Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 12-05-2015) 02-10-2015, n. 19704

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13678/2012 proposto da:

RIGANTE G. DI RIGANTE GIOVANNI & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI PRATI DEGLI STROZZI 22, presso lo studio dell’avvocato G. VENETO, rappresentata e difesa dall’avvocato BELSITO ANTONIO, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD S.P.A., legittimata in quanto società incorporante della Equitalia E.TR. s.p.a., soggetta all’attività di direzione e coordinamento di Equitalia s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MARIA GAZZONI, rappresentata e difesa dall’avvocato MOLINARA PAOLO, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 68/5/2011 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BARI, depositata il 29/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

uditi gli avvocati Liana DI MOLFETTA per delega dell’avvocato Antonio Belsito, Paolo MOLINARA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società Rigante G. di Rigante Giovanni & C. s.a.s. impugnò dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari la cartella di pagamento n. (OMISSIS) emessa da Equitalia E.TR. s.p.a. per IVA, sanzioni e interessi in relazione all’anno 2003, deducendo che tale cartella – risultante notificata il 27.05.2006 – le era rimasta assolutamente sconosciuta ed assumendo di essere venuta a conoscenza della relativa obbligazione tributaria soltanto dall’estratto di ruolo rilasciato, su sua richiesta, dalla competente concessionaria della riscossione.

La Commissione Tributaria provinciale di Bari, ritenuto che solo formalmente l’atto opposto era la cartella, mentre in realtà l’opposizione riguardava l’estratto di ruolo, ne dichiarò l’inammissibilità essendo l’estratto di ruolo “atto interno dell’Agente della riscossione, non rientrante tra quelli tassativamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 19922, art. 19, comma 1”. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 68/5/11, confermò la decisione.

In particolare i giudici d’appello, premesso che nell’atto introduttivo era stata impugnata la cartella in questione per omessa notifica, escludevano che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo potesse comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica) e conseguentemente escludevano che potesse essere “oggetto di discussione” la suddetta cartella in quanto non ritualmente opposta. I predetti giudici ribadivano inoltre l’inammissibilità della proposta opposizione anche ove ritenuta diretta avverso l’estratto di ruolo, rilevando che esso, oltre ad essere atto non previsto nel novero di quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19 citato, difetta del requisito della “coattività della prestazione tributaria ivi espressa” e quindi della idoneità a costituire “provocatio ad opponendum”, senza che sia per ciò solo configurabile violazione del diritto di difesa del contribuente, restando salva la possibilità di denunciare l’inesistenza della notifica della cartella in sede di gravame avverso eventuali e specifici atti realizzativi del credito fiscale.

Per la cassazione di questa sentenza la società ha proposto, nei confronti di Equitalia E.TR. s.p.a., ricorso per cassazione illustrato da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso Equitalia Sud s.p.a., incorporante di Equitalia E.TR. s.p.a..

Con ordinanza interlocutoria n. 16055 del 2014 il collegio della 6^-5 sezione civile di questa Corte dinanzi al quale il ricorso è stato discusso ha sollecitato l’intervento compositivo di queste sezioni unite segnalando che, nell’ambito di un panorama giurisprudenziale in materia di atti impugnabili dinanzi ai giudici tributari piuttosto composito e articolato, è negli ultimi anni emerso nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità uno specifico contrasto tra alcune pronunce secondo le quali il ruolo non è autonomamente impugnabile in quanto atto “interno”, che può essere impugnato solo con l’atto impositivo nel quale viene trasfuso e a mezzo del quale viene notificato, ed altre pronunce che hanno invece affermato l’autonoma impugnabilità del ruolo.

Motivi della decisione
1. Con unico motivo, deducendo “ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, e dell’art. 360 c.p.c., n. 3”, nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., la ricorrente censura la decisione impugnata innanzitutto affermando che l’estratto di ruolo può essere oggetto di ricorso dinanzi alle Commissioni Tributarie perché esso costituisce parziale riproduzione del ruolo, atto considerato impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, avendo peraltro la giurisprudenza di legittimità affermato che va riconosciuta la possibilità di ricorrere avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che essa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, atteso l’indubbio interesse del destinatario a chiarire la sua posizione rispetto a tale pretesa e quindi ad invocare la tutela giurisdizionale. La ricorrente si duole inoltre del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso ogni valutazione in ordine alle circostanze dalla medesima evidenziate con riguardo alla dedotta omissione di (valida) notifica della cartella, pur non avendo la convenuta contestato tali circostanze né tanto meno fornito alcuna prova dell’avvenuta notifica della suddetta cartella.

In particolare, rilevato che, dopo un primo infruttuoso tentativo di notifica presso la sede della società contribuente – dove la stessa era risultata sconosciuta -, veniva effettuata ulteriore notifica “per irreperibilità assoluta” con deposito dell’atto presso il Comune e affissione dell’avviso di deposito, la ricorrente evidenzia la mancanza di prova della comunicazione alla società, mediante raccomandata, dell’avvenuto deposito dell’atto presso il Comune nonché la mancanza dell’attestazione della impossibilità di effettuare la notificazione al legale rappresentante della suddetta società, il quale risultava individuato e nominato nell’atto da notificare.

Le censure esposte sono fondate esclusivamente nei limiti e nei termini di cui in prosieguo.

Prima di passare al relativo esame, tuttavia, è necessario definirne l’ambito e la reale portata attraverso un’attività interpretativa (della sentenza impugnata e dei ricorso per cassazione) resa imprescindibile innanzitutto per le diverse qualificazioni – ferma restandone la sostanza – della opposizione proposta dalla contribuente, ma anche per il rischio di una non univoca attribuzione di significato a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, potenzialmente inducente ambiguità non solo terminologica ma anche concettuale. In proposito occorre innanzitutto schematicamente considerare che, come emergente da quanto sopra riportato, la società ricorrente ha impugnato la cartella esattoriale a suo carico – della quale era venuta a conoscenza solo a seguito di rilascio dell’estratto di ruolo da parte del concessionario – deducendo che la medesima non era stata validamente notificata. I primi giudici hanno sostenuto che quella proposta, anche se formalmente qualificata come opposizione alla cartella, costituiva sostanzialmente una inammissibile impugnazione dell’estratto di ruolo, atto interno dei concessionario. Il contribuente ha contestato in appello la non impugnabilità dell’estratto di ruolo affermata dai primi giudici, si è doluto della ritenuta inammissibilità dell’opposizione e l’ha riproposta, ribadendo “le questioni, domande e richieste formulate nell’atto introduttivo” e insistendo per la “declaratoria di nullità e improduttività di qualsiasi effetto giuridico della cartella di pagamento impugnata”. I giudici d’appello hanno affermato l’inammissibilità della proposta opposizione, sia se qualificata come opposizione avverso la cartella sia se qualificata come opposizione avverso l’estratto di ruolo, e la società ha proposto ricorso per cassazione contestando la affermata inammissibilità dell’opposizione proposta ed altresì dolendosi del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso di trarre le conseguenze dagli elementi circa l’invalidità della notifica della cartella addotti dalla medesima ricorrente e non contestati dalla controparte.

Come è evidente, al di là di mere qualificazioni, la ricorrente ha agito in giudizio nell’intento di ottenere attraverso la proposta opposizione (comunque qualificata) la declaratoria della nullità della cartella emessa a suo carico in quanto non validamente notificata e ricorre oggi dinanzi a questo giudice per ottenere l’annullamento della decisione impugnata laddove ha ritenuto inammissibile la suddetta opposizione. Occorrerà pertanto valutare la fondatezza della censura anche eventualmente rimettendo in discussione la formale qualificazione della opposizione proposta, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità secondo la quale la corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, a condizione che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio d’una eccezione in senso stretto (v. Cass. n. 3437 del 2014; 6935 del 2007; 19132 del 2005; 4939 del 1998).

Tanto premesso, prima di procedere oltre occorre, in via ulteriormente preliminare, fare chiarezza sull’oggetto della analisi che seguirà, perciò intendersi sul significato da attribuire a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, e ciò non per mera esigenza definitoria fine a se stessa ma perché la comprensibilità di qualunque discorso passa per l’utilizzo di un linguaggio comune, quindi per la condivisione convenzionale del significato dei termini utilizzati, e la stessa correttezza di qualsivoglia soluzione giuridica impone che sia preventivamente individuato con precisione il concreto “oggetto” del problema da risolvere. Ne consegue che per decidere se un atto (volgarmente) detto “estratto di ruolo” sia stato o meno impugnato (e se sia o meno impugnabile) occorrerà identificare in fatto e, poi, qualificare in diritto l’oggetto concreto della disamina, al fine di evitare che si possa confondere l’”estratto di ruolo” con il “ruolo” e, soprattutto, che si possa in qualche modo ridurre, attesa la nota anfibologia di ogni documento, ad uno solo i due oggetti (“documento” e suo “contenuto”) come se si trattasse di della mera diversità di nome dello stesso oggetto.

Il “ruolo”, come noto, ha una sua precisa definizione legislativa, posto che, per il vigente testo del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 10, lett. b), esso è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario” e che, per l’art. 11 del medesimo D.P.R., “nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi”.

A norma del successivo art. 12, l’ufficio competente “forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano. In ciascun ruolo sono iscritte tutte le somme dovute dai contribuenti che hanno il domicilio fiscale in comuni compresi nell’ambito territoriale cui il ruolo si riferisce”; nel ruolo “devono essere comunque indicati il numero del codice fiscale del contribuente, la specie del ruolo, la data in cui il ruolo diviene esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione, anche sintetica, della pretesa; in difetto di tali indicazioni non può farsi luogo all’iscrizione”; “il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica, dal titolare dell’ufficio o da un suo delegato” e “con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo”, cioè costituisce titolo esecutivo.

Dai riprodotti dati normativi discende che il “ruolo” è un atto amministrativo impositivo (fiscale, contributivo o di riscossione di altre entrate allorché sia previsto come strumento di riscossione coattiva delle stesse) proprio ed esclusivo dell’”ufficio competente” (cioè dell’ente creditore impositore), quindi “atto” che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme legislative primarie, deve ritenersi tipico sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale (cfr. le norme sopra richiamate laddove si precisa che esso deve indicare le “somme dovute” in “riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento” o, “in mancanza” di questo, la “motivazione” del debito).

In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un suo delegato, giusta il dettato del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 24, comma 1, viene consegnato “al concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce”, esso pertanto non solo è atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore (mai del concessionario della riscossione), ma, nella progressione dell’iter amministrativo di imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto indefettibile.

Il concessionario della riscossione, a sua volta, in forza del ruolo ricevuto, redige “in conformità al modello approvato” (oggi dall’Agenzia delle Entrate) “la cartella di pagamento” (che, per il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, “contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata”) e provvede (ai sensi del successivo art. 26) alla “notificazione della cartella di pagamento” al debitore.

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, elenca espressamente tra gli “atti impugnabili” (quindi da impugnare necessariamente per evitare la cristallizzazione irreversibile di quel determinato momento del complessivo iter di imposizione e/o riscossione), al comma 1, lett. d), “il ruolo e la cartella di pagamento”, mentre la seconda parte del medesimo D.Lgs. n. 546, art. 21, comma 1, dispone espressamente che “la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”.

Da tali disposizioni si evince pertanto che: il ruolo è atto che deve essere notificato e la sua notificazione coincide con la notificazione della cartella di pagamento; è atto impugnabile; il termine iniziale per calcolare i “sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato” (fissati a espressa “pena di inammissibilità” dalla prima parte del medesimo art. 21 per l’impugnazione di qualsiasi “atto impugnabile”) coincide con quello della “notificazione della cartella di pagamento”; entro il suddetto termine pertanto il debitore, giusta i principi generali, a seconda del suo interesse, può impugnare entrambi gli atti (“ruolo” e “cartella di pagamento”) contemporaneamente ovvero anche solo uno dei due che ritenga viziato, con l’ovvio corollario che la nullità di un atto non comporta quella degli atti precedenti nè di quelli successivi che ne sono indipendenti e quindi che la nullità della cartella di pagamento non comporta necessariamente quella del ruolo mentre la nullità del ruolo determina necessariamente la nullità anche della cartella, questa essendo giuridicamente fondata su quel ruolo e, pertanto, “dipendente” dallo stesso.

Il “documento” denominato “estratto di ruolo”, tale indicato dallo stesso concessionario che lo rilascia, non è invece specificamente previsto da nessuna disposizione di legge vigente. Esso – che viene formato (quindi consegnato) soltanto su richiesta del debitore – costituisce (v. Consiglio di Stato, 4^, n. 4209 del 2014) semplicemente un “elaborato informatico formato dall’esattore…

sostanzialmente contenente gli… elementi della cartella…”, quindi anche gli “elementi” del ruolo afferente quella cartella (il C.d.S., peraltro, ha affermato l’inidoneità del suo rilascio ad ottemperare all’obbligo di ostensione all’interessato che ne abbia fatto legittima e motivata richiesta, della copia degli originali della cartella, della sua notificazione e degli atti prodromici).

Da quanto sopra esposto emerge con sufficiente chiarezza la differenza sostanziale tra “ruolo” ed “estratto di ruolo” (termini talvolta impropriamente utilizzati come sinonimi): il “ruolo” (atto impositivo espressamente previsto e regolato dalla legge, anche quanto alla sua impugnabilità ed ai termini perentori di impugnazione) è un “provvedimento” proprio dell’ente impositore (quindi un atto potestativo contenente una pretesa economica dell’ente suddetto); l’”estratto di ruolo”, invece, è (e resta sempre) solo un “documento” (un “elaborato informatico… contenente gli… elementi della cartella”, quindi unicamente gli “elementi” di un atto impositivo) formato dai concessionario della riscossione, che non contiene (né, per sua natura, può contenere) nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta.

La inidoneità dell’estratto di ruolo a contenere qualsivoglia (autonoma e/o nuova) pretesa impositiva, diretta o indiretta (essendo, peraltro, l’esattore carente del relativo potere) comporta indiscutibilmente la non impugnabilità dello stesso in quanto tale, innanzitutto per la assoluta mancanza di interesse (ex art. 100 c.p.c.) del debitore a richiedere ed ottenere il suo annullamento giurisdizionale, non avendo infatti alcun senso l’eliminazione dal mondo giuridico del solo documento, senza incidere su quanto in esso rappresentato. Peraltro, anche l’eventuale contestazione dell’attività certificativa del concessionario in sè considerata – ad esempio in relazione alla non corrispondenza tra quanto certificato nell’estratto e quanto risultante dal ruolo – avrebbe un senso solo in un ipotetico giudizio risarcitorio per aver confidato nella corrispondenza delle notizie riportate nell’estratto alle iscrizioni risultanti dal ruolo, non in un giudizio impugnatorio conducente esclusivamente ad un “annullamento” della certificazione.

Fatta – si spera – la chiarezza terminologica e concettuale necessaria al prosieguo dell’analisi della questione in esame, si può in astratto convenire con i giudici di primo grado e d’appello laddove hanno affermato la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, tra l’altro perchè “atto interno dell’Agente della riscossione” (così la sentenza di prime cure come riportata nella sentenza d’appello). E deve inoltre precisarsi che il contrasto giurisprudenziale per il quale la causa è stata rimessa a queste sezioni unite non riguarda l’impugnabilità dell’estratto di ruolo (documento tale definito dal concessionario che lo rilascia) bensì l’impugnabilità del ruolo, atto impositivo proprio dell’ente impostore disciplinato dalle norme sopra richiamate.

Tuttavia, come già evidenziato, al di là di ogni formale qualificazione, il ricorrente nella specie si è sempre doluto della invalida notificazione della cartella (e quindi anche del ruolo, posto che la sua notificazione coincide con quella della cartella D.Lgs. n. 546 citato, ex art. 21) e di questo atto – non del documento rilasciatogli dal concessionario – ha chiesto l’annullamento.

Pertanto occorrerà in questa sede affrontare la (diversa) questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata (e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo), con la precisazione che le considerazioni che saranno esposte in proposito devono intendersi riferibili anche alla impugnazione del ruolo, attesa la coincidenza della notificazione della cartella con quella del ruolo.

3. Escluso, sulla base di quanto si è fin qui esposto, l’interesse del richiedente ad impugnare il documento “estratto di ruolo”, può ovviamente sussistere un interesse del medesimo ad impugnare il “contenuto” del documento stesso, ossia gli atti che nell’estratto di ruolo sono indicati e riportati.

I suddetti atti (iscrizione del richiedente in uno specifico “ruolo” di un determinato ente impositore per un preciso “credito” di quest’ultimo; relativa cartella di pagamento fondata su detta iscrizione; notificazione della medesima – e del ruolo – ai richiedente nella data indicata nell’estratto di ruolo ricevuto) risultano univocamente impugnabili per espressa previsione del combinato disposto dei già richiamato D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, lett. d), e art. 21, comma 1. E ovviamente nessun problema in ordine alla impugnabilità dei medesimi si pone quando essi sono stati (validamente) notificati, sussistendo il diritto e l’onere dell’impugnazione con decorrenza dal momento della relativa notificazione (momento che per il ruolo e la cartella, come rilevato, è il medesimo ai sensi del D.Lgs. 546 citato, art. 21), mentre profili di problematicità potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi – ricorrente nella specie – di impugnazione di cartella della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo e non attraverso (valida) notifica.

Nella specie i giudici d’appello hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione della cartella di pagamento sul rilievo che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo non può comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica).

L’affermazione non è condivisibile. Premesso infatti in linea generale che i termini di impugnazione di un atto non possono che decorrere dalla (valida) notificazione dell’atto medesimo e che pertanto il destinatario dell’atto ha l’interesse (e il diritto) di provocare la verifica della validità della notifica dell’atto del quale egli non sia venuto a conoscenza in termini per l’impugnazione a causa di anomalie di tale notifica, è da escludere che l’impugnazione volta innanzitutto a provocare tale legittima verifica possa giammai condurre ad una “riapertura” dei suddetti termini, posto che, ove l’atto risultasse validamente notificato, nessuna “riapertura” sarebbe ovviamente ipotizzabile all’esito della verifica, mentre, ove l’atto non risultasse (validamente) notificato, i termini non avrebbero neppure iniziato a decorrere.

Posta pertanto come indiscutibile la possibilità per il contribuente di far valere l’invalidità della notifica di una cartella della quale (a causa di detta invalidità) sia venuto a conoscenza oltre i previsti termini di impugnazione, dubbi potrebbero ravvisarsi soltanto in relazione alla individuazione del momento a partire dal quale è possibile far valere tale invalidità, e ciò in ragione del disposto del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma 3, secondo il quale la mancata notifica degli atti autonomamente impugnabili adottati precedentemente all’atto notificato “ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”.

Tale previsione costituisce il precipitato di un principio – per anni considerato immanente al sistema tributario- secondo il quale la natura recettizia dell’atto tributario lo rende impugnabile solo a seguito di notifica al contribuente, essa sola costituente (secondo alcuni) manifestazione dell’esercizio della funzione impositiva, di talchè gli atti espressivi di tale funzione verrebbero a giuridica esistenza solo in quanto notificati.

In proposito, tuttavia, occorre dare conto del fatto che nell’ultimo decennio in numerose pronunce di questa Corte, anche a sezioni unite, si è ripetutamente affermata l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità che essi siano espressi in forma autoritativa (v. tra le molte s.u. n. 16293 del 2007 nonché da ultimo s.u. n. 3773 del 2014, secondo la quale è impugnabile la comunicazione con la quale l’Agenzia neghi la sussistenza del diritto patrimoniale che il creditore del creditore di imposta intende pignorare, rilevando che nella specie l’atto – ancorchè non diretto in forma autoritativa nei confronti del contribuente – ha natura indubbiamente tributaria comportando l’accertamento della sussistenza di crediti di imposta).

La giurisprudenza sopra richiamata, ammettendo l’autonoma ed immediata impugnabilità di qualsivoglia atto porti comunque legittimamente a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria (prescindendo dal fatto che tale atto sia direttamente rivolto al contribuente e si manifesti in forma autoritativa, quindi, a fortiori, prescindendo dal fatto che esso risulti notificato al medesimo contribuente) attraversa (di fatto superandola) la questione della natura recettizia dell’atto amministrativo e della sua impugnabilità solo a seguito della notifica al contribuente.

Tale questione risulta peraltro ampiamente superata anche dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità che, in conformità con la previsione letterale dell’art. 1334 c.c. – ai sensi del quale gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati -, ha ripetutamente affermato che la notificazione è una mera condizione di efficacia, non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio (ovvero l’inesistenza) di tale notificazione è irrilevante ove essa abbia raggiunto lo scopo per avere il destinatario impugnato l’atto in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo (v. tra le più recenti Cass. n. 654 del 2014 e n. 8374 del 2015), principio presupposto già da s.u. n. 19854 del 2004 (seguita da numerose altre), secondo la quale la natura non processuale dell’atto impositivo non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale – essendovi in proposito espresso richiamo nella disciplina tributaria – e quindi all’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie dettato per gli atti processuali, con la conseguenza che l’impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della relativa notificazione per raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 c.p.c., (sanatoria operante solo se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere impositivo).

Tanto premesso, occorre rilevare che nel diritto amministrativo, prima che la L. n. 15 del 2005, art. 14, introducesse, nella L. n. 241 del 1990, l’art. 21 bis (recante disposizioni in materia di “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo”), era assolutamente pacifica l’inapplicabilità della regola generale dettata dall’art. 1334 c.c. (espressamente prevedente – come già rilevato – una incidenza della mancata conoscenza da parte del destinatario dell’atto sulla efficacia del medesimo), valendo l’opposto principio secondo il quale l’esercizio unilaterale del potere produce effetti innovativi della precedente situazione giuridica senza bisogno di comunicazione al destinatario, salvo che la legge disponga espressamente in senso diverso o la recettizieta sia sicuramente desumibile dal tipo di atto. E’ quindi solo con la citata riforma del 2005 che trova espressa legittimazione il criterio c.d. “della qualità degli effetti”, secondo cui sono recettizi i provvedimenti “limitativi della sfera giuridica dei privati”.

Gli atti tributari – certo innanzitutto in ragione della indubbia incidenza sul patrimonio del destinatario – sono invece da sempre considerati atti recettizi. In tali atti pertanto le misure di partecipazione sono elementi costitutivi dell’efficacia giuridica, per cui l’effetto giuridico non decorre dalla data di adozione del provvedimento, ma dalla data di avvenuta comunicazione dello stesso.

E indubbiamente la natura recettizia degli atti tributari rende inapplicabile l’istituto della “piena conoscenza” ai fini del decorso del termine di impugnazione, essendo l’inammissibilità dell’utilizzo di strumenti alternativi o surrogatori al fine di provocare aliunde l’effetto di conoscenza una delle più rilevanti conseguenze connesse alla natura recettizia dell’atto, onde l’omessa comunicazione, nei modi di legge, del provvedimento recettizio (nella specie l’atto tributario) comporta il mancato decorso dei termini di impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile, con pregiudizio per la stabilità dei relativi effetti.

Da quanto sopra esposto circa l’origine storica e la disciplina connessa alla natura recettizia degli atti amministrativi in generale e degli atti tributari in particolare emerge che la recettizietà è essenzialmente e innanzitutto posta a presidio e tutela dei destinatario dell’atto, impedendo che l’atto recettizio, siccome negativamente incidente sulla sfera patrimoniale del contribuente, possa produrre i suoi effetti prima che siano scaduti i termini per impugnare, termini da calcolare a decorrere dalla conoscenza dell’atto, che non può essere ritenuta se non a seguito dell’avvenuto espletamento del procedimento all’uopo previsto dalla legge. Tuttavia, se è vero che, come sopra rilevato, non è sufficiente la prova della “piena conoscenza” dell’atto ai fini della decorrenza dei suddetti termini ma è necessaria una comunicazione effettuata nei modi previsti dalla legge, è anche vero che ciò non può impedire l’impugnabilità dell’atto (del quale il contribuente sia venuto “comunque” a conoscenza) ma soltanto, appunto, la decorrenza dei relativi termini di impugnazione in danno del contribuente, distinzione che risulta ben chiara nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. sul punto tra le altre s.u. n. 3773 del 2014 nonché Cass. nn. 17010 del 2012 e 24916 del 2013) secondo la quale l’ammissibilità di una tutela “anticipata” non comporta l’onere bensì solo la facoltà dell’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare successivamente, in ipotesi dopo la notifica di un atto “tipico”, la pretesa della quale il contribuente sia venuto a conoscenza (eventualmente attraverso un atto “atipico”, in quanto ad esempio non manifestato in forma “autoritativa” oppure privo delle indicazioni previste dal secondo comma dell’articolo 19 citato).

Ove poi volesse ritenersi che l’indiscutibile recettizietà dell’atto tributario sia (al di là delle sue origini storiche e della relativa disciplina positiva) intesa (anche) ad una sorta di “salvaguardia” dell’amministrazione, nel senso che la notifica manifesterebbe univocamente la volontà dell’amministrazione di “esternare” l’atto, così evitando l’impugnazione di “atti interni”, di carattere meramente procedimentale, rispetto ai quali non si sia completata la volontà dell’ente, è agevole replicare, a tacer d’altro, che nella specie l’iter procedimentale era assolutamente concluso e l’ente impositore aveva univocamente manifestato la volontà di “esternare” l’atto, avendo definito la pretesa tributaria, formato il ruolo costituente titolo esecutivo e richiesto al concessionario l’emissione e notificazione di cartella.

Né, d’altro canto, potrebbe ragionevolmente sostenersi che la recettizietà dell’atto tributario comporti la spettanza all’amministrazione del potere di stabilire, attraverso la scelta del momento di notifica dell’atto, (non solo quando esternare la propria volontà impositiva ma anche e soprattutto) quando consentire al destinatario di impugnare tale volontà impositiva, eventualmente già formatasi e portata all’esterno al punto da dare l’avvio ad un procedimento esecutivo e produrre effetti che comunque il contribuente ha interesse a contrastare.

Una lettura costituzionalmente orientata dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma÷3, (non esclusa dal tenore letterale del testo) impone pertanto di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato ivi prevista non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la facoltà del medesimo di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità che, impedendo la conoscenza dell’atto e quindi la relativa impugnazione, ha prodotto l’avanzamento del procedimento di imposizione e riscossione, con relativo interesse del contribuente a contrastarlo il più tempestivamente possibile, specie nell’ipotesi in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più reversibile se non in termini risarcitori.

Una diversa lettura della norma in esame (nel senso che l’impugnazione di un atto non notificato possa avvenire sempre e soltanto unitamente all’impugnazione di un atto successivo notificato) comporterebbe infatti una abnorme ed ingiustificata disparità tra i soggetti del rapporto tributario. E’ infatti da considerare che mentre le notifiche degli atti processuali vengono valutate immediatamente dal giudice nel processo e, se non valide e tempestive, non producono alcun effetto in danno del destinatario, con riguardo agli atti impositivi l’invalidità delle relative notifiche produce come unico effetto immediato (non l’intervento del giudice ma) l’impossibilità per il destinatario di conoscere l’atto e quindi di promuovere il controllo giurisdizionale sul medesimo, e non interrompe quindi (ma rende anzi più “fluido”, in mancanza di contestazioni) il procedimento di imposizione e riscossione avviato dall’amministrazione, procedimento che potrebbe pertanto proseguire indisturbato fino alla sua conclusione attraverso il compimento dell’esecuzione senza che il contribuente abbia avuto mai modo di contestare la pretesa attraverso una impugnazione, e ciò non per fatto al medesimo contribuente addebitabile, bensì in ragione della invalidità di notifiche delle quali è onerata l’amministrazione e che sono nella sua piena determinazione sia con riguardo ai tempi di intervento sia con riguardo alle relative modalità (ad esempio indicazione di nominativi e recapiti) sia con riguardo alla valutazione della espletata attività di notificazione (in relazione al successivo controllo del buon esito della medesima ed alle determinazioni circa la necessità o meno di riprendere il procedimento notificatorio).

In simile situazione, la possibilità per il contribuente di conoscere legittimamente attraverso il c.d. estratto di ruolo le iscrizioni a proprio carico e l’eventuale emissione e notificazione di cartelle potrebbe rappresentare un “correttivo” idoneo a bilanciare il rapporto sperequato tra amministrazione e contribuente soltanto se la conoscenza – attraverso l’estratto di ruolo – di un atto che il contribuente avrebbe avuto il diritto di impugnare (e che non è stato impugnato in quanto non conosciuto perché malamente notificato) ne consentisse l’immediata impugnazione, non certo se al contribuente – che a causa dell’invalidità di una notifica della quale era onerata l’amministrazione sia stato espropriato del proprio diritto di accedere alla tutela giurisdizionale – si continui a negare tale accesso, subordinandolo alla notifica di un ulteriore atto da parte dell’amministrazione, senza considerare che: in alcuni casi potrebbe anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad esecuzione forzata sulla base del ruolo; la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente sarebbe ancora una volta rimessa alla determinazioni dell’amministrazione circa i modi e i tempi della notifica dell’eventuale atto successivo;

nel frattempo aumenterebbe per il contribuente il pregiudizio connesso alla iscrizione in un registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione coatta; tale pregiudizio, nonché quello derivante da un eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione.

Per altro verso, la possibilità che il contribuente faccia valere immediatamente le proprie ragioni in relazione ad un atto non (validamente) notificatogli, senza bisogno di attendere la notifica di altro atto successivo (che potrebbe essere a sua volta malamente notificato) è funzionale anche al buon andamento della pubblica amministrazione, perché di certo contribuisce ad evitare i costi di una procedura esecutiva male instaurata, la produzione e l’aumento di danni da risarcire al contribuente, i rischi di decadenza dell’amministrazione in ragione di ripetute notifiche non andate a buon fine.

Né può ritenersi che la riconosciuta impugnabilità del ruolo e della cartella non (validamente) notificati dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza tramite l’estratto di ruolo espongano ai rischi di dilatazione del contenzioso e rallentamento dell’azione di prelievo, come da taluno paventato.

In proposito è infatti appena il caso di rilevare che l’impugnazione della cartella per mancanza di (valida) notificazione proposta non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato non comporta un aggravio del contenzioso se si considera che l’impugnazione della cartella, ancorché “ritardata”, interverrebbe in ogni caso al momento della notifica dell’atto successivo, mentre la proposizione “anticipata” di essa potrebbe evitare l’emissione e la notifica (quindi l’impugnazione) dell’atto successivo e perciò indurre un possibile effetto deflativo. Tanto premesso, è però indubbio che anche un eventuale (modesto) incremento del contenzioso non potrebbe giustificare una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale consistente nel posticipare la possibilità di accesso ad essa ad un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire e perciò ad un momento in cui è possibile che alcuni effetti lesivi dell’atto si siano già prodotti. E’ infine da escludere che dalla impugnabilità di un atto nel quale risulti esternata una ben definita pretesa tributaria possa derivare un “rallentamento” dell’azione di prelievo, che non sia quello strettamente (e legittimamente) derivante dall’interesse e dal diritto costituzionalmente presidiato del contribuente di contrastare la possibilità di un prelievo illegittimo, dovendo rilevarsi che posticipare il momento in cui il contribuente può far valere l’illegittimità della pretesa non serve a “sveltire” l’azione di prelievo ma solo ad aumentare il danno derivante da azioni esecutive in ipotesi portate avanti sulla base di pretese illegittime. 4) Alla luce di quanto fin qui esposto deve conclusivamente affermarsi la fondatezza – nei termini sopra riportati – del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente si duole della ritenuta inammissibilità della opposizione proposta per far valere l’invalidità della notifica della cartella di pagamento della quale essa era venuta a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo. Deve invece affermarsi l’infondatezza del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente sostiene che i giudici d’appello, trascurando ogni valutazione sia in ordine alle circostanze di fatto offerte dalla contribuente con riguardo alla dedotta omissione di notifica della cartella sia in ordine alla mancata contestazione delle suddette circostanze ad opera della controparte, sarebbero incorsi in “difetto di attività del giudice che si risolve nella nullità della sentenza per insufficiente motivazione”.

In proposito, infatti, anche ritenendo di poter prescindere dalla impropria formulazione della censura, deve evidenziarsi che i giudici d’appello hanno dichiarato l’inammissibilità della proposta opposizione e che queste sezioni unite hanno ripetutamente affermato che, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza) con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare, con la conseguenza che è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (così SU n. 3840 del 2007 e numerose altre successive), dovendo a fortiori ritenersi infondata l’impugnazione che, come nella specie, sostanzialmente censuri (sia pure attraverso incongrui riferimenti normativi) l’omessa pronuncia sul merito da parte del giudice che si sia spogliato della relativa potestas iudicandi con una statuizione di inammissibilità.

Dall’argomentare che precede discende l’accoglimento, nei limiti e nei termini sopra esposti, del ricorso, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla CTR della Puglia in diversa composizione perché provveda a decidere la controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto: “E’ ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”.

Il giudice del rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per te spese alla C.T.R. Puglia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 2, Ord., (data ud. 21/05/2015) 30/09/2015, n. 19387

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19628/2012 proposto da:

C.D. (OMISSIS) elettivamente domiciliato in ROMA, VIA M. BRAGADIN, 95, presso lo studio dell’avvocato MATTEO CARLO PARROTTA, rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

PUBBLICO MINISTERO presso la PROCURA GENERALE di CATANZARO;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 277/11 R.C.C. della CORTE D’APPELLO di CATANZARO dell’8/06/2012, depositata il 20/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

Svolgimento del processo
Con ordinanza del 20 luglio 2012, la Corte di appello di Catanzaro, chiamata a pronunciarsi sull’opposizione proposta da C. D., con separati ricorsi, poi riuniti, avverso i decreti di liquidazione dei compensi ad esso spettanti per l’attività defensionale svolta nell’interesse dei propri assistiti, entrambi ammessi al gratuito patrocinio nell’ambito di un procedimento per i reati di cui della L. 685 del 1975, artt. 71, 74 e 75, e definito con sentenza in data 5/10/2012, in riforma del provvedimento impugnato, ha accolto le censure mosse ai provvedimenti impugnati e provveduto alla rideterminazione dell’ammontare dei compensi spettanti al difensore con l’aggiunta del rimborso delle spese di viaggio e dell’indennità di trasferta.

Avverso tale provvedimento definitivo della Corte di appello di Catanzaro ha presentato ricorso a questa Corte, il medesimo C., deducendo due diversi motivi.

Con la prima articolata censura ha denunciato, in primis, la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e all’art. 111 Cost., in secondo luogo, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, in relazione alle norme determinative della tariffa professionale penale di cui al D.M. n. 127 del 2004, nonchè violazione del principio del divieto di reformatio in peius anche per vizio di motivazione.

Con il secondo mezzo ha dedotto la violazione dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b); violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre ad omessa motivazione sul medesimo punto relativo alle spese del giudizio.

L’intimato Pubblico Ministero presso la Procura Generale di Catanzaro non ha svolto difese in questa fase del giudizio.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., proponendo l’accoglimento del ricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria illustrativa di adesione alla relazione.

Motivi della decisione
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con il primo motivo viene denunciata la inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni in tema di liquidazione degli onorati del difensore, in particolare dell’art. 82 T.U. materia di spese di giustizia e delle norme che ineriscono la tariffa professionale penale contenuti nel D.M. n. 127 del 2004, per avere la Corte di appello di Catanzaro, nonostante il riconoscimento della fondatezza delle censure sollevate dall’odierno ricorrente, proceduto ad una liquidazione dei compensi e degli onorari ad esso spettanti in misura inferiore rispetto ai decreti impugnati e per aver arbitrariamente disatteso quanto attestato dalle note difensive e dalle produzioni documentali della parte.

Con il secondo motivo il ricorrente censura l’ordinanza impugnata per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ed omessa motivazione, limitatamente alla mancata statuizione in ordine alla liquidazione delle spese del procedimento di opposizione.

Per poter procedere all’esame delle suddette doglianze occorre dare atto della imprescindibilità di un adempimento preliminare consistente nella previa integrazione del contraddittorio, non essendo stata evocata in giudizio la necessaria controparte dello stesso.

Al riguardo si sono pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte che, superando il contrasto esistente circa la legittimazione passiva nel giudizio di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, hanno statuito che litisconsorte necessario è il Ministero della Giustizia. Nel dettaglio, la Suprema corte, ha chiarito come non possa considerarsi titolare passivo del rapporto nè l’agenzia dell’entrate, sovente intimata in tali giudizi, nè il Pubblico Ministero, come è accaduto nel caso di specie, bensì un terzo e diverso soggetto, ciò in quanto tale giudizio, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, presenta carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale, per cui, parte necessaria dei procedimenti suddetti deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento, con la conseguenza che nei giudizi di opposizione a liquidazione inerenti a giudici civili e penali suscettibili di restare a carico dell’erario”, quest’ultimo va identificato nel Ministero della Giustizia, che pertanto è parte necessaria (Cass. S.U. 29 maggio 2012 n. 8516). Trattasi di principi consolidati e ribaditi dalle più recenti pronunce di questa Corte (Cass. 29 gennaio 2015 n. 1687; Cass. 21 ottobre 2014 n. 22316; Cass. 13 febbraio 2014 n. 3312; Cass. 14 febbraio 2013 n. 3622).

In definitiva si conferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., data la necessità di procedere all’integrazione del contradditorio ex art. 331 c.p.c.”.

Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, e alla quale non sono state rivolte critiche di sorta, sono condivisi dal Collegio, ragione per la quale l’ordinanza impugnata va cassata e, in applicazione dell’art. 383 c.p.c., comma 3, deve essere disposta la rimessione della causa al primo giudice, individuato come in dispositivo, il quale, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, pronunciando sul ricorso, dichiara la nullità del giudizio di merito e ne ordina la rinnovazione davanti al Presidente della Corte di appello di Catanzaro, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, il quale provvederà anche per le spese del giudizio di Cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte di Cassazione, il 21 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 27-05-2015) 25-09-2015, n. 19060

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19693-2010 proposto da:

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

A.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 525/2009 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE di BOLOGNA, depositata il 10/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/05/2015 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Amministrazione Finanziaria ha notificato ad A.F. nei novembre 1982 avvisi di accertamento per IRPEF ed ILOR relativi agli anni 1975/1980; in data 14-3-1983 il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa ex L. n. 516 del 1982, determinando i nuovi imponibili con riferimento non alle dichiarazioni originariamente presentate ma a quanto accertato nei detti avvisi; l’Ufficio, previo controllo, ha proceduto quindi alla liquidazione della detta dichiarazione integrativa ed alla conseguente formazione dei ruoli, con notifica al contribuente della relativa cartella nel settembre 1988, quando però era stata già emessa la sentenza della Corte Costituzionale 175/1986, che aveva sancito l’illegittimità di tutti gli avvisi di accertamento notificati, come quelli in questione, tra il 14/7/1986 ed il 15/3/1983.

Avverso detta cartella il contribuente ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributarla di primo grado di Parma, sostenendo che la su riferita declaratoria di illegittimità costituzionale non poteva che travolgere anche la dichiarazione integrativa, essendo infatti quest’ultima parametrata su avvisi dichiarati illegittimi.

L’adita Commissione, in parziale accoglimento del ricorso, ha ritenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto procedere ad una riliquidazione della dichiarazione integrativa procedendo D.L. n. 429 del 1982, ex art. 19, e cioè considerandola come presentata “in assenza di accertamento”.

La Commissione di secondo grado ha rigettato l’appello dell’Ufficio.

Con sentenza depositata il 10 giugno 2009 la CTC, sez. di Bologna, ha rigettato il ricorso dell’Ufficio; in particolare la CTC ha evidenziato che la dichiarazione integrativa era strettamente connessa e subordinata all’avviso di accertamento; di conseguenza la nullità di quest’ultimo, da ritenersi atto presupposto, non poteva che travolgere tutto il rapporto tributario dallo stesso generato.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione il Ministero dell’Economia e della Finanze e l’Agenzia delle Entrate, affidato ad un motivo; il contribuente non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione, in quanto proposto oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, ratione temporis vigente (un anno e 46 gg dalla pubblicazione della sentenza impugnata, avvenuta in data 10-6-2009).

Il ricorso, invero, è stato notificato, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., tramite ufficiale giudiziario, mediante deposito di copia nella casa comunale, per irreperibilità del contribuente presso l’indirizzo nel quale quest’ultimo aveva la sua residenza anagrafica (via (OMISSIS)), in data 24-9-2010, e quindi oltre il su menzionato termine.

Irrilevante è, invece, al riguardo, la precedente procedura notificatoria per posta, la cui conclusione, attesa la mancanza della relativa cartolina di ritorno, non può ritenersi provata.

E’ vero, infatti, che “In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (Cass. Sez. unite 17352 e ssg.).

Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il ricorso è stato consegnato all’Ufficio postale per la notifica in data 21-7-2010, ma, in mancanza (come detto) della relativa cartolina di ritorno, non vi è prova che il mancato perfezionamento dell’intrapresa procedura non sia addebitabile a colpa del notificante; siffatta circostanza configura una interruzione nella continuità della procedura notificatoria, sicché non può ritenersi avvenuta una ripresa del procedimento notificatorio e gli effetti della seconda notifica (avvenuta ex art. 143 c.p.c.) non possono essere ricollegati ad atti della prima, e, in particolare, alla consegna all’ufficio postale del ricorso da notificare.

In conclusione, quindi, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, non avendo il contribuente svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/05/2015) 24/09/2015, n. 18936

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11870-2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MALESCI ISTITUTO FARMACOBIOLOGICO SPA in persona del legale rappresentante pro tempore e del Consigliere di Amministrazione, elettivamente domiciliato in ROMA VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato FIORILLI PAOLO, rappresentato e difeso dagli avvocati PISTOLESI FRANCESCO, MICCINESI MARCO giusta delega a margine;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 13/2008 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE, depositata il 28/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2015 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIORENTINO che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PISTOLESI che ha chiesto il rigetto del ricorso e la inammissibilità e l’accoglimento del ricorso principale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine il rigetto del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
In relazione alla contestata indetraibilità dell’IVA su fatture passive aventi ad oggetto corrispettivi versati da Malesci Istituto Farmacobiologico s.p.a. per la organizzazione e lo svolgimento di congressi e convegni scientifici autorizzati dal Ministero della Salute negli anni 1998 e 1999, in quanto qualificate come “spese di rappresentanzà negli avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio di Firenze della Agenzia delle Entrate, in quanto tali non detraibili ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) e dell’art. 74 TUIR (entrambe le norme nel testo vigente ratione temporis), la Commissione tributaria della regione Toscana, con sentenza 28.3.2008 n. 13 ed in parziale riforma della decisione di prime cure, dichiarava infondata la pretesa fiscale, interpretando il complesso normativo, anche in combinato disposto dalla L. n. 67 del 1988, art. 19, comma 14 (come modificato dalla L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13), ritenendo che la speciale disciplina normativa riservata, in materia di imposte sui redditi, alle spese per convegni e congressi sostenute dalle imprese farmaceutiche, sottraeva tali spese alla categoria delle “spese di rappresentanza” disciplinate dall’art. 74, comma 2 vecchio TUIR cui rinviava la norma sulla indetraibilità dell’IVA, e pertanto non andavano incontro al divieto di detrazione d’imposta dovendo essere considerate, anche al tempo dei fatti, assoggettate all’ordinario regime IVA previsto per le “spese di pubblicità”, come peraltro deponevano le successive modifiche della L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13 (che consentivano la deduzione, ai fini delle II.DD. delle spese di pubblicità farmaceutica effettuata attraverso convegni e congressi) e la giurisprudenza di legittimità.

I Giudici di appello ritenevano, invece, fondata la pretesa fiscale concernente la indetraibilità dell’IVA sulle spese sostenute dalla società per “servizi connessi” all’acquisto di “beni da destinare ad omaggio” (fonendoscopi), non essendo stata dimostrata la “inerenza” di tali spese con l’esercizio della impresa farmaceutica.

Annullavano inoltre gli avvisi limitatamente alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie, ravvisando, da un lato, la ricorrenza di difficoltà interpretative idonee ad integrare le cause di non punibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 8 ed D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, e dall’altro, la carenza di una autonoma motivazione in ordine all’illecito contestato.

La sentenza di appello, notificata in data 18.7.2008, è stata impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate, con ricorso notificato alla contribuente il 18.5.2009 ed affidato a tre motivi con i quali si deducono vizi di violazione di norme di diritto e vizi di motivazione.

Resiste con controricorso la società, eccependo la inammissibilità del ricorso per violazione del termine breve di impugnazione e proponendo contestuale ricorso incidentale, affidato a tre motivi, con i quali vengono dedotti vizi per “errores in judicando” ed “errores in procedendo” e vizio di motivazione. Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione
1. Il ricorso principale è inammissibile.

La parte resistente ha eccepito che il ricorso per cassazione era stato notificato oltre il termine breve di impugnazione previsto dall’art. 325 c.p.c. e dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 1, e art. 62, comma 2, essendo stata notificata la sentenza di appello, ad istanza di parte, in data 18.7.2008 a “mani proprie”, alla “Agenzia delle Entrate – Ufficio di Firenze (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, in via (OMISSIS)” (come emerge dalla relata di notifica), ed essendo stato invece proposto il ricorso per cassazione con atto consegnato all’Ufficiale giudiziario in data 13.5.2009 e notificato alla società contribuente in data 18.5.2009.

La Agenzia fiscale ricorrente contesta la eccezione pregiudziale ritenendo tempestiva la proposizione del ricorso, dovendo ritenersi inefficace, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, la notifica della sentenza di appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 38 in quanto eseguita presso la sede dell’ufficio finanziario che aveva emanato l’avviso di accertamento opposto, anzichè presso la sede della Direzione regionale delle entrate che aveva partecipato al giudizio di appello.

1.1 Risulta dagli atti (intestazione della sentenza di appello) che nel giudizio di secondo grado l’ufficio della Agenzia delle Entrate, che aveva emanato l’atto impugnato (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), e nei cui confronti era stato proposto il ricorso (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. c), art. 20, comma 1, art. 23, comma 1), era stato in giudizio “mediante” l’”Ufficio del contenzioso” della Direzione regionale della Toscana (DRE), giusto il disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, per cui “l’ufficio…..nei cui confronti è proposto il ricorso sta in giudizio direttamente o mediante l’ufficio del contenzioso della direzione regionale o compartimentale ad esso sovraordinata”.

In proposito occorre osservare che, se parte del processo tributario, introdotto dal contribuente, deve intendersi “l’ufficio……che ha emanato l’atto impugnato…” (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), l’art. 11 comma 2, introduce un sistema di legittimazione processuale alternativa, funzionale al modello organizzativo delle Agenzia fiscali.

La norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, deve, infatti, essere interpretata alla stregua del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 62, comma 2, che ha attribuito alla Agenzia delle Entrate (ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico con autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria: D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61, commi 1 e 2; art. 1, comma 1, e art. 13, comma 1, Statuto, approvato con delibera CD in data 13.12.2000 n. 6) tutte le competenze già esercitate dal Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, con “facoltà” di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72).

L’Agenzia fiscale è, infatti, articolata in uffici “centrali e periferici”, “regionali e provinciale (a loro volta articolati in strutture di vertice ed uffici dipendenti), in base alle disposizioni del regolamento di amministrazione adottato con delibera CD del 30.11.2000 n. 4 (art. 2, comma 2; art. 4, comma 1; art. 5), secondo criteri organizzativi che combinano l’applicazione del “principio di competenza” (territoriale e per valore) con i principi “gerarchico” (fondato su rapporti di sovra e sottordinazione: art. 11, comma 1, lett. c), Statuto) e di “sussidiarietà” (art. 1, comma 1, lett. d) reg. amm.).

Per quanto qui interessa, la gestione del contenzioso risulta attribuita a tutte le strutture periferiche, sia di “vertice” che “meramente operative”:

– le Direzioni regionali e le Direzioni provinciali delle Province autonome di Trento e Bolzano, che sono “strutture di vertice”, infatti, oltre a funzioni di direzione e di coordinamento svolgono anche “attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento, della riscossione, e del contenzioso” (art. 4, comma 3, reg. amm.);

– presso le altre Direzioni provinciali (articolate a loro volta negli “uffici territoriali”, nell’”ufficio controlli” e nell’”ufficio legale”) “l’ufficio legale tratta il contenzioso di tutta la direzione provinciale” (art. 5, comma 3 del reg. amm.) – il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate in data 23.2.2001 n. 36122, pubblicato in GU n. 151/2001 (da ricomprendersi tra le “disposizioni interne” di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3), adottato in esecuzione delle norme di legge, regolamentari e statutarie, prevede che le Direzioni regionali esercitano funzioni anche “nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento e del contenzioso”, istituendo presso tali organi anche rufficio del “Contenzioso tributario” cui è affidata tra l’altro la “rappresentanza dinanzi alle Commissioni tributarie regionali”.

1.2 Tanto premesso, ferma la esclusiva riconducibilità dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio (pretesa fiscale) all’Erario, e per esso alla Agenzia delle Entrate alla quale sono stati attribuiti ex lege i poteri di gestione del rapporto tributario con il contribuente, osserva il Collegio che indipendentemente dal rapporto organizzativo, interno all’ente di diritto pubblico, che viene ad essere instaurato tra l’organo sovraordinato (DRE) e l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato (avocazione gerarchica della trattazione del contenzioso; accentramento in via generale, presso l’ufficio contenzioso della DRE, della rappresentanza in giudizio dei singoli uffici locali; valutazione caso per caso da parte dell’organo sovraordinato della opportunità di sostituire l’ufficio che ha emanato l’atto nella assunzione della posizione di parte processuale), non pare dubbio che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, attribuisca all’”ufficio del contenzioso” della DRE (nella specie la Direzione regionale della Toscana) una legittimazione processuale concorrente con quella dell’”ufficio provinciale periferico” che ha emanato l’atto opposto (nella specie l’Ufficio di Firenze (OMISSIS)), consentendo all’”ufficio del contenzioso” della DRE di costituirsi in giudizio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 23, comma 1, in sostituzione del predetto “ufficio periferico” al quale è stato notificato il ricorso introduttivo ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 20 (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 20911 del 03/10/2014).

La individuazione dell’ufficio della Agenzia delle Entrate, ritenuto maggiormente idoneo a sostenere la difesa dell’ente pubblico in giudizio, è espressione di scelte discrezionali proprie dell’ente, che riflettono la specifica organizzazione ed articolazione interna degli uffici, che si inscrivono tutte nella definizione legale di “parte nel processo tributario” compiuta dalla legge che, al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 28 conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122, applicabile al caso di specie) disponeva, infatti, che “Sono parti nel processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio, l’ufficio delle entrate del Ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso”, norma che deve essere coordinata, ai fini della individuazione della parte processuale pubblica, con le disposizioni dell’art. 18, comma 2, lett. c) – secondo cui il contribuente deve indicare nel ricorso introduttivo l’ufficio nei cui confronti la impugnazione è proposta -, e dell’art. 23, comma 1 -per cui “l’ufficio….nei cui confronti è stato proposto il ricorso” si costituisce in giudizio entro sessanta giorni dal perfezionamento della notifica-, dovendo in conseguenza ritenersi, in base al combinato disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1 e art. 23, comma 1, che la qualità di “parte nel processo” debba comunque essere riconosciuta -anche in ipotesi di una eventuale “sostituzione” da parte dell’organo gerarchicamente sovraordinato ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2 -, all’”ufficio provinciale periferico” della Agenzia fiscale “che ha emanato” l’avviso di rettifica o di accertamento ed al quale il ricorso introduttivo è stato notificato dal contribuente.

Orbene il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2, che disciplina la notificazione delle sentenze di merito dei Giudici tributali (ai fini della decorrenza del termine breve anche per la proposizione del ricorso per cassazione: Corte cass. Set. 5, Sentenza n. 5871 del 13/04/2012 secondo cui “l’applicazione di tali disposizioni alle decisioni delle Commissioni tributarie regionali, in forza del generale richiamo fatto per il processo tributario di secondo grado alle norme dettate per il primo grado, trova ostacolo nella disciplina del ricorso per cassazione, interamente regolato dal codice di procedura civile, poichè la notifica delle sentenze di appello resta fuori del giudizio di legittimità, mirando solo alla più celere formazione del giudicato formale”), prescrive in modo inequivoco che la notificazione della sentenza deve essere eseguita “alle altre parti” (“a norma dell’art. 137 c.p.c.” e ss. ed ora, dopo le modifiche introdotte dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 1, lett. a), “a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16”) e dunque, alla stregua delle considerazioni che precedono, all’ufficio che ha emanato l’avviso di accertamento/rettifica opposto, in quanto individuato ex lege come parte del processo tributario e, pertanto, legittimato a ricevere la notifica della sentenza di merito agli effetti della decorrenza, nei confronti dell’Agenzia fiscale titolare del diritto controverso (ente con personalità giuridica di diritto pubblico, nel quale è inserito l’ufficio periferico dotato di pari capacità di stare in giudizio ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11, secondo un modello assimilabile alla preposizione istruttoria di cui agli artt. 2203 e 2204 cod. civ.), del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione.

Tanto alla stregua del principio di diritto affermato dalla Corte – cui il Collegio intende aderire- secondo cui per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11, la nuova realtà ordinamentale – caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore- consente infine di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (cfr.

Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 3118 del 14/02/2006; Sez. U, Sentenza n. 3116 del 14/02/2006), non comportando tale soluzione un aggravio nell’esercizio del diritto di difesa nella fase di legittimità, poichè l’Ufficio centrale e quelli periferici -che emettono l’atto impugnato e curano il contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie- debbono comunque cooperare nell’attività di predisposizione della difesa tecnica dell’Agenzia nel giudizio di cassazione (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 22889 del 25/10/2006; id. Sez, 5, Sentenza n. 441 del 14/01/2015).

1.3 La soluzione indicata non trova ostacolo nella disposizione dell’art. 16, comma 2 che, ai fini delle notificazioni e comunicazioni alle parti del processo, richiama anche il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 secondo cui “salva la consegna a mani proprie”, “le notificazioni sono fatte……nel domicilio eletto o in mancanza, nella residenza, o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio”, indicazione che ha effetto anche per i successivi gradi di giudizio (art. 17, comma 2).

Se, infatti, non può essere logicamente negata alla Amministrazione finanziaria la facoltà di eleggere domicilio, al pari della parte contribuente, deve altresì rilevarsi come la norma del processo tributario, da ultimo richiamata, venga a derogare all’art. 170 c.p.c. (alla norma processualtributaria è stata riconosciuta sì efficacia “endoprocessuale” ma del tutto peculiare, atteso che la indicazione mantiene efficacia, ove non revocata o modificata, anche nel successivo grado di merito, pertanto, venendo a disporre il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., ma non anche in deroga alla norma del processo civile che disciplina la “notifica degli atti di impugnazione” – art. 330 c.p.c. – da ritenersi non incompatibile con quella speciale del processo tributario: Corte cass. Sez, U, Sentenza n. 29290 del 15/12/2008; id.

Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 460 del 13/01/2014), e venga, quindi, ad incidere anche sulla disciplina della notifica della sentenza di merito, tenuto conto che, il previgente testo del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 in vigore alla data della notifica (la modifica normativa successiva della L. n. 73 del 2010, che ha sostituito il rinvio agli artt. 137 c.p.c. e ss. con quello al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, ha ampliato “le forme” della notificazione della sentenza, ritenendo valide anche la spedizione diretta a mezzo posta in plico senza busta con raccomandata AR, ovvero la consegna della sentenza all’addetto all’ufficio – art. 16, comma 3 -, mentre non ha apportato modifiche alla disciplina del luogo e della parte destinataria della notifica che doveva, essere rinvenuta, pertanto, nella disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, commi 2, 4 e 5, e dall’art. 17), non escludeva l’applicazione – alla notifica delle sentenze tributarie- dell’art. 285 c.p.c. (secondo cui la sentenza deve essere notificata al procuratore costituito, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., ovvero alla parte costituita personalmente in giudizio, presso la residenza dichiarata od il domicilio eletto), norma che doveva pertanto intendersi derogata – relativamente alla disposizione che consente la notifica della sentenza di merito ai sensi dell’art. 170 c.p.c.- dalla disposizione speciale del processo tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, comma 1, che fa salva in ogni caso la notifica “a mani proprie” (“le comunicazione e le notificazioni sono fatte, salva la consegna a mani proprie,…”), e che è stata costantemente interpretata da questa Corte nel senso che gli atti processuali e “la sentenza di merito” possono sempre essere notificati direttamente alla parte personalmente, anche nel caso in cui vi sia stata elezione di domicilio (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 10474 del 03/07/2003 secondo cui debbono ritenersi ricomprese “tutte le forme di notifica previste dagli artt. 138, 140 cod. proc. civ. e la notifica a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l’atto venga comunque consegnato a mani proprie del destinatario”; id. Sez. 5, Sentenza n. 9381 del 20/04/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 5504 del 09/03/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 10961 del 13/05/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 16234 del 09/07/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 7059 del 26/03/2014, con riferimento alla notifica della sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale).

La applicazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 indifferentemente ad entrambe le parti del processo tributario, esclude alla radice il dubbio di incompatibilità comunitaria prospettato nella memoria illustrativa dalla Agenzia delle Entrate (secondo cui la notifica eseguita in via alternativa all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero all’ufficio del contenzioso della DRE, costituitosi in giudizio, sarebbe lesiva dei “principi di origine comunitaria di equivalenza ed effettività della difesa”), peraltro in modo assolutamente carente, essendo stata omessa la indicazione delle norme dell’ordinamento comunitario che si assumono in ipotesi in conflitto con quelle processuali, e tenuto altresì conto, da un lato, che la materia della disciplina processuale è estranea alle materie riservate alla Comunità Europea dal Trattato (art. 6 TUE), e dall’altro che, anche nel caso in cui la ricorrente abbia inteso fare generico riferimento alla violazione dei principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proprio la mancata individuazione della norma comunitaria in conflitto con la disposizione processuale, impedirebbe comunque la verifica dell’asserita violazione, atteso che, per espressa previsione dell’art. 51, n. 1 della Carta, le disposizioni della medesima si applicano agli Stati membri esclusivamente “nell’attuazione del diritto dell’Unione” (e cioè soltanto ove debba applicarsi una norma comunitaria diversa dalla Carta). E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia che, quando un regolamento comunitario (od una direttiva comunitaria) conferisce un potere discrezionale ad uno Stato membro, quest’ultimo deve esercitare tale potere nel rispetto del diritto – e dei principi della Carta – dell’Unione (cfr. Corte di giustizia CE, sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609; 4 marzo 2010, causa C-578/08, Chakroun, Racc. pag. 1-1839, e 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, McB., Racc. pag. 1-8965), ma nel caso di specie la ricorrente neppure allega -e non è dato altrimenti individuare- il regolamento o la direttiva comunitaria dai quali deriverebbe il potere discrezionale attribuito allo Stato membro nel disporre la disciplina legislativa del processo tributario, che non può, pertanto, essere considerata una normativa di attuazione di un diritto derivante dall’ordinamento comunitario.

Nè è dato ravvisare neppure un “vulnus” al principio di eguaglianza e di effettitività dell’esercizo del diritto di difesa ex artt. 3 e 24 Cost., tenuto conto che la notifica della sentenza tributaria eseguita, in via alternativa, all’ufficio periferico che ha emanato l’atto (parte processuale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 10, comma 1), ovvero -presso il domicilio eletto- nei confronti dell’ufficio del contenzioso della DRE (costituitosi in giudizio “in sostituzione” del primo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2), od ancora direttamente all’ente pubblico presso la sede legale (quale soggetto di diritto pubblico, parte sostanziale del rapporto tributario controverso, nella organizzazione del quale sono organicamente inseriti i predetti uffici), sono forme tutte egualmente funzionali, secondo un canone di ragionevolezza, ad assicurare all’Amministrazione finanziaria la effettiva conoscenza della sentenza pronunciata all’esito del giudizio, ai fini del tempestivo apprestamento dell’atto di impugnazione, non potendo essere addotti in contrario, dall’Agenzia fiscale, eventuali ostacoli di mero fatto dovuti a ritardi od inefficienze della organizzazione degli uffici dell’ente di diritto pubblico.

1.4 La menzionata norma del processo tributario (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1), come interpretata da questa Corte, legittima, pertanto, la parte interessata (pubblica o privata) a notificare la sentenza tributaria di merito, tanto al procuratore domiciliatario, quanto alla “parte personalmente” (“a mani proprie”), dovendo applicarsi tale disposizione anche alla ipotesi, che ricorre nel caso di specie, in cui l’”ufficio che ha emesso l’atto impositivo” Opposto – al quale è stato notificato il ricorso introduttivo e che viene indicato dalla legge come “parte nel processo”- stia in giudizio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, “mediante” l’”ufficio del contenzioso” della DRE e questo abbia eletto domicilio presso la Direzione regionale (come nel caso di specie in cui -come emerge anche dalla intestazione della sentenza della CTR – l’ufficio del contenzioso della DRE della Toscana aveva indicato, costituendosi in grado di appello, il domicilio in Firenze via della Fortezza n. 8: cfr.anche memoria illustrativa depositata dalla Agenzia, pag. 7), essendo irrilevante al proposito che non sia configurabile un rapporto di rappresentanza negoziale tra gli uffici dell’ente pubblico, trovando genesi la partecipazione al giudizio dell’ufficio della DRE in una scelta di tipo organizzativo, riservata all’organo competente del soggetto di diritto titolare della pretesa tributaria contestata (l’Agenzia fiscale dotata di personalità giuridica di diritto pubblico), atteso che la alternativa, prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, tra la modalità di notifica “a mani proprie” della parte e la notifica presso il luogo indicato con la elezione di domicilio (anche in assenza di procuratore ad litem o di altro soggetto indicato come domiciliatario) opera in via generale e nei confronti di tutte le parti del processo, dovendo quindi ritenersi equipollenti la notifica della sentenza di merito eseguita alla parte costituitasi personalmente “a mani proprie”, anche se in luogo diverso dal domicilio eletto, e la notifica della sentenza di merito eseguita, presso il domicilio eletto, alla parte ovvero al procuratore ad litem costituito in giudizio o ancora al soggetto indicato come domiciliatario.

1.5 La questione pregiudiziale posta all’esame di questa Corte può dunque essere risolta alla stregua del seguente principio di diritto:

– la scelta riservata alla Agenzia fiscale -ente al quale è conferita personalità giuridica di diritto pubblico e che riveste la posizione di parte sostanziale, ai sensi del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, nel rapporto tributario controverso- di assumere la lite, introdotta dal contribuente, mediante costituzione in giudizio dell’ufficio periferico che ha emanato l’atto impositivo opposto ovvero dell’ufficio del contenzioso della DRE a quello gerarchicamente sovraordinato, ovvero direttamente con la costituzione in giudizio del Direttore generale dell’ente (in quanto organi tutti dotati di legittimazione processuale concorrente), e così del pari la analoga scelta dell’Agenzia fiscale di avvalersi o meno del patrocinio di un avvocato del foro privato, con il conferimento di apposita “procura ad litem”, hanno carattere eminentemente organizzativo, rispondendo alle esigenze di funzionalità ed efficienza dell’ente pubblico, in considerazione della sua specifica articolazione sul territorio e della distribuzione delle competenze tra i vari organi ed uffici centrali e periferici, e non immutano, pertanto, all’assetto legislativo del processo tributario che, individua “ex ante”, nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, come “parte nel processo”, l’ufficio della Agenzia fiscale “che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto” (ovvero l’ufficio con competenza su tutto o parte del territorio nazionale al quale spettano -in base ai regolamenti organizzativi dell’ente- le attribuzioni in merito a) rapporto controverso). Ne segue che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, bene può essere validamente eseguita, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 nei confronti dell’”ufficio che ha emanato l’atto”, opposto dal contribuente, anche nel caso in cui quest’ultimo si sia costituito in giudizio “mediante” l’ufficio del contenzioso della DRE e questo abbia eletto domicilio presso di sè, in quanto se, da un lato, l’intervento sostitutivo dell’ufficio della DRE non comporta il venire meno della qualifica legale di parte processuale dell’ufficio che ha emanato l’atto impositivo, dall’altro lato, il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 17 e 38 disciplinano un sistema compiuto delle modalità di notifica degli atti del processo tributario e delle sentenze emesse dai Giudici tributali, e l’art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., prevede che la notifica dell’atto possa essere eseguita direttamente alla parte mediante consegna “a mani proprie”, ovvero, in via alternativa, mediante notifica alla stessa parte nel domicilio eletto od in caso di conferimento del mandato ad litem al procuratore domiciliatario.

Sembra opportuno al Collegio evidenziare come l’enunciato principio, che si pone in linea con i richiamati precedenti delle sentenze SS.UU. n. 3116 n. 3118 del 14.2.2006, non contrasta con l’affermazione riportata nella massima CED della SC tratta dal precedente di questa Corte 5 sez. 3.10.2014 n. 20911, secondo cui “agli uffici periferici va riconosciuta la posizione processuale di parte e l’accesso della difesa avanti alle commissioni tributarie, permanemdo la vigenza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11” atteso che in quella causa veniva in questione la distribuzione tra i vari uffici centrali e periferici dell’Agenzia fiscale, secondo le norme attributive della competenza, della legittimazione a resistere in giudizio, mentre nella presente causa viene in questione la individuazione dell’ufficio dell’Agenzia fiscale che riveste la qualità di “parte nel processo” ed al quale, pertanto, può essere validamente notificata la sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, secondo le modalità alternative di notifica sopra indicate.

1.6 La notifica della sentenza della CTR effettuata ad istanza della società contribuente presso la sede dell’Ufficio di Firenze (OMISSIS) (in Firenze via S. Caterina D’Alessandria n. 23) che aveva emesso gli avvisi di accertamento IVA impugnati, anzichè alla Direzione regionale della Toscana (con sede in Firenze via della Fortezza n. 8) costituitasi in giudizio in sostituzione del primo, deve, in conseguenza, ritenersi idonea a far decorrere, nei confronti della Agenzia Entrate, il termine breve ex art. 325 c.p.c. per la proposizione del ricorso per cassazione, dovendo essere considerata inammissibile la impugnazione in quanto proposta oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 62 c.p.c., comma 2 e art. 325 c.p.c., comma 2.

2. Venendo a trattare del ricorso incidentale autonomo, proposto dalla società contribuente osserva il Collegio quanto segue.

2.1 Il primo motivo con il quale si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1 e dell’art. 19 bis.1, comma 1, lett. h), in combinato disposto con l’art. 74, comma 2 TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed il secondo motivo con il quale si deduce il vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sono entrambi inammissibili, il primo, per inosservanza dell’onere di esposizione sommaria dei fatti di causa del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), entrambi per difetto di autosufficienza ed altresì per difetto di interesse alla impugnazione.

2.2 La ricorrente incidentale, premesso di aver offerto in dono ai partecipanti ai convegni dei “fonendoscopi” di valore inferiore al limite di lit. 50.000 (previsto per la deducibilità dal reddito d’impresa delle spese di rappresentanza, dall’art. 74, comma 2 TUIR), si duole che la CTR abbia assoggettato alla medesima disciplina normativa anche altri “oneri soltanto indirettamente correlati ai medesimi donativi e/o aventi natura di costi generali inerenti all’impresa” (cfr. quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.).

2.3 La descrizione della fattispecie controversa è assolutamente carente, non essendo dato individuare la natura ed il contenuto delle prestazioni di servizi di cui si sarebbe avvalsa la società, nè tanto meno l’asserita “accessorietà” delle stesse ai beni consegnati in omaggio: è la stessa società ricorrente incidentale, peraltro, ad introdurre un ulteriore elemento di incertezza laddove ipotizza che le spese in questione possano alternativamente costituire “oneri indirettamente correlati” agli omaggio, ovvero “spese di carattere generale” (nozione in alcun modo esplicitata).

2.4 La sentenza della CTR, peraltro, ha deciso sulla questione controversa alla stregua di due distinte “rationes decidendi”: a) ha negato la detrazione IVA per omessa prova da parte della contribuente del requisito di “inerenza” delle predette spese “generali” all’esercizio dell’attività economica della impresa farmaceutica; b) ha ritenuto non condivisibile “la scissione del costo unitario da quello direttamente afferente (quale il costo della confezione) all’omaggio”.

Entrambi i motivi in esame investono esclusivamente la statuizione sub lett. b), lasciando impregiudicata la statuizione sub lett. a), da sola idonea a giustificare il decisum. In ogni caso qualora si volessero ravvisare due differenti questioni oggetto di decisione (rispettivamente concernenti, le spese generali ritenute non inerenti, e le spese afferenti agli omaggi ritenute superiori al limite di valore indicato), entrambi i motivi sarebbero egualmente da ritenere inammissibili in quanto:

– alcuna prova “decisiva”, ritualmente prodotta nel giudizio di merito, e neppure alcuna descrizione della natura e della entità delle spese sostenute per tali servizi “accessori” è stata fornita dalla ricorrente incidentale, difettando pertanto il necessario requisito di autosufficienza previsto per l’ammissibilità del motivo:

– la statuizione sub lett. b) della sentenza di appello, è errata in diritto, ma corretta nella soluzione giuridica adottata, atteso che la espressa riconducibilità della elargizione di omaggi tra le “spese di rappresentanza” (e non tra le “spese di pubblicità”: art. 74, comma 2 TUIR) deducibili dal reddito d’impresa ai fini delle imposte dirette, non può trovare alcuna corrispondenza in ambito IVA in cui è, invece, espressamente preclusa la detrazione d’imposta delle “spese di rappresentanza” D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 24932 del 06/11/2013, in motivazione, paragr. 10.2). Nella specie non è stato, peraltro, neppure indicato dalla società se i beni consegnati in omaggio contenessero elementi pubblicitari relativi a prodotti farmaceutici o medicinali fabbricati o commercializzati dalla società e se dunque potessero essere valutate come costi di pubblicità, per i quali è consentita senza limitazioni la detrazione IVA sulle fatture passive.

3. Il terzo motivo con il quale si deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia su uno specifico motivo di appello, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 è inammissibile per omessa formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c..

La società lamenta che la CTR non avrebbe pronunciato in ordine al motivo di gravame con il quale si impugnava la decisione di prime cure che aveva ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento che aveva negato la detrazione dell’IVA su fatture emesse in acconto per l’anno 1997 e relative ad acquisti di beni (destinati ad omaggi) perfezionati nel successivo anno 1998.

3.1 La censura è inammissibile atteso che il motivo di ricorso per cassazione, soggetto al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve in ogni caso concludersi con la formulazione di un quesito di diritto idoneo, cioè tale da integrare il punto di congiunzione tra l’enunciazione del principio giuridico generale richiamato e la soluzione del caso specifico, anche quando un “error in procedendo” sia dedotto in rapporto alla affermata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., non essendovi spazio, in base al testo dell’art. 366-bis cod. proc. civ., per ipotizzare una distinzione tra i motivi d’impugnazione associati a vizi di attività a seconda che comportino, o no, la soluzione di questioni interpretative di norme processuali (cfr. Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4329 del 23/02/2009; id. Sez. L, Sentenza n. 4146 del 21/02/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 10758 del 08/05/2013).

4. In conclusione il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile e quello incidentale deve essere rigettato, sussistendo le condizioni per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso principale proposto dalla Agenzia delle Entrate e rigetta il ricorso incidentale proposto dalla società contribuente, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2015


Cass. civ. Sez. VI – 5, Sent., (ud. 07-05-2015) 21-07-2015, n. 15258

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25836/2014 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato MISIANI CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 5111/21/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di ROMA dell’8/07/2014, depositata il 04/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/05/2015 dal Presidente Relatore Dott. MARIO CICALA;

udito l’Avvocato Claudio Misiani difensore del ricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
Il signor S.L. ricorre contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, riformando la sentenza di primo grado, ha rigettato il ricorso con cui il contribuente aveva dedotto la nullità della notifica di un avviso di accertamento effettuata in Roma, a mezzo posta, in un indirizzo (via (OMISSIS)) diverso da quello della residenza anagrafica del contribuente (via (OMISSIS)).

Nella sentenza gravata si legge: “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 e del 2010, laddove giustappunto la residenza anagrafica del S. figura indicata in (OMISSIS), l’Agenzia appellante ha dato conto del proprio assunto, ovvero che il contribuente avesse eletto colà il proprio domicilio fiscale”. Da tale affermazione, la Commissione Tributaria Regionale trae la conclusione della validità della notificazione dell’avviso impugnato, “giustappunto effettuata in quello che figurava il domicilio fiscale del contribuente”.

Il ricorso del contribuente si articola su sei motivi:

– con il primo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso fondando la propria decisione su un fatto (l’avere il contribuente effettuato un’elezione di domicilio) prospettato dall’Ufficio solo nell’atto di appello;

– con il secondo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 47 c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), in cui il giudice territoriale sarebbe incorso affermando che l’indicazione di residenza anagrafica in un indirizzo dimostrerebbe l’intervenuta elezione di domicilio fiscale a tale indirizzo; con il terzo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione degli artt. 2702 e 2721 c.c., e del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, commi 3 e 6, e art. 3, comma 10, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso perchè, a fronte del disconoscimento della conformità delle copie prodotte dall’Agenzia delle dichiarazioni fiscali del contribuente con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, non ha addossato all’Ufficio l’onere di provare detta conformità;

– con il quarto, riferito tanto al n. 5 quanto al n. 4 (con riguardo all’art. 115 c.p.c.) dell’art. 360 c.p.c., si denuncia l’omesso esame della circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che il contribuente non aveva indicato nè residenza nè domicilio nelle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dal suo intermediario per gli anni 2009 e 2010, come documentato dalle “attestazione di avvenuto ricevimento”, rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10, e corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file”;

– con il quinto, riferito tanto al n. 3 (con riguardo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6) quanto all’art. 360 c.p.c., n. 5, si denuncia la violazione del principio, che il ricorrente desume dalle norme richiamate, per il quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe l’onere di verificare presso i registri anagrafici la residenza del contribuente a cui intende notificare un atto; nonchè l’omesso esame del fatto (rilevante ai fini del giudizio di validità della notifica effettuata all’indirizzo di via (OMISSIS) sotto il profilo del rispetto, da parte dell’Ufficio, del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 6, laddove prescrive che la comunicazione degli atti dell’Amministrazione “nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione”) che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’erroneo indirizzo di via (OMISSIS) (avvenuta in data 31/12/10) e precisamente in data 19/10/10, l’Amministrazione aveva notificato altro avviso di accertamento (pur esso relativo al medesimo modello Unico 2006) al corretto indirizzo di via (OMISSIS), dove l’atto era stato consegnato a mani della moglie del contribuente.

– con il sesto, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per inesistenza della motivazione, assumendo che la sentenza gravata non rispetterebbe il minimo costituzionale dell’obbligo di motivazione sia sotto il profilo dell’assoluta omissione di considerazione di fatti di decisiva rilevanza prospettati in giudizio dal contribuente, sia sotto il profilo della confusione tra indicazione di residenza ed elezione di domicilio.

La difesa erariale sì è costituita in questa sede al solo scopo di partecipare all’udienza, alla quale, peraltro, non ha poi presenziato.

La causa è stata discussa all’udienza pubblica del 7/5/15, in cui è intervenuto il difensore del ricorrente che aveva peraltro depositato anche memoria.

Motivi della decisione
Il primo mezzo di ricorso va disatteso, giacché la deduzione che il contribuente aveva effettuato una elezione di domicilio nell’indirizzo di via (OMISSIS) non costituiva un’eccezione in senso tecnico, ma una mera difesa volta paralizzare l’eccezione di nullità della notifica dell’atto impositivo sollevata dal contribuente nel ricorso introduttivo. E’ fermo indirizzo di questa Corte, infatti, che il divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, concerne esclusivamente le sole eccezioni in senso stretto, e non anche le eccezioni improprie o le mere difese, che sono sempre deducibili (da ultimo, Cass. 25756/14).

Il secondo mezzo è inammissibile, perché non pertinente alla ratio decidendi della sentenza gravata, la cui argomentazione risulta travisata dal ricorrente. E’ vero infatti che, come chiarito da questa Corte (cfr. sent. 11081/06), in tema di notificazione degli atti di accertamento tributario, la facoltà del contribuente di “eleggere” domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. “d”) si differenzia dalla semplice “dichiarazione” di domicilio, consistente nell’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica (art. 58, comma 2, D.P.R. cit.), in cui è possibile eseguire le notifiche; ma l’argomentazione della sentenza gravata non fa mai riferimento all’elezione di domicilio in senso tecnico, non parla mai della nomina di un domiciliatario, non cita mai il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. “d”. Il senso complessivo della sentenza gravata, quale risultante dallo stralcio sopra trascritto (e nonostante l’improprietà lessicale dell’affermazione che il contribuente avrebbe “eletto colà il proprio domicilio fiscale”), è dunque palesemente quello di attribuire all’indicazione della residenza anagrafica contenuta nelle dichiarazioni dei redditi relative agli esercizi 2009 e 2010 il valore di una “dichiarazione di domicilio” – vale a dire l’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica, in cui è possibile eseguire le notifiche – e non quello di una vera e propria “elezione di domicilio”, vale a dire la nomina di un domiciliatario.

Con il terzo ed il quarto motivo il contribuente sostanzialmente lamenta che la Commissione Tributaria Regionale per un verso (terzo motivo) avrebbe ignorato il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni fiscali del contribuente prodotte dall’Agenzia con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, e per altro verso (quarto motivo) avrebbe omesso di esaminare la circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che nei files delle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dall’intermediario del contribuente per gli anni 2009 e 2010 non risultava alcuna indicazione nè di residenza nè di domicilio.

Entrambi i motivi – da trattare congiuntamente per la loro intima connessione – risultano fondati.

Per la piena intelligenza delle censure è necessario tener presente che, come riportato nell’esposizione dei fatti di causa svolta nel ricorso per cassazione, nel ricorso introduttivo di primo grado il contribuente contestò la validità della notifica dell’atto impositivo impugnato sulla scorta delle seguenti deduzioni di fatto:

a) detta notifica era stata effettuata per compiuta giacenza, presso l’ufficio postale, del plico raccomandato contenente l’atto impositivo impugnato e l’avviso di giacenza era stato lasciato nella cassetta postale di un appartamento (l’interno 2) di uno stabile di via (OMISSIS);

b) esso contribuente non aveva mai avuto la residenza nè il domicilio in via (OMISSIS) ed era ininterrottamente residente in via (OMISSIS) dal 2001;

c) esso contribuente aveva indicato l’indirizzo di via (OMISSIS) come quello di propria residenza nel modello Unico 2006, lasciando in bianco lo spazio relativo all’indicazione della residenza nelle dichiarazioni dei redditi successive proprio perchè la residenza non era variata rispetto a quella risultante dal modello Unico 2006; l’indirizzo di via (OMISSIS) era peraltro stato indicato dal contribuente come propria residenza nel modello AA9/8, di apertura e chiusura della partita IVA in relazione ad un periodo di attività professionale esercitata dal gennaio 2008 al novembre 2010;

Alle controdeduzioni dell’Agenzia – nelle quali si affermava che l’indirizzo di via (OMISSIS) risultava indicato come residenza anagrafica del contribuente sia nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2010 e nel 2009, sia nel summenzionato modello AA9/8 – esso contribuente aveva replicato, con memorie depositate nel giudizio di primo grado l’I 1/6/12 e il 14/12/12, per un verso, evidenziando che dalla copia autentica del modello AA9/8, allegata al ricorso introduttivo, risultava che in tale modello l’indirizzo di residenza anagrafica era stato indicato in via (OMISSIS) e, per altro verso, contestando la conformità all’originate delle “copie” delle dichiarazioni 2009 e 2010 prodotte dall’Ufficio.

Con riferimento a queste ultime, in particolare, il contribuente – argomentando che non si trattava di copie in senso tecnico, bensì di trascrizioni in forma cartacea di una combinazione di dati trasmessi dal contribuente e di dati inseriti dal sistema ai fini di informatizzazione – aveva contro dedotto, davanti al giudice di prime cure, che il dato relativo alla residenza anagrafica in via (OMISSIS) non proveniva dal contribuente ma dal sistema informatico dell’Agenzia (e, precisamente, dal cosiddetto “cassetto fiscale”), nel quale tale dato era stato inserito per un errore di lettura del suddetto modello AA9/8 (il cui originale cartaceo era stato, come sopra riferito, prodotto in giudizio); errore fatto palese dal rilievo che, nel cassetto fiscale, l’erronea indicazione dell’indirizzo del contribuente in via Lorenzo il Magnifico 119 era corredata dall’annotazione “a decorrere dal 10/1/08” – fonte “Collegamento IVA”.

Sulle controdeduzioni svolta dal contribuente l’Ufficio non aveva preso posizione e la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente sulla scorta di una duplice ratio decidendi consistente:

1) da un lato, nell’accertamento in fatto che l’Agenzia non aveva fornito la prova dell’asserita indicazione da parte del contribuente dell’indirizzo di via (OMISSIS);

2) d’altro lato, nell’affermazione di diritto che, in mancanza di elezione di domicilio D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, comma 1, lett. d), ai fini della notifica degli atti impositivi l’amministrazione finanziaria era onerata di accertare l’attuale residenza anagrafica del contribuente, potendo la stessa essere variata rispetto a quella indicata nell’ultima dichiarazione dei redditi.

Così ricostruiti fatti di causa, osserva il Collegio che l’affermazione sulla cui base la Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello dell’Agenzia contro la sentenza di prime cure, ossia l’affermazione secondo la quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe provato che il contribuente aveva dichiarato il proprio domicilio in via (OMISSIS) “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 del 2010”, è censurabile sotto entrambi i profili sviluppati, rispettivamente, nel terzo nel quarto motivo di ricorso. Quanto al profilo sviluppato nel terzo motivo, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata trascura completamente il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni dei redditi prodotte dall’Agenzia ai files delle medesime dichiarazioni teletrasmessi dall’intermediario; disconoscimento che il contribuente aveva operato nel giudizio di primo grado – producendo la “attestazione di avvenuto ricevimento” del file (rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10) corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” – ed aveva poi ribadito nel punto 4 delle controdeduzioni in appello, come precisato, in osservanza del principio di autosufficienza, a pagina 12 del ricorso per cassazione.

Quanto al profilo sviluppato al quarto motivo quarto motivo di ricorso, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata risulta palesemente apodittica, giacchè il giudice territoriale omette completamente di esaminare la deduzione di fatto del contribuente secondo la quale nei files delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010 teletrasmessi all’Ufficio non sarebbe stato indicato alcun indirizzo di residenza nè di domicilio e, quindi, di vagliare la documentazione prodotta fin dal primo grado di giudizio a sostegno di tale deduzione, vale a dire la “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” scaricata dal “Servizio telematico di presentazione delle dichiarazioni”. Il terzo e quarto motivo vanno pertanto accolti.

Il quinto mezzo va disatteso tanto con riferimento alla censura di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6, quanto con riferimento alla censura di omesso esame di fatti decisivi.

Sotto il primo profilo, osserva il Collegio che il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, (alla cui stregua le variazioni e modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notifiche degli atti dell’Amministrazione finanziaria, ancorché soltanto del trentesimo giorno successivo alla variazione anagrafica) non autorizza la conclusione che – dovendo in ogni caso l’Ufficio, prima di notificare un atto al contribuente, controllare, mediante una verifica sui registri anagrafici, l’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi – detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti dell’Amministrazione finanziaria.

Tale interpretazione renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prescritta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, e urterebbe contro il consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza (o di un proprio domicilio in un indirizzo diverso da quello di residenza, ma nell’ambito del medesimo comune ove il contribuente è fiscalmente domiciliato) va effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (vedi Cass. nn. 5358/06, 11170/13, 26715/13, nella quale ultima si legge: “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Sulla scorta di tali considerazioni deve allora affermarsi che altro è il caso di un cambio di residenza e altro è il caso di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi; in quest’ultimo caso, infatti, la notificazione che si sia perfezionata presso l’indirizzo indicato nella dichiarazione dei redditi (anche quando, come nella specie, il perfezionamento della notifica avvenga tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto in casa comunale) deve considerarsi valida, nonostante che tale indicazione sia difforme (non importa se per da errore o per malizia) rispetto alle risultanze anagrafiche.

Alla stregua di tale principio deve poi giudicarsi inammissibile la censura di omesso esame del fatto che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’indirizzo di via (OMISSIS), altro avviso di accertamento era stato validamente notificato all’indirizzo di via (OMISSIS), difettando, per le indicate ragioni di diritto, il requisito della decisività del fatto.

Parimenti infondato, infine, va giudicato il sesto mezzo di ricorso, giacché la motivazione della sentenza gravata esplicita il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione Tributaria Regionale, fermi restando i vizi che tale percorso inficiano in relazione ai profili sollevati nel terzo e nel quarto mezzo di gravame. In definitiva il ricorso va accolto relativamente al terzo e quarto mezzo, disattesi gli altri, e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio perché questa rinnovi l’accertamento della circostanza che il contribuente avrebbe indicato la propria residenza in via Lorenzo il Magnifico 119 nei files teletrasmessi delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010.

Il giudice di rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo ed il quarto mezzo di ricorso, respinge gli altri e cassa la sentenza gravata; rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2015


Corte cost., Sent., (data ud. 23/06/2015) 16/07/2015, n. 170

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Alessandro CRISCUOLO Presidente

– Paolo Maria NAPOLITANO Giudice

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Mario Rosario MORELLI “

– Giancarlo CORAGGIO “

– Giuliano AMATO “

– Silvana SCIARRA “

– Daria de PRETIS “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza del 21 maggio 2014, e dal Consiglio superiore della magistratura − sezione disciplinare, con ordinanza del 14 luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 182 e 204 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 45 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di D.P.M. e di M.T.;

udito nell’udienza pubblica del 23 giugno 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Gianfranco Iadecola e Carmine Di Zenzo per D.P.M. e Francesco Saverio Marini per M.T.

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio di legittimità – promosso avverso la sentenza con cui la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato il ricorrente responsabile dell’incolpazione di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, infliggendogli le sanzioni della censura e del trasferimento di sede, perché, quale magistrato con funzioni di giudice aveva (con negligenza inescusabile) omesso di dichiarare tempestivamente la perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari di due imputati, con un ritardo di cinquantasei giorni per entrambi – la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza emessa il 21 maggio 2014 (iscritta al n. 182 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo.

La norma – che al primo periodo dispone che “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – viene censurata, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, e limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, là dove, nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

Il Collegio rimettente afferma (in termini di rilevanza) la non fondatezza dei motivi di impugnazione svolti dal ricorrente. Sulla base della propria giurisprudenza, la Corte di cassazione esclude, da un lato, che la menzionata lettera a) del comma 1 dell’art. 2 riguardi solo comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti e non già le condotte colpose riferite (come nella specie) al difetto del dovere di diligenza. E rileva, dall’altro, come la non configurabilità della scarsa rilevanza del fatto, di cui all’art. 3-bis del medesimo d.lgs. sia stata adeguatamente vagliata e motivata dal giudice a quo.

Nel merito, le sezioni unite rimettenti osservano che – vigente la regola in base alla quale, per tutti gli illeciti puniti con una sanzione diversa da quella minima, l’irrogazione della ulteriore sanzione del trasferimento è facoltativa e condizionata all’accertamento dell’incompatibilità della permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia – solo nel caso delle violazioni previste dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 2, il trasferimento stesso deve essere sempre e comunque disposto, con un meccanico automatismo che si pone in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Per il Collegio a quo – a fronte di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale – imporne indefettibilmente l’irrogazione come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi di ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”) comporta l’equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari. I quali sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Pertanto, al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’applicazione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

2.− Si è costituito D.P.M., il magistrato ricorrente nel giudizio a quo, che, in via principale, contesta il principio di diritto affermato dalla Corte rimettente, nella parte in cui esclude la configurabilità di qualsiasi rapporto di specialità tra le violazioni disciplinari di cui alle lettere a) e g) dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, ed afferma che le violazioni sanzionate sub lettera a) abbiano natura non solo dolosa ma anche colposa.

In subordine, la parte privata costituita concorda con le argomentazioni svolte a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, rimarcando il vulnus ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza arrecato da un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte sanzionabili indiscriminatamente, ai sensi del citato art. 2, comma 1, lettera a), con identico rigore e severità a prescindere dal disvalore delle specifiche violazioni consumate dal magistrato e dalle loro rilevanza dolosa o colposa.

3.− Nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un magistrato – incolpato degli illeciti disciplinari previsti, tra l’altro, dagli artt. 1 e 2, comma 1, lettere a) e g), del D.Lgs. n. 109 del 2006 (perché incorso, contro i doveri di diligenza e correttezza, in qualità di giudice delegato alla procedura fallimentare relativa ad una srl dichiarata fallita con sentenza del Tribunale, “in grave violazione di legge dovuta a negligenza inescusabile, disattendendo le disposizioni di cui agli artt. 25 e 31 L.F. che prevedono – ratione temporis – obblighi di direzione, oltre che di controllo e vigilanza, sull’operato del curatore fallimentare, determinando un ingiusto danno ai creditori del fallimento, consistito nel mancato incasso integrale di un credito IVA di elevatissimo valore nominale”) – la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza emessa il 14 luglio 2014 (iscritta al n. 204 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

La rimettente – “Considerato, ai fini della valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, prospettata anche dalla Procura Generale, che nel caso di specie la Sezione disciplinare ravvisa un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza” – ritiene che la questione in esame non sia manifestamente infondata proprio alla luce di quanto condivisibilmente osservato dalla sopra riportata ordinanza di rimessione delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, da “intendersi integralmente richiamata”.

4.− Si è costituito il magistrato incolpato nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione.

La parte, in particolare, osserva che – poiché il menzionato art. 2, comma 1, lettera a), contempla una vasta gamma di illeciti disciplinari, che comprendono anche comportamenti non tipizzati, inerenti la violazione da parte del magistrato dei generici doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità ed equilibrio (ovvero comportamenti che, ancorché legittimi, compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro dell’istituzione giudiziaria) di cui al precedente art. 1, punibili sia a titolo di dolo che di colpa – l’automatismo previsto dalla norma censurata non consente alla sezione disciplinare di valutare la gravità dell’addebito contestato, l’eventuale intensità del dolo o della colpa, la gravità o meno della negligenza, il pregiudizio effettivamente arrecato al prestigio della amministrazione giudiziaria, l’entità del danno o del vantaggio arrecati ad una delle parti. Sicché (richiamata la giurisprudenza costituzionale in materia) la parte ribadisce che detto automatismo vulnera il principio di razionalità connesso a quello di indispensabile gradualità sanzionatoria, che presuppone la necessità della valutazione della condotta del soggetto e la verifica della effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla previsione sanzionatoria.

Considerato in diritto

1.− La Corte di cassazione, sezioni unite civili, e la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura censurano – per violazione dell’art. 3 della Costituzione – l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), che dispone l’obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), dello stesso d.lgs.

2.− I giudizi, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3.− Preliminarmente, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

La rimettente – trascritta l’incolpazione oggetto del procedimento disciplinare sottoposto al suo giudizio, e rilevato che “con ordinanza interlocutoria n. 11228 del 2014, la Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 13, comma 1, secondo periodo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, in relazione all’art. 3 Cost.” – si limita, da un lato, ad affermare la rilevanza della questione (ravvisando, in concreto, “un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza”); e, dall’altro lato, in termini di non manifesta infondatezza, a riportarsi a “quanto condivisibilmente osservato dalla richiamata ordinanza interlocutoria n. 11228/2014 della Corte di cassazione che qui deve intendersi integralmente richiamata”.

Ove anche si volesse prescindere (in termini di sufficienza della motivazione circa la rilevanza della questione nel giudizio a quo) dalla portata non del tutto esauriente della assai sintetica argomentazione svolta in tal senso – in base alla quale la riconducibilità della condotta ascritta all’incolpato alla fattispecie di cui alla lettera a), comma 1, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006 (e di conseguenza anche al dovere di applicare la sanzione accessoria previsto dalla norma censurata) si evince solo indirettamente, in ragione della mera affermazione della configurabilità, nel caso concreto, dei presupposti della negligenza e del danno ingiusto, che caratterizzano detta ipotesi sanzionatoria rispetto a quella contemplata dalla successiva lettera g) – viceversa, quanto al requisito della non manifesta infondatezza della questione, la sezione disciplinare rimettente ha esclusivamente fatto riferimento al contenuto argomentativo della richiamata ordinanza di rimessione pronunciata, in altro processo, dal giudice di legittimità.

Orbene, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude che, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi, sia ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Infatti, il principio di autonomia di ciascun giudizio di costituzionalità in via incidentale, quanto ai requisiti necessari per la sua valida instaurazione, e il conseguente carattere autosufficiente della relativa ordinanza di rimessione, impongono al giudice a quo di rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza, non potendo limitarsi ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del processo principale (ex plurimis, sentenze n. 49, n. 22 e n. 10 del 2015; ordinanza n. 33 del 2014), ovvero anche in altre ordinanze di rimessione emanate nello stesso o in altri giudizi (sentenza n. 103 del 2007; ordinanze n. 156 del 2012 e n. 33 del 2006).

4.− Dal canto loro, le sezioni unite civili della Corte di cassazione censurano l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, che – rispetto alla previsione generale del primo periodo dello stesso articolo, in base al quale “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

La Corte rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza e disparità di trattamento, poiché imporre indefettibilmente l’irrogazione di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo e morale e materiale, come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi a ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”), comporta l’irragionevole equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari, che sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Con la conseguenza che al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’inflizione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

Il giudice a quo chiede, quindi, la declaratoria di incostituzionalità della norma, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, così da determinare l’eliminazione (dal contenuto precettivo della disposizione censurata) della automatica applicabilità della sanzione accessoria del trasferimento nel caso di accertamento delle sole violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), con l’effetto di far riespandere anche rispetto alla fattispecie punitiva de qua la regola generale prevista dal primo periodo della stessa norma.

5.− Preliminarmente, vanno rigettate le obiezioni (peraltro non tradotte in una formale eccezione di irrilevanza della questione) mosse dalla parte costituita, che ripropone nel giudizio di costituzionalità le medesime difese svolte a sostegno del primo motivo di ricorso in cassazione. Con esso, il ricorrente lamentava che la sezione disciplinare, nell’escludere che il fatto, come contestato, potesse essere sanzionabile alternativamente ai sensi, sia della lettera a), sia della lettera g) del comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, avesse erroneamente ritenuto la sussistenza della prima anziché della seconda di tali disposizioni; e conseguentemente avesse irrogato, oltre alla censura, anche la sanzione del trasferimento di sede, comminata dall’art. 13 dello stesso decreto legislativo come effetto automatico di “una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a)”. Tale tesi difensiva viene basata dalla parte sulla ritenuta specialità della ipotesi disciplinare sub lettera g) rispetto a quella di cui alla lettera a), applicabile unicamente in caso di comportamenti del magistrato “contrassegnati da intenzionalità volitiva dei suoi doveri primari … e non da mera colpa”: configurandosi da ciò “ragioni ed argomenti per avallare una lettura ispirata a ragionevolezza”, onde escludere nella fattispecie l’applicabilità della ipotesi disciplinare di cui alla lettera a) e quindi anche della sanzione accessoria.

5.1.− Questa Corte rileva che, viceversa, nel contesto dell’ordinanza di rimessione, ad espressa confutazione di tali argomentazioni, le sezioni unite civili hanno sottolineato espressamente, da un lato, come (riguardo alla specifica ipotesi di ritardo nella scarcerazione di imputati o indagati) la propria giurisprudenza si sia “stabilmente orientata nel senso che le previsioni delle lettere a) e g) dell’articolo 2, comma 1 del D.Lgs. n. 109 del 2006 sono entrambe contestualmente applicabili, poiché non sussiste tra loro un rapporto di specialità, che comporti l’esclusione dell’una o dell’altra” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 29 luglio 2013, n. 18191, 22 aprile 2013, n. 9691 ed 11 marzo 2013, n. 5943). E, dall’altro, come, alla stregua della suddetta giurisprudenza, risulti “altresì da disattendere l’assunto del ricorrente, secondo cui la lettera a) attiene soltanto a comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”; ciò in quanto tale disposizione configura l’illecito disciplinare di cui si tratta come conseguente alle violazioni dei “doveri di cui all’articolo 1” (secondo cui “Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni”), tra le quali sono certamente comprese anche quelle colpose, in quanto riferite, tra l’altro, al dovere della “diligenza” nell’esercizio delle funzioni attribuite al magistrato.

La Corte rimettente, dunque (nel rigettare i motivi addotti dal ricorrente a sostegno della impugnazione, ed in tal modo qualificando il fatto ascritto all’incolpato, oltre che escludendone la scarsa rilevanza), ha confermato integralmente il giudizio espresso dalla sezione disciplinare, che aveva ritenuto appunto applicabile la lettera a), comma 1, dell’art. 2, a fronte del difetto di diligenza addebitato al magistrato, per non essersi avveduto della scadenza del termine massimo della misura degli arresti domiciliari, cui erano sottoposte due persone nei cui confronti procedeva il suo ufficio, in un procedimento a lui affidato.

Dal mancato accoglimento delle ragioni addotte quali motivi di impugnazione – articolato sulla base di uno sviluppo argomentativo del tutto coerente, fondato su una interpretazione in sé non implausibile – consegue, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, essendo il Collegio rimettente chiamato ad applicare la misura del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio nel modo prescritto dalla norma censurata.

6.− Nel merito la questione è fondata.

6.1.− La giurisprudenza di questa Corte è da tempo costante nell’affermare come il “principio di proporzione”, fondamento della razionalità che domina “il principio di eguaglianza”, postuli l’adeguatezza della sanzione al caso concreto; e come tale adeguatezza non possa essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito, valutazione che soltanto il procedimento disciplinare consente (sentenze n. 447 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988).

Ferma, dunque, restando la discrezionalità del legislatore di prevedere l’indefettibile adozione di sanzioni accessorie, quando ciò sia giustificato dalla peculiarità della situazione fattuale generatrice dell’illecito, nonché dalla sussistente correlazione tra tale situazione e la gravità della sanzione (sentenza n. 112 del 2014), l’ordinamento è orientato verso la tendenziale esclusione di previsioni sanzionatorie rigide, la cui applicazione non sia conseguenza di un riscontrato confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto, e rispetto alle quali l’indispensabile gradualità applicativa non sia oggetto di specifica valutazione nel naturale contesto del procedimento giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012 e n. 363 del 1996) ovvero in quello disciplinare (ex plurimis, sentenze n. 329 del 2007, n. 212 e n. 195 del 1998, n. 363 del 1996).

D’altronde, data la ratio di tale orientamento, non ci sono motivi per escluderne l’applicazione nei confronti dei magistrati; riguardo ai quali, peraltro, nei suoi interventi normativi, il legislatore (fermo il presupposto della spettanza del potere disciplinare al Consiglio superiore della magistratura, e l’attribuzione del suo esercizio alla sezione disciplinare) è stato indotto a configurare tale procedimento “secondo paradigmi di carattere giurisdizionale” (sentenza n. 497 del 2000) per l’esigenza precipua di tutelare in forme più adeguate specifici interessi e situazioni connessi allo statuto di indipendenza della magistratura (sentenze n. 87 del 2009 e n. 262 del 2003).

6.2.− Ciò premesso, va (sotto altro profilo) sottolineato che l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 109 del 2006, si configura quale “norma di parziale chiusura” del sistema disciplinare in cui la compatibilità tra la previsione di un precetto cosiddetto “a condotta libera” ed il principio informatore di tipicità della riforma risulta assicurata dallo specifico riferimento dei “comportamenti” sanzionabili ai doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, nonché a quelli di rispetto della dignità della persona, cui il magistrato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, deve improntare la propria condotta nell’esercizio delle proprie funzioni (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3669).

Peraltro, va altresì rilevato che le ipotesi trasgressive de quibus configurano fattispecie di illecito “di evento”, in cui, non diversamente da quanto si verifica in campo penale per analoghe figure di reato, la consumazione non si esaurisce con la condotta tipica, ma esige che si verifichi un “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”, ossia un concreto accadimento lesivo, in danno del soggetto passivo, che costituisca la conseguenza diretta dell’azione o omissione vietata (anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, 22 aprile 2013, n. 9691 e 11 marzo 2013, n. 5943, già citate).

Risulta, quindi, di agevole constatazione il fatto che vi sono violazioni dei doveri del magistrato, stabiliti dall’art. 1 del medesimo decreto (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, rispetto della dignità della persona), che pur non traducendosi in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile, tuttavia arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti, e sono pertanto perseguibili a norma della lettera a), comma 1, dell’art. 2 del decreto (in tal senso, anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, n. 5943 del 2013, citata).

6.3.− Orbene, nonostante l’ampio ventaglio dei possibili “comportamenti” caratterizzati da siffatti requisiti, la cui configurabilità in termini di illecito disciplinare non richiede una particolare connotazione di gravità, né uno specifico grado di colpa, quella di cui alla lettera a) costituisce l’unica ipotesi, tra le molteplici, di illecito funzionale (tutte tipizzate dall’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006) alla quale consegue – come ulteriore sanzione imposta dalla norma censurata – l’obbligatorio trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio del magistrato condannato.

La necessaria adozione di tale misura punitiva appare basata su una presunzione assoluta, del tutto svincolata – oltre che dal controllo di proporzionalità da parte del giudice disciplinare – anche dalla verifica della sua concreta congruità con il fine (ulteriore e diverso rispetto a quello repressivo dello specifico illecito disciplinare) di evitare che, data la condotta tenuta dal magistrato, la sua permanenza nella stessa sede o ufficio appaia in contrasto con il buon andamento della amministrazione della giustizia (come, invece previsto dalla regola generale disciplinata dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006).

Ne consegue, da un lato, un vulnus al principio di uguaglianza, derivante dal diverso (e più grave) trattamento sanzionatorio riservato (senza alcun concreto riferimento alla gravità dell’elemento materiale ovvero di quello psicologico) al solo illecito funzionale de quo; dall’altro lato, l’irragionevolezza della deroga alla regola posta dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006, giacché la ratio della soluzione normativa scrutinata non sembra potersi rinvenire neppure in una particolare gravità dell’illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell’interesse protetto; laddove siffatti parametri sembrerebbero doversi ritenere significativi (quali indici di adeguatezza dell’intervento repressivo della condotta illecita) non solo in sede di giudizio di colpevolezza e irrogazione della pena principale, ma anche nella determinazione della sanzione accessoria.

Ciò tanto più in quanto tale sanzione comporta un effetto molto gravoso per il magistrato, giacché concreta una eccezione alla regola della inamovibilità, che incide direttamente sul prestigio e sulla credibilità dello stesso. Invero non pare trascurabile – in una cornice che, doverosamente, privilegii il principio di necessaria adeguatezza tra il “tipo” di sanzione e la “natura” e “gravità” dell’illecito disciplinare (ontologicamente diversificato in ragione della varietà delle condotte addebitabili) – la circostanza che la misura obbligatoria del trasferimento di ufficio si aggiunge alla sanzione disciplinare tipica, aumentandone significativamente la portata afflittiva, anche sul piano del prestigio personale (non scisso da quello professionale) che il magistrato condannato vedrà significativamente compromesso, attesa la rilevanza esterna che la misura stessa presenta (si pensi alla pubblicità del trasferimento in una media o piccola sede giudiziaria). Il tutto, non senza sottolineare ulteriormente come la misura del trasferimento, ove non congruamente supportata da valide ragioni che la rendano “funzionalmente” giustificata, potrebbe finire per profilare aspetti di dubbia compatibilità con lo stesso principio di inamovibilità dei giudici costituzionalmente sancito dall’art. 107 Cost.

6.4.− L’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006 va, dunque, dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2015.

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2015.


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-03-2015) 22-05-2015, n. 10543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30242-2011 proposto da:

CHARLES PHILIPPE PRESSE SOCIETA’ (OMISSIS), in persona del legale rappresentante p.t. sig. B.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato DE CURTIS CLAUDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati DI SALVATORE SALVATORE, CARMINE RUSSO, ENRICO BONELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

LEONARDO PUBLISHING SRL IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS), in persona del liquidatore D.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PUCCINI 10, presso lo studio dell’avvocato FERRI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAFARO MARINA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 18/10/2011 R.G.N. 1694/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito l’Avvocato MARIO FERRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – La srl Leonardo Publishing – poi in liquidazione – ottenne il 10.2.09 ingiunzione di pagamento in danno della Presse Charles Philippe dal tribunale di Parma per Euro 46.570,03 e, dichiaratane l’esecutività (con ordinanza 21.10.09) per inesistenza della notifica dell’opposizione dell’ingiunta in quanto eseguita a mezzo fax, la creditrice conseguì, riguardo ad essa, certificato di titolo esecutivo europeo in data 20.4.11.

La debitrice presentò istanza di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004, che fu però respinta con provvedimento del 23.6.11: il reclamo avverso il quale fu rigettato dalla corte di appello di Bologna.

Per la cassazione di quest’ultimo provvedimento, reso il 18.10.11 in proc. n. 1694/11 r.g., ricorre oggi, affidandosi a due motivi illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., la Presse Charles Philippe; resiste, con controricorso, la Leonardo Publishing srl in liq.ne.

Motivi della decisione
2. – La ricorrente, che fonda la sua difesa sull’inesistenza o nullità insanabile della notifica del decreto ingiuntivo n. 304/09 poi munito del certificato di titolo esecutivo europeo, articola due motivi.

2.1. Con il primo motivo, la Presse Charles Philippe si duole di violazione di legge – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 18, comma 2, del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007 – violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Al riguardo, essa:

– ripropone la censura di violazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007, in quanto la notifica avrebbe dovuto seguire – a prevalenza di norme contenute in trattati bilaterali o nelle Convenzioni di Bruxelles del 27.9.68 e dell’Aja del 15.11.65 – unicamente a mezzo degli allegati standard al Regolamento stesso e tramite l’organo specificamente designato dallo Stato richiesto della notifica (nella specie, ufficiale giudiziario francese), anzichè – come nella specie accaduto – direttamente a mezzo posta;

– si duole dell’omessa pronunzia su tale eccezione ad opera della corte di appello;

– contesta la reputata sanabilità di un tale vizio, essendo malamente applicata la previsione di sanatoria di cui all’art. 18 del Regolamento n. 805 sul titolo esecutivo europeo, non contenuta però nel Regolamento n. 1393, successivo e speciale rispetto al primo.

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge – violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 2, Regolamento CE n. 805/2004 – violazione dei principi in tema di inesistenza delle notificazioni – violazione degli artt. 156 e 160 c.p.c. (in relazione all’art. 160 c.p.c., n. 3) – omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

Al riguardo, essa:

– nega essersi instaurato un procedimento giudiziario nel quale, indicata come debitrice, sia stata coinvolta in tempo utile per potersi difendere, attesa la riscontrata inesistenza della notifica dell’opposizione da essa proposta (che pare riferire alla stessa consegna dell’atto ed alla conoscenza legale dello stesso) e quindi per la mancata verifica dell’inesistenza a monte della notifica dello stesso decreto ingiuntivo;

– sottolinea mancare quest’ultima di tutti gli estremi dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati;

– sostiene che la combinata inesistenza delle due notifiche – del decreto ingiuntivo e dell’opposizione – ha impedito l’instaurazione di qualunque valido rapporto processuale;

– nega la sanatoria della prima inesistenza e l’applicabilità di qualunque conversione, diffondendosi sui rimedi concessi al debitore apparente e sulle conseguenze della prima sugli sviluppi processuali successivi.

3. – La controricorrente, premesso un richiamo alla non impugnabilità espressa del titolo esecutivo europeo ai sensi dell’art. 10, comma 3 del Regolamento n. 805, ribatte:

– quanto al primo motivo: che la corte territoriale ha preso in esame la doglianza lamentata come pretermessa, avendo ritenuto sanata la nullità originaria della notificazione diretta a mezzo posta, anzichè a mezzo ufficiale giudiziario francese; che va presa a riferimento, ai fini dell’art. 10 comma 1, lett. b), del Regolamento, la disciplina di quest’ultimo, pienamente rispettata con riguardo alle norme minime procedurali sulla configurabilità della non contestazione ad opera del debitore; che sul punto il debitore è stato posto in grado di opporsi, non rilevando che egli abbia poi male usato il relativo potere, sì da incorrere nell’estinzione del giudizio di opposizione in forza di un provvedimento coperto da giudicato formale e sostanziale anche per la successiva inerzia di esso ingiunto; che, al riguardo, del tutto idonea era la consegna di copia del monitorio all’ingiunta presso il suo recapito, eseguita a mezzo posta a termini degli artt. 13 e 14 del Regolamento n. 805;

– quanto al secondo motivo: che la notifica del monitorio ben poteva avere luogo a mezzo posta, ai sensi proprio del Regolamento n. 805/2004; che eventuali vizi di notifica ben potevano essere superati ai sensi dell’art. 18 di quest’ultimo, ove il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostri che egli abbia ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per difendersi; che in effetti l’ingiunta aveva iscritto – peraltro tempestivamente – a ruolo l’opposizione al decreto ingiuntivo, prendendo posizione nel merito delle pretese avanzate contro di essa; che pertanto l’inesistenza della sua notifica – dipendendo dall’evidente difettosità dell’attività processuale successiva di cui egli era onerato – non inficia la piena possibilità, di cui ha potuto godere il debitore, di conoscere l’atto e di difendersi da esso.

4. – Il presente ricorso per cassazione, siccome dispiegato avverso il provvedimento, reso in camera di consiglio, dalla corte di appello sul reclamo avverso il diniego di revoca del (certificato di) titolo esecutivo europeo, è inammissibile per difetto del requisito di decisorietà e di definitività di quel provvedimento.

5. – Va premesso che, con il titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, un titolo esecutivo – giudiziale o stragiudiziale – formatosi in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca, secondo quanto previsto dall’art. 2, comma o par. 3 del Regolamento stesso) può essere munito di uno speciale certificato che lo rende idoneo a fondare, quale titolo esecutivo appunto, un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell’Unione.

La ratio dell’intera normativa è, con evidenza ricavabile dai considerando premessi al testo, l’agile apprestamento di uno strumento di facile e pronta eseguibilità in tutto il territorio dell’Unione sol che al debitore sia stata data la possibilità di contestare adeguatamente la pretesa della controparte e che di questa facoltà non si sia avvalso o non si sia avvalso fruttuosamente.

Importante tappa (verso il traguardo, di recente attinto, della definitiva soppressione di qualunque necessario controllo successivo da parte dello Stato membro richiesto dell’esecuzione, consacrato dal più recente Regolamento n. 1215/2012, divenuto efficace dal 10.1.15) nella creazione ed integrazione dello spazio giuridico europeo, esso comporta l’anticipazione a monte e cioè da parte dello Stato in cui si forma il titolo – con abbandono del tradizionale sistema dell’exequatur o del controllo a valle da parte dello Stato richiesto dell’esecuzione, per quanto sempre più attenuato o facilitato o perfino eventualizzato – del controllo di idoneità del titolo stesso a fungere da base legale di un processo esecutivo in altro Stato membro come se fosse stato lì emesso, sol che l’Autorità dello Stato in cui esso è formato rilevi la sussistenza di alcuni presupposti:

– in via preliminare, la non operatività degli speciali ambiti di esclusione previsti, non applicandosi il Regolamento in materia fiscale, doganale, amministrativa, di responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri, in materia di stato e capacità delle persone, di regime patrimoniale tra i coniugi, di testamenti e successioni, fallimenti e procedure concorsuali, sicurezza sociale ed arbitrato; e comunque nel rispetto delle norme in tema di competenza giurisdizionale espressamente previste, tra cui quelle in tema di assicurazioni e di contratti dei consumatori;

– in via principale, la non contestazione del credito pecuniario;

– ancora, il rispetto di norme procedurali minime (cc.dd. minima standard) all’interno del procedimento al cui esito il titolo è stato pronunziato, volte a dare contezza delle possibilità, per il debitore, di contestare la pretesa avversaria.

Nessun controllo sul merito o sul rito del titolo esecutivo è mai consentito al giudice dello Stato richiesto dell’esecuzione e questa non può essere negata, tranne l’eccezionale evenienza del conflitto con altra pronunzia tra le stesse parti (ovvero forse anche, ma soltanto in via di interpretazione e non senza contrasti, in quella di eventi sopravvenuti alla definitività del titolo).

Ai fini della qualifica di credito non contestato idoneo al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, il detto Regolamento (art. 3) esige:

– che il debitore quel credito non abbia mai contestato nel corso del procedimento giudiziario, in conformità alle relative procedure giudiziarie previste dalla legislazione dello Stato membro di origine;

ovvero:

– che il debitore non sia comparso o non si sia fatto rappresentare in un’udienza relativa a un determinato credito pur avendolo contestato inizialmente nel corso del procedimento, sempre che tale comportamento equivalga a un’ammissione tacita del credito o dei fatti allegati dal creditore secondo la legislazione dello Stato membro d’origine.

6. – Il titolo esecutivo europeo non corrisponde allora ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè:

– da un lato, un titolo esecutivo domestico o nazionale, stragiudiziale (con alcune peculiarità e conseguenti esenzioni, indicate nei commi o par. 3 degli artt. 24 e 25 del Regolamento) oppure reso all’esito di una procedura giudiziale nazionale tipica, nella quale però siano state osservate, se del caso in aggiunta rispetto alle forme minimali sufficienti per la legislazione nazionale, norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione di concezione eurounitaria da parte del debitore ingiunto;

– dall’altro lato, un provvedimento formale che tale rispetto appunto riscontri e certifichi, provvedimento che esso solo potrà definirsi il vero e proprio certificato di titolo esecutivo europeo, evidentemente come quid pluris rispetto al primo.

Ma neppure l’eventuale mancato rispetto delle norme procedurali minime osta al rilascio del certificato (art. 18, comma o par. 1, del Regolamento n. 805 del 2004) se:

– la decisione sia stata notificata al debitore secondo le norme di cui agli artt. 13 o 14 del Regolamento stesso;

– ed il debitore abbia avuto la possibilità di ricorrere contro la decisione per mezzo di un riesame completo e sia stato debitamente informato con la decisione o con un atto ad essa contestuale delle norme procedurali per proporre tale ricorso, compreso il nome e l’indirizzo dell’istituzione alla quale deve essere proposto e, se del caso, il termine previsto;

– ed infine il debitore non abbia impugnato la decisione di cui trattasi conformemente ai relativi requisiti procedurali.

Ed ancora (art. 18, comma o par. 2, del Regolamento), neppure l’inosservanza, nel procedimento svoltosi nello Stato membro d’origine, dei requisiti procedurali di cui agli art. 13 o 14 osta al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo se il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostra che questi ha ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per potersi difendere.

– da un lato, esclude espressamente (art. 10, comma o par. 4) ogni impugnazione del certificato di titolo esecutivo europeo, cioè del (solo) provvedimento con cui lo Stato membro di origine attesta appunto la ricorrenza dei presupposti per la circolazione intraeuropea del titolo esecutivo domestico;

– dall’altro lato, ne ammette pure – ai sensi dell’art. 10, comma o par. 1, lett. b) – la revoca da parte del giudice del Paese membro di origine, se risulti manifestamente concesso per errore sui requisiti stabiliti nel Regolamento stesso, come pure la rettifica per divergenza tra i dati contenuti nel titolo nazionale e nel certificato;

– ed infine ne prevede la neutralizzazione mediante il rilascio di un certificato sulla sorte del titolo originario, che abbia perso in tutto o in parte la sua efficacia esecutiva (ai sensi dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento in esame).

Tale regime consente di concludere che il certificato di titolo esecutivo europeo, costituito dal provvedimento ulteriore e distinto rispetto al titolo esecutivo nazionale, allora integra, cioè completa, quest’ultimo in modo da renderlo idoneo alla circolazione intraeuropea: tanto che la sua funzione può, se non altro descrittivamente, equipararsi ad una sorta di formula esecutiva intraeuropea o ad un provvedimento di funzione analoga a quello previsto dall’art. 647 cod. proc. civ.; in tal modo, esso ha una funzione dichiarativa evidentemente servente rispetto al titolo esecutivo cui accede, conferendogli il riconoscimento della sua idoneità a circolare nello spazio giuridico eurounitario; ma non risolve questioni, nè pronunzia su diritti ulteriori rispetto a quelli consacrati nel titolo in favore del creditore; si limita a certificarne l’idoneità a fondare l’esecuzione in dipendenza di un determinato sviluppo processuale.

In quanto tale, esso allora non ha natura decisoria, dovendo le contestazioni sulla concreta estrinsecazione del diritto di difesa del debitore farsi valere contro il titolo in sè considerato, ma esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento che lo ha prodotto o, in casi eccezionali, con il riesame previsto dallo stesso Regolamento 805, direttamente contro il titolo stesso e mai contro il certificato.

Tanto è reso manifesto dalla previsione dell’art. 19 del Regolamento, che ricollega la concedibilità del certificato di titolo esecutivo europeo alla previsione, nell’ordinamento dello Stato membro in cui il titolo esecutivo si forma, di strumenti processuali straordinari di riesame, in via di eccezione alla regola generale della non ulteriore impugnabilità, del titolo esecutivo in quanto tale; in particolare, tale norma prevede che debba essere possibile per il debitore impugnare non già il certificato di titolo esecutivo europeo, ma il titolo stesso, quando la domanda giudiziale o un atto equivalente o, se del caso, le citazioni a comparire in udienza siano stati notificati secondo una delle forme previste all’art. 14, e:

– o la notificazione non sia stata effettuata in tempo utile a consentirgli di presentare le proprie difese, per ragioni a lui non imputabili, oppure:

– il debitore non abbia avuto la possibilità di contestare il credito a causa di situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali per ragioni a lui non imputabili, purchè in entrambi i casi agisca tempestivamente.

Tanto giustifica la conclusione che, purchè questa sia una facoltà intrinseca all’ordinamento processuale nazionale di produzione del titolo, il certificato di titolo esecutivo europeo non solo può essere comunque concesso, ma soprattutto resta insensibile alle relative problematiche, solo che di quegli strumenti avverso il titolo in sè considerato possa avvalersi il debitore, ricorrendone beninteso i presupposti.

E che sia onere del debitore rivolgere le sue critiche, anche se basate sulla concreta compressione del suo diritto di contestazione della pretesa avversaria, al titolo e non al certificato è confermato pure dalla già richiamata previsione dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento, a mente del quale allorchè una decisione giudiziaria certificata come titolo esecutivo europeo non è più esecutiva o la sua esecutività è stata sospesa o limitata, viene rilasciato, su istanza presentata in qualunque momento al giudice d’origine, un certificato comprovante la non esecutività o la limitazione dell’esecutività utilizzando il modello di cui all’all.

4.

Il che porta a concludere che le contestazioni del debitore relative al processo conclusosi con il titolo esecutivo poi certificato come europeo vanno mosse appunto esclusivamente avverso il titolo esecutivo domestico e coi mezzi di impugnazione di questo, potendo solo in esito ad essi, una volta rimossane l’efficacia esecutiva, conseguire il risultato di elidere in radice quella del certificato europeo già rilasciato.

8. – La conclusione va applicata alla revoca (in francese, retrait;

in inglese, withdrawal) del certificato di titolo esecutivo europeo:

riservata dal Regolamento ai casi di concessione per manifesto errore sulla sussistenza dei requisiti di concedibilità.

Occorre, cioè, valutare la portata di questa previsione; ma va subito precisato che a tali fini risulta neutra la regolamentazione del relativo procedimento nelle forme di quello camera di consiglio, operata dalla Repubblica italiana mediante comunicazione alla competente autorità eurounitaria – la Commissione – ai sensi dell’art. 30, par. o commi 1 e 2 del Regolamento 805 (come si ricava dal c.d. atlante giudiziario civile, a tanto deputato dallo stesso Regolamento, al sito web (OMISSIS)).

Tale attribuzione – se pure rende applicabile il reclamo, in virtù della portata generale dell’art. 739 cod. proc. civ. – non esime dalla necessità di ricostruire comunque l’oggetto del procedimento e la natura del provvedimento che lo conclude suo oggetto, al fine di valutare i mezzi di tutela ulteriori in relazione alle situazioni giuridiche effettivamente coinvolte.

Accertato che le violazioni procedurali idonee ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare il debito sono deducibili solo nel procedimento di riesame previsto dall’art. 19 del Regolamento avverso il titolo, esse non rilevano di per sè sole considerate, ma solo in quest’ultimo e solo per il caso in cui sia in concreto attivato: e, siccome tale procedimento di riesame ha chiaramente ad oggetto il titolo esecutivo domestico o nazionale e non anche il certificato di titolo esecutivo europeo, quelle violazioni vanno fatte valere contro il primo e non contro il secondo.

E, con tutta evidenza e con riferimento al caso in cui il titolo sia costituito – come nella fattispecie – da un decreto ingiuntivo, nell’ordinamento italiano l’ambito di operatività del riesame come disciplinato dall’art. 19 citato coincide sostanzialmente, ma in modo del tutto appagante, con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. Pertanto, per la sussistenza di una sede propria di contestazione, il provvedimento della corte di appello che definisce il reclamo avverso il diniego di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento non è suscettibile anche di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7.

Il sistema di impugnazione del complesso provvedimento in cui si articola il titolo esecutivo europeo (titolo domestico più certificato), delineato sopra al 7, impone quindi – anche a garanzia, in accordo con parte della dottrina, della massima funzionalità possibile all’istituto – di circoscrivere l’oggetto della revoca alla sola carenza evidente dei requisiti formali di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, tanto da limitarla ad un errore manifesto sulla sussistenza dei requisiti formali di rilascio e quindi del procedimento proprio e specifico di richiesta-esame- rilascio del certificato medesimo; qualunque ulteriore contestazione sul rito della formazione del titolo esecutivo, implicante la compressione del diritto del debitore di contestare il debito, ma pure sul merito della pretesa e per il caso sia ritenuta fondata l’indispensabile preliminare contestazione in rito, va ricondotta all’ambito di operatività dell’art. 19 del Regolamento 805 e, quindi, all’esperimento, se ancora possibile, degli strumenti straordinari di revisione del titolo in sè considerato.

Pertanto, in tale contesto e se correttamente interpretato, l’istituto della revoca non può involgere alcun diritto del debitore relativo al merito della pretesa od alla correttezza del rito seguito per l’emanazione del provvedimento costituente il titolo esecutivo:

diritto che è tutelato in altra e specifica sede. Così – cioè – il certificato non è di per sè stesso decisorio, perchè la tutela delle posizioni giuridiche relative alla violazione del diritto di difesa nel procedimento concluso con il titolo è riservata ad altri ambiti processuali, sol che il debitore se ne avvalga correttamente.

9. – Va a questa conclusione applicato il principio generale, oramai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per il quale anche per i provvedimenti resi all’esito di un procedimento in camera di consiglio la carenza del carattere di decisorietà o di definitività li rende insuscettibili di ricorso per cassazione, pure ai sensi del comma settimo dell’art. 111 Cost., perchè questo è esperibile solo nei confronti di provvedimenti giurisdizionali lesivi di situazioni giuridiche sostanziali e per le quali non siano previste altre sedi processuali di tutela loro proprie (per tutte, v.

Cass. Sez. Un., 15 luglio 2003, n. 11026, ovvero 3 marzo 2003, n. 3073; nello stesso senso: Cass. 11 agosto 2004, n. 15487; Cass., ord. 11 marzo 2005, n. 5390; Cass. 7 ottobre 2005, n. 19643; Cass. 26 ottobre 2006, n. 23027; Cass. 1 agosto 2007, n. 16984; Cass. 12 giugno 2009, n. 13760; Cass., ord. 20 novembre 2010, n. 23578; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2757; Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3883; i principi sono stati ribaditi in tema di opposizione esecutiva, tra l’te altre, da Cass. 24 ottobre 2011, n. 22033, come pure, in tema di condanna alle spese contenuta in un provvedimento cautelare ante causam, da Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, oppure, in tema di ricorso avverso ordinanze di inammissibilità di appelli ai sensi dell’art. 348-bis cod. proc. civ., da Cass., ord. 17 aprile 2014, n. 8940).

Del resto, quand’anche la lesione di situazioni aventi rilievo processuale fosse prospettata quale compressione del diritto di azione, la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.

Pertanto, il ricorso, proposto appunto contro un provvedimento reso all’esito di un procedimento in camera di consiglio come quello in esame, non è ammissibile neppure se articolato sulla prospettata violazione di norme processuali: e tanto va dichiarato in dispositivo.

10. – Questa conclusione non impedisce però di affrontare e risolvere comunque la questione di rito sottesa al ricorso.

Essa può qualificarsi di particolare importanza, siccome di rilevanza pratica notevole e suscettibile di riproporsi per il futuro in relazione ad una potenzialmente indefinita serie di concrete applicazioni nello spazio giuridico intraeuropeo o eurounitario sempre più fruito dagli operatori.

E la questione può essere definita pronunciando il principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ.: in particolare, la sottesa doglianza, come sollevata da parte ricorrente, è anche infondata, perchè la notifica a mezzo posta in altro Paese membro dell’Unione Europea di un decreto ingiuntivo è idonea a fondare il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo sia ai sensi del Regolamento CE n. 805, sia ai sensi proprio del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007, malamente invocato dall’odierna ricorrente in senso opposto.

10.1. La notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida, in primo luogo, ai sensi del Regolamento n. 805 del 2004.

Ed infatti:

– questo costituisce certamente lex specialis rispetto a quello del 2007, sicchè esso non è derogato dalla legge generale successiva;

– infatti, il primo non istituisce speciali procedure affiancate alle altre ordinarie ma solo esige – ai fini dell’attribuzione della qualità peculiare al titolo di idoneità a fondare l’esecuzione in ogni Paese membro – che in concreto in queste ultime siano state osservate specifiche modalità: poi prevedendo le caratteristiche della notifica del provvedimento domestico ai fini della sua certificabilità come titolo esecutivo europeo;

– pertanto, è l’osservanza delle norme dettate dal n. 805 a fondare idoneamente il rilascio del certificato del titolo esecutivo europeo e non già quella di altre norme, se del caso di diverso tenore;

– nella specie, sono rispettati i cc.dd. minima standards del Regolamento n. 805, con conseguente irrilevanza di ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di inesistenza o di nullità insanabile e sugli effetti di essa sulla ritualità o meno dell’instaurazione del rapporto processuale;

– invero, una volta eseguita a mezzo posta, nel rispetto cioè quanto meno dell’art. 14 del Regolamento n. 805, la notifica del decreto ingiuntivo, quest’ultimo contenendo gli estremi dell’invito a costituirsi ritualmente per difendersi sotto pena di definitività dell’ingiunzione, si è per ciò stesso avuto il rispetto quanto meno dell’art. 18, comma 2, del Regolamento n. 805;

– in particolare, la possibilità di fruizione del tempo utile per difendersi è resa evidente dall’effettivo confezionamento di un atto di piena presa di posizione sul merito delle pretese;

– la reazione stessa indubbiamente vi è stata ed è stata completa;

– resta irrilevante l’inutilizzabilità in concreto a fini processuali di tale opposizione, la quale è dipesa dalla malaccorta condotta processuale dell’opponente, per la difettosa forma di estrinsecazione della reazione.

10.2. In secondo luogo, la notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida anche e proprio ai sensi del Regolamento n. 1393 del 2007 (applicabile agli Stati dell’Unione, ad eccezione della Danimarca, come ricordato all’art. 1, comma o par. 3).

Ed infatti:

– è questo stesso a consentire notificazione o comunicazione tramite i servizi postali, ovvero direttamente tramite altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro;

– esso Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di notificazione o comunicazione degli atti, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente;

– esso stesso, al suo articolo 15 (notificazione o comunicazione diretta), precisa pure che chiunque abbia un interesse in un procedimento giudiziario può notificare o comunicare atti direttamente tramite gli ufficiali giudiziari, i funzionari o altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro: ed al riguardo, la Repubblica francese ha comunicato di non opporsi alla possibilità di notificazione o comunicazione diretta (come si evince dalle informazioni ricavabili dall’atlante giudiziario europeo al sito (OMISSIS), operate ai sensi dell’art. 23, par. 1, del Regolamento n. 1393 del 2007);

– per le esigenze di semplificazione e di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli Stati membri dell’Unione, che ispira ormai da almeno tre lustri la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi considerando al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vanificazione;

– il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri;

– almeno in quest’ambito, deve allora bastare – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente e, per quanto visto, nel caso del decreto ingiuntivo con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. – la cura con cui normalmente si espleta quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’idonea tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto;

– tale conclusione è conforme a quella della dottrina prevalente, la quale, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00, sia all’art. 14 Reg. CE 1393/07, ritiene che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di … ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti in ciascuno degli Stati membri hanno facoltà di … ecc.: del resto riconducendosi l’attività notificatoria degli organi statali espressamente ed istituzionalmente a ciò deputati, come appunto l’ufficio notifiche (o Ufficio N.E.P.), direttamente allo Stato;

– ed andranno, beninteso, solo osservate le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

10.3. Pertanto, va affermato, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., comma 3 il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

11. – In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; ma l’assoluta novità della questione e la sua peculiare complessità, dipendente dall’interazione di diversi principi eurounitari con quelli nazionali, integrano una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità; letto l’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 5 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 19-03-2015) 22-05-2015, n. 10554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28468/2011 proposto da:

L.F.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO PICCARDI 4, presso lo studio dell’avvocato CORRADO PASCASIO, rappresentata e difesa dall’avvocato CAMPIONE FRANCO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA (già UGF ASSICURAZIONI SPA), in persona del suo procuratore speciale Dott.ssa G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 27 8, presso lo studio dell’avvocato FERRARO MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GIOVE giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI ROMA ROMA CAPITALE (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI SNC;

– intimati –

Nonché da:

ROMA CAPITALE (già COMUNE DI ROMA) (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore On.le A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FULCIERI P. DE CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MORO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MAGNANELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

L.F.E. (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI GENERALI SRL, UGF ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 11042/2011 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 24/05/2011, R.G.N. 67187/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO MORO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato.

Svolgimento del processo
1. L.F.E. convenne in giudizio il Comune di Roma e chiese il risarcimento del danno conseguente alla caduta, a causa di una buca, sul marciapiede di una strada cittadina. Il Giudice di pace di Roma accolse la domanda e condannò al pagamento in solido, di circa Euro 3.500,00, il Comune e l’impresa di costruzioni Marziali Costruzioni snc, chiamata quale appaltatrice dei lavori di manutenzione dal Comune; condannò inoltre l’Assicurazione a manlevare l’impresa di costruzioni della predetta somma, escluso l’importo di franchigia.

Il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello principale del Comune e di quelli incidentali dell’impresa e dell’assicurazione, nella contumacia della originaria attrice, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda e condannò la L. alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado (sentenza del 24 maggio 2011).

2. Avverso la suddetta sentenza L. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, esplicati da memoria.

Il Comune di Roma resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, esplicato da memoria.

L’impresa appaltatrice e l’assicurazione non si difendono.

Motivi della decisione
La decisione riguarda i ricorsi riuniti, principale e incidentale, avverso la stessa sentenza.

1. Con il primo motivo si deduce la nullità del processo di appello, e della conseguente sentenza, per essersi svolto nella dichiarata contumacia della danneggiata, nonostante la nullità della notifica alla stessa dell’appello principale del Comune (primo profilo) e degli appelli incidentali dell’assicurazione (secondo profilo) e dell’impresa appaltatrice (terzo profilo).

Le censure non hanno pregio.

2. Si sostiene (quanto al primo profilo) la nullità della notifica dell’atto di appello, effettuata dal Comune ex art. 139 c.p.c., con ufficiale giudiziario, mediante consegna al portiere, con invio, ai fini dell’avviso della avvenuta notificazione al portiere, di raccomandata senza avviso di ricevimento.

Il Comune, nel controricorso, ammette la comunicazione senza avviso di ricevimento e sostiene che non occorre ai fini del perfezionamento della notifica.

Il giudice di merito, dopo la precisazione in udienza del Comune che la notificazione era stata fatta senza avviso di ricevimento, dichiarò la contumacia della L..

2.1. La questione all’attenzione della Corte è “se, ai fini del perfezionamento rispetto al destinatario della notifica dell’atto (ex art. 139 c.p.c., e L. n. 890 del 1982, ex art. 7), avvenuta nelle mani del portiere che, ai sensi dello stesse norme, rilascia ricevuta, sia necessario (come sostiene la ricorrente) o meno, che la raccomandata contenente l’avviso della avvenuta notificazione al portiere, sia stata fatta con avviso di ricevimento e, quindi, rispetto alla specie, se sia necessaria, o meno, la produzione dell’avviso di ricevimento con conseguenze sulla legittimità della dichiarazione di contumacia del destinatario”.

Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa.

A sostegno vi sono argomenti letterali e sistematici.

2.2. In generale, è opportuno premettere che è oramai principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, la mancata spedizione dell’avviso, sia che si tratti di applicazione dell’art. 139 cit., che di applicazione dell’art. 7 cit., dopo la novella del 2008, costituisce non una mera irregolarità ma una nullità. Con la conseguenza che, fermi gli effetti della notifica per il notificante, la mancata spedizione dell’avviso rende nulla la notifica per il destinatario dello stesso (Cass. n. 17915 del 2008;

n. 1366 del 2010, n. 21725 del 2012; n. 6345 del 2013).

2.3. Nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni.

Tanto, sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., aggiunto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. nella L. n. 31 del 2008).

Ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 cit.) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (art. 7 cit.), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata.

2.4. Dall’analisi del sistema normativo delle notificazioni, nel quale si inseriscono le norme in argomento, emerge che la previsione della sola raccomandata senza avviso di ricevimento è rispondente ad una distinzione ragionevole dalle ipotesi nelle quali l’avviso di ricevimento è richiesto.

2.4.1. Infatti, il legislatore richiede espressamente l’avviso di ricevimento quando si tratti della notifica a mezzo posta dell’atto e non della comunicazione della notizia che la notificazione dell’atto è stata effettuata ad altra persona.

Così è richiesto l’avviso di ricevimento: per la notifica dell’atto a mezzo ufficiale postale, fatta al destinatario, a persona di famiglia, al portiere (art. 7 cit. commi da 1 a 5); per la notifica a mezzo posta effettuata dall’ufficiale giudiziario (art. 149 c.p.c.);

per la notifica dell’atto all’estero (art. 142 c.p.c.), secondo l’interpretazione della giurisprudenza, a specificazione del richiamo nella norma della sola raccomandata (Cass. n. 12834 del 2003).

2.4.2. Eccezionalmente, il legislatore richiede l’avviso di ricevimento anche quando non si tratti della notifica dell’atto ma della notizia da comunicare al destinatario. E lo fa quando l’atto è stato consegnato in luogo lontano dalla disponibilità del destinatario.

E’ l’ipotesi disciplinata dall’art. 140 c.p.c., rispetto alla notifica dell’atto fatta dall’ufficiale giudiziario nel caso di impossibilità della notifica per irreperibilità, incapacità, rifiuto delle persone legittimate a ricevere, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso il Comune e, tra l’altro, dare notizia dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ pure l’ipotesi analoga disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, come modificato dal D.L. n. 35 del 2005, conv. nella L. n. 8 del 2005, rispetto alla notifica fatta a mezzo posta, nel caso di impossibilità di effettuare la stessa per temporanea assenza, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso l’ufficio postale dando notizia al destinatario dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ opportuno mettere in evidenza che, dopo l’intervento della Corte costituzionale che ha riguardato l’art. 140 c.p.c., (sent. n. 3 del 2010), in entrambi i casi, la notificazione si ha per eseguita per il destinatario decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della notizia di avvenuto deposito o dalla data di ritiro del piego, se anteriore.

2.4.3. In definitiva, la previsione letterale della sola raccomandata senza avviso di ricevimento, quando si tratta di dare notizia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto a persona che, secondo una ragionevole previsione, è a contatto con il destinatario, trova giustificazione della propria diversità nell’ambito di un sistema dove è richiesto sempre l’avviso di ricevimento per la notificazione dell’atto e dove lo stesso avviso viene richiesto qualora l’atto non si sia potuto consegnare a persona “vicina”, ma è stato depositato in un ufficio lontano dal normale accesso del destinatario.

Ed infatti, le persone che ricevono l’atto sono soggetti che, o per vincoli contrattuali o per vincoli parentali, secondo l’id quod plerumque accidit consegneranno l’atto al destinatario. Mentre, la maggiore estensione dell’avviso nel caso di notifica a mezzo posta (art.7 cit.) può trovare spiegazione nella diversa autorevolezza esterna normalmente riconosciuta dai destinatari all’ufficiale giudiziario rispetto all’ufficiale postale.

Inoltre, un ulteriore argomento, convince della ragionevolezza della soluzione scelta dal legislatore.

Come si è visto, nei casi eccezionali in cui è richiesto l’avviso di ricevimento nonostante si tratti solo di dare notizia e non di notificare l’atto, il sistema prevede oramai una disposizione di “chiusura”, che consente di considerare per eseguita la notificazione (dieci giorni dalla spedizione della raccomandata informativa, se non ritirato il plico). Invece, nel caso ora all’attenzione della Corte non esiste una norma di chiusura; con la conseguenza che, in caso di mancata ricezione personale dell’avviso si riaprirebbe astrattamente l’applicabilità delle norme previste per la notificazione a mezzo posta, procedendo all’infinito verso la ricerca della effettività della ricezione.

2.4.4. Nella giurisprudenza della Corte non vi sono pronunce espresse che vadano in direzione contraria. Infatti, l’affermazione contenuta in una massima (Cass. n. 23589 del 2008), secondo cui “In tema di sanzioni amministrative, nel caso di notifica a mezzo posta del verbale di accertamento dell’infrazione, ai sensi della L. n. 890 del 182, art. 7, – nel regime applicabile ratione temporis, prima della modifica introdotta dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. in L. n. 31 del 2008 – ove la consegna del piego, per l’assenza del destinatario, sia avvenuta nelle mani del custode dello stabile di residenza di quest’ultimo, non è necessario l’invio della raccomandata con ricevuta di ritorno. Tale adempimento, infatti, è stata introdotto dal D.L. citato ed è imposto per le notifiche successive all’entrata in vigore di quest’ultimo”, non corrisponde al principio di diritto utilizzato nella decisione. In particolare, come emerge dalla motivazione della sentenza, nell’escludere ratione temporis l’applicazione alla specie dell’art. 7, come novellato negli anni 2007/2008, per le notifiche a mezzo posta effettuate precedentemente, la Corte ha incidentalmente rilevato, aderendo senza motivazione alla prospettazione della ricorrente, che con la nuova norma sarebbe stata necessaria la raccomandata con avviso di ricevimento.

2.5. Il motivo è, pertanto, rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo di ufficiale giudiziario, al portiere o al vicino (ex art. 139 c.p.c.), e nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo posta, a persona diversa dal destinatario (L. n. 890 del 1982, ex art. 7, come modificato nel 2007/2008) ai fini del perfezionamento della notifica, rispetto al destinatario, non è necessario che sia fatta con avviso di ricevimento la raccomandata diretta al destinatario e contenente la notizia della avvenuta notificazione dell’atto alle persone suddette; con la conseguenza che, nella specie, è stata legittimamente dichiarata la contumacia della parte, destinataria di atto di appello ricevuto dal portiere e della raccomandata, senza avviso di ricevimento, contenente la notizia dell’avvenuta consegna al portiere dell’atto”.

3. Sempre con il primo motivo, con un secondo e terzo profilo, si deduce la nullità della sentenza e del processo per nullità della notificazione degli appelli incidentali, disposta dal giudice, quando la danneggiata era stata dichiarata contumace.

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’assicurazione, la prospettazione della nullità, per essere stata fatta la notifica, personalmente alla danneggiata già dichiarata contumace (mentre non può rilevare la notifica, di cui si parla a pag. 3 del ricorso, dell’appello incidentale all’avvocato della danneggiata in primo grado, essendo già stata dichiarata la contumacia), a persona convivente, senza che risulti la prova dell’invio della seconda raccomandata, non può essere esaminata dalla Corte. Il ricorrente non chiarisce e omette il necessario rinvio agli atti processuali se la notificazione sia stata effettuata a mezzo posta o dall’ufficiale giudiziario; circostanza rilevante atteso che l’invio della seconda raccomandata sarebbe richiesto nel primo caso (art. 7 cit.) e non nel secondo (art. 139).

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’impresa (anche per questa essendo irrilevante la notificazione all’avvocato di primo grado), si assume che la notifica fu fatta personalmente a soggetto non meglio identificato, oltre la mancanza della seconda raccomandata. Ogni esame della questione resta preclusa dal totale assenza di riferimenti e rinvii agli atti processuali, per cui le modalità della notifica sono solo asserite, senza la possibilità per la Corte di verificarne la decisività.

Entrambi i profili, pertanto, sono inammissibili.

4. Nel merito, il Tribunale ha ritenuto non provato il nesso di causa tra la caduta e l’avvallamento sul marciapiede. Ha messo in evidenza:

che nessuno dei testi l’aveva vista inciampare nell’avvallamento, essendosi questi limitati a riferire che era presente un avvallamento nei pressi della caduta; che, secondo la stessa ammissione della danneggiata, stava camminando a passo veloce per raggiungere l’autobus; che camminava guardando l’autobus e, anche il marciapiede e, quindi senza la necessaria attenzione; che altro teste aveva affermato che l’avvallamento era comunque visibile.

4.1. La decisione è censurata invocando la violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 112 c.p.c., (secondo motivo) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione delle prove (terzo).

I motivi sono tutti inammissibili. Al di là della invocazione della violazione di legge, le censure si sostanziano nella critica alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice con percorso argomentativo privo di vizi logici; quindi, essi consistono in una prospettazione di una diversa valutazione favorevole alla danneggiata, richiedendo inammissibilmente alla Corte di legittimità di farla propria compiendo un giudizio sul merito della causa.

Quanto alla invocata violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale emanato una pronuncia ultrapetita, disponendo la restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, indistintamente, a favore di tutti gli appellanti e, quindi, anche a favore della Assicurazione, mentre sarebbero stati condannati in solido solo il Comune e l’impresa, evidente è la non conferenza della censura. Con la sentenza è stata disposta la restituzione delle somme percepite, naturalmente, a favore di chi le ha versate.

5. Il ricorso incidentale proposto dal Comune, in modo espressamente condizionato, con il quale si invoca la violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendo di aver proposto appello incidentale alla sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto la responsabilità solidale del Comune e dell’impresa, mentre il Comune aveva agito in manleva, facendo valere l’esistenza di un contratto di appalto per la manutenzione, e che tale questione sarebbe restata assorbita nel giudizio di secondo grado per via del rigetto della domanda, resta assorbito.

6. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate secondo i parametri vigenti, seguono la soccombenza a favore del controricorrente. Non avendo gli altri intimati svolto attività difensiva, non sussistono le condizioni per la pronuncia in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale;

condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 24-02-2015) 20-05-2015, n. 10272

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23061-2011 proposto da:

P.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 9, presso lo studio dell’avvocato DE ARCANGELIS GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.A., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNI FABRIZIO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4746/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/11/2010 R.G.N. 7944/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2015 dal Consigliere Dott. ULIANA ARMANO;

udito l’Avvocato GIORGIO DE ARCANGELIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 16 novembre 2010 la Corte di appello di Roma, ritenuta infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per inesistenza della notifica dell’atto introduttivo, a modifica della decisione di primo grado, ha condannato P.G. al risarcimento del danno per negligente esercizio dell’attività professionale di commercialista in favore di I.A. nella misura di Euro 863,77, oltre interessi e rivalutazione Avverso detta sentenza propone ricorso P.G. con due motivi.

Resiste con controricorso I.A..

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si denunzia vizio di motivazione e violazione e falsa applicazione della L. n. 53 del 1994.

Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione di inesistenza della notificazione dell’atto di appello non tenendo in conto che alla relazione di notificazione mancavano tutti gli elementi costitutivi della stessa, vale a dire la indicazione della generalità del notificante, la sottoscrizione del notificante e la indicazione delle generalità della persona alla quale l’atto era stato consegnato. Con motivazione illogica e contraddittoria, la Corte di merito aveva ritenuto regolare la notificazione dell’atto ad opera dell’avvocato difensore, solo in considerazione della sottoscrizione dell’atto di appello da parte del difensore stesso.

Sostiene la ricorrente poi che nella relazione di notificazione mancava il nome ed il cognome del notificante; che la sottoscrizione di tale relazione non era riconducibile all’avvocato difensore; che mancava la certezza dell’identità della persona che aveva ricevuto l’atto.

Di conseguenza la notificazione doveva ritenersi inesistente e non suscettibile di sanatoria.

2. Il motivo è infondato L’atto di appello è stato notificato ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 4 direttamente dall’avvocato Fabrizio Bruni difensore dell’appellante I., mediante consegna di copia dell’atto nello studio dell’avvocato Giorgio De Arcangelis difensore domiciliatario di P.G..

Come correttamente ha ritenuto la Corte d’appello, non vi sono dubbi sull’identificazione dell’avvocato Fabrizio Bruni quale procedente alla notifica, sui rilievo chela relata è apposta all’atto di appello sottoscritto dallo stesso B. e contiene il richiamo al numero di registro cronologico ed alla autorizzazione del consiglio dell’ordine competente.

A ciò deve aggiungersi che l’atto di appello contiene la vidimazione per la notificazione diretta ai sensi dell’art. quattro della L. n. 53 del 1994 da parte del consiglio dell’ordine secondo quanto prevede l’art. 4, comma 2.

Infatti la notifica può essere eseguita mediante consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario se questi ed il notificante sono iscritti nello stesso albo. In tal caso l’originale e la copia dell’atto devono essere previamente vidimati e datati dal consiglio dell’ordine nel cui albo entrambi sono iscritti.

L’atto risulta consegnato presso lo studio del difensore dell’appellato, a persona identificata come addetta alla ricezione, in quanto segretaria addetta al ritiro degli atti, che ha sottoscritto con firma leggibile.

3. Si osserva che la sottoscrizione del notificante è volta ad individuare senza incertezze l’identità di quest’ultimo e l’attribuzione a lui delle operazioni di notificazione, onde attestare la sussistenza in capo allo stesso dei requisiti soggettivi indispensabili.

Non può negarsi che tale identificazione può bene avvenire sulla base di elementi i quali, come nella specie, la vidimazione dell’atto di appello a cura dell’ordine degli avvocati per consentire la notifica diretta, la sottoscrizione dell’atto di appello da parte dell’avvocato notificante, l’indicazione numero di cronologico del numero di autorizzazione dell’ordine degli avvocati ed, immediatamente in sequenza, la relazione di notifica e la firma della persona abilitata a ricevere l’atto.

4. La Corte d’appello ha ritenuto poi,con doppia motivazione, sanabili eventuali nullità della notifica a seguito della costituzione in giudizio dell’appellata A tale proposito si osserva che la L. n. 53 del 1994, art. 11 qualifica come nulle le notificazioni” se mancano i requisiti soggettivi ed oggettivi ivi previsti, se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

Anche la seconda motivazione della Corte di merito è conforme alla legge, essendo possibile la sanatoria della notifica nulla. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 1.160,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori come per legge ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 03-03-2015) 29-05-2015, n. 11165

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SEGRETO Antonio – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19729-2011 proposto da:

B.H.L. (OMISSIS), considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MEISSNER EGMONT, giusta procura speciale notarile del Dott. Notaio TILMAN HERRIGER in KORSCHENBROICH del 16/06/2011 N. 810/2011;

– ricorrente –

e contro

INA ASSITALIA SPA, T.F., UCI UFFICIO CENTRALE ITALIANO SCRL;

– intimati –

avverso la sentenza n. 462/2011 del TRIBUNALE di BOLZANO, depositata il 08/04/2011 R.G.N. 5397/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2015 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità in subordine rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
T.F. convenne innanzi al Giudice di pace di Brunico l’Ufficio Centrale Italiano s.r.l., in qualità di rappresentante e domiciliataria di Provinzial Feuerversicherunsanstlt der Rheinprovinz nonchè H.B.L. chiedendo che, accertata l’esclusiva responsabilità del B. nella causazione dell’incidente stradale verificatosi il (OMISSIS), i convenuti venissero condannati a risarcirgli i danni subiti.

Resistettero gli intimati, il B., chiedendo e ottenendo di chiamare in causa Le Assicurazioni d’Italia, in quanto società garante dell’attore, nei cui confronti propose domanda riconvenzionale.

Con sentenza non definitiva del 18/23 aprile 1998, il Giudice di Pace accertò l’esclusiva responsabilità del B. nella eziologia dell’incidente.

Avverso detta pronuncia propose appello il soccombente. All’esito dell’istruttoria sul quantum debeatur, il decidente, rigettata la domanda riconvenzionale, condannò il B., in solido con l’Ufficio Centrale Italiano, al pagamento della somma di L. 1.950.850.

Il gravame proposto avverso detta pronuncia, riunito a quello avente ad oggetto la decisione sull’an debeatur, venne deciso dalla Corte d’appello di Bolzano con sentenza che, dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva, rigettò quella avverso la sentenza definitiva.

Detta pronuncia venne tuttavia cassata dalla Suprema Corte che, accolto il primo motivo di ricorso, cassata la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rigettati gli altri, rinviò la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Bolzano.

Riassunto il giudizio, il giudice di rinvio, in data 8 aprile 2011, ha respinto sia l’appello avverso la sentenza non definitiva, sia quello avverso la sentenza definitiva. Il ricorso di B.H. L. avverso detta pronuncia è affidato a due motivi.

Non si sono difesi gli intimati.

Motivi della decisione
1 Preliminare e assorbente è il rilievo dell’inammissibilità dell’impugnazione. Queste le ragioni.

Occorre muovere dalla considerazione che, in base al disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12 a tenor del quale il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana, la procura alle liti utilizzata in un giudizio celebrato nel nostro Stato, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci. A tal fine occorre però che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, quanto alla scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cass. sez. un., ord. 13 febbraio 2008, n. 3410; Cass. civ. 14 novembre 2008, n. 27282).

2 Sotto altro, concorrente profilo, va poi osservato che, benché l’art. 122 c.p.c., comma 1, prescrivendo l’uso della lingua italiana, si riferisce ai soli atti endoprocessuali e non anche agli atti prodromici al processo, come la procura, per questi ultimi vige pur sempre il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (confr. Cass. civ., sez. un. 2 dicembre 2013, n. 26937; Cass. civ. 29 dicembre 2011, n. 30035; Cass. civ. 14 novembre 2008 n. 27282).

3 Venendo al caso di specie, la procura, rilasciata a Lorschenbroich, in Germania, era esente, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ratificata dall’Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253, nonché alla Convenzione bilaterale tra l’Italia e la Germania conclusa in Roma il 7 giugno 1969, sia dalla legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, sia dalla c.d. apostille, e cioè dal rilascio, da parte dell’organo designato dallo Stato di formazione dell’atto, di un attestato idoneo a che l’atto venga riconosciuto ed accettato come autentico.

Tanto non esclude, tuttavia, che andava allegata non solo la traduzione della procura speciale, ma anche quella dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma era stata apposta in sua presenza, da persona di cui egli aveva accertato l’identità. Il mancato espletamento di tale adempimento comporta la nullità della procura e quindi l’inammissibilità dell’impugnazione. Nessun provvedimento va adottato in ordine al governo delle spese di lite, non essendosi costituita in giudizio la parte vittoriosa.

P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/01/2015) 11/03/2015, n. 4862

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4884/2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata, in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 30/2009 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 27/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Alla signora C.C. veniva notificata dall’Ufficio di Aversa dell’Agenzia delle Entrate una cartella di pagamento, con la quale l’Ufficio recuperava a tassazione, per l’anno 2003, la maggiore l’IVA dovuta a seguito del controllo automatizzato della relativa dichiarazione, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54 bis.

2. L’atto impositivo veniva impugnato dalla contribuente dinanzi alla CTP di Caserta, che accoglieva il ricorso.

3. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate veniva disatteso dalla CTR della Campania con sentenza n. 30/15/2009, depositata il 27.1.2009, con la quale il giudice di seconde cure riteneva improponibile l’appello dell’Ufficio, per non essere stato il medesimo parte del giudizio di prime cure.

4. Per la cassazione della sentenza n. 30/15/2009 ha proposto, quindi, ricorso l’Agenzia delle Entrate affidato ad un solo motivo.

l’intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, e art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1. Si duole l’Amministrazione ricorrente del fatto cha la CTR abbia dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Ufficio, per non essere stato il medesimo parte nel processo di prime cure, non essendosi costituito dinanzi alla Commissione Tributaria di prima istanza.

1.2. Il motivo è fondato.

1.2.1. Ed invero, il fatto che la sentenza di primo grado sia stata resa nei confronti dell’Ufficio di Caserta dell’Agenzia delle Entrate e che l’appello sia stato proposto dall’Ufficio di Aversa, non comporta l’inammissibilità dell’appello. E ciò, sia per il carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’organo (e non alle singole articolazioni organizzative) che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. 29465/2008;

15718/2009; 3727/2010).

1.2.2. Nè può dubitarsi del fatto che la parte contumace nel processo tributario di primo grado possa legittimamente proporre appello, come si evince dal combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, e art. 327 c.p.c. (Cass. 11991/2006).

1.3. Il mezzo va, di conseguenza, accolto.

2. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della CTR della Campania, che dovrà procedere all’esame del merito della controversia, attenendosi ai seguenti principi di diritto: “l’appello proposto da un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate diverso da quello nei cui confronti è stata emessa la sentenza di primo grado è ammissibile, sia per il carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di ridurre ai massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’organo (e non alle singole articolazioni organizzative) che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato “; “la parte contumace nel processo tributano di primo grado può legittimamente proporre appello, come si evince dal combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, e art. 327 c.p.c.”.

3. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione;

accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Campania, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Tributaria, il 27 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2015


Cass. civ. Sez. VI – 2, Sent., (ud. 10-07-2014) 03-03-2015, n. 4270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24180/2013 proposto da:

C.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8, presso lo studio dell’avvocato PELLICANO’ Antonino, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS) in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– resistente –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 1098/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO del 14.12.2012, depositato il 02/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/07/2014 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito per la ricorrente l’Avvocato Antonino Pellicano che si riporta agli atti.

Svolgimento del processo
1. – C.C., con ricorso depositato l’11 luglio 2012, chiese alla Corte d’appello di Catanzaro l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in relazione alla eccessiva durata della procedura esecutiva promossa nel 2003 nei confronti dell’INPS, per ottenere il pagamento di un credito di Euro 7.004,48 dovuto in forza di una sentenza del Tribunale del lavoro di Reggio Calabria, giudizio definito in primo grado con sentenza del 27 maggio 2005, in appello con sentenza depositata il 13 ottobre 2011, con istanza di assegnazione somme del 25 maggio 2012.

2. – L’adita Corte di merito, con decreto depositato il 2 aprile 2013, ritenuto che il periodo di durata del processo presupposto eccedente quello ragionevole fosse pari a circa tre anni, ha liquidato, a titolo di indennizzo, l’importo di 750,00 Euro per ogni anno di ritardo, condannando il Ministero della Giustizia al pagamento di Euro 2250,00 in favore della ricorrente, compensando per la metà le spese del giudizio, in considerazione della mancata opposizione dell’Avvocatura dello Stato, e condannando il Ministero della Giustizia alla rifusione del residuo cinquanta per cento.

3. – Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo la C., che ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione
1. – Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione in forma semplificata.

2. – Con l’unico motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè vizio di motivazione. La Corte di merito – si osserva nel ricorso – ha disposto la compensazione per metà delle spese del giudizio in considerazione della mancata opposizione del Ministero della Giustizia. Secondo la ricorrente, la mancata costituzione del resistente non può determinare automaticamente la compensazione parziale delle spese del giudizio, poichè è da una colpa organizzativa dell’Amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice.

3. – La censura è fondata.

Non si può ritenere che il comportamento processuale del Ministero convenuto, che non si opponga alla liquidazione del danno da irragionevole durata del processo, integri le “gravi ed eccezionali ragioni” che possono giustificare la decisione di compensare parzialmente o integralmente le spese di lite, a fronte di soccombenza totale di una parte, poichè comunque l’istante è stato costretto ad adire il giudice per ottenere il riconoscimento del diritto (v., ex multis, Cass., sent. n. 23632 del 2013).

4. – Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto. Il decreto impugnato deve essere cassato limitatamente alla statuizione sulla compensazione parziale delle spese del giudizio, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, elidendo dal predetto decreto, fermo nel resto, la statuizione relativa alla compensazione per metà tra le parti delle spese del giudizio e condannando il Ministero della Giustizia alla rifusione, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di merito, da distrarre in favore dell’avv. Antonino Pellicanò, dichiaratosi antistatario. In applicazione del principio della soccombenza, il Ministero deve altresì essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, da distrarre parimenti in favore dell’avv. Prellicanò, antistatario.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato limitatamente alla statuizione sulla compensazione parziale delle spese, fermo nel resto, e, decidendo nel merito, elide dal decreto detta statuizione, ponendo interamente a carico del Ministero della Giustizia le spese del giudizio di merito, da distrarre in favore dell’avv. Antonino Pellicanò, dichiaratosi antistatario. Condanna altresì il predetto Ministero al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 500,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, da distrarsi in favore dell’avv. Antonino Pellicano, dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Sent., (data ud. 21/01/2015) 02/03/2015, n. 4222

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23329-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

FIERA DI FORLI’ SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ELEONORA DUSE 35, presso lo studio dell’avvocato GOMMELUNI ALBERTO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MATTEO TARGHINI giusta procura alle liti in calce al ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 55/16/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BOLOGNA dell’11/06/2012, depositata il 12/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ROBERTO GIOVANNI CONTI;

udito l’Avvocato Bacosi Giulio (Avvocatura) difensore della ricorrente che si riporta agli scritti ed eccepisce al tardività del controricorso;

udito l’Avvocato Gommellini Alberto difensore della controricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
Il giudizio nasce da una variazione di categoria operata dall’Agenzia del Territorio di Forlì con passaggio dalla Cat. E/9 alla Cat D/8 relativamente al complesso immobiliare destinato a padiglione fieristico di proprietà della società Fiera di Forlì spa.

Il riclassamento, secondo l’Agenzia, trovava giustificazione in base alla legislazione vigente, D.L. n. 262 del 2006, art. 2 comma 40 conv. nella L. n. 286 del 2006 e della circolare dell’Agenzia del Territorio n. 4/2007, non avendo efficacia le nuove categorie catastali previste dal D.P.R. n. 138 del 1998.

Il giudice di primo grado al quale si è rivolta la società Fiera di Forlì SPA ha annullato l’avviso di accertamento.

La CTR dell’Emilia Romagna, con sentenza n. 55/16/12, depositata il 12.7.2012, ha respinto l’appello dell’Agenzia.

Il giudice di appello, a prescindere dal rilievo che il D.P.R. n. 138 del 1998, anche se non attuato in alcune sue disposizioni, ha forza di legge e che nello stesso è prevista l’inclusione delle unità immobiliari stabili destinate alle fiere nell’ambito del gruppo catastale comprendente immobili speciali per funzioni pubbliche o di interesse collettivo, riteneva decisiva la disposizione normativa di cui al ricordato D.L. n. 286 del 2006, art. 2, comma 40. Nel caso di specie l’Ufficio aveva considerato l’intero compendio immobiliare “a destinazione commerciale”, ignorando la destinazione effettiva dei vari locali ad esclusivo uso fieristico.

Peraltro, nei locali della Fiera non veniva svolta, al di fuori dei giorni di svolgimento delle manifestazioni fieristiche, alcuna stabile attività ad eccezione che per alcuni locali ad uso ufficio.

Aggiungeva che a sostegno dell’assunto della società alcune pronunce di merito avevano rigettato gli accatastamenti in categoria D/8, ritenendo che gli immobili erano destinati all’assolvimento di esigenze di pubblico interesse e come tali dovevano essere collocati nella Cat. E. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, al quale ha resistito la società contribuente con controricorso eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso, in quanto notificato oltre il termine di 60 giorni-dalla notifica della sentenza. La causa veniva posta in decisione all’udienza del 21 gennaio 2015.

Motivi della decisione
La preliminare eccezione di tardività del ricorso per cassazione è fondata. Nel caso di specie la parte controricorrente ha documentato di avere proceduto alla notifica mediante consegna diretta della sentenza della CTR qui impugnata all’Agenzia delle entrate in data 17 settembre 2012 – v. nota allegata al fascicolo recante la ricezione con Prot.7101 del 18.9.2012 – in forza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2 come modificato dal D.L. n. 40 del 2010, art. 3, comma 1 conv. nella L. n. 73 del 2010. Ed è la stessa parte ricorrente ad indicare in ricorso (pag.l)che la sentenza impugnata era stata notificata alla stessa. Orbene, giova rammentare che la disposizione testè indicata ha previsto che “al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 38, comma 2, le parole: “a norma degli artt. 137 e segg. c.p.c.” sono sostituite dalle seguenti: “a norma dell’articolo 16” e, dopo le parole: “dell’originale notificato”, sono inserite le seguenti: “ovvero copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata mezzo del servizio postale unitamente all’avviso di ricevimento”. La modifica normativa appena ricordata ha consentito alle parti private di procedere alla notificazione della sentenza con consegna diretta ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16 “…Le comunicazioni sono fatte mediante avviso della segreteria della commissione tributaria consegnato alle parti, che ne rilasciano immediatamente ricevuta, o spedito a mezzo del servizio postale in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, sul quale non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’avviso.” Ora, pare evidente la tardività del ricorso per cassazione spedito per la notifica alla parte contribuente il – e consegnato in data 14 ottobre 2013, quando era ampiamente scaduto il termine breve ex art. 325 c.p.c. per l’impugnazione della sentenza di appello, consegnata all’Agenzia in data 17 settembre 2012 a mani proprie.

A nulla poi rileva, quanto meno per quel che riguarda gli effetti correlati al decorso del termine breve di impugnazione, il mancato deposito della ricevuta di consegna diretta all’Agenzia pure previsto dal ricordato art. 38, comma 2 cit., non risultando dalla lettera della legge alcuna sanzione correlata all’inadempimento di siffatto onere – per come evidenziato dalla dottrina unanime – nè potendo l’omesso deposito produrre effetti ai fini della conoscenza della sentenza una volta che la notifica a mani proprie della stessa è stata, come detto, ritualmente eseguita.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo in favore della parte controricorrente.

P.Q.M.
LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in favore della controricorrente in Euro 2000,00 per compensi, oltre Euro 100,00 per esborsi ed oltre accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sesta sezione civile, il 21 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 17/12/2014) 21/01/2015, n. 1113

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 26883-2013, proposto da:

V.C., rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Lorenti Francesco, presso lo studio del quale in Roma, alla via Rimini, n. 14, elettivamente domicilia;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, domicilia;

– resistente –

avverso la sentenza n. 90/21/13 della Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione 21, depositata in data 9 aprile 2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17 dicembre 2014 dal consigliere Angelina-Maria Perrino e letta la relazione da lei depositata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

constatata la regolarità delle comunicazioni e sentito l’avv. Francesco Lorenti;

osserva quanto segue.

Svolgimento del processo
La contribuente impugnò un’intimazione di pagamento per imposta di registro ed Invim, sostenendo che non fosse stata preceduta dalla notificazione di alcuna cartella di pagamento. La Commissione tributaria provinciale respinse il ricorso, là dove la Commissione tributaria regionale ha dichiarato inammissibile l’appello, in base al rilievo che era stato notificato ad ufficio diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato. Propone ricorso V.C., per ottenere la cassazione di questa sentenza, affidandolo ad un unico motivo, al quale l’Agenzia non replica con difese scritte, limitandosi a depositare memoria di costituzione.

Motivi della decisione
1 – Con l’unico motivo di ricorso, la contribuente si duole della violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10, 11 e 12 sostenendo che l’ufficio territoriale Roma (OMISSIS) al quale è stato notificato il ricorso di primo grado rientra nell’articolazione territoriale facente capo alla direzione provinciale (OMISSIS), ufficio controlli di Roma, al quale è stato notificato l’appello.

2. – Il motivo è fondato e va in conseguenza accolto.

2.1. – La Corte, prendendo le mosse dalla sentenza n. 3116 resa dalle sezioni unite in data 14 febbraio 2006, ha chiarito che, in relazione all’agenzia fiscale, tutti i suoi uffici periferici hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c.; ciò in quanto tali uffici vanno qualificati come organi dell’agenzia che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza (Cass. 9 aprile 2009, n. 9703).

2.2. – A tanto si è aggiunto che la notificazione ad un ufficio anzichè ad un altro dell’Agenzia delle entrate non è affetta da nullità, trattandosi di un mero errore riguardante l’individuazione dell’ufficio dell’Agenzia territoriale delle entrate deputato a ricevere la notifica (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3680).

2.3. -Errore che, se anche sussistente, nel caso in esame non ha prodotto nocumento alcuno, emergendo dalla sentenza impugnata che l’Agenzia si è regolarmente costituita nella fase di appello, spiegando compiutamente le proprie difese.

3. – Il ricorso va in conseguenza accolto, con cassazione della sentenza e rinvio per esame del merito e per la regolazione delle spese ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

P.Q.M.
la Corte:

– accoglie il ricorso;

– cassa la sentenza impugnata;

– rinvia per nuovo esame nonchè per la regolazione delle spese ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2015

 


Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., (ud. 05-11-2013) 30-01-2014, n. 2035

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10187/2012 proposto da:

S.V. (OMISSIS) in qualità di Curatore del fallimento n. 1105/2010 in capo alla società PROFILSERRE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato DE FELICE SERGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCIO ANTONIO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 866/2011 del TRIBUNALE di LOCRI del 13.3.2012, depositato il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Antonio Ricci che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Curatela del Fallimento PROFILSERRE s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi avverso il decreto emesso nella causa N. 866/2011 e depositato il 20.03.2012 con cui il Tribunale di Locri ha accolto l’opposizione allo stato passivo del fallimento della società Profilserre a r.l. proposta da Equitalia ETR s.p.a..

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Con i tre motivi di ricorso il fallimento ricorrente contesta, sotto diversi profili,il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’opposizione per tardività. Deduce che l’atto oggetto di opposizione relativo alla comunicazione di deposito dello stato passivo del fallimento era stato comunicato L. Fall., ex art. 97, dal cancelliere tramite un servizio di posta privata ad Equitalia in data 20.6.11, come risulta dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22.7.11.

Sostiene in particolare il ricorrente che doveva ritenersi che la comunicazione effettuata tramite un servizio di posta privata fosse del tutto legittima e conseguentemente la data di notifica doveva ritenersi essere quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto da Equitalia.

A sostegno della propria tesi deduce che,la comunicazione ai sensi della L. Fall., art. 97, può essere data a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ovvero tramite telefax o posta elettronica quando il creditore abbia indicato tale modalità di comunicazione e, che il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal decreto legislativo n. 58 del 2011 con entrata in vigore dal 30.4.11, prevede che sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio postale universale, e, cioè,alla Poste italiane, i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni,che riguarda le notifiche da parte dell’Ufficiale giudiziario che si avvale del servizio postale, ma non anche quelle effettuate direttamente dal cancelliere a mezzo posta per cui questi poteva avvalersi anche dei servizi di posta privati.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente appaiono infondati.

Invero, nel caso di specie non rileva la questione se il cancelliere possa avvalersi di un servizio di posta privata o meno.

Quello che qui rileva è accertare se, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.

Tale ipotesi è da escludere.

Va a tale proposito rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di contenzioso tributario, (ma il principio riveste una portata generale applicabile anche al caso di specie) che nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario.

(Cass. 17723/06 e Cass. 13812/07).

Non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le notifiche effettuate da un servizio di posta privato. Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualità di pubblici ufficiali onde gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni.

A tale proposito è già stato chiarito da questa Corte che, in tema di tempestività del ricorso per cassazione, il termine di cui all’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dalla notifica della sentenza impugnata, la quale, nell’ipotesi in cui la notifica abbia avuto luogo a mezzo del servizio postale, va desunta, in mancanza di altri elementi, dalla busta di spedizione, ove sul retro sia stata apposta la data di arrivo presso il destinatario, non potendo essere ricavata dal timbro apposto sul plico da parte dello stesso destinatario, pur recante il numero cronologico e la data, trattandosi di atti di organizzazione interna e nonostante la natura eventualmente pubblica del predetto soggetto (nel caso di specie trattavasi dell’Agenzia delle Entrate) (Cass. 25753/07).

Ciò sta a significare che l’attestazione fidefacente dell’ufficiale postale non è surrogabile da alcun altro tipo di atto neppure nel caso in cui lo stesso sia stato compiuto al momento della ricezione da un ente pubblico.

Ciò porta a maggior ragione ad escludere che possa essere idonea ai fini in esame l’attestazione di un semplice privato. Deve conclusivamente affermarsi che,non essendovi prova circa l’effettiva data di consegna della comunicazione di cancelleria relativa al deposito dello stato passivo del fallimento della Profilserre srl, l’opposizione avverso il detto atto deve ritenersi tempestiva.

Il ricorso va in conclusione respinto. Nulla per le spese.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014