovendosi tener per fermo, mutatis mutandis, il rigoroso insegnamento di questa Corte secondo cui: “in sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (fatto probatorio – massima di esperienza – fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata (potendo questa essere disattesa non già quando l’interferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo) o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione” (Cass. n. 14953 del 2000).

15. Si può quindi affermare il seguente principio di diritto:

a) La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

b) Il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

c) L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

d) La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

16. Venendo ora all’esame specifico del primo motivo del presente ricorso va rilevato che con esso la parte ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5), l’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, secondo la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5): in realtà, tuttavia, la parte ricorrente deduce, non un “omesso esame”, bensì un “vizio di motivazione”, per aver il giudice di appello motivato affermando erroneamente che il difetto di inerenza dei costi non sarebbe stato censurato negli avvisi di accertamento.

16.1. Ma quand’anche si volesse ritenere che la censura in questione sia stata enunciata in corretta adesione al modello proposto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5), essa dovrebbe egualmente essere ritenuta inammissibile, perchè non coerente con il principio espresso dall’art. 366 c.p.c..

16.2. Nel caso di specie l’amministrazione ricorrente lamenta che il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso che nell’avviso di accertamento fosse stato dedotto dall’ufficio accertatore l’indeducibilità dei costi per difetto di inerenza, ma non riporta testualmente nel ricorso i “contenuti” dell’atto impositivo che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di giudicare sulla congruità della valutazione del giudice a quo esclusivamente in base al ricorso medesimo.

16.2.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte “nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 cod. proc. civ., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento…

è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento” (Cass. n. 9536 del 2013; v. nello stesso senso Cass. nn. 8312 del 2013; 13007 del 2007;

12786 del 2006; 15867 del 2004).

16.3. In realtà l’unico elemento offerto dal ricorso a sostegno della tesi ivi sostenuta è che Tatto impositivo avrebbe disposto il recupero a tassazione di costi indeducibili “ai sensi dell’art. 109 TUIR”. Ma siffatto riferimento, per la sua genericità e indeterminatezza non ha alcuna utilità al fine di precisare se nell’atto impositivo fosse stato espressamente e specificamente dedotto dall’Ufficio il difetto di inerenza dei costi in questione.

Sicchè il motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile.

16.4. Dalla ritenuta inammissibilità del primo motivo di ricorso alla luce del mancato rispetto del principio enunciato dall’art. 366 c.p.c., discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, con il quale l’amministrazione ricorrente denuncia una violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, per aver il giudice di merito ritenuto novum in appello la contestata inerenza dei costi come ragione dell’affermata indeducibilità.

16.4.1. Invero, il fatto, già rilevato, che nel ricorso non sia stato testualmente riportato il “passo” dell’atto impositivo impugnato che denuncerebbe il difetto di inerenza dei costi recuperati a tassazione, rende conclamata la novità dell’istanza proposta in secondo grado dall’ufficio finanziario, con la conseguente infondatezza della censura. Costantemente questa Corte ha affermato che “nel processo tributario di appello, l’Amministrazione finanziaria non può, mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento” (Cass. n. 25909 del 2008; v. anche nello stesso senso, Cass. n. 10806 del 2012): pertanto, solo la prova dello specifico contenuto dell’atto di accertamento può escludere la “novità” della questione dedotta in appello.

17. Sicchè, conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Il carattere di novità delle questioni affrontate giustifica la compensazione delle spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il primo motivo, rigettato il secondo. Compensa le spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2014


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 09-01-2014) 28-02-2014, n. 4823

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6212-2008 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA APPIA NUOVA 96, presso lo studio GABBANI e dell’avvocato D’AMICO ROBERTO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

CONTRO

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 619/2006 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di LATINA, depositata il 30/01/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/01/2014 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

udito per il controricorrente l’Avvocato GALLUZZO che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 619/39/06, depositata il 30.1.2007, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Latina n. 63/08/2004, dichiarava la legittimità dell’avviso di liquidazione, relativo all’imposta di registro, a seguito della sentenza della commissione tributaria provinciale di Latina 97/08/99, passata in giudicato, ritenendo possibile la rinnovazione, nei termini di decadenza, del precedente atto di liquidazione affetto da vizi (mancanza di sottoscrizione da parte dell’ufficio), ancorché identico nel contenuto recante lo stesso numero di protocollo. Proponeva ricorso per cassazione C.M. deducendo i seguenti motivi:

a)      errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art.43 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 rilevando l’illegittimità del secondo avviso di liquidazione, non giustificato da elementi conosciuti o emersi successivamente, ma emesso solo per correggere a posteriori il vizio formale del difetto di sottoscrizione del precedente avviso di liquidazione;

b)      errata applicazione della L. n. 413 del 1991, art. 53 e 57 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando l’illegittimità dell’avviso di liquidazione riferita a un periodo oggetto di condono ex L. n. 413 del 1991.

L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 9.1.2014, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

In relazione al primo motivo di ricorso va rilevato che l’ufficio ha provveduto a notificare, nel termine triennale, altro avviso di liquidazione completo di sottoscrizione, a rettifica del precedente avviso non sottoscritto.

Non è applicabile alla fattispecie del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3 che disciplina l’accertamento delle imposte sui redditi, trattandosi di imposta di registro.

L’Amministrazione, in mancanza di una norma ostativa, può emanare nei termini di decadenza, nell’esercizio del potere di autotutela, atti sostitutivi di quelli precedenti, ancorché identici nel contenuto e con lo stesso numero di protocollo dell’atto sostituito.

Questa Corte ha già rilevato che è legittimo il comportamento dell’amministrazione finanziaria che annulli un avviso di accertamento, già notificato al contribuente e, nell’esercizio del potere generale di autotutela, diverso dal potere previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3 lo sostituisca con un nuovo avviso (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2531 del 22/02/2002, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19064 del 12/12/2003).

Nè è preclusivo dell’intervento sostitutivo la circostanza che il giudizio sul primo atto fosse ancora pendente.

2.11 secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto censura la sentenza sotto il profilo dell’errata applicazione della L. n. 413 del 991, mentre il vizio avrebbe dovuto essere formulato quale violazione dell’art. 112 c.p.c. non essendosi la CTR pronunciata al riguardo.

Il motivo è comunque infondato in quanto la domanda di condono era inerente all’imposta Invim e non rileva ai fini dell’imposta di registro, solidalmente dovuta da tutti i contraenti.

Va, conseguentemente, rigettato il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000 per compensi professionali, oltre alle spese prenotate a debito.

 Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2014.

 Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2014


Cassazione penale Sez. V, Sent., (ud. 16-10-2013) 21-02-2014, n. 8422

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLDI Paolo – Presidente –

Dott. LAPALORCIA Grazia – rel. Consigliere –

Dott. SABEONE Gerardo – Consigliere –

Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.M. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3553/2009 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 06/07/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/10/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GRAZIA LAPALORCIA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. G. Izzo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. T.M. ricorre avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze in data 6-7-2012, che, confermando quella del Tribunale di Lucca del 2-12-2008, l’ha ritenuta responsabile del reato continuato di cui all’art. 476 c.p., per avere, in qualità di portalettere, contraffatto la firma del destinatario sugli avvisi di ricevimento di sei raccomandate dirette ad uno studio di commercialisti di Lucca.

2. Secondo la prospettazione accusatola condivisa dai giudici di merito anche sulla base di perizia grafologica, l’imputata, dovendo effettuare la consegna delle raccomandate in orario di chiusura dello studio, le aveva lasciate fuori dal portone apponendo essa stessa la firma per ricevimento del destinatario e restituendole al mittente, così evitando di tornare sul luogo per la seconda volta.

3.Tale conclusione, già fondata sul rilievo che le firme del portalettere e quelle del destinatario sugli avvisi di ricevimento apparivano opera della stessa mano, era confermata dall’esito della perizia, secondo la quale le sottoscrizioni apposte nello spazio degli avvisi di ricevimento riservato al destinatario erano riferibili alla T., la quale aveva pure riconosciuto come propria quella che figurava sotto l’indicazione “capo agenzia distributrice” sull’avviso di ricevimento terminante con le cifre …

241, avendo anche ammesso di essere stata lei quel giorno l’incaricata del recapito della posta.

4. Nel corso del giudizio di appello il perito, riconvocato, dichiarava che la parte iniziale della firma riconosciuta dall’imputata, era agevolmente comparabile con le sigle presenti su tutti gli altri avvisi e in particolare su quelli … 242 e … 243.

5. Il ricorso è articolato in tre motivi.

6. Con il primo si deduce omessa notifica del decreto di citazione all’imputata in violazione dell’art. 601 c.p.p., comma 1, e art. 157 c.p.p., comma 8 bis.

7. Con il secondo la ricorrente lamenta violazione di legge (art. 476 c.p., e art. 597 c.p.) e vizio di motivazione per mancato esame della questione sollevata con l’atto di appello relativa alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato: la corte del territorio, nel concludere che la condotta dell’imputata era ascrivibile alla sua scelta di non tornare per la seconda volta nello stesso posto, aveva ritenuto che il dolo fosse in re ipsa senza considerare la possibilità di una semplice leggerezza della T..

8. Il terzo motivo addebita alla sentenza vizio di motivazione in quanto il perito, che nella relazione aveva affermato che le sei sigle apposte nello spazio riservato al destinatario erano opera di una sola mano e precisamente di quella della T. sulla base del raffronto con firme e scritte autografe dell’imputata, sentito a chiarimenti nel giudizio di appello – avendo l’appellante osservato che era mancato il raffronto tra le firme del destinatario, quelle del capo agenzia distributrice e quelle sulla distinta di recapito del portalettere -, aveva confermato che le firme in contestazione erano della T., osservando che quella sull’avviso di ricevimento .. 241, nella zona riservata al capo agenzia distributrice, era stata riconosciuta come propria dall’imputata, trascurando che la paternità di tale firma non era in contestazione.

Allo stesso modo la corte fiorentina aveva motivato la non necessità di una nuova perizia relativamente alle firme del capo agenzia distributrice, che non erano in contestazione. Comunque, sempre secondo la ricorrente, la corte non aveva indicato le ragioni per le quali aveva ritenuto condivisibile la perizia.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e va disatteso.

2. Il dedotto vizio della notifica all’imputata del decreto di citazione per il giudizio di appello, integra una nullità che, ove sussistente (il che sembrerebbe smentito dal fatto che i due difensori di fiducia risultano aver ricevuto una doppia notifica, la seconda delle quali dopo che la T. era risultata irreperibile nel luogo di residenza, quindi, all’evidenza, per la stessa), è a regime intermedio e doveva essere dedotta dinanzi alla corte territoriale, il che non è avvenuto. Tale notifica non può infatti considerarsi inesistente e quindi equiparabile ad una notificazione omessa, dovendo piuttosto reputarsi idonea, in concreto, a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputata in quanto la notificazione presso il difensore, salvo che risultino elementi di fatto contrari, non è inidonea a determinare, in ragione del rapporto fiduciario, la conoscenza effettiva del procedimento da parte dell’imputato, e nella specie il difensore di fiducia, presente all’udienza, non aveva sollevato eccezioni (Cass. Sez. U 119/2004, Cass. 45990/2007, 23658/2008).

3. E’ poi infondato il secondo motivo che investe la sussistenza dell’elemento psicologico del reato. Ad escludere la possibilità di una semplice leggerezza dell’imputata, la corte ha infatti valorizzato l’intento della stessa di non tornare per la seconda volta presso lo studio di commercialisti trovato chiuso al momento della consegna delle raccomandate, idoneo a dimostrare coscienza e volontarietà di falsificare la firma del destinatario, non presente al primo accesso.

4. Del pari infondata la terza doglianza.

5. L’esame della questione dedotta deve muovere dal rilievo che, secondo quanto riconosciuto dalla stessa ricorrente, il perito grafologo aveva concluso nel senso che le sei sigle apposte nello spazio riservato al destinatario erano opera di una sola mano e precisamente, sulla base del raffronto delle prime con firme e scritture autografe dell’imputata, di quella della T.. Ciò è sufficiente a sorreggere l’affermazione di penale responsabilità avendo quest’ultima ammesso di essere stata lei quel giorno l’addetta alla consegna della posta e risultando che le raccomandate non erano state consegnate nello studio del commercialista, ma lasciate fuori dal portone dell’edificio.

6. Il mancato raffronto, lamentato dalla ricorrente che aveva per questo sollecitato l’esame a chiarimenti del perito nel giudizio di appello, tra le firme apparenti del destinatario, quelle del capo agenzia distributrice e quelle sulla distinta di recapito del portalettere, risulta superato dalla conferma da parte del perito stesso, in sede di audizione a chiarimenti, che le firme in contestazione erano della T., accompagnata dal rilievo, evidenziato in sentenza, che quella presente per esteso sull’avviso di ricevimento .. 241, nella zona riservata al capo agenzia distributrice, riconosciuta come propria dall’imputata, era nella sua parte iniziale agevolmente comparabile (o meglio compatibile) con le sigle presenti su tutti gli altri avvisi di ricevimento. Ciò non significa, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, che il perito abbia affermato che la firma riconosciuta fosse tra quelle sospette di falsità, ma vale piuttosto a rimarcare la superfluità del raffronto di cui sopra in quanto tale riconoscimento implica anche la definitiva ammissione della prevenuta di essere stata lei la portalettere incaricata quel giorno della consegna delle raccomandate con falsa firma del destinatario, recapitate tutte nello stesso luogo e nella stessa data lasciandole fuori dal portone, quindi da un’unica persona, da identificare nella T., unica interessata alla falsificazione.

7. Nè è esatto che la corte fiorentina abbia motivato la non necessità di una nuova perizia riferendosi alle firme del capo agenzia distributrice, che non erano in contestazione, avendo piuttosto ritenuto inutile, per le ragioni di cui sopra, il raffronto di esse con quelle del destinatario, attribuite dal perito all’imputata. Così come è infondato l’addebito mosso alla sentenza di mancata indicazione delle ragioni per le quali era stato condiviso l’esito della perizia, addebito non solo generico, ma che non tiene conto delle ulteriori risultanze, sopra evidenziate, che avvalorano le conclusioni del perito.

8. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente alle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2014


Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04-02-2014) 21-02-2014, n. 8650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AGRO’ Antonio – Presidente –

Dott. LANZA Luigi – rel. Consigliere –

Dott. LEO Guglielmo – Consigliere –

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.E., nato il giorno (OMISSIS);

avverso la sentenza 14 giugno 2013 della Corte di appello di Roma.

Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso.

Udita la relazione fatta dal Consigliere Luigi Lanza.

Sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale FRATICELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso, nonché il difensore della parte civile avv. Greco Maurizio dell’Avvocatura di Stato, che ha chiesto l’inammissibilità o il rigetto dell’impugnazione, depositando conclusioni e nota spese, e sentito altresì il difensore del ricorrente avv. Luzi Giancarlo che ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione.

Svolgimento del processo

1. N.E. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 14 giugno 2013 della Corte di appello di Roma che, in parziale riforma della sentenza 20 aprile 2012 del Tribunale di Roma, ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili in favore del Ministero della Finanza.

2. Il Tribunale di Roma: ha condannato N.E. alla pena di anni 3 mesi 3 di reclusione perché responsabile del reato di cui all’art. 314 c.p. in quanto, avendo come impiegato di 5^ livello del Ministero della Finanza la disponibilità di un timbro del Ministero stesso, se ne appropriava, fatto accertato il 8-5-2001; ha condannato altresì l’imputato al risarcimento dei danni nei confronti del Ministero della Finanza costituito parte civile.

2.1. Il giudizio di responsabilità si è fondato sul verbale di sequestro del timbro all’interno dell’abitazione del prevenuto, sulla deposizione dei teste D.V., che in dibattimento riferiva di aver accertato presso il Ministero l’autenticità del timbro stesso, nonché sulla confessione resa dal N..

2.2 In conclusione, per la gravata sentenza, la condotta dell’imputato ha realizzato gli elementi oggettivi e soggettivi del reato di peculato, considerato che: egli era impiegato di 5^ livello, con mansioni di archivista presso la Direzione Generale del Ministero della Finanza (teste T.), per cui rivestiva il ruolo di incaricato di pubblico servizio; aveva l’immediata disponibilità del timbro per lo svolgimento del suo incarico amministrativo (è lui stesso a dichiarare che il timbro era sul suo tavolo di lavoro); si era appropriato dell’oggetto portandolo presso la sua abitazione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è composto di due motivi.

1.1. Con un primo motivo viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge sul punto della mancata audizione del teste di riferimento del consegnatario del timbro, Sig. M., la cui audizione si sarebbe resa necessaria posto che, contrariamente all’assunto della gravata sentenza: a) risulta che il difensore del N. all’udienza del 20 aprile 2012 aveva chiesto l’esame del consegnatario; b) consta altresì che al detto consegnatario era stato esibito non il “timbro” ma la sua “impronta”; c) manca la prova che il “timbro fosse ancora in uso”, tanto non potendosi desumere dall’affermazione dell’imputato che aveva ammesso di averlo sottratto dal suo tavolo.

1.2. Con un secondo motivo si lamenta la ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del peculato, tenuto conto che nella specie trattavasi di timbro: non più in uso (oggetto di “antiquariato dicasteriale”); mai utilizzato dal detentore; di valore economico inconsistente anzi privo di alcun valore, senza concreta possibilità di utilizzo per la sua non attuale validità e che aveva pertanto perso il suo fisiologico vincolo di destinazione a finalità pubbliche.

2. Nessuno dei due motivi, tra loro correlati e da esaminarsi congiuntamente, risulta fondato.

2.1. Quanto alla prima censura, è noto che “prova decisiva”, la cui mancata assunzione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione, è solo quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (cfr. ex plurimis: cass. pen. sezione. 6, u.p. 12 maggio 2011, Cananzi ed altri).

2.2. Inoltre la valutazione di siffatta decisività va compiuta accertando se i fatti, indicati dal ricorrente nella relativa richiesta, siano tali da potere inficiare tutte le argomentazioni poste a fondamento del convincimento del Giudice (cfr. Cass. Sez. 1, 12584/1994 r.v. 200073) e risulta pertanto priva di fondamento la censura che denunzi il rigetto, sul punto, della istanza difensiva, se tale rigetto, come nella specie, risulta sorretto da argomentazioni logiche, idonee a dimostrare che le cosiddette controprove, dedotte dalla parte, non possono modificare il peso delle prove di accusa (cfr. Cass. pen. Sez. 3, 27581/2010 Rv. 248105; sez. 2, 16354/2006, rv.234752).

2.3. Nella vicenda la corte distrettuale – con una argomentazione in questa sede non censurabile per la sua linearità logica – ha sostenuto che non ricorreva la necessità di procedere a tale assunzione testimoniale in quanto l’imputato, innanzi ai P.M., aveva espressamente riconosciuto di aver sottratto il timbro dell’Amministrazione “che stava sul tavolo del suo ufficio”, circostanza questa che consentiva di apprezzare ad un tempo sia l’autenticità dello strumento, che l’attualità del suo utilizzo.

2.4. Quanto poi all’asserzione, contenuta nel gravame, e relativa alla esibizione al consegnatario dell’impronta e non dello strumento “timbro” trattasi di asserzione difensiva, avversata da contraria affermazione della Corte di appello, e non documentata in questa sede nel rispetto del canone dell’autosufficienza del ricorso.

2.5. L’accertamento dell’autenticità dello strumento, e della persistente attualità del suo utilizzo è inutilmente contrastata dal secondo motivo di doglianza, il quale peraltro non tiene conto, nè si misura in modo efficace, con gli assunti dei giudici di merito ai quali intende proporre un’alternativa realtà di un timbro non più in uso, nè mai utilizzato, privo di alcun valore, senza concreta possibilità di utilizzo per la sua non attuale validità e ormai privo del suo fisiologico vincolo di destinazione a finalità pubbliche.

2.6. L’argomentare difensivo in questione non è condivisibile considerato che, quand’anche vi fosse la prova (e ciò non risulta) che il timbro in questione non fosse più in uso (circostanza negata dal mero fatto della sua presenza sul tavolo del funzionario), tale dato temporale non invalida il valore economico-funzionale dello strumento stesso, il quale, per la sua provenienza è finalizzato a dare connotazione genetica ed ufficiale ad atti della P.A., garantendone il momento reale di formazione, soprattutto in caso di successione nel tempo di timbri di diversa configurazione e fattura.

2.7. In conclusione si è quindi ben lontani (vds: cass. pen. sez. 6, 42836/2013) Rv. 256686, Sgroi) da un’ipotesi di assenza di intrinseco rilievo economico dell’oggetto dell’appropriazione, ed anche di mancante reale incidenza di quest’ultima sulla funzionalità dell’ufficio o del servizio, apprezzata, per quest’ultima evenienza, la concreta possibilità di un illecito strumentale utilizzo.

3. Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata, con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali nonché di quelle sostenute dalla parte civile che si liquidano in Euro 1.200, 00 oltre i.v.a. e c.p.a..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè di quelle sostenute dalla parte civile che liquida in Euro 1.200, 00 oltre i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 10-01-2014) 14-02-2014, n. 3552

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. BENINI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9125/2008 proposto da:

CASSA DI RISPARMIO DI FIRENZE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso l’avvocato BOGGIA MASSIMO, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G. (c.f. (OMISSIS)), C.S. (c.f. (OMISSIS)), CO.GI. (c.f.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CATANZARO 9, presso l’avvocato MARONNA MAFALDA, rappresentati e difesi dall’avvocato DI STASIO MASSIMO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso il provvedimento del TRIBUNALE di FIRENZE; in data 10/12/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2014 dal Consigliere Dott. STEFANO BENINI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato BOGGIA MASSIMO che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo e conseguentemente cassazione senza rinvio.

Svolgimento del processo
1. Con l’ordinanza del 15.1.2008, oggetto della presente impugnazione, il Tribunale di Firenze, rilevato che il decreto ingiuntivo n. 4724 del 17.1.2001, emesso a favore della Cassa di Risparmio di Firenze, non era stato notificato alla coobbligata D.D., ha dichiarato l’inefficacia del titolo nei di lei confronti, e per essa, dei suoi eredi C.G., C.S. e Co.Gi., e ha ordinato la cancellazione dell’ipoteca ottenuta in forza del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo sui beni della D., pervenuti in successione ai figli.

2. Contro l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la Cassa di Risparmio di Firenze s.p.a. affidandosi a tre motivi, illustrati da memoria, resistiti da controricorso degli intimati C. G., C.S. e Co.Gi..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, la Cassa di Risparmio di Firenze s.p.a., denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 140 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), censura l’ordinanza impugnata, di cui va ammessa la ricorribilità, per aver ritenuto il mancato perfezionamento della notifica alla D.D., in realtà eseguita presso la residenza anagrafica della destinataria a (OMISSIS), in base all’art. 140 c.p.c.. E’ sufficiente infatti che in caso di momentanea irreperibilità del destinatario in uno dei luoghi indicati dall’art. 139 c.p.c., l’ufficiale giudiziario compia le tre formalità descritte dall’art. 140 c.p.c.: deposito dell’atto nella casa comunale; affissione dell’avviso relativo al deposito, spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento. Pur se dall’avviso di ricevimento risulta che la D. era sconosciuta, dalla certificazione anagrafica emerge che la notifica è stata effettuata nel luogo di residenza.

Con il secondo motivo di ricorso, la Cassa di Risparmio di Firenze s.p.a., denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 110 c.p.c., artt. 459, 752 e 754 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), censura l’ordinanza impugnata, per l’ipotesi in cui la notifica venisse comunque considerata nulla, osservando che tale conclusione non riguarda l’erede C. G., alla quale il decreto era stato tempestivamente notificato quale coobbligata in solido ai sensi dell’art. 143 c.p.c.:

quest’ultima, una volta divenuta erede della D., e quindi tenuta al pagamento dei debiti ereditari, si è trovata ad essere legittimata passiva dell’ingiunzione in una duplice veste.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 644, 650 e 188 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), censura l’ordinanza impugnata, per l’ipotesi in cui sì ritenesse il vizio del procedimento di notificazione, anche nei confronti dell’erede C.G., per aver dichiarato l’inefficacia del decreto, come se la notifica fosse inesistente, rilevandosene al contrario la mera irregolarità, o tutt’al più la nullità, con la conseguenza di una sua sanatoria con la costituzione dell’intimato o comunque con la sua rinnovazione. L’intimato, infatti, avrebbe potuto proporre opposizione tardiva all’ingiunzione, provando di non aver avuto tempestiva conoscenza dell’atto per irregolarità della notifica, essendogli di conseguenza precluso il ricorso per declaratoria dell’inefficacia, possibile solo nel caso di mancanza o giuridica inesistenza della notifica.

2. Preliminarmente, pur se non vi è contestazione, il provvedimento con cui il giudice accoglie l’istanza diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c., è ricorribile per cassazione avendo carattere definitivo, atteso che, viceversa, in caso di rigetto, la parte può sempre chiedere nei modi ordinari la dichiarazione di inefficacia dell’ingiunzione (Cass. 3.4.2013, n. 7976).

3. Il primo motivo del ricorso è infondato.

Qualora un atto giudiziario sia stato notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la notifica si perfeziona nel momento in cui l’atto è stato consegnato all’ufficiale giudiziario, fermo restando che il consolidamento di tale effetto anticipato per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, con l’effettuazione degli adempimenti da tale norma stabiliti: deposito della copia dell’atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi; affissione dell’avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario; notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Tale ultimo adempimento costituisce ulteriore garanzia per il destinatario, onde favorire al massimo l’ingresso dell’atto nella sua sfera di conoscibilità. Ne consegue che l’avviso di ricevimento debba essere allegato all’atto notificato e la sua mancanza provoca la nullità della notificazione (Cass. S.U. 13.1.2005, n. 458). Le incertezza giurisprudenziali in ordine alla necessità o meno di allegare l’avviso di ricevimento sono state superate dalla ora menzionata pronuncia delle Sezioni unite (in prosieguo, conformi: Cass. 6.5.2005, n. 9510; 21.2.2006, n. 3685; 19.5.2009, n. 11583), che hanno colto l’occasione per procedere ad una rivisitazione dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sull’art. 140 c.p.c..

In primo luogo, si è dovuto prendere atto della sentenza della Corte costituzionale in tema di notificazione di atti giudiziari (Corte cost. 23.1.2004, n. 28), che abbandonando l’indirizzo che voleva la notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., perfezionata, dopo il deposito della copia dell’atto e l’affissione dell’avviso relativo al deposito stesso, con la spedizione al destinatario della raccomandata con avviso di ricevimento, ha stabilito che anche per le notificazioni eseguite ai sensi dell’art. 140 c.p.c. (come per le notifiche a mezzo posta, oggetto della sentenza Corte cost.

26.11.2002, n. 477), al fine del rispetto di un termine pendente a carico del notificante è sufficiente che l’atto sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario entro il predetto termine, mentre le formalità previste dal detto art. 140 possono essere eseguite anche in un momento successivo. Il consolidamento di tale effetto – che può definirsi provvisorio o anticipato – a vantaggio del notificante, dipende comunque dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario. Le Sezioni unite, inoltre, hanno superato l’orientamento che, nelle notificazioni ai sensi dell’art. 140 c.p.c., riteneva l’allegazione, all’originale dell’atto, dell’avviso di ricevimento adempimento privo di rilevanza.

Nel procedimento disciplinato da questa norma, la notificazione si compie con la spedizione della raccomandata, che come atto della sequenza del processo perfeziona l’effetto di conoscibilità legale nei confronti del destinatario. Tuttavia, non diversamente da quanto avviene per il perfezionamento della notificazione nei confronti del notificante, anche per il destinatario si tratta di un effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l’allegazione, all’originale dell’atto, dell’avviso di ricevimento, le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata. A quest’ultima soluzione le Sezioni unite pervengono sulla base sia di una interpretazione costituzionalmente orientata che impone l’effettività delle garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario medesimo e della tutela del contraddittorio; sia di una valorizzazione della ratio e del dato testuale dell’art. 140 c.p.c., per cui, se il legislatore avesse considerato l’avviso di ricevimento privo di rilevanza, non avrebbe richiesto che la raccomandata di cui all’art. 140 c.p.c., ne fosse corredata (a differenza di altri casi in cui ha ritenuto sufficiente che la notizia di una avvenuta notificazione fosse data a mezzo di raccomandata semplice). Precisano altresì le Sezioni unite che dall’avviso di ricevimento, e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, può emergere che la raccomandata non è stata consegnata perchè il destinatario risulta trasferito oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni le quali comunque rivelano che l’atto in realtà non è pervenuto nella sfera di conoscibilità dell’interessato e che, dunque, l’effetto legale tipico, a tale evento ancorato, non si è prodotto. In tali ipotesi sembra palese che la notifica debba essere considerata nulla (non inesistente, a meno che l’atto non sia stato indirizzato verso un luogo privo di qualsiasi collegamento con il destinatario) e che, quindi, debba essere rinnovata ai sensi dell’art. 291 c.p.c.. Infatti, le suddette risultanze rendono quanto meno incerto, e possono addirittura escludere, che il luogo in cui l’ufficiale giudiziario ha svolto l’attività prevista dall’art. 140 c.p.c., sia quello di effettiva ed attuale residenza, dimora o domicilio del destinatario, con i conseguenti riflessi sulla validità della notifica effettuata. Si tratta, dunque, di una verifica necessaria, postulata del resto dalla stessa previsione normativa nel momento in cui richiede che la spedizione della raccomandata abbia luogo con avviso di ricevimento, tanto più che con l’ulteriore sentenza 14.1.2010, n. 3, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

Nella specie è accertato che l’avviso è stato restituito al notificante con l’attestazione, da parte dell’ufficiale postale, che il destinatario era sconosciuto. Deve concludersi che il destinatario non ha potuto fruire dell’ulteriore cautela prevista dalla legge a suo favore, ovvero della messa a conoscenza, a mezzo posta, dell’avvenuto deposito dell’atto nella casa comunale. Nè può ritenersi che l’atto sia pervenuto nella sfera di conoscibilità dello stesso per essere risultata aliunde la residenza anagrafica del destinatario a quell’indirizzo: l’attestazione postale doveva quanto meno ingenerare il dubbio dell’effettiva corrispondenza delle risultanze anagrafiche alla realtà, e indurre al rinnovo della notifica, se necessario nelle forme dell’art. 143 c.p.c..

Il che non è avvenuto. La certificazione anagrafica da cui risulta che la D.D., al 17.12.2001 (data della notifica) era residente a (OMISSIS), rivela l’esistenza di un collegamento tra il luogo del tentativo di notifica,, ed il suo destinatario, il che non è privo di rilevanza agli effetti della dichiarazione di inefficacia del decreto, che sarà esaminata con il terzo motivo.

4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

Che uno degli eredi del soggetto cui venne effettuata vana notifica avesse ricevuto la notifica in proprio dello stesso decreto ingiuntivo, in quanto debitore in solido, non comporta una presunzione di conoscenza (che solo il mezzo legale di comunicazione, costituito dalla notifica, può assicurare) dell’atto nei propri confronti, una volta che lo stesso sia divenuto erede del coobbligato.

Ove la notifica di un atto sia mancata, e l’atto sia venuto aliunde a conoscenza del destinatario, difettano gli estremi di certezza circa il modo, la data ed il luogo della consegna proprio in vista dei quali la notifica è prescritta (Cass. 17.9.2004, n. 18730).

La notifica del decreto ingiuntivo è destinata a produrre effetti autonomi nella sfera giuridica di ciascun soggetto che ne sia destinatario, anche se coobbligato in solido, sicchè, se uno di essi sia deceduto senza aver ricevuto la notifica, non può postularsi la trasmissione di quegli effetti all’erede, che per avventura fosse destinatario dello stesso decreto ingiuntivo in quanto coobbligato, e di esso avesse ricevuto regolare notifica.

5. Il terzo motivo è fondato.

Il ricorso per la dichiarazione d’inefficacia del decreto ingiuntivo, previsto dall’art. 188 disp. att. c.p.c., è ammissibile soltanto con riguardo a decreti non notificati o la cui notifica sia giuridicamente inesistente, mentre se il decreto è stato notificato, ancorchè fuori termine, o la notifica sia affetta da nullità, l’unico rimedio esperibile è l’opposizione ai sensi degli artt. 645 e 650 c.p.c., a seconda dei casi. Pertanto, il provvedimento che contenga esclusivamente la statuizione d’inefficacia ai sensi dell’art. 188 c.p.c., è affetto da nullità, in quanto pronunciato in un’ipotesi non prevista dal codice di rito (Cass. 2.4.2010, n. 8126).

La notificazione del decreto ingiuntivo, anche se nulla, è indice della volontà del creditore di avvalersi del decreto e conseguentemente esclude la presunzione di abbandono del titolo che costituisce il fondamento della previsione di inefficacia di cui all’art. 644 c.p.c., applicabile esclusivamente in caso di omissione della notificazione o di notificazione inesistente (31.10.2007, n. 22959).

Ne consegue che tranne i casi in cui un decreto ingiuntivo non è notificato, o la notifica di esso è giuridicamente inesistente, la parte contro la quale è stato emesso non può, decorso il termine stabilito dall’art. 644 c.p.c., chiederne la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c.; se la notifica sia semplicemente nulla, l’inefficacia può essere fatta valere, onde evitare la sanatoria per eventuale acquiescenza, con l’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c., fornendo la prova di non avere avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo per irregolarità della notificazione (Cass. 26.7.2001, n. 10183).

La censura merita accoglimento in quanto nella scarna motivazione dell’ordinanza impugnata il Presidente del Tribunale di Firenze ha rilevato, semplicemente, che “il decreto de quo non è stato notificato al coobbligato D.”: in realtà, nel ricorso per la dichiarazione d’inefficacia del decreto, proposto dagli eredi, attuali controricorrenti, si da atto che “risulta dalla relata di notifica che il plico è tornato indietro perchè sconosciuto all’indirizzo indicato”.

Orbene, poichè nella specie risulta che gli eredi dell’intimata hanno fondato la loro istanza di inefficacia del decreto ingiuntivo sulla asserita nullità della notificazione eseguita al proprio dante causa, deve ritenersi che la dichiarazione di inefficacia del decreto ingiuntivo è stata emessa in assenza dei presupposti richiesti dalla legge, non potendo ritenersi inesistente la notifica effettuata presso la residenza del destinatario.

6. In conclusione il ricorso merita accoglimento e, conseguentemente, il provvedimento impugnato dev’essere cassato senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, ultima parte. Le spese giudiziali seguono la soccombenza, come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo e il secondo, cassa senza rinvio l’ordinanza impugnata, e condanna i controricorrenti al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2014


Corte Suprema di Cassazione. civ. Sez. lavoro, Sentenza, 07-02-2014, n. 2837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24426-2010 proposto da:

D.C. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati QUATTROMINI GIULIANA e QUATTROMINI PAOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNILEVER ITALIA S.R.L. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

UNILEVER ITALIA MANUFACTORING S.R.L., già SAGIT S.R.L., incorporata nella UNILEVER ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TUPINI 133, presso lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GOMEZ D’AYALA GIULIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.C. C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 4667/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/06/2010 r.g.n. 1375/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto di entrambi in subordine alle S.U..

Svolgimento del processo
D.C. ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze della società SAGIT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligato ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda, e a presentarsi al lavoro 15/20 minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso.

Tali operazioni si ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti indossati.

Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze retributive dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per lavoro ordinario.

Costituitosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.l., (già SAGIT s.r.l.) Il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda. Con la sentenza oggi impugnata la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di Euro 4.910,90 oltre accessori.

Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, considerandone il carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva essere ravvisata, sul piano della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle organizzazioni sindacali sul problema del “tempo tuta”, nè da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.

La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto collettivo applicabile.

Rilevato che la pretesa azionata si riferiva al periodo dal 1996 al 2004, ha accolto l’eccezione di parziale prescrizione (quinquennale) sollevata da parte convenuta, tenuto conto della interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in mora ricevuta il 28 maggio 2003. Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata anteriormente (in data 28 giugno 1999) alla Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava inoltrata alla società datrice di lavoro.

Avverso questa sentenza D.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La società Unilever Italia Manufacturing s.r.l. resiste con controricorso e ricorso incidentale con quattro motivi.

Parte ricorrente principale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

1.2 Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. la società Unilever Italia Manufacturing s.r.l., premesso che in data 25 gennaio 2002 le parti avevano sottoscritto in sede sindacale verbale di conciliazione con il quale avevano definito la controversia oggetto del ricorso ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere. Allegato alla memoria ha depositato atto di notifica a controparte, nel domicilio eletto, del verbale di conciliazione sindacale.La richiesta non merita accoglimento. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la cessazione della materia del contendere, quale riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse a proseguire il giudizio, deve essere dichiarata dal giudice allorquando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento – ovvero della sopravvenuta caducazione – della situazione sostanziale oggetto della controversia e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice (v., tra le altre, Cass. 5 dicembre 2005 n. 26351, Cass. n. 22 maggio 2006 n 11931). E’ stato in particolare precisato che la cessazione della materia del contendere presuppone che: a) sopravvengano, nel corso del giudizio, eventi di natura fattuale o atti volontari delle parti idonei a determinare la totale eliminazione di ogni posizione di contrasto; b) vi sia accordo tra le parti sulla portata delle vicende sopraggiunte e sull’essere venuto meno ogni residuo motivo di contrasto; c) vi sia la dichiarazione di non voler proseguire la causa proveniente dalla parte personalmente ovvero dal suo difensore munito di procura ad hoc. (Cass. 8 novembre 2003 n. 16785).

Nel caso di specie tali presupposti non si sono verificati in quanto il verbale di conciliazione in sede sindacale risulta redatto in epoca molto risalente – 28 marzo 2001 – ed è quindi anteriore al deposito del ricorso per cassazione – il 27 ottobre 2010; difettano inoltre dichiarazioni successive delle parti di rinunciare al giudizio in corso.

2.1. Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza della prescrizione, censurata perchè non considera valido atto interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro.

Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943 cod. civ. e art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 c.p.p., comma 2 alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.

2.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la denuncia di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., si lamenta che la sentenza impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere una prova presuntiva dell’inoltro della comunicazione della suddetta richiesta al datore di lavoro dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente inoltrate dalla D.P.L.; e ciò anche perchè neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver ricevuto la comunicazione.

2.3. La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata.

2.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.p., comma 2 e art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la circostanza, sicchè sarebbe stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421 cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte della società.

In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost. nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L. dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione anzichè alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.

3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e art. 36 Cost., nonchè delle regole di cui all’art. 1362 ss. cod. civ., e difetto di motivazione.

La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa effettiva.

La società, premesso che la determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al godimento di riposi individuali) nonchè dalla clausola del CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa.

3.2. Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione in ordine all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a pause fisiologiche, mentre l’accordo sindacale prevedeva per la fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente tra “l’avviamento e messa a regime della linea produttiva” (corrispondente all’inizio del turno) e la “predisposizione turno seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al personale un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto dal paradigma legale.

3.3. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione degli artt. 414 e 432 cod. proc. civ. e artt. 1226 e 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si censura la determinazione, ai fini dell’accoglimento della domanda, della durata delle operazioni di vestizione e svestizione. Tale statuizione, ad avviso della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione delle allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi dimostrazione della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto di lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed altre vicende sospensive della prestazione.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia di violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.L.G.S. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione.

Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perchè il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei dipendenti.

I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.

4.1. Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo le censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo, secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame); v. anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215. E’ stato anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.L.G.S. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testè riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com.

eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).

Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010) consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.

4.3. La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’ orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva richiamata, nella quale non si rinviene alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla ricorrente incidentale, e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in ordine alle modalità della stessa prestazione.

5. Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perchè la determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale dell’art. 432 cod. proc. civ., con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato. Appare del resto del tutto infondato il rilievo in ordine alla mancata valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo assolutamente generico) posto che il parametro di misura del compenso è riferito ad un periodo complessivo di diverse annualità.

6.1. Il ricorso principale non merita accoglimento. Con il primo motivo il ricorrente invoca inutilmente a sostegno della propria tesi (secondo cui l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.p., comma 2 dovrebbe essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro) la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del licenziamento.

Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche nella formulazione L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione.

Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno 2006 n. 13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con riferimento ai termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).

Invece, solo con la comunicazione al creditore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione si verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto permanente fino al termine di venti giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre 2008 n. 27882, 16 marzo 2009 n. 6336).

Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di diritto – che va qui riaffermato – escludendo l’interruzione della prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla società datrice di lavoro.

6.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere disattesi perchè la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).

6.3. Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato, essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.

Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost. in relazione alla prova dell’atto interruttivo della prescrizione.

7. Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti, hi considerazione della reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 29-10-2013) 04-02-2014, n. 2455

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21491/2010 proposto da:

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato VINCENTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGADDINO ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), A.G. C.F. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati RASPANTI RITA, ROSSI ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

A.G. C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A., F.V. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

A.G. c.f. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA GROSSI GONDI FELICE 62, presso lo studio dell’avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASQUALE TOCCO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega nel ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 999/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 14/09/2009 R.G.N. 1498/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato ACCURSIO GALLO; udito l’Avvocato VINCENTI MARCO;

udito l’Avvocato ROSSI ANDREA (INAIL);

udito l’Avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, rigetto dell’incidentale A., accoglimento ricorso incidentale INAIL.

Svolgimento del processo
1- La sentenza attualmente impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trapani n. 511/06 del 25 maggio 2006: 1) afferma che, dalla dinamica dell’infortunio sul lavoro occorso a A.G. il (OMISSIS), si può ravvisare un concorso di colpa del lavoratore nella misura del 30%; 2) riduce, pertanto, della suddetta misura percentuale le somme dovute dal datore di lavoro F.V. rispettivamente all’ A. e all’INAIL; 3) conferma, per il resto, la sentenza appellata.

La Corte d’appello di Palermo, per quel che qui interessa, precisa che:

a) A.G., mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale, precipitò da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

b) nell’occasione egli si trovava in compagnia di due colleghi di lavoro, che non hanno saputo riferire nulla sulla dinamica dell’infortunio, perchè in quel momento erano intenti ad eseguire altri lavori;

c) lo stesso infortunato ha fornito, al riguardo, versioni contrastanti, prima dichiarando di essere scivolato e poi, dinanzi a questa Corte, affermando di essere precipitato a causa della rottura della tavola sulla quale si trovava;

d) è rimasto accertato – come risulta anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna – che: 1) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; 2) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; 3) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; 4) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto;

e) ne consegue che è indubbia la responsabilità del datore di lavoro – qualunque sia la dinamica dell’infortunio – e a tale conclusione porta anche la circostanza che il F. il giorno successivo all’incidente abbia disposto lo smontaggio del ponteggio, in quanto è chiaro che tale condotta fu posta in essere per impedire agli organi preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni;

f) tuttavia, alla determinazione dell’evento ha contribuito anche l’ A., che, essendo il lavoratore più esperto “con mansioni di coordinatore degli altri operai”, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro;

3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri;

g) per quanto si è detto il concorso di colpa del lavoratore va determinato nella misura del 30%, pertanto la maggior somma richiesta in appello dall’INAIL a fronte di ulteriori prestazioni erogate all’infortunato – la cui domanda è ammissibile, potendo l’Istituto precisare, anche in appello, l’originario petitum – deve essere ridotta nella stessa misura suindicata;

h) sui criteri adottati dal Tribunale per la liquidazione dei danni in favore dell’Ama e sulle singole voci di danno liquidate (danno biologico ed estetico, danno morale e danno derivante dalla capacità lavorativa specifica) non è stata mossa dal F. alcuna censura, sicchè sul punto si è formato il giudicato interno;

i) deve essere confermata la sentenza di primo grado nella parte relativa al rigetto della domanda con la quale il F. ha chiesto di essere garantito dalla Generali Assicurazioni Danni s.p.a., essendo indubbio che il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto, previa realizzazione di un ponteggio, rientri tra i lavori “inerenti a viadotti” che il contratto di assicurazione, con una clausola di chiara formulazione, escludeva dalla copertura assicurativa.

2.- Il ricorso di F.V. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi.

Resistono, con controricorso: 1) A.G., che propone, a sua volta, ricorso incidentale, per due motivi, cui replica il F. con controricorso; 2) l’INAIL, che ugualmente, propone, a sua volta, ricorso incidentale per un motivo; 3) le Assicurazioni generali s.p.a..

F.V. e l’INAIL depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente tutti i ricorsi devono essere riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza.

1 – Profili preliminari.

1.- Deve essere, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale dell’Ama proposta dal ricorrente principale – nel proprio controricorso di replica – sul duplice rilievo: a) della mancanza, nella copia notificata, delle pagine finali dell’atto (da pagina 38 in poi); b) dell’assenza degli elementi che consentano di individuare l’origine e l’oggetto della controversia, lo svolgimento del processo e le posizioni assunte dalle parti, nonchè della esposizione sommaria dei fatti richiesta, a pena di decadenza, dal combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 3, e art. 371 c.p.c..

1.1.- Con riguardo al primo profilo, va osservato che per costante e condiviso orientamento di questa Corte, ai fini del riscontro degli atti processuali deve aversi riguardo agli originali e non alle copie, per cui l’eventuale mancanza di una o più pagine (nella specie, tre) nella copia del ricorso per cassazione notificata può assumere rilievo soltanto se lesiva del diritto di difesa. Ciò, peraltro, va escluso quando le pagine omesse risultino irrilevanti al fine di comprendere il tenore della difesa avversaria e quando l’atto di costituzione della parte contenga una puntuale replica alle deduzioni contenute nell’atto notificato, comprese quelle contenute nella parte mancante (Cass. SU 22 febbraio 2007, n. 4112, indirizzo consolidato, vedi, fra le tante: Cass. 22 gennaio 2010, n. 1213).

Nel presente caso l’originale del controricorso con ricorso incidentale è completo e le pagine asseritamente mancanti sono, per quanto riguarda le argomentazioni delle censure, soltanto due e, come risulta dalle argomentazioni del controricorso di replica, la suindicata incompletezza non ha minimamente leso il diritto di difesa del F..

1.2.- Quanto al secondo profilo, si ricorda che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso (e del ricorso incidentale, nel caso in cui questo risulti proposto) è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, e dell’art. 366 c.p.c., comma 1, anche quando il controricorso, come nella specie, non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso, e ciò anche se il richiamo sia soltanto implicito (Cass. 2 febbraio 2006, n. 2262; Cass. 28 maggio 2010, n. 13140);

b) comunque, anche a volere ritenere che laddove il controricorso racchiuda anche un ricorso incidentale debba contenere, in ragione della propria autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 c.p.c., comma 3, e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, – diversamente dal semplice controricorso, che. avendo la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, non necessita dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, potendo richiamarsi a quanto già esposto nel ricorso principale (Cass. 11 gennaio 2006, n. 241) – in ogni caso, sotto il suddetto profilo, il ricorso incidentale è da considerare inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, mentre il requisito imposto dal citato art. 366 c.p.c., può reputarsi sussistente quando, nel contesto dell’atto di impugnazione, si rinvengano gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. 8 gennaio 2010, n. 76; Cass. 27 luglio 2005, n. 15672; Cass. 29 luglio 2004, n. 14474).

Ne consegue che, nella specie, è da escludere l’inammissibilità del controricorso del lavoratore contenente il ricorso incidentale perchè, diversamente da quanto sostiene il F., dalla lettura dell’atto risulta che il ricorrente incidentale ha rappresentato i fatti, sostanziali e processuali in modo adeguato a far intendere immediatamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo.

2 – Sintesi dei motivi del ricorso principale.

2.- Il ricorso principale è articolato in quattro motivi.

2.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in riferimento alla dinamica del sinistro.

Si sostiene che la Corte palermitana sarebbe giunta all’erronea conclusione di addossare al lavoratore solo il 30% della responsabilità del sinistro – anzichè la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità – perché dopo avere, contraddittoriamente, assunto come “pacifiche” alcune circostanze del fatto che (invece, non sono state provate), poi, in modo ulteriormente contraddittorio, ha affermato la corresponsabilità dell’ A. per non aver proceduto, prima di salire sul ponteggio, al corretto ancoraggio delle tavole della struttura, servendosi della scala fornita dal datore di lavoro e facendosi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori che stava svolgendo.

Ad avviso del F., le suddette circostanze del fatto, a suo dire, sfornite di prova sarebbero: a) la dipendenza del mancato uso delle cinture di sicurezza, da parte dell’ A., dalla loro inidoneità all’uso, perché essendo dotate di una catena lunga soli cm. 60 non consentivano al lavoratore di effettuare gli spostamenti necessari per eseguire il lavoro di montaggio del ponteggio, cui era intento al momento dell’infortunio; b) il fatto che le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme in modo tale da evitare che cadessero; c) il fatto che le tavole stesse non erano in perfetto stato di conservazione; d) il fatto che i lavori di montaggio del ponteggio erano eseguiti dal solo A. senza la collaborazione degli altri operai, nonostante la precarietà della strutture che venivano man mano montate.

Ne consegue che dalla lettura dei due brani della motivazione della sentenza impugnata nei quali vengono, rispettivamente, esaminate le responsabilità del F. e quelle dell’ A. nella causazione del sinistro si desumerebbe – data la loro contraddittorietà – che la Corte territoriale ha omesso di individuare l’esatta dinamica dell’infortunio.

Infatti, la Corte non ha appurato se la caduta dell’ A. sia stata dovuta ad un accidentale scivolata del piede sulla tavola ovvero alla rottura della tavola stessa, elemento che era fondamentale chiarire.

2.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c..

Si ribadiscono, da altra angolazione, le censure già esposte nel precedente motivo, ponendo l’accento sul fatto che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, il datore di lavoro, rispettando l’art. 2087 c.c., aveva fornito ai propri dipendenti tutti i presidi di sicurezza necessari per il tipo di lavorazione in oggetto.

D’altra parte, la Corte palermitana non poteva fondare il proprio convincimento su alcune circostanze contestate al F. nel procedimento penale a suo carico, definito con decreto penale di condanna del Tribunale di Enna, visto che tale atto non può fare stato nel processo civile ex art. 460 c.p.p., e neppure in tale processo hanno efficacia probatoria diretta gli atti raccolti nel suddetto procedimento penale, non conclusosi con una sentenza dibattimentale.

Neanche la Corte territoriale avrebbe potuto ritenere che il F. il giorno successivo all’incidente avesse disposto che il ponteggio dal quale è caduto l’ A. venisse smontato al fine di impedire agli organi all’uopo preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni alla normativa antinfortunistica.

Infatti, a prescindere dal valore giuridico nullo da attribuire alla suddetta “presunzione di colpevolezza”, comunque è emerso in modo inequivocabile, nella fase istruttoria del giudizio di primo grado, che il ponteggio è stato smontato non per ordine datoriale, bensì per applicazione della prassi abituale secondo cui tutti i venerdì i ponteggi venivano smontati, per timore di furti.

Nè possono esservi dubbi sul fatto che l’ A. fungesse da caposquadra e avesse maggiore esperienza di tutti gli altri lavoratori del cantiere, avendo nella sostanza la direzione esecutiva del cantiere e degli altri operai.

Infine, secondo il F., non essendovi alcuna responsabilità del datore di lavoro, avrebbe dovuto essere rigettata anche la domanda di rivalsa dell’INAIL. 2.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1370 c.c., con riferimento al contenuto del contratto di assicurazione, stipulato dal F. con le Assicurazioni generali s.p.a..

Si contesta la decisione della Corte palermitana di rigetto della censura del F. con la quale si impugnava la decisione di primo grado ove ha respinto la domanda di garanzia proposta dal datore di lavoro nei confronti di Assicurazioni generali s.p.a..

Si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado e dalla Corte d’appello, la clausola del contratto di assicurazione di esclusione della copertura per i lavori inerenti ponti, viadotti e gallerie non avrebbe dovuto considerarsi applicabile nella specie, in quanto la lavorazione cui era intento l’ A. al momento del sinistro consisteva nella realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante un viadotto autostradale.

Il fatto che l’allestimento del ponteggio avvenisse sotto un viadotto per eseguire futuri lavori di manutenzione dovrebbe portare ad escludere che si trattasse di lavorazione “inerente” al viadotto, perché essa non si svolgeva “sopra” al viadotto – con i conseguenti pericoli – ma al di sotto dello stesso, come attività a sè stante.

2.4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, erronea e/o omessa decisione su un punto fondamentale della controversia, relativamente alla liquidazione del danno e alle sue componenti.

Si censura la decisione della Corte palermitana di avere ritenuto passata in giudicato la parte della sentenza di primo grado relativa ai criteri ivi adottati per la liquidazione dei danni e alle voci liquidate.

Si sostiene che il F. nell’atto di appello aveva contestato la disposta liquidazione del danno biologico posta a carico del datore di lavoro, già compresa nella copertura assicurativa dell’INAIL ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000.

Si sostiene che il F. poteva essere condannato al risarcimento del solo danno morale, essendo intervenuto il decreto penale di condanna a suo carico.

3 – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale di A.G..

3.- Il suddetto ricorso incidentale è articolato in due motivi.

3.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti, in riferimento alla dinamica del sinistro.

In modo speculare rispetto al F., l’ A. sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato ad attribuire il 30% della responsabilità dell’accaduto al lavoratore e che la motivazione della sentenza impugnata adottata sul punto sarebbe viziata, nei suddetti sensi.

Infatti – a parte la dichiarazione resa in ospedale nell’immediatezza del fatto alla Questura di Enna, nella quale il lavoratore ha riferito di essere scivolato dalla tavola sulla quale si trovava – in realtà, dall’istruttoria svolta è emerso con chiarezza che la tavola di appoggio si è spezzata sotto il peso dell’Ama, il quale non indossava la cintura fornitagli perchè era munita di una catena troppo corta (circa cm. 60) per potere svolgere il lavoro di costruzione del ponteggio cui era intento al momento dell’incidente e per tale motivo è precipitato nel vuoto da un’altezza di circa sei metri, subendo le gravi lesioni accertate dalla CTU medica.

Il lavoratore stesso, sentito dalla Corte d’appello, ha rettificato l’originaria versione dei fatti, spiegando di averla fornita quando era gravato da intensissimi dolori al braccio lesionato.

Dalla stessa istruttoria è emerso che l’ A. aveva inutilmente chiesto al datore di lavoro di fornire agli operai cinture di sicurezza dotate di catene più lunghe di quelle utilizzate e di sostituire i tavoloni di legno (che erano usurati) con pedane di metallo.

In questa situazione la motivazione posta a base del rilevato concorso di colpa del lavoratore sarebbe del tutto contraddittoria, in quanto la Corte, dopo avere individuato una serie di mancanze del datore di lavoro da sole idonee a determinare il verificarsi dell’evento – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – perviene a configurare il concorso di colpa dell’ A. facendo riferimento a tre ulteriori elementi inidonei al suddetto fine.

La Corte, infatti, sottolinea che, essendo l’ A., il lavoratore più esperto, con mansioni di coordinatore degli altri operai, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro; 3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri.

Tuttavia la stessa Corte, con riguardo alle tre suddette circostanze, non considera che: 1) l’ancoraggio delle tavole non avrebbe impedito che la tavola sulla quale si trovava il lavoratore si spezzasse, tanto più che sembra che la tavola spezzata fosse ben posizionata, ancorchè non agganciata, non essendo previsti sistemi di aggancio delle tavole con elementi di ferro del ponteggio; 2) l’eventuale utilizzazione della scala in dotazione – peraltro, di altezza insufficiente a raggiungere i sei metri – non avrebbe potuto influire sul verificarsi dell’evento, perchè il lavoratore è caduto quando ormai si trovava sul piano di lavoro e non nell’atto di salire per raggiungerlo; 3) l’organizzazione del lavoro era determinata dal F. e non era nella disponibilità di un dipendente distrarre altri colleghi dalle mansioni loro assegnate per altre operazioni, comunque un maggiore peso sul tavolone sul quale si trovava l’ A. (dovuto alla ipotetica presenza di colleghi) avrebbe facilitato e non certo impedito la rottura del tavolone stesso.

Ad avviso dell’Ama, la motivazione della sentenza impugnata non è solo contraddittoria e illogica, per quanto si è detto, ma è anche insufficiente, visto che la Corte palermitana non ha spiegato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che i suddetti tre elementi avrebbero potuto impedire il sinistro o influire sulle sue conseguenze, sì da giustificare il concorso di colpa del lavoratore.

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione delle seguenti disposizioni: art. 2087 c.c.; D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4;

D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, artt. 10, 16, 17, 23, 38 e ss.; artt. 2049 e 2050 c.c.; D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3, 4, 21, 22, 35, 36, 37, 40 e ss..

Si sostiene che la Corte palermitana abbia deciso questioni di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza offrire elementi validi per giustificare il proprio dissenso.

In particolare, si fa riferimento all’attribuzione all’ A. di un ruolo e di una funzione diverse da quelle sue proprie di semplice muratore.

Si rileva che dalla circostanza che il F. quando era assente dava le direttive all’ A., come dipendente più anziano, non si poteva desumere che questi fosse responsabile della sicurezza.

Si sottolinea, altresì, che la Corte d’appello non ha attribuito il dovuto rilievo al fatto che il datore di lavoro non aveva predisposto alcuna vigilanza per l’esecuzione dei lavori e l’uso delle cinture di sicurezza, nè aveva fatto frequentare ai dipendenti dei corsi di formazione sui rischi del lavoro e neppure aveva previsto dei piani di sicurezza adeguati.

Del resto, i ponteggi sono per loro natura strutture pericolose e come tali avrebbero dovuto essere trattati, invece nella specie non è stata adottata alcuna misura volta a garantire i lavoratori dal rischio di cadute, nella fase di montaggio delle impalcature.

L’ A. aveva fatto precise richieste al riguardo,che però non sono state prese in considerazione dal F..

Comunque, è da escludere che la condotta del lavoratore, anche se imprudente, possa configurare un’ipotesi di “rischio elettivo” e quindi è da escludere che possa configurarsi un concorso di colpa del lavoratore stesso, anche se esperto, in conformità con la consolidata giurisprudenza di legittimità.

4 – Sintesi del motivo del ricorso incidentale dell’INAIL. 4.- Con il motivo del ricorso incidentale l’Istituto denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11.

Si contesta il punto della sentenza impugnata in cui la Corte palermitana, dopo aver accertato il concorso di colpa della vittima dell’infortunio sul lavoro determinandolo nella misura del 30%, ha, per questo solo fatto, ridotto, in pari misura, l’ammontare delle somme richieste dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del datore di lavoro dell’infortunato.

Si sottolinea che, nel corso del giudizio, non vi era stata alcuna contestazione sugli importi richiesti dall’Istituto, né era stato allegato o provato che si trattava di somme di importo superiore al danno conseguibile dal lavoratore infortunato.

Peraltro, il capo della sentenza di primo grado relativo alla determinazione di tali somme non era stato impugnato, sicché almeno la somma capitale non avrebbe potuto essere ridotta, pur in presenza del concorso di colpa del lavoratore.

5 – Esame dei primi due motivi del ricorso principale e dei ricorsi incidentali di A.G. e dell’INAIL. 5.- Per le ragioni di seguito esposte, il ricorso principale è da respingere, mentre sono da accogliere i due ricorsi incidentali.

Inoltre, per chiarezza espositiva, appare opportuno esaminare per primi i primi due motivi del ricorso principale e, a seguire, il ricorso incidentale dell’Ama e quello dell’INAIL e, infine, gli ultimi due motivi del ricorso principale.

6.- Sia i primi due motivi del ricorso principale sia i due motivi del ricorso incidentale dell’Ama contestano – da opposte prospettive – la sentenza impugnata nella parte relativa alla ricostruzione dell’infortunio e in particolare alla valutazione del comportamento del lavoratore, che ha portato la Corte palermitana ad affermare che la condotta colposa dell’ A. avrebbe concorso nella misura del 30% al verificarsi del sinistro.

In estrema sintesi:

1) il ricorrente principale sostiene che la Corte palermitana, in applicazione dell’art. 2087 c.c., avrebbe dovuto attribuire al lavoratore la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità della causazione del sinistro e che, comunque, la motivazione sul punto sarebbe contraddittoria o carente in quanto la Corte territoriale ha omesso di appurare se la caduta del lavoratore è stata determinata da una accidentale scivolata del piede sulla tavola dove lavorava ovvero dalla rottura della tavola stessa;

2) il ricorrente incidentale A., specularmente, afferma che, in applicazione del medesimo art. 2087 c.c., e delle altre norme antinfortunistiche richiamate la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare le accertate mancanze del datore di lavoro – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – idonee da sole a determinare il verificarsi dell’evento, mentre è pervenuta, con motivazione contraddittoria e carente, a configurare il concorso di colpa dell’Ama facendo riferimento a tre ulteriori elementi – mancata effettuazione del corretto ancoraggio delle tavole al ponteggio prima di salirvi, non utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, mancata richiesta di collaborazione agli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri – del tutto inadeguati al suddetto fine.

7.- In linea generale, deve essere ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

7.1.- Nella specie il Giudice di appello – sulla base della valutazione del materiale probatorio – ha accertato che: 1) l’ A., al momento del sinistro era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale; 2) è precipitato da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

3) nonostante la non coincidenza delle versioni sulla dinamica del sinistro fornite dall’interessato (rispettivamente alla Questura di Enna durante il ricovero ospedaliero successivo al sinistro e poi in sede giudiziaria), ciò che conta è che è comunque rimasto acclarato – anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna, dai cui atti si possono attingere elementi di giudizio, in base all’orientamento costante di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. 26 novembre 2013, n. 26401) – che: a) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto.

Sulla base di tali elementi la Corte palermitana, con congrua motivazione, ha affermato la responsabilità del F., così facendo corretta applicazione dell’art. 2087 c.c., e della normativa antinfortunistica antecedente il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, da applicare nella specie.

In base a tale normativa, infatti, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature trovano applicazione sia la norma generale del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, – che, in riferimento a qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall’alto, impone l’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti – sia l’art. 2087 c.c. – che impone l’adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l’impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – sia, infine, il citato D.P.R. n. 164 del 1956, art. 17, che impone all’imprenditore o alla persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino prima che siano stati predisposti adeguati sistemi per garantire la loro sicurezza (vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 2002, n. 6769; Cass. 25 agosto 1995, n. 9000).

8.- Ne consegue che il F. non può certamente dolersi della pretesa illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla affermazione della Corte palermitana della sussistenza della responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate dal lavoratore nè, tanto meno, della violazione dell’art. 2087 c.c., sul punto.

Questo comporta il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale.

9.- I suddetti vizi sono, invece, riscontrabili con riguardo alla parte della motivazione nella quale è stato affermato il concorso di colpa del lavoratore, nella misura del 30%.

Per costante orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:

a) le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656);

b) in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, con indicazioni che hanno trovato conferma nel sistema delineato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, prevede una distribuzione di responsabilità ripartita in via gerarchica tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, figura, quest’ultima, che ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e che presuppone uno specifico addestramento a tale scopo, nonchè il riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati (Cass. 15 dicembre 2008, n. 29323);

c) peraltro, l’attribuzione a un soggetto della qualità di “preposto” ai fini del suo assoggettamento agli obblighi previsti dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, va fatta, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa e non in base alla formale qualificazione giuridica attribuita (Cass. 16 febbraio 2012, n. 2251; Cass. 6 novembre 2000, n. 1444).

9.1.- Ne deriva che, essendo, pacificamente, da escludere che, nella specie, ricorra l’ipotesi del c.d. rischio elettivo (idoneo ad interrompere il nesso causale, ma ravvisabile solo quando l’attività posta in essere dal prestatore non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso), gli elementi accertati dalla Corte palermitana in ordine alle mancanze ascrivibili al F. avrebbero dovuto considerarsi da soli sufficiente ad affermarne la esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro, in base alla citata normativa, a partire dall’art. 2087 c.c..

Per completezza, va precisato che laddove la Corte d’appello ha affermato la sussistenza di un concorso di colpa del lavoratore – oltretutto determinandone la misura nel 30%, senza alcuna giustificazione – non solo si è discostata dall’anzidetta normativa, ma lo ha fatto con motivazione carente e illogica perché basata sul richiamo ad elementi in parte del tutto irrilevanti (come la mancata utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, visto che l’ A. già era giunto sul posto di lavoro al momento del sinistro) e in parte non ascrivibili all’ A., che essendo privo della qualità di “preposto” e della connessa direzione esecutiva dei lavoratori, non poteva sostituirsi al F. nel dare disposizioni in merito all’ancoraggio delle tavole alla struttura ovvero allo svolgimento delle mansioni impartitegli con la collaborazione degli altri operai (data l’altezza di sei metri da terra).

Di qui l’accoglimento del ricorso incidentale dell’ A..

10.- I vizi rilevati in merito all’affermazione del concorso di colpa dell’Ama nella determinazione del sinistro – pari al 30% – si riflettono anche nella parte della motivazione nella quale la Corte palermitana ha ridotto nella medesima percentuale l’ammontare delle maggiori somme richieste dall’INAIL al F., in via di rivalsa, oltretutto senza previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l’ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura dell’accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiale, come stabilito dalla costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis:

Cass. 2 febbraio 2010, n. 2350; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15633;

Cass. 16 giugno 2000, n. 8196; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13121; Cass. 20 agosto 1996, n. 7669).

Ne consegue l’accoglimento del ricorso incidentale dell’INAIL. 6 – Esame del terzo e del quarto motivo del ricorso principale.

11.- Per quel che riguarda il terzo motivo del ricorso principale, va ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) l’interpretazione della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale – che, comporta indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione – può essere censurata per erroneità nel ricorso per cassazione, ma il ricorrente, in applicazione del principio di specificità dei motivi di ricorso, ha l’onere di trascrivere integralmente le clausole contestate in quanto al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura e deve, inoltre, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (vedi, tra le tante: Cass. 18 novembre 2005, n. 24461; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2560; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2128);

b) in tema di interpretazione del contratto – che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione – ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (vedi, tra le altre: Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 23 aprile 2010, n. 9786; Cass. 29 settembre 2005, n. 19140).

11.1.- Nella specie, la pur parziale trascrizione delle clausole la cui interpretazione è contestata dal F. consente di respingere il motivo in quanto dalle relative argomentazioni si desume ictu oculi che, con esse, più che denunciarsi la mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, si contrappone l’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata, oltretutto con argomentazioni in parte erronee e in parte palesemente illogiche nelle quali si sostiene che:

a) la intenzione dei contraenti non dovrebbe desumersi dal “mero senso letterale delle parole”, mentre come si è detto, in base all’art. 1362 cod. civ., come interpretato da questa Corte, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, se di significato inequivoco;

b) la ragione della concordata esclusione della garanzia assicurativa per “i lavori inerenti a ponti, viadotti e gallerie” è stata quella del maggior grado di pericolosità di tali lavori “a causa dell’altezza” nella quale vengono svolti, senza considerare tale elemento caratterizza la presente fattispecie, nella quale il lavoratore si è infortunato cadendo da una altezza da circa sei metri.

Se a tutto ciò si aggiunge che il concetto stesso di “inerenza” non può far sorgere alcun dubbio sull’esattezza dell’interpretazione dei Giudici del merito in ordine alla clausola di cui si tratta, se ne desume il rigetto del motivo de quo.

12.- Il quarto motivo del ricorso principale è inammissibile.

12.1.- A prescindere dal fatto che il tipo di vizio denunciato è configurabile più che come vizio di motivazione, come error in procedendo – prospettabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, e che consente a questa Corte l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito a differenza della censura di vizio di motivazione – va comunque precisato che il suddetto esame presuppone l’ammissibilità del motivo di censura, essendo, quindi, circoscritto al passaggio dello sviluppo processuale in cui il vizio denunciato si colloca onde la Corte possa verificare la fondatezza del motivo di ricorso.

Peraltro la suddetta ammissibilità postula, tra l’altro, il rispetto del principio della specificità della deduzione della censura.

Tale principio – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito, sicchè ove il ricorrente contesti l’interpretazioni che di tali motivi ha dato la Corte d’appello deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi come formulati (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; Cass. 21 maggio 2004, n. 4734).

12.2.- Nella specie, il F. non riproduce nel presente ricorso le parti dell’atto di appello nella quali sarebbe contenuta la propria contestazione della liquidazione del danno biologico in favore dell’Ama, che smentirebbe l’affermazione della Corte palermitana secondo cui si è formato il giudicato interno sul punto.

Ciò impedisce a questo Giudice di legittimità di verificare la fondatezza delle censure formulate al riguardo e determina l’inammissibilità del quarto motivo del ricorso principale.

7 – Conclusioni.

13. In sintesi, il ricorso principale deve essere respinto e i due ricorsi incidentali vanno accolti, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

1) “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature e di lavorazioni che espongano i lavoratori a rischi di caduta dall’alto – cui si collegano sia l’obbligo per il dipendente dell’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti, sia l’obbligo per l’imprenditore o la persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino senza adeguati sistemi volti a garantire la loro sicurezza – il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, se non viene specificamente dimostrato che ricorrono tutti gli elementi propri dell’ipotesi del c.d. rischio elettivo. Ne consegue che è da ascrivere all’esclusiva responsabilità del datore di lavoro l’infortunio occorso ad un lavoratore precipitato al suolo mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio all’altezza di circa sei metri da terra ove – pur in mancanza di una precisa ricostruzione della dinamica del fatto in tutti i suoi particolari – sia stato accertato, anche attingendo elementi di giudizio dall’esame degli atti anche dal procedimento penale a carico del datore di lavoro definito con decreto penale di condanna, che: a) il lavoratore non aveva fatto uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, erano munite di una catena troppo corta per l’esecuzione del lavoro di montaggio del ponteggio; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio (ove operava il lavoratore) non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore stesso; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal lavoratore infortunatosi da solo, nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto”;

2) “in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, ai fini della ripartizione di responsabilità stabilita, in via gerarchica, tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, la figura del preposto ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e presuppone uno specifico addestramento a tale scopo oltre al riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati. Ne consegue che non può essere considerato “preposto”, ai suddetti fini, l’operaio più anziano di una squadra, pur dotato di maggiore esperienza rispetto agli altri, ma privo di uno specifico addestramento al ruolo di capo squadra nonché dei poteri di direzione esecutiva dei lavori della squadra stessa”.

P.Q.M.
La Corte riunisce tutti i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, accoglie gli incidentali. Cassa la sentenza impugnata, in relazione ai ricorsi accolti, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., (ud. 05-11-2013) 30-01-2014, n. 2035

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10187/2012 proposto da:

S.V. (OMISSIS) in qualità di Curatore del fallimento n. 1105/2010 in capo alla società PROFILSERRE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato DE FELICE SERGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCIO ANTONIO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 866/2011 del TRIBUNALE di LOCRI del 13.3.2012, depositato il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Antonio Ricci che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Curatela del Fallimento PROFILSERRE s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi avverso il decreto emesso nella causa N. 866/2011 e depositato il 20.03.2012 con cui il Tribunale di Locri ha accolto l’opposizione allo stato passivo del fallimento della società Profilserre a r.l. proposta da Equitalia ETR s.p.a..

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con i tre motivi di ricorso il fallimento ricorrente contesta, sotto diversi profili,il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’opposizione per tardività. Deduce che l’atto oggetto di opposizione relativo alla comunicazione di deposito dello stato passivo del fallimento era stato comunicato L. Fall., ex art. 97, dal cancelliere tramite un servizio di posta privata ad Equitalia in data 20.6.11, come risulta dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22.7.11.

Sostiene in particolare il ricorrente che doveva ritenersi che la comunicazione effettuata tramite un servizio di posta privata fosse del tutto legittima e conseguentemente la data di notifica doveva ritenersi essere quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto da Equitalia.

A sostegno della propria tesi deduce che,la comunicazione ai sensi della L. Fall., art. 97, può essere data a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ovvero tramite telefax o posta elettronica quando il creditore abbia indicato tale modalità di comunicazione e, che il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal decreto legislativo n. 58 del 2011 con entrata in vigore dal 30.4.11, prevede che sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio postale universale, e, cioè,alla Poste italiane, i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni,che riguarda le notifiche da parte dell’Ufficiale giudiziario che si avvale del servizio postale, ma non anche quelle effettuate direttamente dal cancelliere a mezzo posta per cui questi poteva avvalersi anche dei servizi di posta privati.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente appaiono infondati.

Invero, nel caso di specie non rileva la questione se il cancelliere possa avvalersi di un servizio di posta privata o meno.

Quello che qui rileva è accertare se, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.

Tale ipotesi è da escludere.

Va a tale proposito rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di contenzioso tributario, (ma il principio riveste una portata generale applicabile anche al caso di specie) che nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario.

(Cass. 17723/06 ù Cass. 13812/07).

Non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le notifiche effettuate da un servizio di posta privato. Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualità di pubblici ufficiali onde gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni.

A tale proposito è già stato chiarito da questa Corte che, in tema di tempestività del ricorso per cassazione, il termine di cui all’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dalla notifica della sentenza impugnata, la quale, nell’ipotesi in cui la notifica abbia avuto luogo a mezzo del servizio postale, va desunta, in mancanza di altri elementi, dalla busta di spedizione, ove sul retro sia stata apposta la data di arrivo presso il destinatario, non potendo essere ricavata dal timbro apposto sul plico da parte dello stesso destinatario, pur recante il numero cronologico e la data, trattandosi di atti di organizzazione interna e nonostante la natura eventualmente pubblica del predetto soggetto (nel caso di specie trattavasi dell’Agenzia delle Entrate) (Cass. 25753/07).

Ciò sta a significare che l’attestazione fidefacente dell’ufficiale postale non è surrogabile da alcun altro tipo di atto neppure nel caso in cui lo stesso sia stato compiuto al momento della ricezione da un ente pubblico.

Ciò porta a maggior ragione ad escludere che possa essere idonea ai fini in esame l’attestazione di un semplice privato. Deve conclusivamente affermarsi che,non essendovi prova circa l’effettiva data di consegna della comunicazione di cancelleria relativa al deposito dello stato passivo del fallimento della Profilserre srl, l’opposizione avverso il detto atto deve ritenersi tempestiva.

Il ricorso va in conclusione respinto. Nulla per le spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 26-11-2013) 27-01-2014, n. 1516

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sez. –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sez. –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14801/2013 proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la PROCURA GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR 12;

– ricorrente –

contro

P.M., D.C.A., G.P., R. F., D.M.D., D.A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato DE SANTIS FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avvocato BERTI ARNOALDI VELI GIULIANO, per procure speciali, in atti;

– resistenti –

avverso la sentenza n. 57/2013 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 23/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito l’Avvocato Giuliano BERTI ARNOALDI VELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale, Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- Con sentenza n. 57/2013, pronunciata in data 8 marzo 2013 e depositata il 23 aprile successivo, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha assolto, per essere rimasto escluso l’addebito, i dottori G.P., D.C. A., D.M.D., P.M., R.F., D.A. e A.R. dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e comma 2, lett. a) e g).

Ai predetti magistrati era stato addebitato di avere, nelle svolgimento delle loro funzioni di consiglieri relatori in cause civili pendenti innanzi alla Corte d’appello di Bologna, dilazionato la decisione di numerose cause mediante rinvii a distanza anche di 4/7 anni, benchè sarebbe stata possibile la definizione in termini più brevi in relazione ai carichi di lavoro, all’adeguatezza dei mezzi disponibili ed alla materia delle controversie, com’era dimostrato dal fatto che altri magistrati avevano invece rinviato oltre cento cause (per anno) negli anni immediatamente successivi al 2010.

L’azione disciplinare era stata promossa su iniziativa della Procura generale della Corte di cassazione con nota del 5.1.2011, a seguito di notizia circostanziata dei fatti acquisita in data 11.8.2010.

2.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il Procuratore generale della Corte di cassazione sulla base di un unico motivo.

Il ricorso non concerne la posizione del Dott. A..

I sei magistrati nei confronti dei quali il ricorso è rivolto hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1-. La Sezione disciplinare ha preliminarmente rilevato:

a) che non aveva trovato conferma la premessa in fatto dell’incolpazione, costituita da una rilevante diversità di comportamento fra giudici della stessa sezione;

b) che, nonostante la riformulazione dell’incolpazione (a seguito della declaratoria di nullità del procedimento, con ordinanza della Sezione disciplinare dell’11.6.2012, “per genericità ed indeterminatezza a dell’accusa”) non era stato indicato “in base a quali criteri si fosse stabilito in cento unità il numero delle decisioni ragionevolmente programmabili per ciascun anno, senza alcun riferimento alla natura ed alla complessità dei casi”;

c) che non era stato neppure dedotto che il metodo di lavoro contestato agli incolpati avesse comportato una diminuzione del numero delle definizioni ed un conseguente allungamento della durata dei processi.

Ha dunque concluso che “la fissazione da parte di un singolo giudice o, come nel caso di specie, del collegio di un’agenda del processo che non si limiti alla fissazione cronologica dei processi da decidere sulla base dell’ordine di iscrizione a ruolo ma la scaglioni sulla base delle caratteristiche dei processi pendenti sul ruolo, della loro difficoltà, dell’urgenza legata ad alcune vicende specifiche o alle caratteristiche del procedimento non costituisce una violazione disciplinare se la dilazione non appaia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro ed alla difficoltà dei processi”.

2.- Il Procuratore generale – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 2, comma 1, lettera g), nonchè carenza o contraddittorietà della motivazione – in buona sostanza censura la sentenza per non aver considerato che rinvii (ex art. 352 c.p.c.) di quattro, cinque, sei o sette anni per la decisione di numerosissime cause apparivano del tutto ingiustificabili in relazione al non elevatissimo numero di quelle fissate per la precisazione delle conclusioni negli anni precedenti.

2.1.- Ebbene, per quanto in ricorso correttamente si sostenga che per la configurabilità dell’illecito di cui alle citate disposizioni (la seconda delle quali concerne “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”) non rilevi la produttività del magistrato incolpato in relazione a quella di altri magistrati, sta il fatto che il problema che è stato posto alla Sezione disciplinare non era oggettivamente suscettibile di essere risolto indipendentemente dalla considerazione degli elementi di fatto considerati insussistenti o, addirittura, non dedotti.

Problema che, in definitiva, consiste nello stabilire fino a che punto è consentita una dilazione della decisione al fine di rendere possibile che cause oggettivamente più urgenti o più rilevanti di altre siano decise in tempi più brevi. E’, infatti, del tutto ovvio che se ogni giudice fissasse per la decisione (recte, per la precisazione delle conclusioni ex art. 352 c.p.c.) un numero di cause pari al limite delle sentenze che può redigere in un anno, non avrebbe poi spazio per poter fissare a breve le cause che presentassero connotati di urgenza. Benché vada detto che meriterebbe censura qualsiasi atteggiamento volto ad aumentare il da farsi in un più lontano futuro al precipuo scopo di alleggerire l’impegno più vicino nel tempo, come tale più probabilmente destinato ad essere adempiuto dalla stessa persona fisica del magistrato che il rinvio dispone.

La Sezione disciplinare ha ritenuto che, in relazione ai fatti emersi, non vi fossero elementi per dire violato il dovere di laboriosità o per affermare che fosse dovuto a negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 81, 82 e 115 disp. att. c.p.c.. E lo ha fatto con motivazione congrua in relazione all’incolpazione, così come formulata.

3.- Il ricorso è respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, aggiunto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2014


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 26-09-2013) 03-12-2013, n. 27057

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17376/2011 proposto da:

COMUNE DI REVERE C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio dell’avvocato ANDREONI AMOS, rappresentato e difeso dall’avvocato MAGALINI GIANFRANCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO PAGANI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 266/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 02/07/2010 r.g.n. 530/09;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato ANDREONI AMOS per delega verbale MAGALINI GIANFRANCO;

udito l’Avvocato PAGANI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

G.P., premesso di essere stato assunto il 1.10.1991 alle dipendenze del Comune di Revere con contratto a tempo indeterminato come responsabile dell’Ufficio Tecnico e di essere stato licenziato, con lettera del 28.10.2005, per assenza ingiustificata dall’8.8.05, adiva il Tribunale di Mantova contestando la legittimità formale e sostanziale del recesso in quanto egli si trovava legittimamente in ferie.

Si costituiva in giudizio il Comune di Revere, che contestava quanto dedotto, difendendo la regolarità formale e sostanziale del licenziamento e negando di dovere alcunché come differenze retributive.

Il primo giudice, sentito il superiore gerarchico del G., che riconosceva come propria la firma apposta alla domanda di ferie, accoglieva parzialmente le domande, ritenendo illegittimo il licenziamento in quanto l’assenza era giustificata dalla concessione delle ferie, e condannando il Comune alla reintegrazione e al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, detratto l’aliunde perceptum, oltre alla corresponsione di una parte degli incentivi richiesti.

Appellava il Comune lamentando l’erroneità della sentenza che non aveva tenuto conto del fatto che il licenziamento era seguito a due ordini di riprendere servizio, a cui il dipendente non aveva adempiuto; poiché egli era tenuto, da una precisa norma del contratto collettivo, ad essere reperibile, il fatto che non vi avesse provveduto rendeva automaticamente conosciute tutte le comunicazioni inviategli al domicilio inizialmente dichiarato, benché non ritirate. Il datore di lavoro, infatti, manteneva sempre il potere di revocare le ferie già concesse e il non aver adempiuto all’obbligo di presentarsi al lavoro rendeva illegittima la condotta contestata.

Si costituiva il G. resistendo al gravame e proponendo appello incidentale circa il mancato riconoscimento di taluni compensi aggiuntivi richiesti.

Quanto all’appello principale evidenziava che, essendo l’assenza legittima, il dipendente non aveva nessun obbligo di reperibilità durante le ferie.

Con sentenza depositata il 2 luglio 2010, la Corte d’appello di Brescia respingeva entrambi i gravami.

Per la cassazione propone ricorso il Comune di Revere, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste il G. con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1335 c.c., e artt. 45 e 23 del c.c.n.l. 6 luglio 1995 per il personale dipendente dalle amministrazioni del Comparto Regioni – Autonomie locali, così come sostituito dall’art. 24 del c.c.n.l. 22.1.04. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Lamenta che il giudice di appello negò erroneamente che le comunicazioni (di richiamo in servizio) inviate al dipendente presso il suo domicilio fossero irrilevanti essendo questi in ferie. Ciò in base al principio di cui all’art. 1335 c.c., nonchè al principio secondo cui, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 3 del 2010, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., la notificazione effettuata ai sensi di tale disposizione si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione (Cass. n. 4748/11).

Evidenzia che l’art. 23 del c.c.n.l. di comparto prevedeva tra i doveri del dipendente quello di “comunicare all’Amministrazione la propria residenza e, ove non coincidente, la dimora temporanea nonché ogni successivo mutamento delle stesse”.

Ne conseguiva che il dipendente in ferie fosse tenuto a comunicare la sua dimora temporanea ed i successivi eventuali mutamenti.

Il motivo è infondato. La norma contrattuale invocata tutela il diritto del datore di lavoro di conoscere il luogo ove inviare comunicazioni al dipendente nel corso del rapporto di lavoro e non già, stante la natura costituzionalmente tutelata del bene, ivi comprese le connesse esigenze di privacy, durante il legittimo godimento delle ferie (che il lavoratore è libero, salvo diverse pattuizioni, di godere secondo le modalità e nelle località che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche), risolvendosi l’opposta interpretazione in una compressione del diritto alle ferie, costringendo il lavoratore in viaggio non solo a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e tempi dei suoi spostamenti, ma anche ad una inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti.

2. Con il secondo motivo il Comune denuncia la violazione dell’art. 2109 c.c., e dell’art. 18 del c.c.n.l. 6.7.95, così come confermato dall’art. 45 del c.c.n.l. 22.1.04.

Lamenta che in ogni caso la Corte di merito avrebbe dovuto riconoscere che il datore aveva il diritto di richiamare dalle ferie il dipendente con ordine per quest’ultimo vincolante, permanendo, anche durante il godimento delle ferie, il potere del datore di lavoro di modificare il periodo feriale anche a seguito di una riconsiderazione delle esigenze aziendali, come del resto previsto dal citato art. 18 del c.c.n.l. che prevede la possibilità per il datore di lavoro di interrompere o sospendere il periodo feriale già in godimento.

3. Con il terzo motivo il Comune lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, e dell’art. 25 del c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni – Autonomie locali del 6.7.95 e 22.1.04. Lamenta che dal combinato disposto delle norme invocate doveva evincersi la legittimità del licenziamento per l’assenza ingiustificata, quale che fosse la causa dell’assenza, evidenziando che il Comune aveva inviato al domicilio del G. (in ferie) l’invito a riprendere il servizio.

4. I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati. In realtà l’invocato art. 18 stabilisce, per quanto qui interessa, che “Le ferie sono un diritto irrinunciabile, non sono monetizzabili, salvo quanto previsto nel comma 16 (attinente l’impossibilità di fruirne). Esse sono fruite nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le oggettive esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente” (comma 9); ancora che “Compatibilmente con le oggettive esigenze del servizio, il dipendente può frazionare le ferie in più periodi. La fruizione delle ferie dovrà avvenire nel rispetto dei turni di ferie prestabiliti, assicurando comunque al dipendente che ne abbia fatto richiesta il godimento di almeno 2 settimane continuative di ferie nel periodo 1 giugno – 30 settembre” (comma 10); ancora che “Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie, nonché all’indennità di missione per la durata del medesimo viaggio; il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non goduto” (comma 11); ancora che “In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell’anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell’anno successivo” (comma 12);

quindi che “Le ferie sono sospese da malattie adeguatamente e debitamente documentate che si siano protratte per più di 3 giorni o abbiano dato luogo a ricovero ospedaliero. L’amministrazione deve essere stata posta in grado di accertarle con tempestiva informazione” (comma 14).

Come risulta evidente non vi è, nell’invocato art. 18, alcuna norma che preveda un potere totalmente discrezionale del datore di lavoro di interrompere o sospendere il periodo feriale già in godimento, risultando allo scopo insufficiente il generico inciso di cui al comma 11 “Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio”, che nulla dice circa le modalità con cui l’interruzione o la sospensione possa essere adottata e debba essere comunicata. Deve anzi evidenziarsi che questa Corte, pur avendo affermato il diritto del datore di lavoro di modificare il periodo feriale in base soltanto a una riconsiderazione delle esigenze aziendali, ha al contempo ritenuto che le modifiche debbano essere comunicate al lavoratore con congruo preavviso (Cass. n. 1557/00). Ciò presuppone all’evidenza una comunicazione tempestiva ed efficace, idonea cioè ad essere conosciuta dal lavoratore prima dell’inizio del godimento delle ferie, tenendo conto che il lavoratore non è tenuto, salvo patti contrari, ad essere reperibile durante il godimento delle ferie (e salvo il diverso caso di comunicata malattia insorta nel periodo feriale, al fine di sospenderne il decorso e consentire al datore di lavoro i controlli sanitari, Cass. n. 12406/99).

Il lavoratore è infatti libero di scegliere le modalità (e località) di godimento delle ferie che ritenga più utili (salva la diversa questione dell’obbligo di preservare la sua idoneità fisica, Cass. sez. un. n. 1892/82), mentre la reperibilità del lavoratore può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio ma non già del lavoratore in ferie, salvo specifiche difformi pattuizioni individuali o collettive.

Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 26 settembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-09-2013) 29-10-2013, n. 24341

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31344-2007 proposto da:

L.A., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato DETTORI MASALA ANGELA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MINA ANDREA, giusta delega in atti e da ultimo presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA “SPEDALI CIVILI” DI BRESCIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV N.99, presso lo studio dell’avvocato FERZI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHIELLO ANGELO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 400/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 18/12/2006 R.G.N. 510/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/09/2013 dal Consigliere Dott. GIULIO FERNANDES;

è comparso l’Avvocato MANCA BITTI DANIELE per delega Andrea Mina;

udito l’Avvocato FERZI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L.A. – dipendente dell’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili ” di Brescia – dopo un periodo di malattia rassegnava le dimissioni, giusta lettera del 31.1.2002 e con decorrenza 4.2.2002, revocandole il successivo 21 febbraio ed offrendo, da tale data, le proprie prestazioni lavorative. L’Azienda, il 28.2.2002, comunicava l’accettazione delle dimissioni respingendo la richiesta di ripresa del lavoro. Il L., sull’assunto che la materia fosse ancora regolata dal disposto del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 124 – secondo cui le dimissioni del pubblico dipendente devono essere accettate per essere operative – conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia l’Azienda Ospedaliera chiedendo accertamento dell’illegittimità del provvedimento del 28.2.2002 e la reintegra nel posto di lavoro, con ogni consequenziale statuizione di ordine giuridico ed economico.

L’adito giudice rigettava la domanda, decisione questa confermata dalla Corte territoriale con sentenza del 18 dicembre 2006.

Ad avviso della Corte l’eccezione di violazione del principio della domanda e di ultrapetizione da parte del primo giudice, contenuta nel primo motivo di appello, era infondata. Nel merito, rilevava che il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 non era applicabile in quanto l’art. 37, lett. b) del CCNL di comparto 1994 -1997 aveva nuovamente regolamentato l’istituto delle dimissioni che erano, ormai, un atto unilaterale e non necessitavano di essere accettate per produrre l’effetto risolutivo del rapporto.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il L. affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso la Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia.

Motivi della decisione
Preliminarmente, va rilevata la irritualità della costituzione del nuovo difensore del ricorrente – avv. Daniele Manca Bitti – in sostituzione dell’avv. Giovanna Dettori Masala, deceduta, già costituita unitamente all’avv. Andrea Mina. Ed infatti la procura all’avv. Manca Bitti, autenticata da quest’ultimo ed apposta a margine della comparsa di costituzione del nuovo difensore, è nulla (applicandosi la disciplina anteriore alla entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, lett. a) essendo il presente processo iniziato prima del 4.7.2009) perchè apposta su un atto diverso da quelli indicati dall’art. 83 c.p.c., comma 3 (Cass. 9 ottobre 1997, n. 9799; Cass. sez. un., 5 luglio 2004 n. 12265; con riferimento al caso in cui debba sostituirsi il difensore nominato con il ricorso, deceduto nelle more del giudizio, o tale nuovo difensore – come nella specie – si affianchi al precedente cfr. Cass n. 18528 del 20/08/2009).

Ciò detto, passando al primo motivo di ricorso, si rileva che viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 416 e 420 c.p.c. e art. 2697 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di appello rilevato d’ufficio la questione relativa alla vigenza dell’art. 124 cit. a seguito della adozione del contratto collettivo, laddove la convenuta Azienda nulla aveva eccepito al riguardo. In altri termini, diversamente da quanto affermato nella impugnata sentenza, l’eccezione relativa ad una eventuale abrogazione del citato art. 124 da parte del CCNL non era questione di mero diritto e, pertanto, doveva essere allegata dall’Amministrazione resistente in sede di costituzione.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 37 del 1957, art. 124 e D.Lgs n. 165 del 2001, art. 69 nonché vizio di motivazione, per aver ritenuto possibile che una norma della contrattazione collettiva potesse abrogare il disposto di una fonte primaria quale era l’art. 124 citato.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 78, 124 e 127 in quanto la Corte di appello aveva affermato che l’ingiustificata assenza dal lavoro del L. – sul quale, secondo il regime delineato dalla norma di cui veniva chiesta l’applicazione, incombeva l’obbligo di proseguire la prestazione fino alla comunicazione dell’accettazione delle sue dimissioni – sarebbe stata già di per sè causa di risoluzione del rapporto per assenza ingiustificata.

Ed infatti, tale principio non era corretto in quanto il D.P.R. n. 3 del 1957 riconduceva la cessazione del rapporto di pubblico impiego, oltre al caso di dimissioni accettate, alle sole ipotesi di decadenza o di destituzione che presuppongono un provvedimento – nel caso in esame mai adottato – in tal senso.

Con il quarto motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 420 c.p.c. nonché vizio di motivazione per non aver il giudice del merito motivato la mancata ammissione delle prove orali articolate (interrogatorio formale e prova per testi) sulle circostanze di cui ai capi di prova intese a ricostruire l’intera vicenda.

Il primo motivo è infondato.

Vale ricordare che, per costante orientamento di questa Corte, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato fissato dall’art. 112 c.p.c. – che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del “petitum”, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda, mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. n. 23079 del 16/11/2005; Cass. n. 19475 del 06/10/2005; Cass. n. 11455 del 19/06/2004).

Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con l’altro “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo, pertanto, sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. n. 10009 del 24/06/2003).

Orbene, nel caso in esame, correttamente la Corte di appello ha considerato che il primo giudice non avesse violato il principio della domanda in quanto la questione relativa alla vigenza del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 era a fondamento della domanda proposta e si imponeva a seguito della intervenuta privatizzazione del pubblico impiego e della entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 69, a prescindere dalla allegazione o meno da parte dell’Azienda del CCNL di comparto visto che i contratti collettivi nazionali relativi al pubblico impiego possono essere conosciuti direttamente dal giudice essendone prevista la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (sul punto vedi, tra le altre, Cass. n. 17095 del 21.7.2010, in motivazione, e Cass. S.u. 4 novembre 2009, n. 23329).

In altri termini, il Tribunale, nel ricercare la norma applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio, non era certo vincolato alla posizione assunta dalle parti in merito alla vigenza o meno dell’art. 124 cit.. Infondato è anche il secondo motivo.

La tesi del ricorrente non tiene conto della riforma del pubblico impiego portata a compimento con il D.Lgs. n. 165 del 2001 che ha determinato una delegificazione del rapporto di lavoro pubblico con la sostituzione delle norme pubblicistiche con quelle previste dalla contrattazione collettiva, ragion per cui l’art. 124 cit., in virtù delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 (in particolare, art. 2, comma 2 e art. 69, comma 1), è divenuto inapplicabile a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994 -1997 – come già evidenziato nella impugnata sentenza – ed ha cessato di produrre effetti dal momento della sottoscrizione del CCNL del quadriennio 1998-2001.

Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso.

L’assunto del ricorrente è, infatti, in contrasto con quanto costantemente affermato da questa Corte secondo cui, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, essendo il c.d.

rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicchè non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (Cass. n. 5413 del 05/03/2013; Cass. n. 9575 del 29/04/2011; Cass. n. 57 del 07/01/2009; Cass n. 20787 del 04/10/2007).

Infine, anche il quarto motivo è infondato in quanto correttamente il giudice del merito ha ritenuto di non ammettere i mezzi istruttori articolati dal ricorrente stante la loro irrilevanza ai fini del decidere.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 3.000,00 per compensi ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 11-07-2013) 15-10-2013, n. 23365

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21386/2011 proposto da:

AS.TEC. S.R.L. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo STUDIO LEGALE ROMAGNOLI, rappresentata e difesa dall’avvocato GAROFALO SILVIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI 48, presso lo studio dell’avvocato SAMMARCO PIEREMILIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BONITO FRANCESCO PAOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2307/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/04/2011 R.G.N. 6743/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale del lavoro di Avellino M.G. esponeva di aver lavorato alle dipendenze della AS.Tec s.r.l. quale operaio comune e di aver ricevuto in data 1.9.2006 una contestazione disciplinare cui era seguito il 15.9.20076 il licenziamento. Veniva al lavoratore contestato di avere esercitato attività lavorativa in Trani ove si trovava in malattia. Deduceva il M., invece, di essersi reso utile occasionalmente con un proprio congiunto, titolare di una agenzia immobiliare in (OMISSIS), solo per non rimanere inattivo svolgendo attività del tutto saltuaria e compatibile con la malattia sofferta e quindi senza pregiudicare in alcun modo il recupero delle normali attività lavorative. Chiedeva quindi dichiararsi l’illegittimità del recesso con condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.

Si costituiva in giudizio parte convenuta che contestava la fondatezza del ricorso e ribadiva la legittimità del recesso. Con sentenza del 26.1.2010 il Tribunale di Avellino dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare ed ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro con condanna al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. La Corte di appello di Napoli con sentenza 24.3.2011 rigettava l’appello dell’AS. Tee s.r.l.. La Corte territoriale rilevava che effettivamente, come già ritenuto dal Giudice di prime cure, la contestazione fosse generica in quanto non offriva elementi precisi circa i fatti contestati e posti a base del licenziamento, non essendo stato specificato il numero di volte in cui l’appellato era stato visto lavorare in (OMISSIS) e la presunta attività computa. Dalla contestazione quindi non emergevano, non essendo indicate le mansioni ed i periodi in cui tali mansioni sarebbero state espletate, le possibili conseguenze pregiudizievoli sul processo di guarigione.

Anche dal rapporto investigativo di una società privata, prodotto tardivamente, emergevano attività le più varie e poco impegnative e comunque compatibili con la patologia sofferta dall’appellato così come certificata. L’investigazione comunque era durata talmente poco da non poter provare alcuna attività lavorativa così come genericamente contestata. Posto che era emerso che l’appellato era andato nell’Agenzia di Trani solo tre giorni svolgendo prestazioni varie e non per tutto il tempo dell’apertura si doveva concludere nel senso che la condotta addebitata era caratterizzata da occasionalità e sporadicità sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e si doveva escludere che fosse stata espletata una attività qualificabile come di tipo “lavorativo”. Inoltre alla luce di tali risultanze istruttorie doveva ritenersi che i canoni di correttezza e buona fede non fossero stati violati in quanto lo stato di malattia era indubitabile e le marginali attività espletate in (OMISSIS) non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un’ incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la AS TEC s.r.l.

con tre motivi; resiste l’intimato con controricorso che ha depositato anche memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c.; la violazione ed errata interpretazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e del CCNL e l’omessa e comunque errata ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. La contestazione mossa al M. era chiara e specifica; erano stati individuati tutti gli elementi per consentire al lavoratore di difendersi e per valutare la gravità dell’accaduto.

Il motivo appare infondato in quanto effettivamente la lettera di contestazione riportata a pag. 6 della sentenza impugnata appare assolutamente generica perchè non individua nè i giorni nè l’attività in concreto svolta presso l’Agenzia Immobiliare Il Monastero e quindi non offre gli elementi di ordine qualitativo e quantitativo per consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente ad al Giudice per valutare la gravità dei fatti addebitati, considerato anche che la detta contestazione fa anche riferimento ad un atteggiamento non coerente con lo stato di malattia, il che non emerge idoneamente in base ad una contestazione che non offre alcun riferimento al tipo di mansioni pretesamente svolte dall’”incolpato”.

La motivazione pertanto appare congrua e logicamente coerente ed individua lacune effettivamente sussistenti nella contestazione, in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7. Il richiamato CCNL non è stato prodotto, nè è stato indicato l’incarto processuale ove eventualmente lo stesso sia disponibile in versione integrale.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2110 e 2119 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio avendo la Corte ritenuto lo stato fisico del lavoratore compatibile con attività lavorative.

La malattia sofferta dall’intimato “epatopatia cronica evolutiva” comportava uno stato di prostrazione fisico e psichico, come ritenuto dai medici curanti, incompatibile con l’attività di collaborazione con l’Agenzia immobiliare sita in (OMISSIS).

Il secondo motivo appare infondato in quanto la Corte di appello ha già mostrato con riferimento agli accertamenti tardivamente prodotti dalla società di una Agenzia investigativa privata che era emersa solo un’attività sporadica ed occasionale e non durante l’intero orario di apertura dell’Agenzia da parte dell’intimato, non assimilabile ad una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico che, anzi, non solo- stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa- era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una più pronta guarigione. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e strettamente ancorata alle risultanze probatorie, mentre le censure in realtà sono di merito ed appaiono dirette ad una “rivalutazione del fatto”, inammissibile in questa sede. La Corte territoriale ha, quindi, esaurientemente motivato in ordine alla mancanza di un pericolo che l’attività contestata, così come emersa in base alle prove, potesse pregiudicare o rallentare il processo di guarigione.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 e degli artt. 1223, 1227 e 2727 c.c., art. 2729 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 342, 414, 416, 163, 164, 167, e 359 c.p.c. I Giudici di merito avrebbe dovuto sottrarre all’entità del risarcimento l’aliunde perceptum. La società aveva dato prova che il M. possedeva quote societarie dell’Agenzia “Il Monastero” e certamente aveva proseguito nell’attività di collaborazione svolta pendente lo stato di malattia.

Il motivo va dichiarato inammissibile in quanto non ricostruisce, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, come la questione dell’aliunde perceptum sia stata posta nelle precedenti fasi del giudizio ed in particolare se sia stata oggetto di uno specifico motivo di appello (la sentenza di appello non fa alcun cenno a tale doglianza). In ogni caso il motivo appare inammissibile per genericità in quanto non offre alcun elemento concreto in ordine al preteso aliunde perceptum: anche se l’intimato avesse avuto delle quote (ma sul punto non vi è stata alcuna produzione in merito alla detta allegazione, unitamente al ricorso in cassazione) nell’Agenzia già ricordata, questo certamente non prova che vi avesse poi svolto attività lavorativa retribuita. Nella seconda parte del motivo si reiterano, in modo assolutamente generico, censure già esposte con i precedenti motivi.

Conclusivamente si deve rigettare il ricorso. Le spese di lite- liquidate come al dispositivo della sentenza- seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore di controparte delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano Euro 50,00 per spese, nonchè in Euro 3.000,00 per compensi oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2013


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 10-04-2013) 08-10-2013, n. 22883

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FELICETTI Francesco – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15325/2007 proposto da:

T.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, FORO TRAIANO 1-A, presso lo studio dell’avvocato SCHETTINI DARIO OVIDIO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

V.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso lo studio dell’avvocato CAMPAGNOLA ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato INTORRE SALVATORE per proc. spec. del 6/6/2008 rep. n. 736;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1902/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito l’Avvocato Schettini Dario Ovidio difensore della ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Campagnola Antonio e Intorre Salvatore difensore della controricorrente che hanno chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione ritualmente notificato V.F. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma T.E., chiedendone la condanna alla eliminazione delle opere abusivamente realizzate.

2. – Il Tribunale adito dichiarò cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di demolizione del locale cassoni, condannando la convenuta alla demolizione della ringhiera-parapetto realizzata nel lastrico di sua proprietà e alla rimozione dei radiatori per lo scambio termico situati in aggetto sulla proprietà V..

Avverso tale sentenza propose appello la T..

3. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 26 aprile 2006, rigettò il gravame. Dichiarata la inammissibilità della produzione della documentazione, effettuata dalla T. solo in grado di appello, la Corte respinse la eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, rilevando che esso era stato notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti di legge erano stati effettuati, mentre nessuna rilevanza assumevano le circostanze dedotte dall’appellante con riguardo all’abbandono della corrispondenza diretta alla T. sui gradini antistanti il portone di ingresso della sua abitazione, priva di servizio di portierato e di buche per le lettere, ed al conseguente smarrimento dell’atto.

Sul secondo motivo di gravame, attinente alla mancata ammissione del giuramento decisorio deferito alla V., osservò la Corte che si trattava nella specie di giuramento de scientia, inammissibile in quanto la relativa formula era redatta in modo che la giurante dovesse rispondere sulla verità di fatti a lei non riferibili in quanto non propri della sua attività, e non sulla conoscenza che di tali fatti ella avesse.

Circa il terzo motivo di appello, con il quale si contestava la valutazione del Tribunale sulle risultanze processuali che avevano determinato la condanna della T., rilevò il giudice di secondo grado che la illegittimità del manufatto era stata ritenuta accertata in quanto la preesistente cabina idrica era stata sostituita con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi, circostanze, codeste, confermate nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo. Le testimonianze raccolte avevano poi escluso la esistenza di una ringhiera anteriore a quella realizzata dall’appellante, ed avevano indicato in modo univoco che la realizzazione degli altri manufatti era avvenuta ad opera della T..

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre la T. sulla base di sette motivi. Resiste con controricorso la V..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c.. Si contesta, in particolare, la sentenza della Corte d’appello di Roma nella parte in cui essa ha rigettato l’eccezione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, sollevata per non essere mai stata perfezionata la notifica all’attuale ricorrente, avuto riguardo alla mancanza di una buca per le lettere nello stabile in cui la stessa abita, ed alla conseguente abitudine del postino di lasciare sui gradini antistanti il portone di ingresso i pacchi posta, con la conseguente, frequente evenienza dello smarrimento degli stessi. Nella specie, dunque, l’atto di citazione non era pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, nè erano stati correttamente effettuati gli adempimenti prodromici richiesti nel caso di notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c.. Nè potrebbe avere alcun rilievo in contrario l’affermazione della controparte relativa alla notificazione dell’atto in questione anche ad un diverso indirizzo, ove esisteva un servizio di portierato e risiedeva il figlio della signora T. (come sarebbe emerso dalla relata di notifica), che avrebbe rifiutato l’atto, in quanto la madre non era convivente con lo stesso. Al riguardo, la ricorrente fa presente che dallo stato di famiglia, prodotto in appello dalla attuale ricorrente, sarebbe emerso che i suoi figli, all’epoca di cui si tratta, avevano rispettivamente tre anni ed otto mesi.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se la notifica dell’atto introduttivo del giudizio effettuata nelle modalità previste dall’art. 140 c.p.c., ha carattere eccezionale ed è subordinata all’impossibilità di eseguire la consegna a mani del destinatario medesimo, oppure, in caso di sua assenza dalla casa di abitazione o dal luogo di lavoro, ai soggetti alternativamente (ed in sequenza tassativa) indicati nell’art. 139, e cioè a persona di famiglia o addetta alla casa (o all’ufficio, ecc.), o al portiere dello stabile dove è l’abitazione (o l’ufficio, ecc.), o ad un vicino di casa che accetti di ricevere l’atto; dica altresì se l’impossibilità di consegna dell’atto nei luoghi, alle persone e alle condizioni prescritte debba risultare in modo esplicito e puntuale dalla relata dell’organo notificante e nel caso contrario se questo comporti o meno la nullità della notificazione”.

2. – La censura è immeritevole di accoglimento.

La eccezione di nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado alla T. è stata rigettata dalla Corte di merito alla stregua della considerazione che, nella specie, ritualmente la notifica era stata effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti prodromici di cui alla citata norma codicistica erano stati regolarmente svolti.

In tale quadro, il mezzo risulta non cogliere la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, che faceva riferimento alla inidoneità della circostanza della mancanza del portiere e della “buca delle lettere” nello stabile in cui abita la attuale ricorrente a dimostrare la non conoscibilità dell’atto in questione da parte della stessa.

3. – Con la seconda censura si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Avrebbe errato la Corte di merito nel dichiarare la inammissibilità, ai sensi della citata disposizione del codice di rito, della documentazione prodotta dalla attuale ricorrente solo in grado di appello senza considerare che, secondo la interpretazione che della norma in questione è stata fornita dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, il divieto di nuovi mezzi di prova in appello riguarderebbe solo le prove costituende e non quelle precostituite, quali i documenti. Per di più, nel caso di specie i documenti di cui si tratta sarebbero stati formati successivamente alla notifica dell’atto di appello. Né la sentenza impugnata recava – si rileva ancora nel ricorso – alcuna motivazione in ordine alla non indispensabilità di tali documenti.

La illustrazione del motivo si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova stabilito dall’art. 345 c.p.c., riguardi esclusivamente le prove costituende o anche quelle costituite e comunque se riguardi anche i documenti di formazione successiva al giudizio di primo grado e/o resi necessari dallo svolgimento del giudizio e/o che la parte non abbia potuto produrre prima per causa non imputabile; dica altresì in quali stadi del processo in appello i documenti vanno depositati in giudizio”.

4. – La censura non può trovare ingresso nel presente giudizio.

Essa, infatti, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, avrebbe dovuto riportare il contenuto della documentazione in questione.

A ciò deve aggiungersi che, avendo la Corte di merito espressamente fatto riferimento all’art. 345 c.p.c., nel negare l’ammissibilità della documentazione medesima, essa ne aveva con ciò stesso escluso la decisività: sicché sarebbe spettato alla ricorrente fornire la prova della indispensabilità della produzione documentale.

5. – Le suesposte argomentazioni danno conto altresì della inammissibilità del terzo motivo, avente ad oggetto il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dichiarata inammissibilità dei documenti: motivo in relazione al quale si evidenzia poi una ulteriore ragione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. – applicabile nella specie, come già chiarito, ratione temporis -, consistente, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella mancata indicazione di un momento di sintesi, concretizzantesi in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso nei cui confronti la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

6. – Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine al mancato esame di elementi probatori determinanti. Avrebbe ancora errato la Corte di merito nell’obliterare l’esame della documentazione depositata nel giudizio di appello dalla attuale ricorrente nonché degli elementi probatori forniti dalla stessa:

esame il cui esito avrebbe invalidato la efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il giudice di secondo grado aveva fondato la pronuncia impugnata. In particolare, si contestano la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta in primo grado e nel giudizio di appello ed il mancato esame dello stato di famiglia della attuale ricorrente, da cui, ad avviso della stessa, sarebbe derivato l’accoglimento della eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado; nonché la mancata valutazione della documentazione prodotta nel giudizio di appello, cui sarebbe conseguita la errata valutazione delle risultanze processuali in ordine alla illegittimità delle realizzazioni edilizie oggetto della controversia.

7. – La censura si appalesa inammissibile per un molteplice ordine di ragioni.

Ed infatti, anzitutto, ove la si riguardi, conformemente al profilo emergente dalla rubrica, quale vizio di motivazione, deve ribadirsi quella mancanza del momento di sintesi già posta in evidenza sub 5 in relazione al terzo mezzo di gravame.

La doglianza appare, peraltro, in realtà, diretta, attraverso la denunzia del vizio di motivazione, a conseguire una rivalutazione delle risultanze probatorie inibita nella presente sede in presenza di una congrua motivazione fornita dalla Corte di merito in ordine alla formazione del proprio convincimento.

Per di più, pare intravvedersi nella illustrazione della censura una incertezza tra la denuncia di vizio di omessa pronuncia, in realtà non esplicitata attraverso la espressa invocazione dell’art. 112 c.p.c., e la doglianza attinente alla carenza assoluta di motivazione sul punto controverso.

In particolare, e da ultimo, per ciò che concerne specificamente la questione del mancato esame dello stato di famiglia, esso risulta irrilevante ai fini della decisione per le ragioni già evidenziate sub 2 con riguardo al primo mezzo di gravame, del quale, per tale parte, il quarto costituisce una riproposizione sotto diversa forma.

8. – Con il quinto motivo sì denuncia “art. 360 c.p.c., n. 5: omessa motivazione relativamente alle modalità di assunzione della testimonianza; art. 360 c.p.c., n. 3: violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 253 e 122 c.p.c.”. Il giudice di appello avrebbe immotivatamente omesso di pronunciarsi sui rilievi formulati dalla attuale ricorrente in ordine alla mancata osservanza, nell’assunzione della deposizione di una testimone, delle prescrizioni dell’art. 253 c.p.c., (non essendo stata la stessa sentita dal giudice istruttore, ma solo dai difensori della attuale resistente) e dell’art. 122 c.p.c., (per non essere stato nominato un interprete in occasione dell’assunzione della deposizione).

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte se le parti possano interrogare direttamente i testimoni o se i testimoni debbano essere sentiti esclusivamente dal giudice. Dica altresì se, nel caso in cui debba essere sentito chi non conosce la lingua italiana, il giudice debba nominare un interprete. Specifichi la Corte le conseguenze delle errate modalità di assunzione della prova testimoniale”.

9. – Anche tale doglianza risulta inammissibile per la incertezza, che la connota, tra la denuncia di vizio di motivazione e di violazione di legge, invocati nella rubrica, e di vizio di omessa pronuncia, quale sembrerebbe piuttosto emergere dalla illustrazione del mezzo. Non senza considerare la mancanza di riscontri probatori delle tesi sostenute nel ricorso.

10. – Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2739 c.c.. Si contesta la decisione della Corte di merito di ritenere inammissibile il giuramento decisorio deferito alla attuale ricorrente erroneamente qualificandolo come giuramento de scientia e non de veritate senza considerare che, per fatto proprio agli effetti dell’art. 2739 c.c., deve intendersi non solo l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno nei limiti in cui possa essere stato percepito dallo stesso con i sensi e l’intelligenza. In ogni caso, anche a voler qualificare il giuramento in questione come de scientia, le formule erano state redatte in modo tale da essere pienamente ammissibili. La Corte di merito, poi, ritenendo inammissibile il giuramento decisorio, avrebbe erroneamente ritenuto irrilevanti le ulteriori censure sollevate dalla attuale ricorrente in ordine alla decisione di primo grado relativa alla pretesa intempestività del deferimento del giuramento ed alla ritenuta illiceità del fatto costituente oggetto del capitolato.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2739 c.c., si possa qualificare, nel giuramento de veritate, come fatto proprio – non soltanto l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno, e quindi anche fatti e dichiarazioni di altri soggetti, nei imiti in cui possono essere stati percepiti dal giurante con i sensi e l’intelligenza. Dica altresì la Corte se nel giuramento de scientia le formule possono essere redatte nel modo seguente: Giuro e giurando affermo essere vero o nego essere vero… seguita dalla circostanza esterna al giurante ma conosciuta dallo stesso”.

11. – Il motivo non può trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità.

Esso, al di là della formale invocazione della disposizione dell’art. 2739 c.c., che si assume violata, è sostanzialmente rivolto a porre in discussione la qualificazione, motivatamente e correttamente operata dalla Corte di merito, della natura del giuramento deferito dalla signora T. come giuramento de scientia alla stregua della considerazione che il giuramento aveva riguardo a fatti dei quali la controparte poteva avere conoscenza.

Ciò posto, il giudice di secondo grado ha conseguentemente escluso l’ammissibilità del giuramento essendo stata la relativa formula redatta come se la controparte avesse dovuto rispondere della veridicità di fatti propri della sua attività, e non già in ordine alla conoscenza che di tali fatti la stessa avesse. Resta, pertanto, assorbito l’esame degli ulteriori profili della censura.

12. – Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., e art. 2909 c.c.. Erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che i giudizi promossi innanzi al giudice amministrativo avevano ampiamente confermato la circostanza della presunta sostituzione della preesistente cabina idrica con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistici edilizi, laddove i provvedimenti giurisdizionali cui essa si riferiva avevano solo carattere interinale, sicché all’epoca era ancora in corso l’accertamento giudiziale di detta circostanza.

La illustrazione della censura si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2909 c.c., e dell’art. 324 c.p.c., si possano definire confermati circostanze e diritti oggetto di provvedimenti non passati in giudicato”.

13. – La doglianza risulta priva di fondamento.

E’ sufficiente, al riguardo, considerare che essa non tiene conto che la menzione dei provvedimenti del giudice amministrativo aveva, nell’economia della decisione impugnata, un significato meramente rafforzativo di una ratio decidendi rinvenuta dal giudice di secondo grado in diverse risultanze processuali.

14. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, che, in applicazione del principio della soccombenza, devono essere poste a carico della ricorrente, vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 5200, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2013