Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 01/12/2015) 30/12/2015, n. 26088

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4678-2009 proposto da:

G.N., G.F. in proprio difeso da se medesimo, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BALDO DEGLI UBALDI 66, presso lo studio dell’avvocato RINALDI GALLICANI SIMONA, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO GHIRALDI giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SIRMIONE;

– intimato –

nonchè da:

COMUNE DI SIRMIONE in persona del Sindaco in carica, elettivamente domiciliato in ROMA VIA M. PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato RAMADORI PAOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato LOVISETTI MAURIZIO giusta delega in calce;

– controricorrente incidentale –

contro

G.N., G.F. in proprio difeso da se medesimo, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BALDO DEGLI UBALDI 66, presso lo studio dell’avvocato RINALDI GALLICANI SIMONA, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO GHIRALDI giusta delega a margine;

– controricorrenti all’incidentale –

avverso la sentenza n. 12/2009 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di BRESCIA, depositata il 19/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/2015 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. di Brescia, ha respinto l’appello proposto da G.F., in proprio e in rappresentanza del figlio N., avverso la sentenza della locale commissione tributaria provinciale che, previa riunione, aveva dichiarato inammissibili cinque ricorsi contro altrettanti avvisi di accertamento in materia di lei, notificati dal comune di Sirmione.

La commissione tributaria regionale ha confermato la statuizione di inammissibilità osservando che i ricorsi erano in effetti da considerare tardivi, essendo stati gli accertamenti notificati per compiuta giacenza il 7 gennaio 2007 e i ricorsi a loro volta notificati nel successivo mese di giugno.

Il contribuente, in proprio e nella riferita qualità, ha proposto ricorso per cassazione basato su due motivi. Il comune di Sirmione ha resistito con controricorso e proposto, a sua volta, ricorso incidentale condizionato affidato a un motivo.

Il ricorrente principale ha depositato controricorso in replica al ricorso incidentale e, successivamente, una memoria.

Motivi della decisione
1. – Col primo motivo del ricorso principale è dedotta la violazione dell’art. 149 cod. proc. civ., L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, e L. n. 556 del 1996, art. 21, in quanto, atteso il principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e il destinatario, sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 477 del 2002, occorreva nella specie considerare che l’esito della notifica degli avvisi di accertamento si era avuto col ritiro del piego raccomandato il 12-4-2007; sicchè i ricorsi, essendo stati notificati l’8-6-2007, avrebbero dovuto esser considerati tempestivi.

2. – Il motivo, ove non inammissibile in relazione al prospettato quesito, che invero non si rinviene a conclusione della disamina, essendo stato il motivo concluso dalla enunciazione mera di un ipotizzabile principio di diritto, è comunque manifestamente infondato.

Contrariamente a quanto dal ricorrente sostenuto, la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 477 del 2002, per quanto introducendo nel sistema il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione a seconda che l’effetto rilevi per il notificante o per il destinatario, si è limitata a stabilire l’incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

La declaratoria non rileva affatto nel caso di specie, posto che viene qui in considerazione il problema esattamente opposto, vale a dire il problema del momento perfezionativo della notificazione dell’atto per il destinatario onde computare il termine di decadenza dell’impugnazione.

3. – Per ciò che attiene al destinatario, occorre far riferimento, nella notificazione a mezzo posta, alla L. n. 890 del 1982, art. 8, che detta la disciplina specifica per i casi in cui l’agente postale non possa recapitare il plico per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone legittimate a riceverlo.

Appare opportuno rammentarne i passaggi procedimentali, al fine di evidenziare in cosa consista l’errore interpretativo del ricorrente.

La norma citata prevede che nelle evenienze suddette il piego sia depositato lo stesso giorno presso l’ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza e che del tentativo di notifica del piego e del suo deposito sia data notizia al destinatario, a cura dell’agente postale preposto alla consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

L’avviso deve contenere l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell’ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell’indirizzo dell’ufficio postale o della sua dipendenza presso cui il deposito è stato effettuato, nonchè l’espresso invito al destinatario a provvedere al ricevimento del piego a lui destinato mediante ritiro dello stesso entro il termine massimo di sei mesi, “con l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l’atto sarà restituito al mittente”.

Trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma della norma appena detta, senza che il destinatario o un suo incaricato ne abbia curato il ritiro, l’avviso di ricevimento è poi restituito al mittente in raccomandazione con annotazione in calce, sottoscritta dall’agente postale, della data dell’avvenuto deposito e dei motivi che l’hanno determinato, dell’indicazione “atto non ritirato entro il termine di dieci giorni” e della data di restituzione.

E trascorsi sei mesi dalla data in cui il piego è stato depositato nell’ufficio postale o in una sua dipendenza senza che il destinatario o un suo incaricato ne abbia curato il ritiro, il piego stesso è restituito al mittente in raccomandazione con annotazione in calce, sottoscritta dall’agente postale, della data dell’avvenuto deposito e dei motivi che l’hanno determinato, dell’indicazione “non ritirato entro il termine di centottanta giorni” e della data di restituzione.

4. – In base alla disposizione introdotta, nel testo della norma, dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, “la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”.

Ne consegue che è inesatto sostenere che, in esito al principio di scissione soggettiva, il momento di perfezionamento della notificazione eseguita per posta sia sempre correlato, quanto al destinatario, alla materiale consegna dell’atto. Ciò accade nei casi in cui la materiale consegna (id est, propriamente, il ritiro) sia anteriore ai dieci giorni. Non anche invece nei casi in cui l’atto sia notificato per compiuta giacenza e il ritiro sia avvenuto dopo il decorso del termine detto dalla spedizione della raccomandata informativa, giacchè la notifica si ha giustappunto per eseguita “in ogni caso”, quanto al destinatario, decorsi dieci giorni dalla data di spedizione di quella raccomandata.

Onde rigettare il motivo di ricorso è allora sufficiente considerare che il ricorrente non ha mosso rilievo all’affermazione dell’impugnata sentenza circa il fatto che gli avvisi erano stati notificati “per compiuta giacenza, il 7 gennaio 2007”. In particolare non ha mosso rilievo alla circostanza che la notificazione per compiuta giacenza fosse valida in ragione dell’avvenuta successiva spedizione della raccomandata informativa. Egli ha insistito nel sostenere semplicemente che, essendo stato il plico in effetti ritirato il 12-4-2007 (nei sei mesi dalla data di deposito), la notifica dovevasi ritenere perfezionata, nei propri confronti, al momento del ritiro.

Ma questo è infondato giacchè, appunto, nei casi dianzi indicati, la notifica si perfeziona “in ogni caso” al decorso dei dieci giorni dal data di spedizione della raccomandata informativa.

5. – Col secondo motivo del ricorso principale è dedotta un’omessa motivazione su fatto controverso; fatto che sarebbe identificabile in quanto dedotto a suo tempo col secondo motivo del proposto appello.

Il motivo è inammissibile perchè non concluso dalla prescritta sintesi contenente la specificazione del fatto controverso, decisivo, in rapporto al quale andrebbe ritenuto il vizio di omessa motivazione.

6. – Consegue l’assorbimento del ricorso incidentale.

Spese alla soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale, e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella misura di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 1 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 10/12/2014) 30/12/2015, n. 26053

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.P., + ALTRI OMESSI rappresentati e difesi dall’avv. Lucisano Claudio, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma in via Crescenzio n. 91;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Rema alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente in rgn. 2597 del 2012 e resistente in rgn. 26357 del 2012 –

e EQUITALIA NORD (già Equitalia Esatri) spa, rappresentata e difesa dall’avv. Giuseppe Fiertler ed elettivamente domiciliata in Roma presso l’avv. Salvatore Torrisi alla via Federico Cesi n. 31;

– controricorrente in rgn. 2597 del 2012 –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 180/7/10, depositata il 30 novembre 2010;

ed avverso il diniego di definizione della lite pendente prot.

2012/101654 del 6 agosto 2012, notificato il 10 agosto 2012;

Udita la relazione delle cause svolta nella pubblica udienza del 10 dicembre 2014 dal Relatore Cons. Antonio Greco;

udita l’avvocato dello Stato Maria Camassa, rispettivamente, per la contro ricorrente e per la resistente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
C.P., + ALTRI OMESSI propongono ricorso per cassazione (rgn. 2597/12), sulla base di nove motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha confermato la fondatezza della pretesa manifestata con la cartella di pagamento, notificata il 30 luglio 2007, relativa all’avviso di liquidazione, notificato nel settembre 2002, emesso a seguito della sentenza della CTP di Milano del 21 aprile 1998, divenuta definitiva, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento ai fini dell’INVIM in relazione all’acquisto di un terreno edificabile sito nel Comune di Varese.

L’Agenzia delle entrate e la spa Equitalia Nord resistono con distinti controricorsi.

I contribuenti, successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione di cui si è detto, presentavano domanda di definizione della lite pendente ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, come convertito, domanda che veniva respinta dall’ufficio perchè “non valida”, atteso che la controversia “riguarda una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di liquidazione non impugnato e, pertanto, non è definibile. Inoltre la controversia ha un valore superiore ad Euro 20.000 e, quindi, non rientrerebbe, comunque, tra quelle per le quali non è prevista la definizione della lite”.

Avverso tale diniego i signori C. hanno presentato a questa Corte, dinanzi alla quale la lite era appunto pendente, ricorso (rgn. 26357/12) ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, comma 8.

L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione al fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
I ricorsi, siccome relativi al medesimo giudizio, vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia.

L’esame dell’impugnazione del diniego di definizione della lite pendente per ragioni logiche deve precedere.

I primi quattro motivi di tale ricorso sono infondati, in quanto correttamente il provvedimento rileva come la controversia “riguarda (l’impugnazione di) una cartella di pagamento…”, e non come dedotto dai contribuenti – che il ricorrente “non ha definito la cartella esattoriale”; quanto alla comunicazione e notificazione del diniego, è incontroverso che esse siano intervenute tempestivamente, vale a dire entro il 30 settembre 2012, come previsto dalla legge; il quinto motivo è inammissibile, in quanto concernente ipotesi, non ricorrenti nella specie, di liquidazione del tributo in base alla dichiarazione; il sesto motivo è inammissibile, in quanto l’indicazione del valore della lite è nel provvedimento ultronea (“inoltre …”), rispetto alla precedente ragione di esclusione (“la controversia riguarda una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di liquidazione non impugnato e, pertanto, non è definibile”); sono infondati il settimo e l’ottavo motivo, con i quali si assume che il solo Direttore centrale dell’Agenzia delle entrate avrebbe il potere di sottoscrivere il provvedimento in ordine all’istanza di condono, ovvero un soggetto con qualifica dirigenziale: lo stesso D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 39, comma 12, lettera d), infatti, fa in proposito riferimento solo a “gli uffici competenti” e a “la comunicazione degli uffici”, laddove alla successiva lett. f), in relazione alla determinazione delle modalità di versamento, il legislatore ha inteso prescrivere esplicitamente “provvedimenti del direttore dell’agenzia delle entrate”. Quanto infine al dedotto vizio della notifica del diniego, i contribuenti con l’impugnazione dell’atto e con le difese spiegate hanno dimostrato di averne piena conoscenza, con conseguente sanatoria di un eventuale vizio, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., applicabile nella materia tributaria anche agli atti non processuali.

Il ricorso è pertanto complessivamente infondato, sicchè occorre passare all’esame delle censure rivolte con il ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR della Lombardia.

Il primo motivo, con il quale si chiede pronuncia di estinzione per intervenuto condono, si rivela privo di pregio, essendo stata respinta, come si è visto sopra, la domanda di definizione formulata ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12.

Con il secondo motivo i contribuenti si dolgono che l’Agenzia delle entrate non abbia proposto l’appello anche nei confronti dell’agente per la riscossine, presente in primo grado, il quale pure aveva poi autonomamente proposto appello.

Il motivo è infondato, ove si consideri che il concessionario per la riscossione, infatti, “a parte l’esercizio dei poteri propri, volti alla riscossione delle imposte iscritte nel ruolo, nell’operazione di portare a conoscenza del contribuente il ruolo, dispiega una mera funzione di notifica, ovverosia di trasmissione al destinatario del titolo esecutivo così come, salva l’ipotesi di errore materiale, formato dall’ente e, pertanto, non è passivamente legittimato a rispondere di vizi propri del ruolo, come trasfuso nella cartella” (Cass. n. 933 del 2009).

Col terzo motivo i contribuenti censurano la decisione, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per aver ritenuto legittimo, da parte dell’ufficio, l’impiego del messo speciale per la notificazione dell’appello.

Il motivo è infondato, alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale nel processo tributario “il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16 ha natura di norma generale e regola le modalità delle notificazioni degli atti del processo tributario, dettando una disciplina speciale sia per il contribuente sia per gli organi dell’Amministrazione tributaria; il comma 4 della cit.

disposizione ha per oggetto solo atti dell’Amministrazione tributaria, prevedendo un’ulteriore modalità di notificazione a disposizione degli uffici pubblici, che consiste nella possibilità di avvalersi di messi comunali o di messi autorizzati. Tale regola, per ragioni, non tanto letterali, quanto logiche e sistematiche, si applica anche alla notificazione del ricorso in appello: applicando detto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della commissione tributaria regionale che aveva invece dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate perchè curato non dall’ufficiale giudiziario bensì dal messo speciale” (tra le altre, Cass. n. 23618 del 2011).

Con il quarto motivo assumono che l’avviso di liquidazione alla base della cartella di pagamento impugnata sarebbe stato emesso oltre il termine di decadenza fissato.

Il rilievo è inammissibile in quanto, posto che è incontroversa la regolare notificazione dell’avviso di liquidazione, in sede di impugnazione della successiva cartella di pagamento è possibile dedurre solo vizi propri della cartella stessa.

Con il quinto motivo, assumono che dovrebbe distinguersi fra vizi della cartella di pagamento e vizi dell’iscrizione a ruolo.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito dell’autosufficienza, in quanto, posto che l’iscrizione a ruolo non ha un rilievo esterno autonomo, acquistandolo solo con la notificazione della cartella di pagamento, i contribuenti non indicano il vizio dell’iscrizione a ruolo che sarebbe deducibile impugnando il prodromico avviso di liquidazione, atto che, all’evidenza, svolge nel procedimento una diversa funzione.

Con il sesto motivo assumono che il ruolo non sarebbe motivato, perchè, in luogo di richiamare “il primo atto ad esso presupposto, vale a dire l’avviso di liquidazione, richiami l’atto a quest’ultimo presupposto, vale a dire l’avviso di rettifica.

Il motivo è infondato, in quanto, come si legge nella sentenza impugnata, “la cartella contiene esplicito riferimento all’atto cui si riferisce la richiesta, nonchè alla sentenza emessa dalla CT che ha reso definitivo l’accertamento in quanto non impugnato. Sulla base di questi dati i contribuenti erano in grado di conoscere perfettamente la pretesa erariale”.

Con il settimo motivo assumono che vi sarebbe una duplicazione delle somme richieste, sulla base, da una parte dell’avviso di rettifica, e dall’altra parte, dell’avviso di liquidazione.

Il motivo è infondato, in quanto, come chiarito dal giudice d’appello, “il ruolo e la conseguente cartella sono stati formati a seguito dell’avvenuta definitività dell’accertamento e del mancato pagamento dell’imposta complementare portata dall’avviso di liquidazione, atto non impugnato.

L’ottavo motivo, con il quale ci si duole della mancata i sottoscrizione del ruolo da parte del capo dell’ufficio, incorre nello stesso errore commesso con il quinto motivo, perchè non considera che l’iscrizione a ruolo non ha un autonomo rilievo esterno, essendo “portata” dalla cartella di pagamento, la quale deve essere notificata al contribuente, e per la quale non è prescritta la sottoscrizione del titolare dell’ufficio. Questa Corte ha in proposito chiarito che “in tema di riscossione delle imposte sul reddito, la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacchè l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge” (tra le altre, Cass. n. 13461 del 2012). A norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25 poi, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice.

Per le ragioni esposte con riguardo al settimo ed all’ottavo motivo, è inammissibile il nono motivo del ricorso, con il quale si lamenti il mancato esame del dedotto “vizio relativo alla sottoscrizione del ruolo da parte di un soggetto privo di qualifica dirigenziale”.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte, riunito al presente il ricorso rgn. 26357 del 2012, rigetta i ricorsi.

Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, liquidate in Euro 6.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito in favore dell’Agenzia delle entrate, ed in Euro 4.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, in favore di Equitalia Nord spa.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2015


Cass.Civ. Sez. Unite, Sent., 09-12-2015, n. 24822

I diversi momenti in cui si considera avvenuta la notificazione di un atto per il notificante e per il notificando.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24822 del 9 dicembre 2015, hanno risolto una questione molto dibattuta relativa al termine di prescrizione di un diritto che può essere esercitato solo attraverso l’adozione di un atto processuale.

La questione sottostante riguarda i diversi momenti in cui si considera avvenuta la notificazione di un atto per il notificante e per il notificando, c.d. principio di “scissione”.

Tale principio, derivante dalla nota sentenza della Corte Cost. n. 477/2002, considera avvenuta la notifica per il primo al momento della consegna dell’atto all’ufficio notificante, e per il secondo al momento della ricezione dell’atto, salvaguardando entrambe le ragioni di tempestività dell’esercizio del diritto e di conoscenza dell’atto.

Ma tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali diretti a una persona determinata, per i quali vi è lo sbarramento dell’art. 1334 che ne ricollega l’efficacia alla conoscenza del destinatario (o conoscibilità).

Ma proprio questo è il punctum dolens: quando un diritto, per evitarne la prescrizione, può essere esercitato solo attraverso il compimento di un atto processuale (nel caso notificazione della citazione per revocatoria), tale atto è, e resta, di natura processuale, pur producendo un effetto sostanziale (costituzione in mora), quello cioè di interrompere il termine di prescrizione per l’esercizio del diritto.

Quindi le Sezioni Unite criticano l’interpretazione prevalente che vede nell’atto di esercizio dell’azione revocatoria un atto sostanziale al quale non può estendersi il principio della scissione degli effetti della notifica per il notificante e per il notificando.

Di conseguenza, se la prescrizione può essere evitata solo attraverso l’esercizio del diritto, deve considerarsi esercizio del diritto anche quello di notifica della citazione contenente domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. quando questo costituisce l’unico mezzo di esercizio del relativo diritto e gli effetti della notifica si compiranno per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficio notificante entro il termine assegnatogli dalla legge, e per il notificando al momento della ricezione dell’atto, senza alcun sacrificio delle ragioni di quest’ultimo perché saranno assicurati sia la certezza dei rapporti giuridici sia il diritto di difesa, entrambi sotto il più ampio principio di ragionevolezza che deve permeare ogni regola diretta a dirimere contrapposti interessi.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 09-12-2015, n. 24822

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. – Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione – Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere – Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere – Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere – Dott. DI IASI Camilla – Consigliere – Dott. PETITTI Stefano – Consigliere – Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere – Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

– ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 3973/2012 proposto da: A.P. (OMISSIS), A.V. (OMISSIS), L.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SILLA 28, presso lo studio dell’avvocato CARMINE COSENTINO, rappresentati e difesi dall’avvocato VERGA ANGELO, per delega a margine del ricorso; – ricorrenti

– contro COMUNE DI CASSANO MAGNAGO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, rappresentato e difeso dall’avvocato DE NORA LUCA, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente – e contro LATERE S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, EDIL ADELIA S.A.S DI BALDAN FLORIANO & C., P.A. in proprio e nella qualità di titolare della Immobiliare Romina, M.D., MA.LU., S. A.;

– intimati

– avverso la sentenza n. 2098/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 12/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/07/2015 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

uditi gli avvocati Angelo VERGA, Giovanni CORBYONS per delega dell’avvocato Luca De Nora;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso.

Svolgimento del processo

A.P. e V. ed L.A. convennero, davanti al tribunale di Busto Arsizio, le società Latere s.r.l. in liquidazione ed Edil Adelia s.a.s. di Floriano Baldan & e, il Comune di Cassano Magnago, P.A., in proprio e nella qualità di legale rappresentante dell’impresa individuale immobiliare Romani di P.A., M.D., Ma.Lu. ed S. A., chiedendo, in qualità di confideiussori della Latere s.r.l., già intimati in regresso da altro fideiussore, che la società fosse dichiarata tenuta, ex artt. 1950 e 1953 c.c., a procurare la loro liberazione, ovvero ad apprestare le garanzie necessarie al soddisfacimento del loro diritto di ulteriore regresso.

Gli attori chiesero, inoltre, che fosse pronunciata, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’inefficacia, nei loro confronti, dell’atto del 17 novembre 1999 con il quale la Latere s.r.l. aveva venduto alla Edil Adelia s.a.s. alcuni terreni edificabili siti nel Comune di Cassano Magnago e della convenzione edilizia conclusa tra la società acquirente e l’Amministrazione comunale per la realizzazione di un programma edificatorio, nonché il risarcimento dei danni. Il Tribunale rigettò la domanda ex artt. 1950 e 1953 c.c., proposta nei confronti della società Latere s.r.l.; dichiarò prescritta l’azione revocatoria relativa alla compravendita immobiliare del 17 novembre 1999 tra la Latere s.r.l. e la Edil Adelia s.a.s.; dichiarò la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in ordine all’azione revocatoria relativa alla convenzione edilizia; rigettò la richiesta di risarcimento danni.

Queste statuizioni furono confermate dalla Corte di Appello di Milano che, con sentenza del 12.7.2011, rigettò l’appello proposto dagli originari attori. Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria A.P. e V. ed L.A.. Resiste con controricorso il Comune di Cassano Magnago. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

La Terza Sezione Civile della Corte di cassazione, con ordinanza del 26.1.2015, emessa all’esito dell’udienza del 6.11.2014, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Il Primo Presidente ha provveduto in tal senso.

Il ricorso è stato chiamato alla presente udienza davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Motivi della decisione

1. La questione posta dall’ordinanza di rimessione. La questione riguarda i limiti di estensione del principio della diversa decorrenza degli effetti della notificazione nelle sfere giuridiche, rispettivamente, del notificante e del destinatario.

E’ chiesto un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sui limiti di operatività del principio: se debba, cioè, essere riferita ai soli atti processuali, o possa essere ampliata alla notificazione di atti sostanziali od, eventualmente, di atti processuali che producano effetti anche sostanziali.

Il quesito è relativo alla notificazione dell’atto di citazione in revocatoria ed, in particolare, quel che si tratta di individuare è il momento di interruzione della prescrizione ex art. 2903 c.c..

Il problema, quindi, riguarda l’estensione del principio della differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario.

La portata della regola – che è stata introdotta nell’ordinamento dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 e che, successivamente, è stata recepita dal legislatore nell’art. 149 c.p.c., – è stata circoscritta da numerose decisioni della Corte di Cassazione.

Per Cass. n. 9303 del 2012, la regola della differente decorrenza degli effetti della notificazione non trova applicazione in tema di esercizio del diritto di riscatto dell’immobile locato da parte del conduttore ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 39.

Nella decisione è stato sottolineato il carattere ricettizio della dichiarazione di riscatto, affermando che “affinché possa operare la presunzione di conoscenza della dichiarazione diretta a persona determinata stabilita dall’art. 1335 cod. civ., occorre la prova, il cui onere incombe al dichiarante, che la stessa sia stata recapitata all’indirizzo del destinatario, e cioè, nel caso di corrispondenza, che questa sia stata consegnata presso tale indirizzo”.

Ai fini dell’operatività della presunzione è stato quindi ritenuto insufficiente un tentativo di recapito ad opera dell’agente postale, tutte le volte in cui questo, ritenuto – sia pure a torto – il destinatario sconosciuto all’indirizzo indicato nella raccomandata, ne abbia disposto il rinvio al mittente, stante la mancanza, in casi siffatti, di ogni concreta possibilità per il soggetto al quale la lettera è diretta, di venirne a conoscenza. Si è segnatamente esclusa la possibilità di richiamare, in senso contrario, la disciplina del recapito delle raccomandate con deposito delle stesse presso l’ufficio postale e rilascio dell’avviso di giacenza, evidenziandosi come, in tal caso, sussista comunque la possibilità di conoscenza del contenuto della dichiarazione, tanto più che questa si ritiene pervenuta all’indirizzo indicato solo dal momento del rilascio dell’avviso di giacenza del plico”.

L’atto con il quale è esercitato il diritto potestativo di riscatto, quindi, si esercita attraverso una dichiarazione unilaterale ricettizia di carattere negoziale, idonea a determinare ex lege l’acquisto dell’immobile a favore del retraente.

Una tale dichiarazione produce i propri effetti solo una volta che sia pervenuta a conoscenza della controparte o, comunque, in base alla presunzione di cui all’art. 1335 c.c., nella sfera di normale conoscibilità della persona interessata.

Secondo la decisione, il principio della scissione soggettiva della notificazione, trovando la sua giustificazione nella tutela dell’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità, è stato implicitamente circoscritto dalla stessa Corte Costituzionale ai soli atti processuali.

L’estensione della regola fuori da tale ambito sarebbe in contrasto con il principio generale di certezza dei rapporti giuridici che, ai fini dell’efficacia degli atti unilaterali ricettizi, richiede la conoscenza o conoscibilità dell’atto da parte della persona interessata.

Eguale regola è affermata da Cass. n. 15671 del 2011 secondo la quale la mera consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto di accettazione della proposta di alienazione del fondo rustico non è idonea a interrompere il decorso del termine prescrizionale per l’esercizio del diritto di riscatto spettante all’affittuario, essendo a questo fine necessario che l’atto sia giunto a conoscenza, ancorché legale e non necessariamente effettiva, del soggetto al quale è diretto.

Altro profilo di intuitiva delicatezza è quello dell’interruzione della prescrizione che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., consegue alla notificazione dell’atto di citazione.

Cass. n. 13588 del 2009, seguendo l’indirizzo prevalente, ha affermato che la consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare non è idonea ad interrompere il decorso del termine prescrizionale del diritto fatto valere.

Ciò perché “il principio generale – affermato dalla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale – secondo cui, quale sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell’affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario, non si estenda all’ipotesi di estinzione del diritto per prescrizione in quanto, perché l’atto, giudiziale o stragiudiziale, produca l’effetto interruttivo del termine, è necessario che lo stesso sia giunto alla conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) del destinatario”.

Negli stessi termini Cass. n. 18759 del 2013.

Secondo l’indirizzo prevalente (pur essendovi decisioni di senso contrario cui si accennerà in seguito; ma sul punto v. anche Cass. n. 18399 del 2009; S.U. n.8830 del 2010) la scissione degli effetti per il mittente e per il destinatario si applica solo alla notifica degli atti processuali e non a quella degli atti sostanziali, né agli effetti sostanziali degli atti processuali.

Questi ultimi, pertanto, producono i loro effetti soltanto dal momento in cui pervengono all’indirizzo del destinatario, a nulla rilevando il momento in cui siano stati consegnati dal notificante all’ufficiale giudiziario od all’ufficio postale.

L’ordinanza, sul presupposto che i valori costituzionali perseguiti con il principio della “scissione” sarebbero insensibili alla natura – processuale o sostanziale – degli effetti dell’atto notificato, propone una serie di argomenti a sostegno della necessità di rimeditare l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, ampliando lo spazio di azione della regola della diversa decorrenza.

Il principio trova la sua giustificazione nella necessità di coordinare la garanzia di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso.

L’ordinanza, poi, si sofferma sulla principale obiezione mossa all’estensione del principio di scissione degli effetti alla notificazione degli atti sostanziali. Nessuna lesione alla certezza del diritto, infatti, potrebbe provocare l’applicazione di una regola che presuppone per la sua piena operatività che il procedimento di notificazione sia portato a regolare compimento, con la piena garanzia di conoscenza (o, quanto meno, di conoscibilità legale) dell’atto da parte del destinatario.

Tale esigenza di certezza, peraltro, si pone in termini analoghi anche in relazione ai soli effetti processuali dell’atto notificato, in ordine ai quali la regola della scissione degli effetti costituisce ormai un punto fermo nel panorama dell’ordinamento positivo.

La posizione giuridica del destinatario, infatti, non risente di maggior incertezza solo perché la diversa decorrenza degli effetti venga fatta operare ai fini sostanziali anziché nell’ambito processuale.

L’orientamento contrario all’estensione della regola agli atti sostanziali – secondo l’ordinanza di rimessione – sarebbe poi immotivato proprio nei casi in cui un effetto sostanziale sia conseguibile soltanto con la notificazione di un atto processuale.

Il riferimento, in particolare, è al termine di prescrizione dell’azione revocatoria, che non potrebbe essere interrotto se non mediante la notificazione dell’atto di citazione.

In queste fattispecie, la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione non è solo un incombente materiale di per sé significativo della cessazione dello stato di protratta inerzia che giustificherebbe altrimenti l’estinzione del diritto, ma rappresenta l’esercizio di un vero e proprio diritto potestativo del creditore al quale corrisponde, in capo al debitore, non già un obbligo di prestazione, ma uno stato di mera attesa e soggezione all’altrui iniziativa giudiziale. In tali evenienze, il creditore deve essere ammesso ad esercitare il suo diritto, usufruendo del termine prescrizionale per intero e non al “netto” dei giorni di ritardo ipoteticamente ascrivibili all’agente notificatore.

Il richiamo al normale carattere recettizio dell’atto unilaterale ex artt. 1334 e 1335 c.c., pertanto, dovrebbe cedere se messo in relazione, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2943 c.c., alla notificazione di un atto che soggiace ad un principio generale la cui ratio è quella di tenere indenne il notificante delle cause di perenzione non ascrivibili alla sua responsabilità.

2. La portata della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002.

Originariamente la notifica si perfezionava al momento della conoscenza o conoscibilità legale del destinatario: e questa conclusione era coerente, sia con la natura del procedimento di notificazione (attività che si perfeziona al momento in cui l’atto notificato è conosciuto o conoscibile dal destinatario), sia con la natura di atto recettizio dell’atto da notificare (ovviamente questa considerazione vale solo per gli atti recettizi).

L’incostituzionalità viene affermata sia sotto il profilo del diritto di difesa (e qui il riferimento è circoscritto agli atti giudiziari e amministrativi), sia sotto il profilo della ragionevolezza (un effetto di decadenza che discende dal ritardo di un’attività non imputabile al notificante in quanto del tutto estranea alla sua sfera di disponibilità).

Va rilevato che nella impostazione della Corte costituzionale il parametro del diritto di difesa appare svolgere una funzione logica complementare e aggiuntiva: il vero parametro di costituzionalità è il principio di ragionevolezza.

3. Capacità espansiva dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale.

Se non ci fosse stata la sentenza della Corte costituzionale la norma del 2943 c.c. sarebbe stata risolutiva per dirimere la questione, ma la sentenza della Corte cost. incide proprio sulla interpretazione del termine notificazione di cui all’art. 2943 c.c..

In altri termini, dobbiamo dare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dell’art. 2943 c.c..

Diversamente, dovremmo affermare che la sentenza costituzionale, mentre ha inciso su tutte le altre disposizioni normative in cui ricorre il termine notificazione di un atto processuale non ha inciso proprio sull’interpretazione dello stesso termine ricorrente nell’art. 2943 c.c.: disparità interpretativa difficilmente razionalizzabile.

Si tratta ora di valutare la portata espansiva della pronuncia della Corte nell’interpretazione delle norme vigenti.

Il richiamo al diritto di difesa suggerirebbe una limitazione delle potenzialità interpretative del principio costituzionale ai soli atti in cui viene effettivamente in rilievo il diritto di difesa: atti giudiziari e amministrativi. Ma si è appena visto che la ratio decidendi della pronuncia costituzionale è – prima ancora che il diritto di difesa – il principio di ragionevolezza. E tale principio ha una potenzialità espansiva – sul piano interpretativo – notevolmente superiore rispetto al principio di difesa.

3.1. Il principio di ragionevolezza implica un bilanciamento dei beni in conflitto.

All’esito del bilanciamento un bene viene sacrificato a vantaggio di un altro bene.

La tecnica del bilanciamento avviene attraverso vari steps:

a) primo step: il sacrificio di un bene deve essere necessario per garantire la tutela di un bene di preminente valore costituzionale (per esempio, certezza e stabilità delle relazioni giuridiche);

b) secondo step: a parità di effetti, si deve optare per il sacrificio minore;

c) terzo step: deve essere tutelata la parte che non versa in colpa;

d) quarto step: se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere.

4. Non esiste una soluzione generalizzata per tutte le norme e per tutti i casi.

Con la tecnica del bilanciamento la Corte costituzionale (ma lo stesso procedimento logico lo adotta la Corte Edu) costruisce una norma traendola dalla disposizione di legge.

Il giudice ordinario per compiere una interpretazione costituzionalmente orientata deve procedere allo stesso modo:

– esaminare una singola disposizione;

– individuare i beni in conflitto;

– compiere un giudizio di bilanciamento secondo i passaggi logici sopra indicati;

– infine, estrarre la norma dalla disposizione.

E’ proprio nella natura della tecnica del bilanciamento che una soluzione normativa valida per una disposizione non sia valida per un’altra: proprio perché nel giudizio di bilanciamento è ben possibile che in un caso normativo si dia preminente tutela al notificante e in altro caso normativo (cioè in riferimento ad un’altra disposizione: parliamo – inutile dirlo – di norme e non di casi pratici specifici) si dia tutela al notificato.

5. La scissione soggettiva degli effetti della notificazione: non è un principio valido per tutte le ipotesi normative.

La giurisprudenza solitamente vede con disfavore questa scissione.

Le obiezioni ricorrenti sono due:

a) la teoria dell’atto ricettizio: nel caso degli atti ricettizi, la fattispecie si perfeziona con la consegna. Pertanto, prima della consegna la fattispecie è incompleta e una fattispecie incompleta non può produrre effetti;

b) la teoria della notificazione: la notificazione è una fattispecie a formazione progressiva, prima che sia perfezionata (con la conoscenza o conoscibilità legale da parte del destinatario), siamo in presenza di una fattispecie imperfetta e la fattispecie imperfetta non produce effetti. Al fondo, le remore giurisprudenziali e dottrinali verso il principio di scissione sancito dalla Corte costituzionale si riassumono in un timore: il pregiudizio per il superiore principio della certezza delle situazioni giuridiche. Tale timore può essere dominato se si considera che, in realtà, il principio di scissione comporta una distinzione tra l’an e il quando degli effetti della notifica.

Invero:

a) se la notifica non si perfeziona, la notifica non produce effetto alcuno e decadono anche gli effetti provvisoriamente prodotti: se non si realizza l’an, è inutile pure discutere del quando.

b) se la notifica si perfeziona, gli effetti di essa retroagiscono per il notificante al momento in cui ha consegnato all’ufficiale giudiziario (ma lo stesso discorso vale per le notifiche a mezzo posta) l’atto da notificare. In altri termini, tale consegna produce per il notificante effetti immediati e provvisori, che si stabilizzano e diventano definitivi se e solo se la notifica viene validamente perfezionata.

Come si vede, la scissione soggettiva della notifica non pregiudica minimamente il valore della certezza delle situazioni giuridiche perché:

– se la notifica non si perfeziona, nessun effetto si produce e gli effetti provvisori eventualmente prodotti si annullano;

– se la notifica si perfeziona, le situazioni giuridiche sono certe perché vengono individuati con certezza i due momenti in cui gli effetti differenziati si producono: per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il notificato al momento della ricezione legale dell’atto.

5.1. Il vero problema è l’incertezza giuridica medio tempore: è nel periodo di tempo tra la consegna da parte del notificante dell’atto per la notifica e la ricezione legale dell’atto da parte del notificato. E’ questa grigia zona di tempo in cui domina l’incertezza giuridica per il notificante ed il destinatario che va chiarificata. Ed è qui che opera la tecnica interpretativa del bilanciamento che – come si è detto – non vale in generale, ma soltanto per categorie di atti.

A) gli atti processuali.

Il notificante ha un termine a difesa o, comunque, un termine per svolgere la sua attività processuale. Questo termine gli deve essere riconosciuto per intero. Quindi, egli va tutelato anche se consegna l’atto all’ufficiale giudiziario proprio allo scadere del termine. Non gli si può obiettare: “per un principio di precauzione (che ti impone un onere di prudenza e diligenza), avresti dovuto consegnare l’atto all’ufficiale giudiziario qualche giorno prima in modo da garantirti una notifica nei termini” Infatti, la controreplica è agevole: “quanti giorni prima?”. E’ proprio qui che si anniderebbe l’incertezza giuridica che invece si vorrebbe garantire. Infatti, non può stabilirsi a priori quando un anticipo può dirsi congrue. Ed ancora: “chi mi garantisce che se consegno l’atto all’ufficiale giudiziario una settimana prima, la notifica avverrà nei termini? E se avviene fuori termine lo stesso, che succede?”. Alla fine, c’è un argomento risolutivo: “se la legge mi riconosce un termine di 30 giorni per espletare una attività difensiva, perché lo devo ridurre a 15 o a 20 per avere (non la sicurezza) ma la probabilità della notifica nei termini?”. Quello che si è appena detto per gli atti difensivi, vale per tutti gli atti processuali. Non sarebbe ragionevole distinguere tra atti processuali difensivi e gli altri atti processuali: la soluzione deve essere la stessa per tutti gli atti per i quali la legge riconosce ad una parte un potere di agire processuale. Va aggiunto che nessun pregiudizio (se non quello psicologico dell’attesa) subisce il notificato: il dies a quo per le sua facoltà processuali ù riconosciute per quel tipo di atto dall’ordinamento – scatterà dal momento della notifica. Quindi per gli atti processuali tutti, senza distinzione tra diritto di difesa e altre attività processuali – opera il principio di scissione. In questo caso entrambe le parti sono incolpevoli, ma il legislatore ha allocato la perdita sul notificante.

B) Gli atti negoziali unilaterali. Per gli atti sostanziali la tecnica del bilanciamento è preclusa da una norma specifica (art. 1334 c.c.): qui il bilanciamento lo ha già fatto il legislatore. Sta di fatto che l’inequivoco testo della norma (qui viene in rilievo il pur discusso brocardo in claris non fit interpretatio) preclude all’interprete ogni diversa interpretazione rispetto a quella fatta palese dal significato delle parole.

6. La revocatoria e la decisione di questa Suprema Corte. La domanda di revocatoria ha un effetto processuale e un effetto sostanziale. La giurisprudenza (Cass. 29.11.2013 n. 26804) è incline a ritenere che l’effetto interruttivo della prescrizione si verifichi al momento della notifica al destinatario dell’atto di citazione. Tale affermazione fonda le sue radici sul fatto che la decorrenza degli effetti dalla notifica al destinatario assicura la certezza delle situazioni giuridiche.

Agli argomenti addotti è agevole ribattere:

a) la regola dell’art. 1334 c.c. è dettata (come risulta anche dalla sedes in cui è collocata) per gli atti negoziali: l’atto di citazione non è un atto negoziale, ovviamente.

b) si tratterebbe allora di estendere l’art. 1334 c.c., agli atti processuali con effetti sostanziali.

Ma qui c’è lo sbarramento del criterio ermeneutico letterale: pertanto, nessuna interpretazione estensiva consente di applicare una regola nata per regolare atti negoziali unilaterali agli atti processuali.

c) occorrerebbe allora procedere in via di interpretazione analogica: ma non c’è nessuna analogia tra atti negoziali e atti processuali. Anziché la eadem ratio, c’è la ratio contraria: il principio fissato dalla Corte costituzionale tutela il diritto di agire e – prima ancora – il principio di ragionevolezza.

Ora, la giurisprudenza prevalente applica la regola dell’art. 1334, per analogia, ma in presenza di presupposti contrari all’analogia, ad un atto processuale sacrificando il diritto di azione.

Ma c’è di più: si è visto che il principio affermato dalla Corte costituzionale ha una portata espansiva potenzialmente applicabile a tutti gli atti (processuali e negoziali) in quanto il parametro di costituzionalità utilizzato dalla Corte costituzionale non è solo il diritto di difesa, ma soprattutto il principio di ragionevolezza. L’espansione in via interpretativa agli atti negoziali è impedita dall’esistenza di una norma specifica (l’art. 1334 c.c. appunto). Ora, dove tale norma non opera, deve espandersi il principio generale: art. 12 delle preleggi, cioè non l’analogia legis (quindi applicazione analogica dell’art. 1334, agli atti processuali ad effetti sostanziali), bensì l’analogia iuris (cioè applicazione agli atti- ove una norma specifica non disponga diversamente – del principio generale sancito dalla Corte costituzionale).

d) l’interpretazione prevalente si espone ad un’ulteriore obiezione: essa afferma che nell’atto di citazione si dovrebbe vedere anche una costituzione in mora (dunque, un atto recettizio). La giurisprudenza dominante purtroppo non approfondisce il tema, ma opera una sorta di commistione tra effetti sostanziali e struttura dell’atto. Dovremmo ritenere che secondo la giurisprudenza dominante l’atto di citazione per revocatoria abbia una duplice natura: processuale- negoziale? Ma questa è una costruzione arbitraria non consentita dalle norme: ad essere consequenziali dovremmo allora ritenere che i vizi dell’atto negoziale di costituzione in mora (quale ad esempio un vizio di volontà) si propaghi all’atto processuale della citazione contro il principio consolidato dell’irrilevanza della volontà negli atti processuali. Dunque, l’assunto inespresso ma presente nella giurisprudenza prevalente (quella della duplice natura processuale e negoziale: atto di citazione e contemporaneamente costituzione in mora) porta ad un groviglio di problemi.

In sostanza sovrappone gli effetti dell’atto alla natura dell’atto: che un atto processuale produca effetti sostanziali non significa che esso cambi natura: o per meglio dire sviluppi una doppia natura, natura formale (atto di citazione) e una natura nascosta ma baluginante (atto di costituzione in mora);

e) da ultimo, l’invocato principio della certezza dei rapporti giuridici. In questa obiezione c’è un aspetto paradossale: quasi che la certezza giuridica riguardi solo gli atti sostanziali e non anche gli atti processuali. Anche per gli atti processuali (il processo ci sta proprio per questo) vale il principio della certezza giuridica. Ma come si è a suo tempo visto, è apodittico affermare che la certezza giuridica sia tutelata soltanto dalla regola che gli effetti dell’atto si producono solo dal momento della notifica al destinatario e non dalla regola che tali effetti possono provvisoriamente prodursi fin dal momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, salvo il consolidamento definitivo degli effetti al momento di perfezionamento della fattispecie.

L’incertezza giuridica è solo temporanea (e concerne il periodo tra consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e sua notifica al destinatario). Ora, questa incertezza temporanea destinata a dissolversi alla fine nella certezza giuridica è – per così dire – una servitus iustitiae, cioè un danno temporaneo che ben può essere imposto ad una parte incolpevole (il notificando) per evitare un danno ben più grave e definitivo al notificante, parte ugualmente incolpevole. Più in generale, se il diritto si estingue per prescrizione quando non è esercitato, ciò che vale ad impedire che la prescrizione maturi è che il diritto sia esercitato.

Se il diritto deve o può esserlo dando inizio al giudizio, dare inizio al giudizio è atto di esercizio del diritto e quindi ciò che rileva è che l’avente diritto abbia compiuto gli atti necessari per iniziarlo, non che nel termine l’obbligato lo venga a sapere; se è stato iniziato ed è stato fatto quanto necessario perché sulla sua base prosegua, il convenuto sarà posto in grado di difendersi a proposito della tempestività dell’atto di inizio. Ciò vuol dire che, per impedire il maturarsi della prescrizione, è necessario che il diritto sia stato esercitato nel termine. E questo è un fatto oggettivo, che non dipende dalla conoscenza che l’obbligato ne abbia; il completamento del procedimento di notificazione, necessario perché la prescrizione non si perfezioni, mette il convenuto nella condizione di verificare se la prescrizione si è o no maturata. La soluzione accolta, che applica la tecnica interpretativa del bilanciamento, è del tutto ragionevole.

Invero: – il notificante non ha colpe; – il notificato lucra sul ritardo dell’ufficiale giudiziario; Dunque, il notificante subisce un danno senza colpa (quello che doveva fare l’ha fatto nei termini) il notificato gode di un vantaggio senza merito: è il puro caso che gli attribuisce il guadagno. Si tratta di scegliere se allocare la perdita sulla parte incolpevole e allocare il guadagno sulla parte immeritevole.

La giurisprudenza qui criticata, in sostanza, fa decidere al caso il torto e la ragione. Ma è proprio applicando la tecnica del bilanciamento che si trova la soluzione. Non si può allocare sul notificante incolpevole la perdita definitiva del diritto quando basterebbe imporre al notificato il lieve peso di un onere di attesa, dettato dal principio di precauzione. Entrambe le parti sono incolpevoli. Ma nel bilanciamento tra la perdita definitiva del diritto per una parte e un lucro indebito per l’altra parte, la soluzione più razionale è quella di salvaguardare il diritto di una parte incolpevole ponendo a carico dell’altra parte – parimenti incolpevole – un pati, cioè una situazione di attesa che non pregiudica, comunque, la sua sfera giuridica.

Da ultimo, si potrebbe obiettare: la tecnica del bilanciamento porta a soluzioni opposte per gli atti sostanziali e per quelli processuali: nel primo caso il bilanciamento operato dal legislatore (art. 1334 c.c.) privilegia il notificato, nel secondo caso (bilanciamento operato dalla giurisprudenza mediante interpretazione) si privilegia il notificante. In realtà, si tratta di conflitto apparente: si è premesso e più volte ripetuto che è proprio nella logica del bilanciamento che non può esservi una soluzione valida per tutti i casi. Nel nostro caso, gli opposti esiti del bilanciamento derivano dalla opposta natura degli atti che vengono in rilievo: atti sostanziali e atti processuali.

Per gli atti negoziali unilaterali un diritto non può dirsi esercitato se l’atto non perviene a conoscenza del destinatario. Per gli atti processuali il diritto (processuale) è esercitato con la consegna dell’atto all’ufficio notificante. La ratio posta a base di queste opposte soluzioni (atti negoziali unilaterali e atti processuali) implica una fondamentale actio finium regundorum: la soluzione a favore del notificante vale nel solo caso in cui l’esercizio del diritto può essere fatto valere solo mediante atti processuali. In ogni altro caso – e indipendentemente dalle scelte del soggetto che intende interrompere la prescrizione (l’ordinamento non può consentire che il pregiudizio per la parte destinataria, incolpevole, derivi dalle scelte arbitrarie e ad libitum della controparte) – opera la soluzione opposta. In conclusione, quando il diritto non si può far valere se non con un atto processuale, non si può sfuggire alla conseguenza che la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica. 7. L’esame del ricorso. Alla luce dei principi enunciati va ora esaminato il ricorso.

I ricorrenti hanno proposto due motivi:

1) violazione o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2903 e 2943 c.c., e art. 149 c.p.c., per aver erroneamente ritenuto che la consegna all’Ufficiale Giudiziario, dell’atto di citazione da notificare, non sia idoneo ad interrompere il decorso del termine prescrizionale previsto dall’art. 2903 c.c..

2) violazione o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1953 e 1950 c.c., per aver erroneamente ritenuto che dopo l’avvenuto pagamento – sia pure ad opera di altro coobbligato come nella specie – c’è solo la surrogazione o il regresso.

Il primo motivo è fondato in conseguenza delle conclusioni raggiunte sul tema dei tempi e dei modi di interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria, oggetto del giudizio di merito. La consegna dell’atto di citazione introduttivo del giudizio in data 17.11.2004, quando ancora non era scaduto il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2903 c.c., rende tempestivo l’esercizio dell’azione revocatoria. Conseguente è il suo esame nel merito.

Il secondo motivo non è fondato. E’ fuor di discussione che prima del pagamento il fideiussore possa esercitare, a sua scelta, contro il debitore principale, o l’azione di rilievo c.d. per liberazione, o l’azione di rilievo c.d. per cauzione. Questo, però, solo nei cinque casi previsti dall’art. 1953 c.c. e soltanto, prima del pagamento, poiché, dopo, può essere esercitata solo la surrogazione ed il regresso (v. anche Cass. 13.5.2002 n. 6808 indipendentemente dalla circostanza che si tratti di confideiussione o di fideiussione alla fideiussione). La conclusione non cambia se, in luogo del debitore principale, il pagamento interviene ad opera di uno dei confideiussori (nel caso in esame il B.), che si surroga poi nelle ragioni creditorie nei confronti degli altri fideiussori. Ciò che conta è la funzione della norma dell’art. 1953 c.c., che ha carattere preventivo e cautelare e che, quindi, non può più trovare applicazione quando i presupposti per il suo esercizio sono venuti meno (a seguito del pagamento).

Conclusivamente, è rigettato il secondo motivo ed è accolto il primo. La sentenza è cassata in relazione e la causa è rinviata alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione. Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, rigetta il secondo. Cassa in relazione e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 7 luglio 2015. Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 11/11/2015) 02/12/2015, n. 24492

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CICALA Mario – Presidente –
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso iscritto al n. 26937/2009 R.G. proposto da:
G.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Napolitano Francesco ed elettivamente domiciliato in Roma, Via Po n. 9, presso lo studio dello stesso, per procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 108/24/2008, depositata il 19/12/2008.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 novembre 2015 dal Relatore Cons. Dott. Emilio Iannello;
udito per il ricorrente l’Avv. Francesco Napolitano;
udito l’Avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per la controricorrente;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. CUOMO Luigi, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate notificava ad G.A., titolare della impresa individuale “La mia seconda pelle di G.A.”, due avvisi di accertamento per il recupero a tassazione, per gli anni d’imposta 2002 e 2003, a fini Iva, Irpef e Irap, di ricavi non contabilizzati e costi riferiti ad operazioni ritenute inesistenti, quali risultanti da p.v.c. redatto dalla G.d.F., che aveva anche riscontrato la mancanza di libri contabili obbligatori e l’omessa presentazione della dichiarazione relativa al 2002.
Il ricorso proposto dal contribuente – che lamentava l’utilizzo di dati, documenti ed elementi istruttori acquisiti dai verificatori in violazione di legge; l’illegittimo ricorso all’accertamento di tipo parziale di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis;
l’illegittimità degli avvisi di accertamento perchè non sottoscritti dal capo dell’ufficio o da un sostituto di grado dirigenziale validamente delegato;
l’errata, arbitraria e illegittima determinazione delle basi imponibili e il vizio di motivazione; l’illegittima applicazione delle sanzioni pecuniarie – veniva respinto dalla C.T.P. di Milano e lo stesso esito aveva l’appello proposto avanti la C.T.R. della Lombardia (sent. n. 180/24/2008 depositata il 19/12/2008), con il quale il contribuente aveva riproposto le medesime eccezioni, lamentando anche l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su alcune di esse.
2. Avverso tale sentenza G.A. propone ricorso per cassazione sulla base di otto motivi.
Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

3. Con il primo motivo – rubricato “violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 3” – il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata perchè priva di motivazione.
Afferma che la C.T.R. si è limitata a respingere il gravame attraverso un mero rinvio al contenuto della sentenza di primo grado, senza esprimere, con autonoma valutazione, le ragioni della conferma, in relazione ai motivi di impugnazione proposti dal contribuente.
Formula quesito di diritto.
4. Con il secondo motivo, corredato anch’esso da quesito di diritto, deduce vizio di omessa pronuncia (sotto la rubrica “violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”) sulla questione della legittimità – contestata con il secondo motivo d’appello – del ricorso da parte dell’ufficio all’accertamento parziale previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis, e dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 5, per essersi la C.T.R. al riguardo limitata a rilevare che la censura è stata “compiutamente affrontata” dai giudici di primo grado, “soprattutto se si tiene conto che è stato l’ufficio, secondo le sue prerogative, a determinare l’imponibile”.
5. Con il terzo motivo, pure esso corredato dalla formulazione di quesito di diritto, deduce ancora vizio di omessa pronuncia sulla eccepita illegittimità degli avvisi di accertamento, per violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, perchè non sottoscritti dal capo dell’ufficio o da un sostituto di grado dirigenziale validamente delegato.
Anche in tal caso, secondo il ricorrente, i giudici di secondo grado, limitandosi a osservare che i giudici di primo grado “con l’ampio rinvio ad una giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno dato conto della pretestuosità della eccezione, avente carattere puramente formale”, hanno di fatto omesso di pronunciarsi sulla questione.
6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ancora vizio di omessa pronuncia con riferimento al quarto motivo di gravame con il quale si era dedotta la violazione del D.P.R. 600 del 1973, art. 42 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54, 55 e 56 per errata, arbitraria ed illegittima determinazione delle basi imponibili, nonchè la violazione del L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7.
Lamenta che sul punto la sentenza impugnata si è limitata a rilevare che i primi giudici, affermando l’esistenza di “una situazione di totale inattendibilità della contabilità a cagione del ricorso alla pratica dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti da parte del contribuente”, avrebbero “diffusamente motivato sulla adeguatezza della sanzione amministrativa, applicata con modalità meno afflittive”. Negli stessi termini è formulato anche in tal caso quesito di diritto.
7. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia, in subordine, insufficiente motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – con riferimento alle medesime questioni per le quali, con i motivi secondo, terzo e quarto, ha in via principale dedotto vizio di omessa pronuncia – per avere la Corte territoriale respinto i motivi di gravame sulla base di un mero rinvio alla sentenza di primo grado, senza procedere ad una autonoma valutazione delle argomentazioni addotte dal contribuente.
8. Con il sesto motivo G.A. deduce, in via subordinata, per il caso di mancato accoglimento del terzo motivo di ricorso, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver omesso la C.T.R. di rilevare l’illegittimità degli avvisi di accertamento impugnati in quanto sottoscritti da soggetto diverso dal capo dell’ufficio in assenza di indicazione alcuna in ordine alla qualifica e ai poteri ad esso conferiti e in mancanza di prova dell’esistenza di un provvedimento di delega da parte del capo dell’ufficio: prova che, rimarca il ricorrente, nonostante la tempestiva eccezione sollevata in ricorso, non è stata fornita dall’ufficio neppure nel corso del giudizio di merito. Formula al riguardo quesito di diritto.
9. Con il settimo motivo il ricorrente deduce ancora violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere gli avvisi di accertamento frutto dell’accesso in locali di pertinenza dell’attività commerciale, eseguito dai verificatori in mancanza della previa autorizzazione del comandante del gruppo territoriale di appartenenza.
Rileva che sul punto l’affermazione della C.T.R. secondo cui “elementi fiscali acquisiti anche irritualmente sono comunque utilizzabili ai fini dell’accertamento”, atteso che “la negligenza dell’operatore nell’attività istituzionale non può andare a detrimento della legittima aspettativa alla prova da parte di chi non ha colpa” contrasta con il principio consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale gli elementi probatori irritualmente acquisiti e utilizzati ai fini del procedimento di accertamento tributario determina la nullità dell’atto finale, poichè frutto di un potere illegittimamente esercitato.
Viene anche in tal caso formulato quesito di diritto.
10. Con l’ottavo motivo il ricorrente, infine, denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere l’accertamento basato su elementi acquisiti in sede di indagine penale, in assenza della previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, autorizzazione nemmeno richiesta dagli organi accertatori.
Rileva che la regula iuris al riguardo applicata nella sentenza impugnata, secondo cui “l’eventuale mancanza di autorizzazione all’uso amministrativo di atti acquisiti in un procedimento penale non determina inutilizzabilità degli atti nel procedimento amministrativo, essendo la limitazione posta a presidio delle specifiche esigenze del procedimento penale e non dei soggetti coinvolti in tale procedimento”, sebbene conforme a più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, meriti di essere rivisitata, alla luce della lettera della norma la quale, secondo il ricorrente, interpretata anche alla luce degli artt. 97 e 109 Cost., impone di considerare la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria elemento necessario del procedimento amministrativo.
Viene anche al riguardo formulato quesito di diritto.
11. Nel proposto controricorso l’Agenzia eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso poichè privo di una esposizione sommaria dei fatti autosufficiente e idonea allo scopo. Contesta nel merito la fondatezza dei motivi dedotti, rilevando in particolare, quanto al terzo e al sesto motivo di ricorso che nel giudizio d’appello, in allegato alla memoria depositata in data 27/10/2008, l’ufficio ha depositato il mandato dirigenziale del firmatario.
12. E’ fondato il sesto motivo, di rilievo preliminare e assorbente.
Da tempo, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato l’orientamento secondo cui, in tema di imposte sui redditi, deve ritenersi, in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 1 e 3, che gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a detto ufficio) validamente delegato dal reggente di questo. Ne consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato (Cass. 27 ottobre 2000, n. 14195).
Analogamente, altra decisione di poco posteriore ha affermato che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui al D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, comma 1, lett. a) e b), è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere: il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario, ancorchè della carriera direttiva, alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio (Cass. 10 novembre 2000, n. 14626).
Più di recente questa Corte ha confermato tali principi ribadendo che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio, poichè il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio (Cass. 11 ottobre 2012, n. 17400).
A tale oramai consolidato orientamento ha dato ulteriore continuità la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 ribadendo che, nella individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega.
In tale occasione la S.C. ha evidenziato che tale conclusione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento (cfr. in materia d’imposte dirette Cass. 17400/12, 14626/00, 14195/00).
Previsione che trova giustificazione nel fatto che, come è stato osservato, gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (v. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 e, da ultimo, Cass. 9 novembre 2015, n. 22800).
Solo in diversi contesti fiscali – quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. 13461/12), il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l’avviso di mora (Cass. 4283/10), l’attribuzione di rendita (Cass. 8248/06) – e in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12).
Nella specifica materia dell’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, nel riferirsi, nel comma 1, ai modi stabiliti per le imposte dirette, richiama implicitamente il D.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, anche il ridetto art. 42 sulla nullità dell’avviso di accertamento, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (cfr., in materia di IVA, Cass. 10513/08, 18514/10 e 19379/12, in motiv.).
L’orientamento in rassegna, che qui si conferma, non è contraddetto dalla citata sentenza n. 22800 del 9 novembre 2015 che, soffermandosi sulla diversa, anche se potenzialmente interferente, questione della interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” cui può essere delegato, a mente della disposizione in esame il potere di sottoscrizione dell’atto (e giungendo al riguardo alla conclusione per cui per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la vecchia nona qualifica funzionale, ritenuta idonea a determinare la validità dell’atto in numerose sentenze di questa Corte, che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio: cfr. Cass. 5 settembre 2014, n. 18758) ha tuttavia certamente tenuto fermo il principio – che qui viene in rilievo – secondo cui ove venga contestato l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio e/o l’appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della vicinanza della prova, in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l’Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 1704; Cass. giugno 2013, n. 14942); non essendo, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori.
La decisione impugnata non si conforma a tale consolidato principio, avendo ritenuto l’eccezione meramente pretestuosa e formale e superandola sulla base di non meglio precisata giurisprudenza del Consiglio di Stato evidentemente inconferente trattandosi di principio che ha specifica attinenza alla materia tributaria. Lungi dal potersi ritenere formale e irrilevante, l’eccezione svolta, dunque, alla stregua del principio di diritto richiamato, poneva un tema di indagine decisivo che richiedeva un esame nel merito: esame che certamente non è consentito condurre per la prima volta in questa sede, non potendosi pertanto dare ingresso alle contrapposte allegazioni circa l’intervenuta produzione in giudizio, in grado di appello, di documento idoneo a comprovare l’esistenza del mandato conferito al funzionario che nella specie ha sottoscritto l’atto.
La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla C.T.R. della Lombardia per nuovo esame ed anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
Restano naturalmente assorbiti i restanti motivi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, assorbiti gli altri;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione.
ConclusioneCosì deciso in Roma, il 11 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 21/10/2015) 09/11/2015, n. 22800

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – rel. Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16543/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Q.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 115/2013 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 13/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2015 dal Presidente e Relatore Dott. MARIO CICALA;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DE BONIS e DE BELLIS che hanno chiesto l’accoglimento in subordine rimessione alle SS.UU.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione deducendo due motivi avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto- Mestre del 13/12/2013 n. 115/29/13 che accoglieva l’appello del sig. Q.G. e dichiarava la nullità di avvisi di accertamento dei redditi emessi nei di lui confronti.

La Commissione riteneva che tali avvisi fossero nulli in quanto emessi senza una adeguato preventivo contraddittorio e sottoscritti da funzionario non legittimato.

Il contribuente non si è costituito in giudizio. La Avvocatura di Stato ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Appare opportuno esaminare, in primo luogo, il secondo motivo di ricorso, relativo alla legittimazione del funzionario che ha sottoscritto gli atti impositivi, su delega del capo dell’ufficio. E dal momento che la sentenza impugnata ha affrontato un articolato complesso di problemi, che formano oggetto del ricorso erariale, il Collegio ritiene opportuno esaminare funditus la questione pronunciandosi ex art. 363 c.p.c., su tutti i profili, ancorchè – come risulterà in prosieguo – nel caso di specie il motivo di ricorso debba essere rigettato per considerazioni specifiche.

Materia del contendere è la interpretazione ed applicazione del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, (applicabile anche agli accertamenti IVA in quanto il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il citato art. 42) ed in particolare la individuazione di chi siano gli “impiegati della carriera direttiva” cui il capo dell’ufficio può delegare la sottoscrizione dell’avviso di accertamento. E la mancata osservanza di quanto prescritto dall’art. 42, comma 1, determina – come espressamente afferma la legge e costantemente dichiarato da questa Corte – la nullità dell’avviso di accertamento; ciò in quanto gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (si veda da ultimo la articolata motivazione di Cass. 5 settembre 2014, n. 18758).

Nell’applicazione dell’art, 42 occorre tener presente che la delega ivi prevista è altra cosa rispetto alla attribuzione di funzioni dirigenziali attraverso le procedure regolate prima dall’art. 24 del Regolamento e poi dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, (disposizioni entrambe cancellate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 37/2015 e dal Consiglio di Stato con la sentenza 4641/2015).

Ciò in quanto l’art. 42 prevede la delega amministrativa per singoli atti, mentre le norme caducate prevedevano il conferimento, attraverso contratti, di uno “status” con rilevanti riflessi anche economici; persino ove l’attribuzione delle funzioni superiori risultasse nulla (cfr. D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5).

Le due problematiche interferirebbero ove si ritenesse che il delegato debba essere un “dirigente” vero e proprio ex art. 11 del Regolamento della Agenzia, cui verrebbero equiparati (per quanto attiene alla funzione) i soggetti individuati con le procedure del (cancellato) art. 24. Ma invece il Collegio ritiene, in continuità con la costante giurisprudenza di questa Corte, che l’espressione “impiegato della carriera direttiva” contenuta nel ben noto art. 42 dpr 600/1973, non equivale a “dirigente” ma richieda un quid minus. E perciò la tematica dei “dirigenti illegittimamente nominati”, non entra nell’oggetto del giudizio. In quanto a seguito delle evoluzioni normative e contrattuali succedutesi dal 1973 in poi, l’”impiegato della carriera direttiva” oggi corrisponde al “funzionario della terza area” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 959).

Si tratta di un’evoluzione che ha avuto diverse tappe. La L. 11 luglio 1980, n. 312, recante il nuovo assetto retributivo – funzionale del personale civile e militare dello Stato, ha istituito le qualifiche funzionali. L’art. 4 della legge (concernente il primo inquadramento nelle suddette qualifiche) prevedeva che il personale della ex carriera direttiva transitasse nella 7 e nell’8 qualifica (la 8 venne istituita successivamente), e precisamente: “nella settima qualifica funzionale il personale (…) della carriera direttiva con le qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o qualifiche equiparate; nell’ottava qualifica funzionale il personale della carriera direttiva con la qualifica di direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e personale delle carriere direttive strutturate su una unica qualifica”.

Il passaggio successivo è intervenuto con il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto ministeri per il quadriennio 1998- 2001, il cui art. 13 (Aree di inquadramento) prevedeva che “il nuovo sistema di classificazione del personale, improntato a criteri di flessibilità correlati alle esigenze connesse ai nuovi modelli organizzativi, si basa sui seguenti elementi: a) Accorpamento delle attuali nove qualifiche funzionali in tre aree: (… ) Area C – comprendente i livelli dal 7 al 9 e il personale del ruolo ad esaurimento”. L’area era articolata nelle posizioni C1, C2 e C3, nella quale è rispettivamente confluito il personale della 7, 8 e 9 qualifica.

L’ultima tappa è costituita dal contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, il cui art. 17 (Classificazione) prevede che “Il sistema di classificazione del personale (…) è articolato in tre aree: (… ) Terza area:

comprendente le ex posizioni C1, C2 e C3″. La terza area è suddivisa in sei fasce retributive (da F1 a F6): il personale in servizio è transitato nelle fasce secondo una tabella di corrispondenza allegata al contratto, in base alla posizione ricoperta nell’ordinamento di provenienza. Le aree corrispondono a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità; ne consegue che tutte le mansioni di un’area sono considerate equivalenti e parimenti esigibili dal personale inquadrato nell’area stessa, a prescindere dalla sua posizione economica.

Alla luce della ricostruzione che precede, per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la “vecchia” nona qualifica funzionale;

ritenuta idonea a determinare la validità dell’atto in numerose sentenze di questa Corte, che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio (cfr. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 8).

La norma in esame assume così una propria autonoma valenza senza che occorra far ricorso al regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Entrate ex Delibera del Comitato Direttivo del 30 novembre 2000, n. 4; secondo cui gli avvisi di accertamento debbono essere “emessi dalla direzione provinciale e sono sottoscritti dal rispettivo direttore o, su delega di questi, dal direttore dell’ufficio preposto all’attività accertatrice ovvero da altri dirigenti o funzionari a seconda della rilevanza e complessità degli atti” (art. 5, comma 6, Reg. di Amm. n. 4). Del resto, il regolamento non potrebbe derogare alla legge che non parla genericamente di “funzionari”, ma di “impiegati della carriera direttiva”.

La autonoma valenza riconosciuta all’art. 42 tante volte citato, si inquadra – del resto – nella costante affermazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in materia tributaria non trova applicazione il principio secondo cui l’atto emanato con violazione della legge è di regola invalido (sub specie nullità o annullabilità poco importa); principio scolpito invece nell’art. 21 octies, introdotto nella L. n. 241 del 1990, dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, comma 1 (unitamente all’intero capo 4 bis dal titolo “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo, revoca e recesso”), applicabile agli atti amministrativi “comuni”. E perciò la nullità di cui qui si discute è rigidamente circoscritta nei limiti tracciati dall’art. 42, senza che assuma rilievo l’eventuale illegittimità del conferimento al capo dell’ufficio delegante della qualità di dirigente (anche temporaneo), avvenuta sulla base di una norma regolamentare illegittima o di una norma di legge dichiarata incostituzionale.

Ciò premesso occorre ribadire che, ove il contribuente contesti nel suo ricorso introduttivo (così come evidenziato nella sentenza impugnata) il possesso da parte del delegato (o del delegante) dei requisiti indicati dall’art. 42, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della “vicinanza della prova” in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 17044; Cass. giugno 2013, n. 14942). E dunque non è consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori.

Questa considerazione determina il rigetto del motivo di ricorso in quanto la sentenza di merito accerta che l’Ufficio non ha dato “alcun riscontro della qualità rivestita dal funzionario delegato”.

Si enunciano i seguenti principi di diritto:

In base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.

A seguito della evoluzione legislativa ed ordinamentale sono oggi “impiegati della carriera direttiva” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, i “funzionari della terza area” di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17).

E – in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributali – non occorre, ai meri fini della validità dell’atto, che i funzionari deleganti e delegati possiedano la qualifica di dirigente, ancorchè essa sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.

Ove il contribuente contesti – anche in forma generica – la legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento ad emanare l’atto (D.P.R. n. 600 del 1972, art. 42), è onere della Amministrazione che ha immediato e facile accesso ai propri dati fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonchè della esistenza della delega in capo al delegato.

Il primo motivo risulta così assorbito.

Non vi è luogo a provvedere per le spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 08/09/2015) 23/10/2015, n. 21593

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI BLASI Antonino – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15390-2010 proposto da:

COOPERATIVA AVVENIRE SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MERULANA 234, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CEPPARULO, rappresentato e difeso dall’avvocato AMATUCCI Andrea giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 47/2009 della COMM.TRIB.REG. di BARI, depositata il 28/04/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/09/2015 dal Consigliere Dott. MARINA MELONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo, inammissibilità del 2 motivo di ricorso.

Svolgimento del processo
La società cooperativa a r.l. Avvenire presentava istanza di recupero di credito d’imposta di Euro 232.876,98 per incremento occupazionale di lavoratori svantaggiati L. n. 388 del 2000, ex art. 7, comma 10 assunti nel periodo 2001-2003 e successivamente impugnava il silenzio rifiuto dell’Ufficio davanti alla CTP di Bari.

La Commissione Tributaria provinciale di Bari respingeva il ricorso ritenendo che il credito d’imposta richiesto non potesse essere accordato in quanto superiore al limite massimo usufruibile nel trienno in applicazione della regola “de minimis” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 7, comma 10.

La sentenza di primo grado veniva appellata dalla contribuente davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia la quale, in accoglimento dell’appello incidentale dell’Agenzia, dichiarava inammissibile il ricorso senza entrare nel merito, in quanto notificato ad un ufficio dell’Agenzia delle Entrate diverso da quello territorialmente competente ad emettere l’atto impositivo.

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Puglia ha proposto ricorso per cassazione la società cooperativa Avvenire a r.l. con due motivi e memoria di richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

L’Agenzia delle Entrate si costituiva al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente società coop. Avvenire a r.l. lamenta violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 22 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in quanto la CTR ha ritenuto nella fattispecie di dichiarare inammissibile il ricorso di primo grado perchè notificato all’Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari (OMISSIS) e non all’Ufficio di Gioia del Colle territorialmente competente ad emettere l’atto impositivo.

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente società coop. Avvenire a r.l. lamenta omessa motivazione sulla violazione di legge e falsa applicazione dei regolamenti CE 994/1998 e 2204/2002 da parte della L. n. 388 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la CTR ha ritenuto applicabile la regola de minimis ed operante il limite massimo relativo alla concessione del credito d’imposta nonostante che il regolamento CE nr. 2204 del 12/12/2002, emanato successivamente alla data di entrata in vigore della L. n. 388 del 2000, escludesse qualsiasi limite in caso di assunzione di lavoratori svantaggiati.

Il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto. Infatti questa Corte ha dichiarato con sentenza emessa da sez. 5, Sentenza n. 30753 del 30/12/2011 che la notifica presso ufficio locale dell’Agenzia delle entrate non competente non comporta l’invalidità dell’impugnazione: “In tema di contenzioso tributario, la notifica dell’impugnazione avverso il silenzio-rifiuto, da parte del contribuente, presso un ufficio della locale Agenzia delle entrate diverso da quello che avrebbe dovuto eseguire il rimborso in base all’istanza all’uopo presentata, non incide sulla validità dell’impugnazione del silenzio-rifiuto medesimo, stante il carattere unitario dell’Agenzia delle entrate competente per territorio e la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’ente-organo (e non alle sue singole , articolazioni) che ha emesso, o, in caso di diniego, non ha emesso l’atto di cui si controverte”.

Pertanto erroneamente la CTR ha dichiarato in via preliminare inammissibile il ricorso di primo grado in quanto notificato all’Ufficio di Bari (OMISSIS) invece che all’Ufficio di Gioia del Colle.

Conseguentemente la sentenza deve essere cassata e disposto il rinvio ad altra sezione della CTR affinchè decida nel merito.

Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto, cassata la sentenza e disposto il rinvio ad altra sezione della CTR della Puglia anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR della Puglia anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione quinta civile, il 8 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 19/05/2015) 07/10/2015, n. 20072

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STILE Paolo – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21893/2014 proposto da:

D.C.G.W. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI, 13, presso lo studio dell’avvocato PALLINI MASSIMO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SERVIZI MUNICIPALI RIETI S.P.A.;

– intimata –

avversò la sentenza n. 6799/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2014 r.g.n. 1360/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/2015 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;

udito l’Avvocato PALLINI MASSIMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. D.C.G.W. impugnava L. n. 92 del 2012, ex art. 1 comma 48, il licenziamento irrogatogli dall’Azienda servizi municipalizzati di Rieti S.p.A. per ragioni disciplinari, relative all’illegittima fruizione di permessi ex L. n. 104 del 1992, nelle giornate del 16, 17 e il 18 luglio del 2012.

2. L’ordinanza di rigetto veniva confermata dal Tribunale con la successiva sentenza e la Corte d’appello rigettava il reclamo proposto dal D.C.. La Corte territoriale argomentava che dall’istruttoria espletata era emerso che nei tre giorni sopra indicati, per i quali il D.C. aveva richiesto ed ottenuto i permessi ex L. n. 104 del 1992, per assistere la suocera, in realtà egli aveva compiuto attività di tipo sportivo e ricreativo e nell’orario lavorativo per il quale aveva fruito del permesso non aveva svolto alcun tipo di assistenza in favore dell’invalida.

3. Per la cassazione della sentenza D.C.G.W. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo. L’Azienda servizi municipalizzati Rieti S.p.A. è rimasta intimata.

4. Il ricorso è inammissibile, non risultandone il compimento del processo notificatorio.

5. Deve premettersi che il difensore in data 15 settembre 2014 ha inteso effettuare la notifica del ricorso a mezzo posta elettronica certificata, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 1, e succ. mod..

6. Esaminando il quadro normativo di riferimento, si rileva che il comma 3 dell’art. 3 bis della suddetta L. n. 53, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, prevede che la notifica effettuata con modalità telematica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2, dello stesso D.P.R..

7. L’art. 6, comma 1, sopra richiamato prevede a sua volta che nella ricevuta di accettazione, fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata da questi utilizzato, sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione del messaggio di posta elettronica certificata.

8. Il comma 2 aggiunge che la ricevuta di avvenuta consegna è fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario, e da al primo la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario (indipendentemente dalla lettura che questo ne abbia fatto) e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione.

9. La L. n. 53 del 1994, art. 9, e succ. mod., prevede infine al comma 1 bis, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 16 quater, che, qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3 bis, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratti ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1. Il comma 1 ter, aggiunto dalla L. di conversione n. 114 del 11 agosto 2014, al D.L. n. 90 del 2014, ha poi aggiunto che in tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1 bis.

10. Dal sistema normativo sopra delineato risulta quindi che la notifica a mezzo posta elettronica certificata non si esaurisce con l’invio telematico dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del plico informatico nella casella di posta elettronica del destinatario, e la prova di tale consegna è costituita dalla ricevuta di avvenuta consegna. La mancata produzione della ricevuta di avvenuta consegna della notifica a mezzo p.e.c. del ricorso per cassazione, impedendo di ritenere perfezionato il procedimento notificatorio, determina quindi l’inesistenza della notificazione, con conseguente impossibilità per il giudice di disporne il rinnovo ai sensi dell’art. 291 c.p.c., in quanto la sanatoria ivi prevista è consentita nella sola ipotesi di notificazione esistente, sebbene affetta da nullità (così sull’ultima affermazione ex multis Cass. n. 3303 del 1994, Cass. n. 8287 del 2002, Cass. Sez. U., n. 20604 del 2008).

11. Ciò è quanto avvenuto nel caso in esame, in cui la difesa non ha prodotto la ricevuta di avvenuta consegna della notifica tramite p.e.c., neppure nel previsto supporto analogico (trasposizione cartacea del contenuto del documento informatico).

12. Non è stata prodotta peraltro neanche la ricevuta di accettazione, sicchè il processo notificatorio non risulta compiuto neppure per il notificante.

13. Segue la dichiarazione d’ inammissibilità del ricorso. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in considerazione della mancata radicazione del contraddittorio.

14. Si applica ratione temporis alla fattispecie la L. 24 dicembre 2012, n. 228, il cui art. 1, comma 17, ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater, del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1 bis. n giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso inammissibile, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla sulle spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2015


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 12-05-2015) 02-10-2015, n. 19704

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13678/2012 proposto da:

RIGANTE G. DI RIGANTE GIOVANNI & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI PRATI DEGLI STROZZI 22, presso lo studio dell’avvocato G. VENETO, rappresentata e difesa dall’avvocato BELSITO ANTONIO, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD S.P.A., legittimata in quanto società incorporante della Equitalia E.TR. s.p.a., soggetta all’attività di direzione e coordinamento di Equitalia s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MARIA GAZZONI, rappresentata e difesa dall’avvocato MOLINARA PAOLO, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 68/5/2011 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BARI, depositata il 29/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

uditi gli avvocati Liana DI MOLFETTA per delega dell’avvocato Antonio Belsito, Paolo MOLINARA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società Rigante G. di Rigante Giovanni & C. s.a.s. impugnò dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari la cartella di pagamento n. (OMISSIS) emessa da Equitalia E.TR. s.p.a. per IVA, sanzioni e interessi in relazione all’anno 2003, deducendo che tale cartella – risultante notificata il 27.05.2006 – le era rimasta assolutamente sconosciuta ed assumendo di essere venuta a conoscenza della relativa obbligazione tributaria soltanto dall’estratto di ruolo rilasciato, su sua richiesta, dalla competente concessionaria della riscossione.

La Commissione Tributaria provinciale di Bari, ritenuto che solo formalmente l’atto opposto era la cartella, mentre in realtà l’opposizione riguardava l’estratto di ruolo, ne dichiarò l’inammissibilità essendo l’estratto di ruolo “atto interno dell’Agente della riscossione, non rientrante tra quelli tassativamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 19922, art. 19, comma 1”. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 68/5/11, confermò la decisione.

In particolare i giudici d’appello, premesso che nell’atto introduttivo era stata impugnata la cartella in questione per omessa notifica, escludevano che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo potesse comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica) e conseguentemente escludevano che potesse essere “oggetto di discussione” la suddetta cartella in quanto non ritualmente opposta. I predetti giudici ribadivano inoltre l’inammissibilità della proposta opposizione anche ove ritenuta diretta avverso l’estratto di ruolo, rilevando che esso, oltre ad essere atto non previsto nel novero di quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19 citato, difetta del requisito della “coattività della prestazione tributaria ivi espressa” e quindi della idoneità a costituire “provocatio ad opponendum”, senza che sia per ciò solo configurabile violazione del diritto di difesa del contribuente, restando salva la possibilità di denunciare l’inesistenza della notifica della cartella in sede di gravame avverso eventuali e specifici atti realizzativi del credito fiscale.

Per la cassazione di questa sentenza la società ha proposto, nei confronti di Equitalia E.TR. s.p.a., ricorso per cassazione illustrato da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso Equitalia Sud s.p.a., incorporante di Equitalia E.TR. s.p.a..

Con ordinanza interlocutoria n. 16055 del 2014 il collegio della 6^-5 sezione civile di questa Corte dinanzi al quale il ricorso è stato discusso ha sollecitato l’intervento compositivo di queste sezioni unite segnalando che, nell’ambito di un panorama giurisprudenziale in materia di atti impugnabili dinanzi ai giudici tributari piuttosto composito e articolato, è negli ultimi anni emerso nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità uno specifico contrasto tra alcune pronunce secondo le quali il ruolo non è autonomamente impugnabile in quanto atto “interno”, che può essere impugnato solo con l’atto impositivo nel quale viene trasfuso e a mezzo del quale viene notificato, ed altre pronunce che hanno invece affermato l’autonoma impugnabilità del ruolo.

Motivi della decisione
1. Con unico motivo, deducendo “ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, e dell’art. 360 c.p.c., n. 3”, nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., la ricorrente censura la decisione impugnata innanzitutto affermando che l’estratto di ruolo può essere oggetto di ricorso dinanzi alle Commissioni Tributarie perché esso costituisce parziale riproduzione del ruolo, atto considerato impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, avendo peraltro la giurisprudenza di legittimità affermato che va riconosciuta la possibilità di ricorrere avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che essa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, atteso l’indubbio interesse del destinatario a chiarire la sua posizione rispetto a tale pretesa e quindi ad invocare la tutela giurisdizionale. La ricorrente si duole inoltre del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso ogni valutazione in ordine alle circostanze dalla medesima evidenziate con riguardo alla dedotta omissione di (valida) notifica della cartella, pur non avendo la convenuta contestato tali circostanze né tanto meno fornito alcuna prova dell’avvenuta notifica della suddetta cartella.

In particolare, rilevato che, dopo un primo infruttuoso tentativo di notifica presso la sede della società contribuente – dove la stessa era risultata sconosciuta -, veniva effettuata ulteriore notifica “per irreperibilità assoluta” con deposito dell’atto presso il Comune e affissione dell’avviso di deposito, la ricorrente evidenzia la mancanza di prova della comunicazione alla società, mediante raccomandata, dell’avvenuto deposito dell’atto presso il Comune nonché la mancanza dell’attestazione della impossibilità di effettuare la notificazione al legale rappresentante della suddetta società, il quale risultava individuato e nominato nell’atto da notificare.

Le censure esposte sono fondate esclusivamente nei limiti e nei termini di cui in prosieguo.

Prima di passare al relativo esame, tuttavia, è necessario definirne l’ambito e la reale portata attraverso un’attività interpretativa (della sentenza impugnata e dei ricorso per cassazione) resa imprescindibile innanzitutto per le diverse qualificazioni – ferma restandone la sostanza – della opposizione proposta dalla contribuente, ma anche per il rischio di una non univoca attribuzione di significato a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, potenzialmente inducente ambiguità non solo terminologica ma anche concettuale. In proposito occorre innanzitutto schematicamente considerare che, come emergente da quanto sopra riportato, la società ricorrente ha impugnato la cartella esattoriale a suo carico – della quale era venuta a conoscenza solo a seguito di rilascio dell’estratto di ruolo da parte del concessionario – deducendo che la medesima non era stata validamente notificata. I primi giudici hanno sostenuto che quella proposta, anche se formalmente qualificata come opposizione alla cartella, costituiva sostanzialmente una inammissibile impugnazione dell’estratto di ruolo, atto interno dei concessionario. Il contribuente ha contestato in appello la non impugnabilità dell’estratto di ruolo affermata dai primi giudici, si è doluto della ritenuta inammissibilità dell’opposizione e l’ha riproposta, ribadendo “le questioni, domande e richieste formulate nell’atto introduttivo” e insistendo per la “declaratoria di nullità e improduttività di qualsiasi effetto giuridico della cartella di pagamento impugnata”. I giudici d’appello hanno affermato l’inammissibilità della proposta opposizione, sia se qualificata come opposizione avverso la cartella sia se qualificata come opposizione avverso l’estratto di ruolo, e la società ha proposto ricorso per cassazione contestando la affermata inammissibilità dell’opposizione proposta ed altresì dolendosi del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso di trarre le conseguenze dagli elementi circa l’invalidità della notifica della cartella addotti dalla medesima ricorrente e non contestati dalla controparte.

Come è evidente, al di là di mere qualificazioni, la ricorrente ha agito in giudizio nell’intento di ottenere attraverso la proposta opposizione (comunque qualificata) la declaratoria della nullità della cartella emessa a suo carico in quanto non validamente notificata e ricorre oggi dinanzi a questo giudice per ottenere l’annullamento della decisione impugnata laddove ha ritenuto inammissibile la suddetta opposizione. Occorrerà pertanto valutare la fondatezza della censura anche eventualmente rimettendo in discussione la formale qualificazione della opposizione proposta, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità secondo la quale la corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, a condizione che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio d’una eccezione in senso stretto (v. Cass. n. 3437 del 2014; 6935 del 2007; 19132 del 2005; 4939 del 1998).

Tanto premesso, prima di procedere oltre occorre, in via ulteriormente preliminare, fare chiarezza sull’oggetto della analisi che seguirà, perciò intendersi sul significato da attribuire a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, e ciò non per mera esigenza definitoria fine a se stessa ma perché la comprensibilità di qualunque discorso passa per l’utilizzo di un linguaggio comune, quindi per la condivisione convenzionale del significato dei termini utilizzati, e la stessa correttezza di qualsivoglia soluzione giuridica impone che sia preventivamente individuato con precisione il concreto “oggetto” del problema da risolvere. Ne consegue che per decidere se un atto (volgarmente) detto “estratto di ruolo” sia stato o meno impugnato (e se sia o meno impugnabile) occorrerà identificare in fatto e, poi, qualificare in diritto l’oggetto concreto della disamina, al fine di evitare che si possa confondere l’”estratto di ruolo” con il “ruolo” e, soprattutto, che si possa in qualche modo ridurre, attesa la nota anfibologia di ogni documento, ad uno solo i due oggetti (“documento” e suo “contenuto”) come se si trattasse di della mera diversità di nome dello stesso oggetto.

Il “ruolo”, come noto, ha una sua precisa definizione legislativa, posto che, per il vigente testo del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 10, lett. b), esso è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario” e che, per l’art. 11 del medesimo D.P.R., “nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi”.

A norma del successivo art. 12, l’ufficio competente “forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano. In ciascun ruolo sono iscritte tutte le somme dovute dai contribuenti che hanno il domicilio fiscale in comuni compresi nell’ambito territoriale cui il ruolo si riferisce”; nel ruolo “devono essere comunque indicati il numero del codice fiscale del contribuente, la specie del ruolo, la data in cui il ruolo diviene esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione, anche sintetica, della pretesa; in difetto di tali indicazioni non può farsi luogo all’iscrizione”; “il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica, dal titolare dell’ufficio o da un suo delegato” e “con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo”, cioè costituisce titolo esecutivo.

Dai riprodotti dati normativi discende che il “ruolo” è un atto amministrativo impositivo (fiscale, contributivo o di riscossione di altre entrate allorché sia previsto come strumento di riscossione coattiva delle stesse) proprio ed esclusivo dell’”ufficio competente” (cioè dell’ente creditore impositore), quindi “atto” che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme legislative primarie, deve ritenersi tipico sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale (cfr. le norme sopra richiamate laddove si precisa che esso deve indicare le “somme dovute” in “riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento” o, “in mancanza” di questo, la “motivazione” del debito).

In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un suo delegato, giusta il dettato del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 24, comma 1, viene consegnato “al concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce”, esso pertanto non solo è atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore (mai del concessionario della riscossione), ma, nella progressione dell’iter amministrativo di imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto indefettibile.

Il concessionario della riscossione, a sua volta, in forza del ruolo ricevuto, redige “in conformità al modello approvato” (oggi dall’Agenzia delle Entrate) “la cartella di pagamento” (che, per il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, “contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata”) e provvede (ai sensi del successivo art. 26) alla “notificazione della cartella di pagamento” al debitore.

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, elenca espressamente tra gli “atti impugnabili” (quindi da impugnare necessariamente per evitare la cristallizzazione irreversibile di quel determinato momento del complessivo iter di imposizione e/o riscossione), al comma 1, lett. d), “il ruolo e la cartella di pagamento”, mentre la seconda parte del medesimo D.Lgs. n. 546, art. 21, comma 1, dispone espressamente che “la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”.

Da tali disposizioni si evince pertanto che: il ruolo è atto che deve essere notificato e la sua notificazione coincide con la notificazione della cartella di pagamento; è atto impugnabile; il termine iniziale per calcolare i “sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato” (fissati a espressa “pena di inammissibilità” dalla prima parte del medesimo art. 21 per l’impugnazione di qualsiasi “atto impugnabile”) coincide con quello della “notificazione della cartella di pagamento”; entro il suddetto termine pertanto il debitore, giusta i principi generali, a seconda del suo interesse, può impugnare entrambi gli atti (“ruolo” e “cartella di pagamento”) contemporaneamente ovvero anche solo uno dei due che ritenga viziato, con l’ovvio corollario che la nullità di un atto non comporta quella degli atti precedenti nè di quelli successivi che ne sono indipendenti e quindi che la nullità della cartella di pagamento non comporta necessariamente quella del ruolo mentre la nullità del ruolo determina necessariamente la nullità anche della cartella, questa essendo giuridicamente fondata su quel ruolo e, pertanto, “dipendente” dallo stesso.

Il “documento” denominato “estratto di ruolo”, tale indicato dallo stesso concessionario che lo rilascia, non è invece specificamente previsto da nessuna disposizione di legge vigente. Esso – che viene formato (quindi consegnato) soltanto su richiesta del debitore – costituisce (v. Consiglio di Stato, 4^, n. 4209 del 2014) semplicemente un “elaborato informatico formato dall’esattore…

sostanzialmente contenente gli… elementi della cartella…”, quindi anche gli “elementi” del ruolo afferente quella cartella (il C.d.S., peraltro, ha affermato l’inidoneità del suo rilascio ad ottemperare all’obbligo di ostensione all’interessato che ne abbia fatto legittima e motivata richiesta, della copia degli originali della cartella, della sua notificazione e degli atti prodromici).

Da quanto sopra esposto emerge con sufficiente chiarezza la differenza sostanziale tra “ruolo” ed “estratto di ruolo” (termini talvolta impropriamente utilizzati come sinonimi): il “ruolo” (atto impositivo espressamente previsto e regolato dalla legge, anche quanto alla sua impugnabilità ed ai termini perentori di impugnazione) è un “provvedimento” proprio dell’ente impositore (quindi un atto potestativo contenente una pretesa economica dell’ente suddetto); l’”estratto di ruolo”, invece, è (e resta sempre) solo un “documento” (un “elaborato informatico… contenente gli… elementi della cartella”, quindi unicamente gli “elementi” di un atto impositivo) formato dai concessionario della riscossione, che non contiene (né, per sua natura, può contenere) nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta.

La inidoneità dell’estratto di ruolo a contenere qualsivoglia (autonoma e/o nuova) pretesa impositiva, diretta o indiretta (essendo, peraltro, l’esattore carente del relativo potere) comporta indiscutibilmente la non impugnabilità dello stesso in quanto tale, innanzitutto per la assoluta mancanza di interesse (ex art. 100 c.p.c.) del debitore a richiedere ed ottenere il suo annullamento giurisdizionale, non avendo infatti alcun senso l’eliminazione dal mondo giuridico del solo documento, senza incidere su quanto in esso rappresentato. Peraltro, anche l’eventuale contestazione dell’attività certificativa del concessionario in sè considerata – ad esempio in relazione alla non corrispondenza tra quanto certificato nell’estratto e quanto risultante dal ruolo – avrebbe un senso solo in un ipotetico giudizio risarcitorio per aver confidato nella corrispondenza delle notizie riportate nell’estratto alle iscrizioni risultanti dal ruolo, non in un giudizio impugnatorio conducente esclusivamente ad un “annullamento” della certificazione.

Fatta – si spera – la chiarezza terminologica e concettuale necessaria al prosieguo dell’analisi della questione in esame, si può in astratto convenire con i giudici di primo grado e d’appello laddove hanno affermato la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, tra l’altro perchè “atto interno dell’Agente della riscossione” (così la sentenza di prime cure come riportata nella sentenza d’appello). E deve inoltre precisarsi che il contrasto giurisprudenziale per il quale la causa è stata rimessa a queste sezioni unite non riguarda l’impugnabilità dell’estratto di ruolo (documento tale definito dal concessionario che lo rilascia) bensì l’impugnabilità del ruolo, atto impositivo proprio dell’ente impostore disciplinato dalle norme sopra richiamate.

Tuttavia, come già evidenziato, al di là di ogni formale qualificazione, il ricorrente nella specie si è sempre doluto della invalida notificazione della cartella (e quindi anche del ruolo, posto che la sua notificazione coincide con quella della cartella D.Lgs. n. 546 citato, ex art. 21) e di questo atto – non del documento rilasciatogli dal concessionario – ha chiesto l’annullamento.

Pertanto occorrerà in questa sede affrontare la (diversa) questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata (e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo), con la precisazione che le considerazioni che saranno esposte in proposito devono intendersi riferibili anche alla impugnazione del ruolo, attesa la coincidenza della notificazione della cartella con quella del ruolo.

3. Escluso, sulla base di quanto si è fin qui esposto, l’interesse del richiedente ad impugnare il documento “estratto di ruolo”, può ovviamente sussistere un interesse del medesimo ad impugnare il “contenuto” del documento stesso, ossia gli atti che nell’estratto di ruolo sono indicati e riportati.

I suddetti atti (iscrizione del richiedente in uno specifico “ruolo” di un determinato ente impositore per un preciso “credito” di quest’ultimo; relativa cartella di pagamento fondata su detta iscrizione; notificazione della medesima – e del ruolo – ai richiedente nella data indicata nell’estratto di ruolo ricevuto) risultano univocamente impugnabili per espressa previsione del combinato disposto dei già richiamato D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, lett. d), e art. 21, comma 1. E ovviamente nessun problema in ordine alla impugnabilità dei medesimi si pone quando essi sono stati (validamente) notificati, sussistendo il diritto e l’onere dell’impugnazione con decorrenza dal momento della relativa notificazione (momento che per il ruolo e la cartella, come rilevato, è il medesimo ai sensi del D.Lgs. 546 citato, art. 21), mentre profili di problematicità potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi – ricorrente nella specie – di impugnazione di cartella della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo e non attraverso (valida) notifica.

Nella specie i giudici d’appello hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione della cartella di pagamento sul rilievo che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo non può comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica).

L’affermazione non è condivisibile. Premesso infatti in linea generale che i termini di impugnazione di un atto non possono che decorrere dalla (valida) notificazione dell’atto medesimo e che pertanto il destinatario dell’atto ha l’interesse (e il diritto) di provocare la verifica della validità della notifica dell’atto del quale egli non sia venuto a conoscenza in termini per l’impugnazione a causa di anomalie di tale notifica, è da escludere che l’impugnazione volta innanzitutto a provocare tale legittima verifica possa giammai condurre ad una “riapertura” dei suddetti termini, posto che, ove l’atto risultasse validamente notificato, nessuna “riapertura” sarebbe ovviamente ipotizzabile all’esito della verifica, mentre, ove l’atto non risultasse (validamente) notificato, i termini non avrebbero neppure iniziato a decorrere.

Posta pertanto come indiscutibile la possibilità per il contribuente di far valere l’invalidità della notifica di una cartella della quale (a causa di detta invalidità) sia venuto a conoscenza oltre i previsti termini di impugnazione, dubbi potrebbero ravvisarsi soltanto in relazione alla individuazione del momento a partire dal quale è possibile far valere tale invalidità, e ciò in ragione del disposto del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma 3, secondo il quale la mancata notifica degli atti autonomamente impugnabili adottati precedentemente all’atto notificato “ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”.

Tale previsione costituisce il precipitato di un principio – per anni considerato immanente al sistema tributario- secondo il quale la natura recettizia dell’atto tributario lo rende impugnabile solo a seguito di notifica al contribuente, essa sola costituente (secondo alcuni) manifestazione dell’esercizio della funzione impositiva, di talchè gli atti espressivi di tale funzione verrebbero a giuridica esistenza solo in quanto notificati.

In proposito, tuttavia, occorre dare conto del fatto che nell’ultimo decennio in numerose pronunce di questa Corte, anche a sezioni unite, si è ripetutamente affermata l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità che essi siano espressi in forma autoritativa (v. tra le molte s.u. n. 16293 del 2007 nonché da ultimo s.u. n. 3773 del 2014, secondo la quale è impugnabile la comunicazione con la quale l’Agenzia neghi la sussistenza del diritto patrimoniale che il creditore del creditore di imposta intende pignorare, rilevando che nella specie l’atto – ancorchè non diretto in forma autoritativa nei confronti del contribuente – ha natura indubbiamente tributaria comportando l’accertamento della sussistenza di crediti di imposta).

La giurisprudenza sopra richiamata, ammettendo l’autonoma ed immediata impugnabilità di qualsivoglia atto porti comunque legittimamente a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria (prescindendo dal fatto che tale atto sia direttamente rivolto al contribuente e si manifesti in forma autoritativa, quindi, a fortiori, prescindendo dal fatto che esso risulti notificato al medesimo contribuente) attraversa (di fatto superandola) la questione della natura recettizia dell’atto amministrativo e della sua impugnabilità solo a seguito della notifica al contribuente.

Tale questione risulta peraltro ampiamente superata anche dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità che, in conformità con la previsione letterale dell’art. 1334 c.c. – ai sensi del quale gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati -, ha ripetutamente affermato che la notificazione è una mera condizione di efficacia, non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio (ovvero l’inesistenza) di tale notificazione è irrilevante ove essa abbia raggiunto lo scopo per avere il destinatario impugnato l’atto in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo (v. tra le più recenti Cass. n. 654 del 2014 e n. 8374 del 2015), principio presupposto già da s.u. n. 19854 del 2004 (seguita da numerose altre), secondo la quale la natura non processuale dell’atto impositivo non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale – essendovi in proposito espresso richiamo nella disciplina tributaria – e quindi all’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie dettato per gli atti processuali, con la conseguenza che l’impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della relativa notificazione per raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 c.p.c., (sanatoria operante solo se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere impositivo).

Tanto premesso, occorre rilevare che nel diritto amministrativo, prima che la L. n. 15 del 2005, art. 14, introducesse, nella L. n. 241 del 1990, l’art. 21 bis (recante disposizioni in materia di “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo”), era assolutamente pacifica l’inapplicabilità della regola generale dettata dall’art. 1334 c.c. (espressamente prevedente – come già rilevato – una incidenza della mancata conoscenza da parte del destinatario dell’atto sulla efficacia del medesimo), valendo l’opposto principio secondo il quale l’esercizio unilaterale del potere produce effetti innovativi della precedente situazione giuridica senza bisogno di comunicazione al destinatario, salvo che la legge disponga espressamente in senso diverso o la recettizieta sia sicuramente desumibile dal tipo di atto. E’ quindi solo con la citata riforma del 2005 che trova espressa legittimazione il criterio c.d. “della qualità degli effetti”, secondo cui sono recettizi i provvedimenti “limitativi della sfera giuridica dei privati”.

Gli atti tributari – certo innanzitutto in ragione della indubbia incidenza sul patrimonio del destinatario – sono invece da sempre considerati atti recettizi. In tali atti pertanto le misure di partecipazione sono elementi costitutivi dell’efficacia giuridica, per cui l’effetto giuridico non decorre dalla data di adozione del provvedimento, ma dalla data di avvenuta comunicazione dello stesso.

E indubbiamente la natura recettizia degli atti tributari rende inapplicabile l’istituto della “piena conoscenza” ai fini del decorso del termine di impugnazione, essendo l’inammissibilità dell’utilizzo di strumenti alternativi o surrogatori al fine di provocare aliunde l’effetto di conoscenza una delle più rilevanti conseguenze connesse alla natura recettizia dell’atto, onde l’omessa comunicazione, nei modi di legge, del provvedimento recettizio (nella specie l’atto tributario) comporta il mancato decorso dei termini di impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile, con pregiudizio per la stabilità dei relativi effetti.

Da quanto sopra esposto circa l’origine storica e la disciplina connessa alla natura recettizia degli atti amministrativi in generale e degli atti tributari in particolare emerge che la recettizietà è essenzialmente e innanzitutto posta a presidio e tutela dei destinatario dell’atto, impedendo che l’atto recettizio, siccome negativamente incidente sulla sfera patrimoniale del contribuente, possa produrre i suoi effetti prima che siano scaduti i termini per impugnare, termini da calcolare a decorrere dalla conoscenza dell’atto, che non può essere ritenuta se non a seguito dell’avvenuto espletamento del procedimento all’uopo previsto dalla legge. Tuttavia, se è vero che, come sopra rilevato, non è sufficiente la prova della “piena conoscenza” dell’atto ai fini della decorrenza dei suddetti termini ma è necessaria una comunicazione effettuata nei modi previsti dalla legge, è anche vero che ciò non può impedire l’impugnabilità dell’atto (del quale il contribuente sia venuto “comunque” a conoscenza) ma soltanto, appunto, la decorrenza dei relativi termini di impugnazione in danno del contribuente, distinzione che risulta ben chiara nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. sul punto tra le altre s.u. n. 3773 del 2014 nonché Cass. nn. 17010 del 2012 e 24916 del 2013) secondo la quale l’ammissibilità di una tutela “anticipata” non comporta l’onere bensì solo la facoltà dell’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare successivamente, in ipotesi dopo la notifica di un atto “tipico”, la pretesa della quale il contribuente sia venuto a conoscenza (eventualmente attraverso un atto “atipico”, in quanto ad esempio non manifestato in forma “autoritativa” oppure privo delle indicazioni previste dal secondo comma dell’articolo 19 citato).

Ove poi volesse ritenersi che l’indiscutibile recettizietà dell’atto tributario sia (al di là delle sue origini storiche e della relativa disciplina positiva) intesa (anche) ad una sorta di “salvaguardia” dell’amministrazione, nel senso che la notifica manifesterebbe univocamente la volontà dell’amministrazione di “esternare” l’atto, così evitando l’impugnazione di “atti interni”, di carattere meramente procedimentale, rispetto ai quali non si sia completata la volontà dell’ente, è agevole replicare, a tacer d’altro, che nella specie l’iter procedimentale era assolutamente concluso e l’ente impositore aveva univocamente manifestato la volontà di “esternare” l’atto, avendo definito la pretesa tributaria, formato il ruolo costituente titolo esecutivo e richiesto al concessionario l’emissione e notificazione di cartella.

Né, d’altro canto, potrebbe ragionevolmente sostenersi che la recettizietà dell’atto tributario comporti la spettanza all’amministrazione del potere di stabilire, attraverso la scelta del momento di notifica dell’atto, (non solo quando esternare la propria volontà impositiva ma anche e soprattutto) quando consentire al destinatario di impugnare tale volontà impositiva, eventualmente già formatasi e portata all’esterno al punto da dare l’avvio ad un procedimento esecutivo e produrre effetti che comunque il contribuente ha interesse a contrastare.

Una lettura costituzionalmente orientata dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma÷3, (non esclusa dal tenore letterale del testo) impone pertanto di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato ivi prevista non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la facoltà del medesimo di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità che, impedendo la conoscenza dell’atto e quindi la relativa impugnazione, ha prodotto l’avanzamento del procedimento di imposizione e riscossione, con relativo interesse del contribuente a contrastarlo il più tempestivamente possibile, specie nell’ipotesi in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più reversibile se non in termini risarcitori.

Una diversa lettura della norma in esame (nel senso che l’impugnazione di un atto non notificato possa avvenire sempre e soltanto unitamente all’impugnazione di un atto successivo notificato) comporterebbe infatti una abnorme ed ingiustificata disparità tra i soggetti del rapporto tributario. E’ infatti da considerare che mentre le notifiche degli atti processuali vengono valutate immediatamente dal giudice nel processo e, se non valide e tempestive, non producono alcun effetto in danno del destinatario, con riguardo agli atti impositivi l’invalidità delle relative notifiche produce come unico effetto immediato (non l’intervento del giudice ma) l’impossibilità per il destinatario di conoscere l’atto e quindi di promuovere il controllo giurisdizionale sul medesimo, e non interrompe quindi (ma rende anzi più “fluido”, in mancanza di contestazioni) il procedimento di imposizione e riscossione avviato dall’amministrazione, procedimento che potrebbe pertanto proseguire indisturbato fino alla sua conclusione attraverso il compimento dell’esecuzione senza che il contribuente abbia avuto mai modo di contestare la pretesa attraverso una impugnazione, e ciò non per fatto al medesimo contribuente addebitabile, bensì in ragione della invalidità di notifiche delle quali è onerata l’amministrazione e che sono nella sua piena determinazione sia con riguardo ai tempi di intervento sia con riguardo alle relative modalità (ad esempio indicazione di nominativi e recapiti) sia con riguardo alla valutazione della espletata attività di notificazione (in relazione al successivo controllo del buon esito della medesima ed alle determinazioni circa la necessità o meno di riprendere il procedimento notificatorio).

In simile situazione, la possibilità per il contribuente di conoscere legittimamente attraverso il c.d. estratto di ruolo le iscrizioni a proprio carico e l’eventuale emissione e notificazione di cartelle potrebbe rappresentare un “correttivo” idoneo a bilanciare il rapporto sperequato tra amministrazione e contribuente soltanto se la conoscenza – attraverso l’estratto di ruolo – di un atto che il contribuente avrebbe avuto il diritto di impugnare (e che non è stato impugnato in quanto non conosciuto perché malamente notificato) ne consentisse l’immediata impugnazione, non certo se al contribuente – che a causa dell’invalidità di una notifica della quale era onerata l’amministrazione sia stato espropriato del proprio diritto di accedere alla tutela giurisdizionale – si continui a negare tale accesso, subordinandolo alla notifica di un ulteriore atto da parte dell’amministrazione, senza considerare che: in alcuni casi potrebbe anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad esecuzione forzata sulla base del ruolo; la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente sarebbe ancora una volta rimessa alla determinazioni dell’amministrazione circa i modi e i tempi della notifica dell’eventuale atto successivo;

nel frattempo aumenterebbe per il contribuente il pregiudizio connesso alla iscrizione in un registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione coatta; tale pregiudizio, nonché quello derivante da un eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione.

Per altro verso, la possibilità che il contribuente faccia valere immediatamente le proprie ragioni in relazione ad un atto non (validamente) notificatogli, senza bisogno di attendere la notifica di altro atto successivo (che potrebbe essere a sua volta malamente notificato) è funzionale anche al buon andamento della pubblica amministrazione, perché di certo contribuisce ad evitare i costi di una procedura esecutiva male instaurata, la produzione e l’aumento di danni da risarcire al contribuente, i rischi di decadenza dell’amministrazione in ragione di ripetute notifiche non andate a buon fine.

Né può ritenersi che la riconosciuta impugnabilità del ruolo e della cartella non (validamente) notificati dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza tramite l’estratto di ruolo espongano ai rischi di dilatazione del contenzioso e rallentamento dell’azione di prelievo, come da taluno paventato.

In proposito è infatti appena il caso di rilevare che l’impugnazione della cartella per mancanza di (valida) notificazione proposta non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato non comporta un aggravio del contenzioso se si considera che l’impugnazione della cartella, ancorché “ritardata”, interverrebbe in ogni caso al momento della notifica dell’atto successivo, mentre la proposizione “anticipata” di essa potrebbe evitare l’emissione e la notifica (quindi l’impugnazione) dell’atto successivo e perciò indurre un possibile effetto deflativo. Tanto premesso, è però indubbio che anche un eventuale (modesto) incremento del contenzioso non potrebbe giustificare una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale consistente nel posticipare la possibilità di accesso ad essa ad un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire e perciò ad un momento in cui è possibile che alcuni effetti lesivi dell’atto si siano già prodotti. E’ infine da escludere che dalla impugnabilità di un atto nel quale risulti esternata una ben definita pretesa tributaria possa derivare un “rallentamento” dell’azione di prelievo, che non sia quello strettamente (e legittimamente) derivante dall’interesse e dal diritto costituzionalmente presidiato del contribuente di contrastare la possibilità di un prelievo illegittimo, dovendo rilevarsi che posticipare il momento in cui il contribuente può far valere l’illegittimità della pretesa non serve a “sveltire” l’azione di prelievo ma solo ad aumentare il danno derivante da azioni esecutive in ipotesi portate avanti sulla base di pretese illegittime. 4) Alla luce di quanto fin qui esposto deve conclusivamente affermarsi la fondatezza – nei termini sopra riportati – del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente si duole della ritenuta inammissibilità della opposizione proposta per far valere l’invalidità della notifica della cartella di pagamento della quale essa era venuta a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo. Deve invece affermarsi l’infondatezza del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente sostiene che i giudici d’appello, trascurando ogni valutazione sia in ordine alle circostanze di fatto offerte dalla contribuente con riguardo alla dedotta omissione di notifica della cartella sia in ordine alla mancata contestazione delle suddette circostanze ad opera della controparte, sarebbero incorsi in “difetto di attività del giudice che si risolve nella nullità della sentenza per insufficiente motivazione”.

In proposito, infatti, anche ritenendo di poter prescindere dalla impropria formulazione della censura, deve evidenziarsi che i giudici d’appello hanno dichiarato l’inammissibilità della proposta opposizione e che queste sezioni unite hanno ripetutamente affermato che, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza) con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare, con la conseguenza che è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (così SU n. 3840 del 2007 e numerose altre successive), dovendo a fortiori ritenersi infondata l’impugnazione che, come nella specie, sostanzialmente censuri (sia pure attraverso incongrui riferimenti normativi) l’omessa pronuncia sul merito da parte del giudice che si sia spogliato della relativa potestas iudicandi con una statuizione di inammissibilità.

Dall’argomentare che precede discende l’accoglimento, nei limiti e nei termini sopra esposti, del ricorso, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla CTR della Puglia in diversa composizione perché provveda a decidere la controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto: “E’ ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”.

Il giudice del rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per te spese alla C.T.R. Puglia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 2, Ord., (data ud. 21/05/2015) 30/09/2015, n. 19387

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19628/2012 proposto da:

C.D. (OMISSIS) elettivamente domiciliato in ROMA, VIA M. BRAGADIN, 95, presso lo studio dell’avvocato MATTEO CARLO PARROTTA, rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

PUBBLICO MINISTERO presso la PROCURA GENERALE di CATANZARO;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 277/11 R.C.C. della CORTE D’APPELLO di CATANZARO dell’8/06/2012, depositata il 20/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

Svolgimento del processo
Con ordinanza del 20 luglio 2012, la Corte di appello di Catanzaro, chiamata a pronunciarsi sull’opposizione proposta da C. D., con separati ricorsi, poi riuniti, avverso i decreti di liquidazione dei compensi ad esso spettanti per l’attività defensionale svolta nell’interesse dei propri assistiti, entrambi ammessi al gratuito patrocinio nell’ambito di un procedimento per i reati di cui della L. 685 del 1975, artt. 71, 74 e 75, e definito con sentenza in data 5/10/2012, in riforma del provvedimento impugnato, ha accolto le censure mosse ai provvedimenti impugnati e provveduto alla rideterminazione dell’ammontare dei compensi spettanti al difensore con l’aggiunta del rimborso delle spese di viaggio e dell’indennità di trasferta.

Avverso tale provvedimento definitivo della Corte di appello di Catanzaro ha presentato ricorso a questa Corte, il medesimo C., deducendo due diversi motivi.

Con la prima articolata censura ha denunciato, in primis, la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e all’art. 111 Cost., in secondo luogo, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, in relazione alle norme determinative della tariffa professionale penale di cui al D.M. n. 127 del 2004, nonchè violazione del principio del divieto di reformatio in peius anche per vizio di motivazione.

Con il secondo mezzo ha dedotto la violazione dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b); violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre ad omessa motivazione sul medesimo punto relativo alle spese del giudizio.

L’intimato Pubblico Ministero presso la Procura Generale di Catanzaro non ha svolto difese in questa fase del giudizio.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., proponendo l’accoglimento del ricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria illustrativa di adesione alla relazione.

Motivi della decisione
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con il primo motivo viene denunciata la inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni in tema di liquidazione degli onorati del difensore, in particolare dell’art. 82 T.U. materia di spese di giustizia e delle norme che ineriscono la tariffa professionale penale contenuti nel D.M. n. 127 del 2004, per avere la Corte di appello di Catanzaro, nonostante il riconoscimento della fondatezza delle censure sollevate dall’odierno ricorrente, proceduto ad una liquidazione dei compensi e degli onorari ad esso spettanti in misura inferiore rispetto ai decreti impugnati e per aver arbitrariamente disatteso quanto attestato dalle note difensive e dalle produzioni documentali della parte.

Con il secondo motivo il ricorrente censura l’ordinanza impugnata per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ed omessa motivazione, limitatamente alla mancata statuizione in ordine alla liquidazione delle spese del procedimento di opposizione.

Per poter procedere all’esame delle suddette doglianze occorre dare atto della imprescindibilità di un adempimento preliminare consistente nella previa integrazione del contraddittorio, non essendo stata evocata in giudizio la necessaria controparte dello stesso.

Al riguardo si sono pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte che, superando il contrasto esistente circa la legittimazione passiva nel giudizio di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, hanno statuito che litisconsorte necessario è il Ministero della Giustizia. Nel dettaglio, la Suprema corte, ha chiarito come non possa considerarsi titolare passivo del rapporto nè l’agenzia dell’entrate, sovente intimata in tali giudizi, nè il Pubblico Ministero, come è accaduto nel caso di specie, bensì un terzo e diverso soggetto, ciò in quanto tale giudizio, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, presenta carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale, per cui, parte necessaria dei procedimenti suddetti deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento, con la conseguenza che nei giudizi di opposizione a liquidazione inerenti a giudici civili e penali suscettibili di restare a carico dell’erario”, quest’ultimo va identificato nel Ministero della Giustizia, che pertanto è parte necessaria (Cass. S.U. 29 maggio 2012 n. 8516). Trattasi di principi consolidati e ribaditi dalle più recenti pronunce di questa Corte (Cass. 29 gennaio 2015 n. 1687; Cass. 21 ottobre 2014 n. 22316; Cass. 13 febbraio 2014 n. 3312; Cass. 14 febbraio 2013 n. 3622).

In definitiva si conferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., data la necessità di procedere all’integrazione del contradditorio ex art. 331 c.p.c.”.

Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, e alla quale non sono state rivolte critiche di sorta, sono condivisi dal Collegio, ragione per la quale l’ordinanza impugnata va cassata e, in applicazione dell’art. 383 c.p.c., comma 3, deve essere disposta la rimessione della causa al primo giudice, individuato come in dispositivo, il quale, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, pronunciando sul ricorso, dichiara la nullità del giudizio di merito e ne ordina la rinnovazione davanti al Presidente della Corte di appello di Catanzaro, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, il quale provvederà anche per le spese del giudizio di Cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte di Cassazione, il 21 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 27-05-2015) 25-09-2015, n. 19060

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19693-2010 proposto da:

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

A.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 525/2009 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE di BOLOGNA, depositata il 10/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/05/2015 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Amministrazione Finanziaria ha notificato ad A.F. nei novembre 1982 avvisi di accertamento per IRPEF ed ILOR relativi agli anni 1975/1980; in data 14-3-1983 il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa ex L. n. 516 del 1982, determinando i nuovi imponibili con riferimento non alle dichiarazioni originariamente presentate ma a quanto accertato nei detti avvisi; l’Ufficio, previo controllo, ha proceduto quindi alla liquidazione della detta dichiarazione integrativa ed alla conseguente formazione dei ruoli, con notifica al contribuente della relativa cartella nel settembre 1988, quando però era stata già emessa la sentenza della Corte Costituzionale 175/1986, che aveva sancito l’illegittimità di tutti gli avvisi di accertamento notificati, come quelli in questione, tra il 14/7/1986 ed il 15/3/1983.

Avverso detta cartella il contribuente ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributarla di primo grado di Parma, sostenendo che la su riferita declaratoria di illegittimità costituzionale non poteva che travolgere anche la dichiarazione integrativa, essendo infatti quest’ultima parametrata su avvisi dichiarati illegittimi.

L’adita Commissione, in parziale accoglimento del ricorso, ha ritenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto procedere ad una riliquidazione della dichiarazione integrativa procedendo D.L. n. 429 del 1982, ex art. 19, e cioè considerandola come presentata “in assenza di accertamento”.

La Commissione di secondo grado ha rigettato l’appello dell’Ufficio.

Con sentenza depositata il 10 giugno 2009 la CTC, sez. di Bologna, ha rigettato il ricorso dell’Ufficio; in particolare la CTC ha evidenziato che la dichiarazione integrativa era strettamente connessa e subordinata all’avviso di accertamento; di conseguenza la nullità di quest’ultimo, da ritenersi atto presupposto, non poteva che travolgere tutto il rapporto tributario dallo stesso generato.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione il Ministero dell’Economia e della Finanze e l’Agenzia delle Entrate, affidato ad un motivo; il contribuente non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione, in quanto proposto oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, ratione temporis vigente (un anno e 46 gg dalla pubblicazione della sentenza impugnata, avvenuta in data 10-6-2009).

Il ricorso, invero, è stato notificato, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., tramite ufficiale giudiziario, mediante deposito di copia nella casa comunale, per irreperibilità del contribuente presso l’indirizzo nel quale quest’ultimo aveva la sua residenza anagrafica (via (OMISSIS)), in data 24-9-2010, e quindi oltre il su menzionato termine.

Irrilevante è, invece, al riguardo, la precedente procedura notificatoria per posta, la cui conclusione, attesa la mancanza della relativa cartolina di ritorno, non può ritenersi provata.

E’ vero, infatti, che “In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (Cass. Sez. unite 17352 e ssg.).

Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il ricorso è stato consegnato all’Ufficio postale per la notifica in data 21-7-2010, ma, in mancanza (come detto) della relativa cartolina di ritorno, non vi è prova che il mancato perfezionamento dell’intrapresa procedura non sia addebitabile a colpa del notificante; siffatta circostanza configura una interruzione nella continuità della procedura notificatoria, sicché non può ritenersi avvenuta una ripresa del procedimento notificatorio e gli effetti della seconda notifica (avvenuta ex art. 143 c.p.c.) non possono essere ricollegati ad atti della prima, e, in particolare, alla consegna all’ufficio postale del ricorso da notificare.

In conclusione, quindi, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, non avendo il contribuente svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/05/2015) 24/09/2015, n. 18936

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11870-2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MALESCI ISTITUTO FARMACOBIOLOGICO SPA in persona del legale rappresentante pro tempore e del Consigliere di Amministrazione, elettivamente domiciliato in ROMA VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato FIORILLI PAOLO, rappresentato e difeso dagli avvocati PISTOLESI FRANCESCO, MICCINESI MARCO giusta delega a margine;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 13/2008 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE, depositata il 28/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2015 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIORENTINO che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PISTOLESI che ha chiesto il rigetto del ricorso e la inammissibilità e l’accoglimento del ricorso principale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine il rigetto del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
In relazione alla contestata indetraibilità dell’IVA su fatture passive aventi ad oggetto corrispettivi versati da Malesci Istituto Farmacobiologico s.p.a. per la organizzazione e lo svolgimento di congressi e convegni scientifici autorizzati dal Ministero della Salute negli anni 1998 e 1999, in quanto qualificate come “spese di rappresentanzà negli avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio di Firenze della Agenzia delle Entrate, in quanto tali non detraibili ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) e dell’art. 74 TUIR (entrambe le norme nel testo vigente ratione temporis), la Commissione tributaria della regione Toscana, con sentenza 28.3.2008 n. 13 ed in parziale riforma della decisione di prime cure, dichiarava infondata la pretesa fiscale, interpretando il complesso normativo, anche in combinato disposto dalla L. n. 67 del 1988, art. 19, comma 14 (come modificato dalla L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13), ritenendo che la speciale disciplina normativa riservata, in materia di imposte sui redditi, alle spese per convegni e congressi sostenute dalle imprese farmaceutiche, sottraeva tali spese alla categoria delle “spese di rappresentanza” disciplinate dall’art. 74, comma 2 vecchio TUIR cui rinviava la norma sulla indetraibilità dell’IVA, e pertanto non andavano incontro al divieto di detrazione d’imposta dovendo essere considerate, anche al tempo dei fatti, assoggettate all’ordinario regime IVA previsto per le “spese di pubblicità”, come peraltro deponevano le successive modifiche della L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13 (che consentivano la deduzione, ai fini delle II.DD. delle spese di pubblicità farmaceutica effettuata attraverso convegni e congressi) e la giurisprudenza di legittimità.

I Giudici di appello ritenevano, invece, fondata la pretesa fiscale concernente la indetraibilità dell’IVA sulle spese sostenute dalla società per “servizi connessi” all’acquisto di “beni da destinare ad omaggio” (fonendoscopi), non essendo stata dimostrata la “inerenza” di tali spese con l’esercizio della impresa farmaceutica.

Annullavano inoltre gli avvisi limitatamente alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie, ravvisando, da un lato, la ricorrenza di difficoltà interpretative idonee ad integrare le cause di non punibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 8 ed D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, e dall’altro, la carenza di una autonoma motivazione in ordine all’illecito contestato.

La sentenza di appello, notificata in data 18.7.2008, è stata impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate, con ricorso notificato alla contribuente il 18.5.2009 ed affidato a tre motivi con i quali si deducono vizi di violazione di norme di diritto e vizi di motivazione.

Resiste con controricorso la società, eccependo la inammissibilità del ricorso per violazione del termine breve di impugnazione e proponendo contestuale ricorso incidentale, affidato a tre motivi, con i quali vengono dedotti vizi per “errores in judicando” ed “errores in procedendo” e vizio di motivazione. Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione
1. Il ricorso principale è inammissibile.

La parte resistente ha eccepito che il ricorso per cassazione era stato notificato oltre il termine breve di impugnazione previsto dall’art. 325 c.p.c. e dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 1, e art. 62, comma 2, essendo stata notificata la sentenza di appello, ad istanza di parte, in data 18.7.2008 a “mani proprie”, alla “Agenzia delle Entrate – Ufficio di Firenze (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, in via (OMISSIS)” (come emerge dalla relata di notifica), ed essendo stato invece proposto il ricorso per cassazione con atto consegnato all’Ufficiale giudiziario in data 13.5.2009 e notificato alla società contribuente in data 18.5.2009.

La Agenzia fiscale ricorrente contesta la eccezione pregiudziale ritenendo tempestiva la proposizione del ricorso, dovendo ritenersi inefficace, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, la notifica della sentenza di appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 38 in quanto eseguita presso la sede dell’ufficio finanziario che aveva emanato l’avviso di accertamento opposto, anzichè presso la sede della Direzione regionale delle entrate che aveva partecipato al giudizio di appello.

1.1 Risulta dagli atti (intestazione della sentenza di appello) che nel giudizio di secondo grado l’ufficio della Agenzia delle Entrate, che aveva emanato l’atto impugnato (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), e nei cui confronti era stato proposto il ricorso (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. c), art. 20, comma 1, art. 23, comma 1), era stato in giudizio “mediante” l’”Ufficio del contenzioso” della Direzione regionale della Toscana (DRE), giusto il disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, per cui “l’ufficio…..nei cui confronti è proposto il ricorso sta in giudizio direttamente o mediante l’ufficio del contenzioso della direzione regionale o compartimentale ad esso sovraordinata”.

In proposito occorre osservare che, se parte del processo tributario, introdotto dal contribuente, deve intendersi “l’ufficio……che ha emanato l’atto impugnato…” (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), l’art. 11 comma 2, introduce un sistema di legittimazione processuale alternativa, funzionale al modello organizzativo delle Agenzia fiscali.

La norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, deve, infatti, essere interpretata alla stregua del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 62, comma 2, che ha attribuito alla Agenzia delle Entrate (ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico con autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria: D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61, commi 1 e 2; art. 1, comma 1, e art. 13, comma 1, Statuto, approvato con delibera CD in data 13.12.2000 n. 6) tutte le competenze già esercitate dal Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, con “facoltà” di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72).

L’Agenzia fiscale è, infatti, articolata in uffici “centrali e periferici”, “regionali e provinciale (a loro volta articolati in strutture di vertice ed uffici dipendenti), in base alle disposizioni del regolamento di amministrazione adottato con delibera CD del 30.11.2000 n. 4 (art. 2, comma 2; art. 4, comma 1; art. 5), secondo criteri organizzativi che combinano l’applicazione del “principio di competenza” (territoriale e per valore) con i principi “gerarchico” (fondato su rapporti di sovra e sottordinazione: art. 11, comma 1, lett. c), Statuto) e di “sussidiarietà” (art. 1, comma 1, lett. d) reg. amm.).

Per quanto qui interessa, la gestione del contenzioso risulta attribuita a tutte le strutture periferiche, sia di “vertice” che “meramente operative”:

– le Direzioni regionali e le Direzioni provinciali delle Province autonome di Trento e Bolzano, che sono “strutture di vertice”, infatti, oltre a funzioni di direzione e di coordinamento svolgono anche “attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento, della riscossione, e del contenzioso” (art. 4, comma 3, reg. amm.);

– presso le altre Direzioni provinciali (articolate a loro volta negli “uffici territoriali”, nell’”ufficio controlli” e nell’”ufficio legale”) “l’ufficio legale tratta il contenzioso di tutta la direzione provinciale” (art. 5, comma 3 del reg. amm.) – il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate in data 23.2.2001 n. 36122, pubblicato in GU n. 151/2001 (da ricomprendersi tra le “disposizioni interne” di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3), adottato in esecuzione delle norme di legge, regolamentari e statutarie, prevede che le Direzioni regionali esercitano funzioni anche “nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento e del contenzioso”, istituendo presso tali organi anche rufficio del “Contenzioso tributario” cui è affidata tra l’altro la “rappresentanza dinanzi alle Commissioni tributarie regionali”.

1.2 Tanto premesso, ferma la esclusiva riconducibilità dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio (pretesa fiscale) all’Erario, e per esso alla Agenzia delle Entrate alla quale sono stati attribuiti ex lege i poteri di gestione del rapporto tributario con il contribuente, osserva il Collegio che indipendentemente dal rapporto organizzativo, interno all’ente di diritto pubblico, che viene ad essere instaurato tra l’organo sovraordinato (DRE) e l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato (avocazione gerarchica della trattazione del contenzioso; accentramento in via generale, presso l’ufficio contenzioso della DRE, della rappresentanza in giudizio dei singoli uffici locali; valutazione caso per caso da parte dell’organo sovraordinato della opportunità di sostituire l’ufficio che ha emanato l’atto nella assunzione della posizione di parte processuale), non pare dubbio che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, attribuisca all’”ufficio del contenzioso” della DRE (nella specie la Direzione regionale della Toscana) una legittimazione processuale concorrente con quella dell’”ufficio provinciale periferico” che ha emanato l’atto opposto (nella specie l’Ufficio di Firenze (OMISSIS)), consentendo all’”ufficio del contenzioso” della DRE di costituirsi in giudizio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 23, comma 1, in sostituzione del predetto “ufficio periferico” al quale è stato notificato il ricorso introduttivo ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 20 (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 20911 del 03/10/2014).

La individuazione dell’ufficio della Agenzia delle Entrate, ritenuto maggiormente idoneo a sostenere la difesa dell’ente pubblico in giudizio, è espressione di scelte discrezionali proprie dell’ente, che riflettono la specifica organizzazione ed articolazione interna degli uffici, che si inscrivono tutte nella definizione legale di “parte nel processo tributario” compiuta dalla legge che, al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 28 conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122, applicabile al caso di specie) disponeva, infatti, che “Sono parti nel processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio, l’ufficio delle entrate del Ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso”, norma che deve essere coordinata, ai fini della individuazione della parte processuale pubblica, con le disposizioni dell’art. 18, comma 2, lett. c) – secondo cui il contribuente deve indicare nel ricorso introduttivo l’ufficio nei cui confronti la impugnazione è proposta -, e dell’art. 23, comma 1 -per cui “l’ufficio….nei cui confronti è stato proposto il ricorso” si costituisce in giudizio entro sessanta giorni dal perfezionamento della notifica-, dovendo in conseguenza ritenersi, in base al combinato disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1 e art. 23, comma 1, che la qualità di “parte nel processo” debba comunque essere riconosciuta -anche in ipotesi di una eventuale “sostituzione” da parte dell’organo gerarchicamente sovraordinato ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2 -, all’”ufficio provinciale periferico” della Agenzia fiscale “che ha emanato” l’avviso di rettifica o di accertamento ed al quale il ricorso introduttivo è stato notificato dal contribuente.

Orbene il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2, che disciplina la notificazione delle sentenze di merito dei Giudici tributali (ai fini della decorrenza del termine breve anche per la proposizione del ricorso per cassazione: Corte cass. Set. 5, Sentenza n. 5871 del 13/04/2012 secondo cui “l’applicazione di tali disposizioni alle decisioni delle Commissioni tributarie regionali, in forza del generale richiamo fatto per il processo tributario di secondo grado alle norme dettate per il primo grado, trova ostacolo nella disciplina del ricorso per cassazione, interamente regolato dal codice di procedura civile, poichè la notifica delle sentenze di appello resta fuori del giudizio di legittimità, mirando solo alla più celere formazione del giudicato formale”), prescrive in modo inequivoco che la notificazione della sentenza deve essere eseguita “alle altre parti” (“a norma dell’art. 137 c.p.c.” e ss. ed ora, dopo le modifiche introdotte dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 1, lett. a), “a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16”) e dunque, alla stregua delle considerazioni che precedono, all’ufficio che ha emanato l’avviso di accertamento/rettifica opposto, in quanto individuato ex lege come parte del processo tributario e, pertanto, legittimato a ricevere la notifica della sentenza di merito agli effetti della decorrenza, nei confronti dell’Agenzia fiscale titolare del diritto controverso (ente con personalità giuridica di diritto pubblico, nel quale è inserito l’ufficio periferico dotato di pari capacità di stare in giudizio ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11, secondo un modello assimilabile alla preposizione istruttoria di cui agli artt. 2203 e 2204 cod. civ.), del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione.

Tanto alla stregua del principio di diritto affermato dalla Corte – cui il Collegio intende aderire- secondo cui per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11, la nuova realtà ordinamentale – caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore- consente infine di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (cfr.

Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 3118 del 14/02/2006; Sez. U, Sentenza n. 3116 del 14/02/2006), non comportando tale soluzione un aggravio nell’esercizio del diritto di difesa nella fase di legittimità, poichè l’Ufficio centrale e quelli periferici -che emettono l’atto impugnato e curano il contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie- debbono comunque cooperare nell’attività di predisposizione della difesa tecnica dell’Agenzia nel giudizio di cassazione (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 22889 del 25/10/2006; id. Sez, 5, Sentenza n. 441 del 14/01/2015).

1.3 La soluzione indicata non trova ostacolo nella disposizione dell’art. 16, comma 2 che, ai fini delle notificazioni e comunicazioni alle parti del processo, richiama anche il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 secondo cui “salva la consegna a mani proprie”, “le notificazioni sono fatte……nel domicilio eletto o in mancanza, nella residenza, o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio”, indicazione che ha effetto anche per i successivi gradi di giudizio (art. 17, comma 2).

Se, infatti, non può essere logicamente negata alla Amministrazione finanziaria la facoltà di eleggere domicilio, al pari della parte contribuente, deve altresì rilevarsi come la norma del processo tributario, da ultimo richiamata, venga a derogare all’art. 170 c.p.c. (alla norma processualtributaria è stata riconosciuta sì efficacia “endoprocessuale” ma del tutto peculiare, atteso che la indicazione mantiene efficacia, ove non revocata o modificata, anche nel successivo grado di merito, pertanto, venendo a disporre il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., ma non anche in deroga alla norma del processo civile che disciplina la “notifica degli atti di impugnazione” – art. 330 c.p.c. – da ritenersi non incompatibile con quella speciale del processo tributario: Corte cass. Sez, U, Sentenza n. 29290 del 15/12/2008; id.

Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 460 del 13/01/2014), e venga, quindi, ad incidere anche sulla disciplina della notifica della sentenza di merito, tenuto conto che, il previgente testo del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 in vigore alla data della notifica (la modifica normativa successiva della L. n. 73 del 2010, che ha sostituito il rinvio agli artt. 137 c.p.c. e ss. con quello al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, ha ampliato “le forme” della notificazione della sentenza, ritenendo valide anche la spedizione diretta a mezzo posta in plico senza busta con raccomandata AR, ovvero la consegna della sentenza all’addetto all’ufficio – art. 16, comma 3 -, mentre non ha apportato modifiche alla disciplina del luogo e della parte destinataria della notifica che doveva, essere rinvenuta, pertanto, nella disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, commi 2, 4 e 5, e dall’art. 17), non escludeva l’applicazione – alla notifica delle sentenze tributarie- dell’art. 285 c.p.c. (secondo cui la sentenza deve essere notificata al procuratore costituito, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., ovvero alla parte costituita personalmente in giudizio, presso la residenza dichiarata od il domicilio eletto), norma che doveva pertanto intendersi derogata – relativamente alla disposizione che consente la notifica della sentenza di merito ai sensi dell’art. 170 c.p.c.- dalla disposizione speciale del processo tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, comma 1, che fa salva in ogni caso la notifica “a mani proprie” (“le comunicazione e le notificazioni sono fatte, salva la consegna a mani proprie,…”), e che è stata costantemente interpretata da questa Corte nel senso che gli atti processuali e “la sentenza di merito” possono sempre essere notificati direttamente alla parte personalmente, anche nel caso in cui vi sia stata elezione di domicilio (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 10474 del 03/07/2003 secondo cui debbono ritenersi ricomprese “tutte le forme di notifica previste dagli artt. 138, 140 cod. proc. civ. e la notifica a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l’atto venga comunque consegnato a mani proprie del destinatario”; id. Sez. 5, Sentenza n. 9381 del 20/04/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 5504 del 09/03/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 10961 del 13/05/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 16234 del 09/07/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 7059 del 26/03/2014, con riferimento alla notifica della sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale).

La applicazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 indifferentemente ad entrambe le parti del processo tributario, esclude alla radice il dubbio di incompatibilità comunitaria prospettato nella memoria illustrativa dalla Agenzia delle Entrate (secondo cui la notifica eseguita in via alternativa all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero all’ufficio del contenzioso della DRE, costituitosi in giudizio, sarebbe lesiva dei “principi di origine comunitaria di equivalenza ed effettività della difesa”), peraltro in modo assolutamente carente, essendo stata omessa la indicazione delle norme dell’ordinamento comunitario che si assumono in ipotesi in conflitto con quelle processuali, e tenuto altresì conto, da un lato, che la materia della disciplina processuale è estranea alle materie riservate alla Comunità Europea dal Trattato (art. 6 TUE), e dall’altro che, anche nel caso in cui la ricorrente abbia inteso fare generico riferimento alla violazione dei principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proprio la mancata individuazione della norma comunitaria in conflitto con la disposizione processuale, impedirebbe comunque la verifica dell’asserita violazione, atteso che, per espressa previsione dell’art. 51, n. 1 della Carta, le disposizioni della medesima si applicano agli Stati membri esclusivamente “nell’attuazione del diritto dell’Unione” (e cioè soltanto ove debba applicarsi una norma comunitaria diversa dalla Carta). E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia che, quando un regolamento comunitario (od una direttiva comunitaria) conferisce un potere discrezionale ad uno Stato membro, quest’ultimo deve esercitare tale potere nel rispetto del diritto – e dei principi della Carta – dell’Unione (cfr. Corte di giustizia CE, sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609; 4 marzo 2010, causa C-578/08, Chakroun, Racc. pag. 1-1839, e 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, McB., Racc. pag. 1-8965), ma nel caso di specie la ricorrente neppure allega -e non è dato altrimenti individuare- il regolamento o la direttiva comunitaria dai quali deriverebbe il potere discrezionale attribuito allo Stato membro nel disporre la disciplina legislativa del processo tributario, che non può, pertanto, essere considerata una normativa di attuazione di un diritto derivante dall’ordinamento comunitario.

Nè è dato ravvisare neppure un “vulnus” al principio di eguaglianza e di effettitività dell’esercizo del diritto di difesa ex artt. 3 e 24 Cost., tenuto conto che la notifica della sentenza tributaria eseguita, in via alternativa, all’ufficio periferico che ha emanato l’atto (parte processuale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 10, comma 1), ovvero -presso il domicilio eletto- nei confronti dell’ufficio del contenzioso della DRE (costituitosi in giudizio “in sostituzione” del primo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2), od ancora direttamente all’ente pubblico presso la sede legale (quale soggetto di diritto pubblico, parte sostanziale del rapporto tributario controverso, nella organizzazione del quale sono organicamente inseriti i predetti uffici), sono forme tutte egualmente funzionali, secondo un canone di ragionevolezza, ad assicurare all’Amministrazione finanziaria la effettiva conoscenza della sentenza pronunciata all’esito del giudizio, ai fini del tempestivo apprestamento dell’atto di impugnazione, non potendo essere addotti in contrario, dall’Agenzia fiscale, eventuali ostacoli di mero fatto dovuti a ritardi od inefficienze della organizzazione degli uffici dell’ente di diritto pubblico.

1.4 La menzionata norma del processo tributario (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1), come interpretata da questa Corte, legittima, pertanto, la parte interessata (pubblica o privata) a notificare la sentenza tributaria di merito, tanto al procuratore domiciliatario, quanto alla “parte personalmente” (“a mani proprie”), dovendo applicarsi tale disposizione anche alla ipotesi, che ricorre nel caso di specie, in cui l’”ufficio che ha emesso l’atto impositivo” Opposto – al quale è stato notificato il ricorso introduttivo e che viene indicato dalla legge come “parte nel processo”- stia in giudizio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, “mediante” l’”ufficio del contenzioso” della DRE e questo abbia eletto domicilio presso la Direzione regionale (come nel caso di specie in cui -come emerge anche dalla intestazione della sentenza della CTR – l’ufficio del contenzioso della DRE della Toscana aveva indicato, costituendosi in grado di appello, il domicilio in Firenze via della Fortezza n. 8: cfr.anche memoria illustrativa depositata dalla Agenzia, pag. 7), essendo irrilevante al proposito che non sia configurabile un rapporto di rappresentanza negoziale tra gli uffici dell’ente pubblico, trovando genesi la partecipazione al giudizio dell’ufficio della DRE in una scelta di tipo organizzativo, riservata all’organo competente del soggetto di diritto titolare della pretesa tributaria contestata (l’Agenzia fiscale dotata di personalità giuridica di diritto pubblico), atteso che la alternativa, prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, tra la modalità di notifica “a mani proprie” della parte e la notifica presso il luogo indicato con la elezione di domicilio (anche in assenza di procuratore ad litem o di altro soggetto indicato come domiciliatario) opera in via generale e nei confronti di tutte le parti del processo, dovendo quindi ritenersi equipollenti la notifica della sentenza di merito eseguita alla parte costituitasi personalmente “a mani proprie”, anche se in luogo diverso dal domicilio eletto, e la notifica della sentenza di merito eseguita, presso il domicilio eletto, alla parte ovvero al procuratore ad litem costituito in giudizio o ancora al soggetto indicato come domiciliatario.

1.5 La questione pregiudiziale posta all’esame di questa Corte può dunque essere risolta alla stregua del seguente principio di diritto:

– la scelta riservata alla Agenzia fiscale -ente al quale è conferita personalità giuridica di diritto pubblico e che riveste la posizione di parte sostanziale, ai sensi del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, nel rapporto tributario controverso- di assumere la lite, introdotta dal contribuente, mediante costituzione in giudizio dell’ufficio periferico che ha emanato l’atto impositivo opposto ovvero dell’ufficio del contenzioso della DRE a quello gerarchicamente sovraordinato, ovvero direttamente con la costituzione in giudizio del Direttore generale dell’ente (in quanto organi tutti dotati di legittimazione processuale concorrente), e così del pari la analoga scelta dell’Agenzia fiscale di avvalersi o meno del patrocinio di un avvocato del foro privato, con il conferimento di apposita “procura ad litem”, hanno carattere eminentemente organizzativo, rispondendo alle esigenze di funzionalità ed efficienza dell’ente pubblico, in considerazione della sua specifica articolazione sul territorio e della distribuzione delle competenze tra i vari organi ed uffici centrali e periferici, e non immutano, pertanto, all’assetto legislativo del processo tributario che, individua “ex ante”, nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, come “parte nel processo”, l’ufficio della Agenzia fiscale “che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto” (ovvero l’ufficio con competenza su tutto o parte del territorio nazionale al quale spettano -in base ai regolamenti organizzativi dell’ente- le attribuzioni in merito a) rapporto controverso). Ne segue che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, bene può essere validamente eseguita, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 nei confronti dell’”ufficio che ha emanato l’atto”, opposto dal contribuente, anche nel caso in cui quest’ultimo si sia costituito in giudizio “mediante” l’ufficio del contenzioso della DRE e questo abbia eletto domicilio presso di sè, in quanto se, da un lato, l’intervento sostitutivo dell’ufficio della DRE non comporta il venire meno della qualifica legale di parte processuale dell’ufficio che ha emanato l’atto impositivo, dall’altro lato, il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 17 e 38 disciplinano un sistema compiuto delle modalità di notifica degli atti del processo tributario e delle sentenze emesse dai Giudici tributali, e l’art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., prevede che la notifica dell’atto possa essere eseguita direttamente alla parte mediante consegna “a mani proprie”, ovvero, in via alternativa, mediante notifica alla stessa parte nel domicilio eletto od in caso di conferimento del mandato ad litem al procuratore domiciliatario.

Sembra opportuno al Collegio evidenziare come l’enunciato principio, che si pone in linea con i richiamati precedenti delle sentenze SS.UU. n. 3116 n. 3118 del 14.2.2006, non contrasta con l’affermazione riportata nella massima CED della SC tratta dal precedente di questa Corte 5 sez. 3.10.2014 n. 20911, secondo cui “agli uffici periferici va riconosciuta la posizione processuale di parte e l’accesso della difesa avanti alle commissioni tributarie, permanemdo la vigenza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11” atteso che in quella causa veniva in questione la distribuzione tra i vari uffici centrali e periferici dell’Agenzia fiscale, secondo le norme attributive della competenza, della legittimazione a resistere in giudizio, mentre nella presente causa viene in questione la individuazione dell’ufficio dell’Agenzia fiscale che riveste la qualità di “parte nel processo” ed al quale, pertanto, può essere validamente notificata la sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, secondo le modalità alternative di notifica sopra indicate.

1.6 La notifica della sentenza della CTR effettuata ad istanza della società contribuente presso la sede dell’Ufficio di Firenze (OMISSIS) (in Firenze via S. Caterina D’Alessandria n. 23) che aveva emesso gli avvisi di accertamento IVA impugnati, anzichè alla Direzione regionale della Toscana (con sede in Firenze via della Fortezza n. 8) costituitasi in giudizio in sostituzione del primo, deve, in conseguenza, ritenersi idonea a far decorrere, nei confronti della Agenzia Entrate, il termine breve ex art. 325 c.p.c. per la proposizione del ricorso per cassazione, dovendo essere considerata inammissibile la impugnazione in quanto proposta oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 62 c.p.c., comma 2 e art. 325 c.p.c., comma 2.

2. Venendo a trattare del ricorso incidentale autonomo, proposto dalla società contribuente osserva il Collegio quanto segue.

2.1 Il primo motivo con il quale si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1 e dell’art. 19 bis.1, comma 1, lett. h), in combinato disposto con l’art. 74, comma 2 TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed il secondo motivo con il quale si deduce il vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sono entrambi inammissibili, il primo, per inosservanza dell’onere di esposizione sommaria dei fatti di causa del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), entrambi per difetto di autosufficienza ed altresì per difetto di interesse alla impugnazione.

2.2 La ricorrente incidentale, premesso di aver offerto in dono ai partecipanti ai convegni dei “fonendoscopi” di valore inferiore al limite di lit. 50.000 (previsto per la deducibilità dal reddito d’impresa delle spese di rappresentanza, dall’art. 74, comma 2 TUIR), si duole che la CTR abbia assoggettato alla medesima disciplina normativa anche altri “oneri soltanto indirettamente correlati ai medesimi donativi e/o aventi natura di costi generali inerenti all’impresa” (cfr. quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.).

2.3 La descrizione della fattispecie controversa è assolutamente carente, non essendo dato individuare la natura ed il contenuto delle prestazioni di servizi di cui si sarebbe avvalsa la società, nè tanto meno l’asserita “accessorietà” delle stesse ai beni consegnati in omaggio: è la stessa società ricorrente incidentale, peraltro, ad introdurre un ulteriore elemento di incertezza laddove ipotizza che le spese in questione possano alternativamente costituire “oneri indirettamente correlati” agli omaggio, ovvero “spese di carattere generale” (nozione in alcun modo esplicitata).

2.4 La sentenza della CTR, peraltro, ha deciso sulla questione controversa alla stregua di due distinte “rationes decidendi”: a) ha negato la detrazione IVA per omessa prova da parte della contribuente del requisito di “inerenza” delle predette spese “generali” all’esercizio dell’attività economica della impresa farmaceutica; b) ha ritenuto non condivisibile “la scissione del costo unitario da quello direttamente afferente (quale il costo della confezione) all’omaggio”.

Entrambi i motivi in esame investono esclusivamente la statuizione sub lett. b), lasciando impregiudicata la statuizione sub lett. a), da sola idonea a giustificare il decisum. In ogni caso qualora si volessero ravvisare due differenti questioni oggetto di decisione (rispettivamente concernenti, le spese generali ritenute non inerenti, e le spese afferenti agli omaggi ritenute superiori al limite di valore indicato), entrambi i motivi sarebbero egualmente da ritenere inammissibili in quanto:

– alcuna prova “decisiva”, ritualmente prodotta nel giudizio di merito, e neppure alcuna descrizione della natura e della entità delle spese sostenute per tali servizi “accessori” è stata fornita dalla ricorrente incidentale, difettando pertanto il necessario requisito di autosufficienza previsto per l’ammissibilità del motivo:

– la statuizione sub lett. b) della sentenza di appello, è errata in diritto, ma corretta nella soluzione giuridica adottata, atteso che la espressa riconducibilità della elargizione di omaggi tra le “spese di rappresentanza” (e non tra le “spese di pubblicità”: art. 74, comma 2 TUIR) deducibili dal reddito d’impresa ai fini delle imposte dirette, non può trovare alcuna corrispondenza in ambito IVA in cui è, invece, espressamente preclusa la detrazione d’imposta delle “spese di rappresentanza” D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 24932 del 06/11/2013, in motivazione, paragr. 10.2). Nella specie non è stato, peraltro, neppure indicato dalla società se i beni consegnati in omaggio contenessero elementi pubblicitari relativi a prodotti farmaceutici o medicinali fabbricati o commercializzati dalla società e se dunque potessero essere valutate come costi di pubblicità, per i quali è consentita senza limitazioni la detrazione IVA sulle fatture passive.

3. Il terzo motivo con il quale si deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia su uno specifico motivo di appello, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 è inammissibile per omessa formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c..

La società lamenta che la CTR non avrebbe pronunciato in ordine al motivo di gravame con il quale si impugnava la decisione di prime cure che aveva ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento che aveva negato la detrazione dell’IVA su fatture emesse in acconto per l’anno 1997 e relative ad acquisti di beni (destinati ad omaggi) perfezionati nel successivo anno 1998.

3.1 La censura è inammissibile atteso che il motivo di ricorso per cassazione, soggetto al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve in ogni caso concludersi con la formulazione di un quesito di diritto idoneo, cioè tale da integrare il punto di congiunzione tra l’enunciazione del principio giuridico generale richiamato e la soluzione del caso specifico, anche quando un “error in procedendo” sia dedotto in rapporto alla affermata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., non essendovi spazio, in base al testo dell’art. 366-bis cod. proc. civ., per ipotizzare una distinzione tra i motivi d’impugnazione associati a vizi di attività a seconda che comportino, o no, la soluzione di questioni interpretative di norme processuali (cfr. Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4329 del 23/02/2009; id. Sez. L, Sentenza n. 4146 del 21/02/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 10758 del 08/05/2013).

4. In conclusione il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile e quello incidentale deve essere rigettato, sussistendo le condizioni per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso principale proposto dalla Agenzia delle Entrate e rigetta il ricorso incidentale proposto dalla società contribuente, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2015


Cass. civ. Sez. VI – 5, Sent., (ud. 07-05-2015) 21-07-2015, n. 15258

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25836/2014 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato MISIANI CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 5111/21/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di ROMA dell’8/07/2014, depositata il 04/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/05/2015 dal Presidente Relatore Dott. MARIO CICALA;

udito l’Avvocato Claudio Misiani difensore del ricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
Il signor S.L. ricorre contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, riformando la sentenza di primo grado, ha rigettato il ricorso con cui il contribuente aveva dedotto la nullità della notifica di un avviso di accertamento effettuata in Roma, a mezzo posta, in un indirizzo (via (OMISSIS)) diverso da quello della residenza anagrafica del contribuente (via (OMISSIS)).

Nella sentenza gravata si legge: “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 e del 2010, laddove giustappunto la residenza anagrafica del S. figura indicata in (OMISSIS), l’Agenzia appellante ha dato conto del proprio assunto, ovvero che il contribuente avesse eletto colà il proprio domicilio fiscale”. Da tale affermazione, la Commissione Tributaria Regionale trae la conclusione della validità della notificazione dell’avviso impugnato, “giustappunto effettuata in quello che figurava il domicilio fiscale del contribuente”.

Il ricorso del contribuente si articola su sei motivi:

– con il primo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso fondando la propria decisione su un fatto (l’avere il contribuente effettuato un’elezione di domicilio) prospettato dall’Ufficio solo nell’atto di appello;

– con il secondo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 47 c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), in cui il giudice territoriale sarebbe incorso affermando che l’indicazione di residenza anagrafica in un indirizzo dimostrerebbe l’intervenuta elezione di domicilio fiscale a tale indirizzo; con il terzo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione degli artt. 2702 e 2721 c.c., e del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, commi 3 e 6, e art. 3, comma 10, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso perchè, a fronte del disconoscimento della conformità delle copie prodotte dall’Agenzia delle dichiarazioni fiscali del contribuente con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, non ha addossato all’Ufficio l’onere di provare detta conformità;

– con il quarto, riferito tanto al n. 5 quanto al n. 4 (con riguardo all’art. 115 c.p.c.) dell’art. 360 c.p.c., si denuncia l’omesso esame della circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che il contribuente non aveva indicato nè residenza nè domicilio nelle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dal suo intermediario per gli anni 2009 e 2010, come documentato dalle “attestazione di avvenuto ricevimento”, rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10, e corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file”;

– con il quinto, riferito tanto al n. 3 (con riguardo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6) quanto all’art. 360 c.p.c., n. 5, si denuncia la violazione del principio, che il ricorrente desume dalle norme richiamate, per il quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe l’onere di verificare presso i registri anagrafici la residenza del contribuente a cui intende notificare un atto; nonchè l’omesso esame del fatto (rilevante ai fini del giudizio di validità della notifica effettuata all’indirizzo di via (OMISSIS) sotto il profilo del rispetto, da parte dell’Ufficio, del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 6, laddove prescrive che la comunicazione degli atti dell’Amministrazione “nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione”) che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’erroneo indirizzo di via (OMISSIS) (avvenuta in data 31/12/10) e precisamente in data 19/10/10, l’Amministrazione aveva notificato altro avviso di accertamento (pur esso relativo al medesimo modello Unico 2006) al corretto indirizzo di via (OMISSIS), dove l’atto era stato consegnato a mani della moglie del contribuente.

– con il sesto, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per inesistenza della motivazione, assumendo che la sentenza gravata non rispetterebbe il minimo costituzionale dell’obbligo di motivazione sia sotto il profilo dell’assoluta omissione di considerazione di fatti di decisiva rilevanza prospettati in giudizio dal contribuente, sia sotto il profilo della confusione tra indicazione di residenza ed elezione di domicilio.

La difesa erariale sì è costituita in questa sede al solo scopo di partecipare all’udienza, alla quale, peraltro, non ha poi presenziato.

La causa è stata discussa all’udienza pubblica del 7/5/15, in cui è intervenuto il difensore del ricorrente che aveva peraltro depositato anche memoria.

Motivi della decisione
Il primo mezzo di ricorso va disatteso, giacché la deduzione che il contribuente aveva effettuato una elezione di domicilio nell’indirizzo di via (OMISSIS) non costituiva un’eccezione in senso tecnico, ma una mera difesa volta paralizzare l’eccezione di nullità della notifica dell’atto impositivo sollevata dal contribuente nel ricorso introduttivo. E’ fermo indirizzo di questa Corte, infatti, che il divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, concerne esclusivamente le sole eccezioni in senso stretto, e non anche le eccezioni improprie o le mere difese, che sono sempre deducibili (da ultimo, Cass. 25756/14).

Il secondo mezzo è inammissibile, perché non pertinente alla ratio decidendi della sentenza gravata, la cui argomentazione risulta travisata dal ricorrente. E’ vero infatti che, come chiarito da questa Corte (cfr. sent. 11081/06), in tema di notificazione degli atti di accertamento tributario, la facoltà del contribuente di “eleggere” domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. “d”) si differenzia dalla semplice “dichiarazione” di domicilio, consistente nell’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica (art. 58, comma 2, D.P.R. cit.), in cui è possibile eseguire le notifiche; ma l’argomentazione della sentenza gravata non fa mai riferimento all’elezione di domicilio in senso tecnico, non parla mai della nomina di un domiciliatario, non cita mai il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. “d”. Il senso complessivo della sentenza gravata, quale risultante dallo stralcio sopra trascritto (e nonostante l’improprietà lessicale dell’affermazione che il contribuente avrebbe “eletto colà il proprio domicilio fiscale”), è dunque palesemente quello di attribuire all’indicazione della residenza anagrafica contenuta nelle dichiarazioni dei redditi relative agli esercizi 2009 e 2010 il valore di una “dichiarazione di domicilio” – vale a dire l’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica, in cui è possibile eseguire le notifiche – e non quello di una vera e propria “elezione di domicilio”, vale a dire la nomina di un domiciliatario.

Con il terzo ed il quarto motivo il contribuente sostanzialmente lamenta che la Commissione Tributaria Regionale per un verso (terzo motivo) avrebbe ignorato il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni fiscali del contribuente prodotte dall’Agenzia con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, e per altro verso (quarto motivo) avrebbe omesso di esaminare la circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che nei files delle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dall’intermediario del contribuente per gli anni 2009 e 2010 non risultava alcuna indicazione nè di residenza nè di domicilio.

Entrambi i motivi – da trattare congiuntamente per la loro intima connessione – risultano fondati.

Per la piena intelligenza delle censure è necessario tener presente che, come riportato nell’esposizione dei fatti di causa svolta nel ricorso per cassazione, nel ricorso introduttivo di primo grado il contribuente contestò la validità della notifica dell’atto impositivo impugnato sulla scorta delle seguenti deduzioni di fatto:

a) detta notifica era stata effettuata per compiuta giacenza, presso l’ufficio postale, del plico raccomandato contenente l’atto impositivo impugnato e l’avviso di giacenza era stato lasciato nella cassetta postale di un appartamento (l’interno 2) di uno stabile di via (OMISSIS);

b) esso contribuente non aveva mai avuto la residenza nè il domicilio in via (OMISSIS) ed era ininterrottamente residente in via (OMISSIS) dal 2001;

c) esso contribuente aveva indicato l’indirizzo di via (OMISSIS) come quello di propria residenza nel modello Unico 2006, lasciando in bianco lo spazio relativo all’indicazione della residenza nelle dichiarazioni dei redditi successive proprio perchè la residenza non era variata rispetto a quella risultante dal modello Unico 2006; l’indirizzo di via (OMISSIS) era peraltro stato indicato dal contribuente come propria residenza nel modello AA9/8, di apertura e chiusura della partita IVA in relazione ad un periodo di attività professionale esercitata dal gennaio 2008 al novembre 2010;

Alle controdeduzioni dell’Agenzia – nelle quali si affermava che l’indirizzo di via (OMISSIS) risultava indicato come residenza anagrafica del contribuente sia nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2010 e nel 2009, sia nel summenzionato modello AA9/8 – esso contribuente aveva replicato, con memorie depositate nel giudizio di primo grado l’I 1/6/12 e il 14/12/12, per un verso, evidenziando che dalla copia autentica del modello AA9/8, allegata al ricorso introduttivo, risultava che in tale modello l’indirizzo di residenza anagrafica era stato indicato in via (OMISSIS) e, per altro verso, contestando la conformità all’originate delle “copie” delle dichiarazioni 2009 e 2010 prodotte dall’Ufficio.

Con riferimento a queste ultime, in particolare, il contribuente – argomentando che non si trattava di copie in senso tecnico, bensì di trascrizioni in forma cartacea di una combinazione di dati trasmessi dal contribuente e di dati inseriti dal sistema ai fini di informatizzazione – aveva contro dedotto, davanti al giudice di prime cure, che il dato relativo alla residenza anagrafica in via (OMISSIS) non proveniva dal contribuente ma dal sistema informatico dell’Agenzia (e, precisamente, dal cosiddetto “cassetto fiscale”), nel quale tale dato era stato inserito per un errore di lettura del suddetto modello AA9/8 (il cui originale cartaceo era stato, come sopra riferito, prodotto in giudizio); errore fatto palese dal rilievo che, nel cassetto fiscale, l’erronea indicazione dell’indirizzo del contribuente in via Lorenzo il Magnifico 119 era corredata dall’annotazione “a decorrere dal 10/1/08” – fonte “Collegamento IVA”.

Sulle controdeduzioni svolta dal contribuente l’Ufficio non aveva preso posizione e la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente sulla scorta di una duplice ratio decidendi consistente:

1) da un lato, nell’accertamento in fatto che l’Agenzia non aveva fornito la prova dell’asserita indicazione da parte del contribuente dell’indirizzo di via (OMISSIS);

2) d’altro lato, nell’affermazione di diritto che, in mancanza di elezione di domicilio D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, comma 1, lett. d), ai fini della notifica degli atti impositivi l’amministrazione finanziaria era onerata di accertare l’attuale residenza anagrafica del contribuente, potendo la stessa essere variata rispetto a quella indicata nell’ultima dichiarazione dei redditi.

Così ricostruiti fatti di causa, osserva il Collegio che l’affermazione sulla cui base la Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello dell’Agenzia contro la sentenza di prime cure, ossia l’affermazione secondo la quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe provato che il contribuente aveva dichiarato il proprio domicilio in via (OMISSIS) “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 del 2010”, è censurabile sotto entrambi i profili sviluppati, rispettivamente, nel terzo nel quarto motivo di ricorso. Quanto al profilo sviluppato nel terzo motivo, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata trascura completamente il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni dei redditi prodotte dall’Agenzia ai files delle medesime dichiarazioni teletrasmessi dall’intermediario; disconoscimento che il contribuente aveva operato nel giudizio di primo grado – producendo la “attestazione di avvenuto ricevimento” del file (rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10) corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” – ed aveva poi ribadito nel punto 4 delle controdeduzioni in appello, come precisato, in osservanza del principio di autosufficienza, a pagina 12 del ricorso per cassazione.

Quanto al profilo sviluppato al quarto motivo quarto motivo di ricorso, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata risulta palesemente apodittica, giacchè il giudice territoriale omette completamente di esaminare la deduzione di fatto del contribuente secondo la quale nei files delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010 teletrasmessi all’Ufficio non sarebbe stato indicato alcun indirizzo di residenza nè di domicilio e, quindi, di vagliare la documentazione prodotta fin dal primo grado di giudizio a sostegno di tale deduzione, vale a dire la “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” scaricata dal “Servizio telematico di presentazione delle dichiarazioni”. Il terzo e quarto motivo vanno pertanto accolti.

Il quinto mezzo va disatteso tanto con riferimento alla censura di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6, quanto con riferimento alla censura di omesso esame di fatti decisivi.

Sotto il primo profilo, osserva il Collegio che il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, (alla cui stregua le variazioni e modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notifiche degli atti dell’Amministrazione finanziaria, ancorché soltanto del trentesimo giorno successivo alla variazione anagrafica) non autorizza la conclusione che – dovendo in ogni caso l’Ufficio, prima di notificare un atto al contribuente, controllare, mediante una verifica sui registri anagrafici, l’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi – detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti dell’Amministrazione finanziaria.

Tale interpretazione renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prescritta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, e urterebbe contro il consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza (o di un proprio domicilio in un indirizzo diverso da quello di residenza, ma nell’ambito del medesimo comune ove il contribuente è fiscalmente domiciliato) va effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (vedi Cass. nn. 5358/06, 11170/13, 26715/13, nella quale ultima si legge: “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Sulla scorta di tali considerazioni deve allora affermarsi che altro è il caso di un cambio di residenza e altro è il caso di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi; in quest’ultimo caso, infatti, la notificazione che si sia perfezionata presso l’indirizzo indicato nella dichiarazione dei redditi (anche quando, come nella specie, il perfezionamento della notifica avvenga tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto in casa comunale) deve considerarsi valida, nonostante che tale indicazione sia difforme (non importa se per da errore o per malizia) rispetto alle risultanze anagrafiche.

Alla stregua di tale principio deve poi giudicarsi inammissibile la censura di omesso esame del fatto che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’indirizzo di via (OMISSIS), altro avviso di accertamento era stato validamente notificato all’indirizzo di via (OMISSIS), difettando, per le indicate ragioni di diritto, il requisito della decisività del fatto.

Parimenti infondato, infine, va giudicato il sesto mezzo di ricorso, giacché la motivazione della sentenza gravata esplicita il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione Tributaria Regionale, fermi restando i vizi che tale percorso inficiano in relazione ai profili sollevati nel terzo e nel quarto mezzo di gravame. In definitiva il ricorso va accolto relativamente al terzo e quarto mezzo, disattesi gli altri, e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio perché questa rinnovi l’accertamento della circostanza che il contribuente avrebbe indicato la propria residenza in via Lorenzo il Magnifico 119 nei files teletrasmessi delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010.

Il giudice di rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo ed il quarto mezzo di ricorso, respinge gli altri e cassa la sentenza gravata; rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2015


Corte cost., Sent., (data ud. 23/06/2015) 16/07/2015, n. 170

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Alessandro CRISCUOLO Presidente

– Paolo Maria NAPOLITANO Giudice

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Mario Rosario MORELLI “

– Giancarlo CORAGGIO “

– Giuliano AMATO “

– Silvana SCIARRA “

– Daria de PRETIS “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza del 21 maggio 2014, e dal Consiglio superiore della magistratura − sezione disciplinare, con ordinanza del 14 luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 182 e 204 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 45 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di D.P.M. e di M.T.;

udito nell’udienza pubblica del 23 giugno 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Gianfranco Iadecola e Carmine Di Zenzo per D.P.M. e Francesco Saverio Marini per M.T.

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio di legittimità – promosso avverso la sentenza con cui la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato il ricorrente responsabile dell’incolpazione di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, infliggendogli le sanzioni della censura e del trasferimento di sede, perché, quale magistrato con funzioni di giudice aveva (con negligenza inescusabile) omesso di dichiarare tempestivamente la perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari di due imputati, con un ritardo di cinquantasei giorni per entrambi – la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza emessa il 21 maggio 2014 (iscritta al n. 182 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo.

La norma – che al primo periodo dispone che “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – viene censurata, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, e limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, là dove, nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

Il Collegio rimettente afferma (in termini di rilevanza) la non fondatezza dei motivi di impugnazione svolti dal ricorrente. Sulla base della propria giurisprudenza, la Corte di cassazione esclude, da un lato, che la menzionata lettera a) del comma 1 dell’art. 2 riguardi solo comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti e non già le condotte colpose riferite (come nella specie) al difetto del dovere di diligenza. E rileva, dall’altro, come la non configurabilità della scarsa rilevanza del fatto, di cui all’art. 3-bis del medesimo d.lgs. sia stata adeguatamente vagliata e motivata dal giudice a quo.

Nel merito, le sezioni unite rimettenti osservano che – vigente la regola in base alla quale, per tutti gli illeciti puniti con una sanzione diversa da quella minima, l’irrogazione della ulteriore sanzione del trasferimento è facoltativa e condizionata all’accertamento dell’incompatibilità della permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia – solo nel caso delle violazioni previste dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 2, il trasferimento stesso deve essere sempre e comunque disposto, con un meccanico automatismo che si pone in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Per il Collegio a quo – a fronte di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale – imporne indefettibilmente l’irrogazione come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi di ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”) comporta l’equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari. I quali sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Pertanto, al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’applicazione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

2.− Si è costituito D.P.M., il magistrato ricorrente nel giudizio a quo, che, in via principale, contesta il principio di diritto affermato dalla Corte rimettente, nella parte in cui esclude la configurabilità di qualsiasi rapporto di specialità tra le violazioni disciplinari di cui alle lettere a) e g) dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, ed afferma che le violazioni sanzionate sub lettera a) abbiano natura non solo dolosa ma anche colposa.

In subordine, la parte privata costituita concorda con le argomentazioni svolte a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, rimarcando il vulnus ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza arrecato da un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte sanzionabili indiscriminatamente, ai sensi del citato art. 2, comma 1, lettera a), con identico rigore e severità a prescindere dal disvalore delle specifiche violazioni consumate dal magistrato e dalle loro rilevanza dolosa o colposa.

3.− Nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un magistrato – incolpato degli illeciti disciplinari previsti, tra l’altro, dagli artt. 1 e 2, comma 1, lettere a) e g), del D.Lgs. n. 109 del 2006 (perché incorso, contro i doveri di diligenza e correttezza, in qualità di giudice delegato alla procedura fallimentare relativa ad una srl dichiarata fallita con sentenza del Tribunale, “in grave violazione di legge dovuta a negligenza inescusabile, disattendendo le disposizioni di cui agli artt. 25 e 31 L.F. che prevedono – ratione temporis – obblighi di direzione, oltre che di controllo e vigilanza, sull’operato del curatore fallimentare, determinando un ingiusto danno ai creditori del fallimento, consistito nel mancato incasso integrale di un credito IVA di elevatissimo valore nominale”) – la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza emessa il 14 luglio 2014 (iscritta al n. 204 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

La rimettente – “Considerato, ai fini della valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, prospettata anche dalla Procura Generale, che nel caso di specie la Sezione disciplinare ravvisa un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza” – ritiene che la questione in esame non sia manifestamente infondata proprio alla luce di quanto condivisibilmente osservato dalla sopra riportata ordinanza di rimessione delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, da “intendersi integralmente richiamata”.

4.− Si è costituito il magistrato incolpato nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione.

La parte, in particolare, osserva che – poiché il menzionato art. 2, comma 1, lettera a), contempla una vasta gamma di illeciti disciplinari, che comprendono anche comportamenti non tipizzati, inerenti la violazione da parte del magistrato dei generici doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità ed equilibrio (ovvero comportamenti che, ancorché legittimi, compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro dell’istituzione giudiziaria) di cui al precedente art. 1, punibili sia a titolo di dolo che di colpa – l’automatismo previsto dalla norma censurata non consente alla sezione disciplinare di valutare la gravità dell’addebito contestato, l’eventuale intensità del dolo o della colpa, la gravità o meno della negligenza, il pregiudizio effettivamente arrecato al prestigio della amministrazione giudiziaria, l’entità del danno o del vantaggio arrecati ad una delle parti. Sicché (richiamata la giurisprudenza costituzionale in materia) la parte ribadisce che detto automatismo vulnera il principio di razionalità connesso a quello di indispensabile gradualità sanzionatoria, che presuppone la necessità della valutazione della condotta del soggetto e la verifica della effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla previsione sanzionatoria.

Considerato in diritto

1.− La Corte di cassazione, sezioni unite civili, e la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura censurano – per violazione dell’art. 3 della Costituzione – l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), che dispone l’obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), dello stesso d.lgs.

2.− I giudizi, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3.− Preliminarmente, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

La rimettente – trascritta l’incolpazione oggetto del procedimento disciplinare sottoposto al suo giudizio, e rilevato che “con ordinanza interlocutoria n. 11228 del 2014, la Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 13, comma 1, secondo periodo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, in relazione all’art. 3 Cost.” – si limita, da un lato, ad affermare la rilevanza della questione (ravvisando, in concreto, “un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza”); e, dall’altro lato, in termini di non manifesta infondatezza, a riportarsi a “quanto condivisibilmente osservato dalla richiamata ordinanza interlocutoria n. 11228/2014 della Corte di cassazione che qui deve intendersi integralmente richiamata”.

Ove anche si volesse prescindere (in termini di sufficienza della motivazione circa la rilevanza della questione nel giudizio a quo) dalla portata non del tutto esauriente della assai sintetica argomentazione svolta in tal senso – in base alla quale la riconducibilità della condotta ascritta all’incolpato alla fattispecie di cui alla lettera a), comma 1, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006 (e di conseguenza anche al dovere di applicare la sanzione accessoria previsto dalla norma censurata) si evince solo indirettamente, in ragione della mera affermazione della configurabilità, nel caso concreto, dei presupposti della negligenza e del danno ingiusto, che caratterizzano detta ipotesi sanzionatoria rispetto a quella contemplata dalla successiva lettera g) – viceversa, quanto al requisito della non manifesta infondatezza della questione, la sezione disciplinare rimettente ha esclusivamente fatto riferimento al contenuto argomentativo della richiamata ordinanza di rimessione pronunciata, in altro processo, dal giudice di legittimità.

Orbene, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude che, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi, sia ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Infatti, il principio di autonomia di ciascun giudizio di costituzionalità in via incidentale, quanto ai requisiti necessari per la sua valida instaurazione, e il conseguente carattere autosufficiente della relativa ordinanza di rimessione, impongono al giudice a quo di rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza, non potendo limitarsi ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del processo principale (ex plurimis, sentenze n. 49, n. 22 e n. 10 del 2015; ordinanza n. 33 del 2014), ovvero anche in altre ordinanze di rimessione emanate nello stesso o in altri giudizi (sentenza n. 103 del 2007; ordinanze n. 156 del 2012 e n. 33 del 2006).

4.− Dal canto loro, le sezioni unite civili della Corte di cassazione censurano l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, che – rispetto alla previsione generale del primo periodo dello stesso articolo, in base al quale “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

La Corte rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza e disparità di trattamento, poiché imporre indefettibilmente l’irrogazione di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo e morale e materiale, come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi a ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”), comporta l’irragionevole equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari, che sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Con la conseguenza che al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’inflizione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

Il giudice a quo chiede, quindi, la declaratoria di incostituzionalità della norma, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, così da determinare l’eliminazione (dal contenuto precettivo della disposizione censurata) della automatica applicabilità della sanzione accessoria del trasferimento nel caso di accertamento delle sole violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), con l’effetto di far riespandere anche rispetto alla fattispecie punitiva de qua la regola generale prevista dal primo periodo della stessa norma.

5.− Preliminarmente, vanno rigettate le obiezioni (peraltro non tradotte in una formale eccezione di irrilevanza della questione) mosse dalla parte costituita, che ripropone nel giudizio di costituzionalità le medesime difese svolte a sostegno del primo motivo di ricorso in cassazione. Con esso, il ricorrente lamentava che la sezione disciplinare, nell’escludere che il fatto, come contestato, potesse essere sanzionabile alternativamente ai sensi, sia della lettera a), sia della lettera g) del comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, avesse erroneamente ritenuto la sussistenza della prima anziché della seconda di tali disposizioni; e conseguentemente avesse irrogato, oltre alla censura, anche la sanzione del trasferimento di sede, comminata dall’art. 13 dello stesso decreto legislativo come effetto automatico di “una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a)”. Tale tesi difensiva viene basata dalla parte sulla ritenuta specialità della ipotesi disciplinare sub lettera g) rispetto a quella di cui alla lettera a), applicabile unicamente in caso di comportamenti del magistrato “contrassegnati da intenzionalità volitiva dei suoi doveri primari … e non da mera colpa”: configurandosi da ciò “ragioni ed argomenti per avallare una lettura ispirata a ragionevolezza”, onde escludere nella fattispecie l’applicabilità della ipotesi disciplinare di cui alla lettera a) e quindi anche della sanzione accessoria.

5.1.− Questa Corte rileva che, viceversa, nel contesto dell’ordinanza di rimessione, ad espressa confutazione di tali argomentazioni, le sezioni unite civili hanno sottolineato espressamente, da un lato, come (riguardo alla specifica ipotesi di ritardo nella scarcerazione di imputati o indagati) la propria giurisprudenza si sia “stabilmente orientata nel senso che le previsioni delle lettere a) e g) dell’articolo 2, comma 1 del D.Lgs. n. 109 del 2006 sono entrambe contestualmente applicabili, poiché non sussiste tra loro un rapporto di specialità, che comporti l’esclusione dell’una o dell’altra” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 29 luglio 2013, n. 18191, 22 aprile 2013, n. 9691 ed 11 marzo 2013, n. 5943). E, dall’altro, come, alla stregua della suddetta giurisprudenza, risulti “altresì da disattendere l’assunto del ricorrente, secondo cui la lettera a) attiene soltanto a comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”; ciò in quanto tale disposizione configura l’illecito disciplinare di cui si tratta come conseguente alle violazioni dei “doveri di cui all’articolo 1” (secondo cui “Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni”), tra le quali sono certamente comprese anche quelle colpose, in quanto riferite, tra l’altro, al dovere della “diligenza” nell’esercizio delle funzioni attribuite al magistrato.

La Corte rimettente, dunque (nel rigettare i motivi addotti dal ricorrente a sostegno della impugnazione, ed in tal modo qualificando il fatto ascritto all’incolpato, oltre che escludendone la scarsa rilevanza), ha confermato integralmente il giudizio espresso dalla sezione disciplinare, che aveva ritenuto appunto applicabile la lettera a), comma 1, dell’art. 2, a fronte del difetto di diligenza addebitato al magistrato, per non essersi avveduto della scadenza del termine massimo della misura degli arresti domiciliari, cui erano sottoposte due persone nei cui confronti procedeva il suo ufficio, in un procedimento a lui affidato.

Dal mancato accoglimento delle ragioni addotte quali motivi di impugnazione – articolato sulla base di uno sviluppo argomentativo del tutto coerente, fondato su una interpretazione in sé non implausibile – consegue, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, essendo il Collegio rimettente chiamato ad applicare la misura del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio nel modo prescritto dalla norma censurata.

6.− Nel merito la questione è fondata.

6.1.− La giurisprudenza di questa Corte è da tempo costante nell’affermare come il “principio di proporzione”, fondamento della razionalità che domina “il principio di eguaglianza”, postuli l’adeguatezza della sanzione al caso concreto; e come tale adeguatezza non possa essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito, valutazione che soltanto il procedimento disciplinare consente (sentenze n. 447 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988).

Ferma, dunque, restando la discrezionalità del legislatore di prevedere l’indefettibile adozione di sanzioni accessorie, quando ciò sia giustificato dalla peculiarità della situazione fattuale generatrice dell’illecito, nonché dalla sussistente correlazione tra tale situazione e la gravità della sanzione (sentenza n. 112 del 2014), l’ordinamento è orientato verso la tendenziale esclusione di previsioni sanzionatorie rigide, la cui applicazione non sia conseguenza di un riscontrato confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto, e rispetto alle quali l’indispensabile gradualità applicativa non sia oggetto di specifica valutazione nel naturale contesto del procedimento giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012 e n. 363 del 1996) ovvero in quello disciplinare (ex plurimis, sentenze n. 329 del 2007, n. 212 e n. 195 del 1998, n. 363 del 1996).

D’altronde, data la ratio di tale orientamento, non ci sono motivi per escluderne l’applicazione nei confronti dei magistrati; riguardo ai quali, peraltro, nei suoi interventi normativi, il legislatore (fermo il presupposto della spettanza del potere disciplinare al Consiglio superiore della magistratura, e l’attribuzione del suo esercizio alla sezione disciplinare) è stato indotto a configurare tale procedimento “secondo paradigmi di carattere giurisdizionale” (sentenza n. 497 del 2000) per l’esigenza precipua di tutelare in forme più adeguate specifici interessi e situazioni connessi allo statuto di indipendenza della magistratura (sentenze n. 87 del 2009 e n. 262 del 2003).

6.2.− Ciò premesso, va (sotto altro profilo) sottolineato che l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 109 del 2006, si configura quale “norma di parziale chiusura” del sistema disciplinare in cui la compatibilità tra la previsione di un precetto cosiddetto “a condotta libera” ed il principio informatore di tipicità della riforma risulta assicurata dallo specifico riferimento dei “comportamenti” sanzionabili ai doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, nonché a quelli di rispetto della dignità della persona, cui il magistrato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, deve improntare la propria condotta nell’esercizio delle proprie funzioni (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3669).

Peraltro, va altresì rilevato che le ipotesi trasgressive de quibus configurano fattispecie di illecito “di evento”, in cui, non diversamente da quanto si verifica in campo penale per analoghe figure di reato, la consumazione non si esaurisce con la condotta tipica, ma esige che si verifichi un “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”, ossia un concreto accadimento lesivo, in danno del soggetto passivo, che costituisca la conseguenza diretta dell’azione o omissione vietata (anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, 22 aprile 2013, n. 9691 e 11 marzo 2013, n. 5943, già citate).

Risulta, quindi, di agevole constatazione il fatto che vi sono violazioni dei doveri del magistrato, stabiliti dall’art. 1 del medesimo decreto (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, rispetto della dignità della persona), che pur non traducendosi in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile, tuttavia arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti, e sono pertanto perseguibili a norma della lettera a), comma 1, dell’art. 2 del decreto (in tal senso, anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, n. 5943 del 2013, citata).

6.3.− Orbene, nonostante l’ampio ventaglio dei possibili “comportamenti” caratterizzati da siffatti requisiti, la cui configurabilità in termini di illecito disciplinare non richiede una particolare connotazione di gravità, né uno specifico grado di colpa, quella di cui alla lettera a) costituisce l’unica ipotesi, tra le molteplici, di illecito funzionale (tutte tipizzate dall’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006) alla quale consegue – come ulteriore sanzione imposta dalla norma censurata – l’obbligatorio trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio del magistrato condannato.

La necessaria adozione di tale misura punitiva appare basata su una presunzione assoluta, del tutto svincolata – oltre che dal controllo di proporzionalità da parte del giudice disciplinare – anche dalla verifica della sua concreta congruità con il fine (ulteriore e diverso rispetto a quello repressivo dello specifico illecito disciplinare) di evitare che, data la condotta tenuta dal magistrato, la sua permanenza nella stessa sede o ufficio appaia in contrasto con il buon andamento della amministrazione della giustizia (come, invece previsto dalla regola generale disciplinata dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006).

Ne consegue, da un lato, un vulnus al principio di uguaglianza, derivante dal diverso (e più grave) trattamento sanzionatorio riservato (senza alcun concreto riferimento alla gravità dell’elemento materiale ovvero di quello psicologico) al solo illecito funzionale de quo; dall’altro lato, l’irragionevolezza della deroga alla regola posta dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006, giacché la ratio della soluzione normativa scrutinata non sembra potersi rinvenire neppure in una particolare gravità dell’illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell’interesse protetto; laddove siffatti parametri sembrerebbero doversi ritenere significativi (quali indici di adeguatezza dell’intervento repressivo della condotta illecita) non solo in sede di giudizio di colpevolezza e irrogazione della pena principale, ma anche nella determinazione della sanzione accessoria.

Ciò tanto più in quanto tale sanzione comporta un effetto molto gravoso per il magistrato, giacché concreta una eccezione alla regola della inamovibilità, che incide direttamente sul prestigio e sulla credibilità dello stesso. Invero non pare trascurabile – in una cornice che, doverosamente, privilegii il principio di necessaria adeguatezza tra il “tipo” di sanzione e la “natura” e “gravità” dell’illecito disciplinare (ontologicamente diversificato in ragione della varietà delle condotte addebitabili) – la circostanza che la misura obbligatoria del trasferimento di ufficio si aggiunge alla sanzione disciplinare tipica, aumentandone significativamente la portata afflittiva, anche sul piano del prestigio personale (non scisso da quello professionale) che il magistrato condannato vedrà significativamente compromesso, attesa la rilevanza esterna che la misura stessa presenta (si pensi alla pubblicità del trasferimento in una media o piccola sede giudiziaria). Il tutto, non senza sottolineare ulteriormente come la misura del trasferimento, ove non congruamente supportata da valide ragioni che la rendano “funzionalmente” giustificata, potrebbe finire per profilare aspetti di dubbia compatibilità con lo stesso principio di inamovibilità dei giudici costituzionalmente sancito dall’art. 107 Cost.

6.4.− L’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006 va, dunque, dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2015.

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2015.


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-03-2015) 22-05-2015, n. 10543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30242-2011 proposto da:

CHARLES PHILIPPE PRESSE SOCIETA’ (OMISSIS), in persona del legale rappresentante p.t. sig. B.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato DE CURTIS CLAUDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati DI SALVATORE SALVATORE, CARMINE RUSSO, ENRICO BONELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

LEONARDO PUBLISHING SRL IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS), in persona del liquidatore D.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PUCCINI 10, presso lo studio dell’avvocato FERRI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAFARO MARINA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 18/10/2011 R.G.N. 1694/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito l’Avvocato MARIO FERRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – La srl Leonardo Publishing – poi in liquidazione – ottenne il 10.2.09 ingiunzione di pagamento in danno della Presse Charles Philippe dal tribunale di Parma per Euro 46.570,03 e, dichiaratane l’esecutività (con ordinanza 21.10.09) per inesistenza della notifica dell’opposizione dell’ingiunta in quanto eseguita a mezzo fax, la creditrice conseguì, riguardo ad essa, certificato di titolo esecutivo europeo in data 20.4.11.

La debitrice presentò istanza di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004, che fu però respinta con provvedimento del 23.6.11: il reclamo avverso il quale fu rigettato dalla corte di appello di Bologna.

Per la cassazione di quest’ultimo provvedimento, reso il 18.10.11 in proc. n. 1694/11 r.g., ricorre oggi, affidandosi a due motivi illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., la Presse Charles Philippe; resiste, con controricorso, la Leonardo Publishing srl in liq.ne.

Motivi della decisione
2. – La ricorrente, che fonda la sua difesa sull’inesistenza o nullità insanabile della notifica del decreto ingiuntivo n. 304/09 poi munito del certificato di titolo esecutivo europeo, articola due motivi.

2.1. Con il primo motivo, la Presse Charles Philippe si duole di violazione di legge – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 18, comma 2, del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007 – violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Al riguardo, essa:

– ripropone la censura di violazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007, in quanto la notifica avrebbe dovuto seguire – a prevalenza di norme contenute in trattati bilaterali o nelle Convenzioni di Bruxelles del 27.9.68 e dell’Aja del 15.11.65 – unicamente a mezzo degli allegati standard al Regolamento stesso e tramite l’organo specificamente designato dallo Stato richiesto della notifica (nella specie, ufficiale giudiziario francese), anzichè – come nella specie accaduto – direttamente a mezzo posta;

– si duole dell’omessa pronunzia su tale eccezione ad opera della corte di appello;

– contesta la reputata sanabilità di un tale vizio, essendo malamente applicata la previsione di sanatoria di cui all’art. 18 del Regolamento n. 805 sul titolo esecutivo europeo, non contenuta però nel Regolamento n. 1393, successivo e speciale rispetto al primo.

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge – violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 2, Regolamento CE n. 805/2004 – violazione dei principi in tema di inesistenza delle notificazioni – violazione degli artt. 156 e 160 c.p.c. (in relazione all’art. 160 c.p.c., n. 3) – omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

Al riguardo, essa:

– nega essersi instaurato un procedimento giudiziario nel quale, indicata come debitrice, sia stata coinvolta in tempo utile per potersi difendere, attesa la riscontrata inesistenza della notifica dell’opposizione da essa proposta (che pare riferire alla stessa consegna dell’atto ed alla conoscenza legale dello stesso) e quindi per la mancata verifica dell’inesistenza a monte della notifica dello stesso decreto ingiuntivo;

– sottolinea mancare quest’ultima di tutti gli estremi dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati;

– sostiene che la combinata inesistenza delle due notifiche – del decreto ingiuntivo e dell’opposizione – ha impedito l’instaurazione di qualunque valido rapporto processuale;

– nega la sanatoria della prima inesistenza e l’applicabilità di qualunque conversione, diffondendosi sui rimedi concessi al debitore apparente e sulle conseguenze della prima sugli sviluppi processuali successivi.

3. – La controricorrente, premesso un richiamo alla non impugnabilità espressa del titolo esecutivo europeo ai sensi dell’art. 10, comma 3 del Regolamento n. 805, ribatte:

– quanto al primo motivo: che la corte territoriale ha preso in esame la doglianza lamentata come pretermessa, avendo ritenuto sanata la nullità originaria della notificazione diretta a mezzo posta, anzichè a mezzo ufficiale giudiziario francese; che va presa a riferimento, ai fini dell’art. 10 comma 1, lett. b), del Regolamento, la disciplina di quest’ultimo, pienamente rispettata con riguardo alle norme minime procedurali sulla configurabilità della non contestazione ad opera del debitore; che sul punto il debitore è stato posto in grado di opporsi, non rilevando che egli abbia poi male usato il relativo potere, sì da incorrere nell’estinzione del giudizio di opposizione in forza di un provvedimento coperto da giudicato formale e sostanziale anche per la successiva inerzia di esso ingiunto; che, al riguardo, del tutto idonea era la consegna di copia del monitorio all’ingiunta presso il suo recapito, eseguita a mezzo posta a termini degli artt. 13 e 14 del Regolamento n. 805;

– quanto al secondo motivo: che la notifica del monitorio ben poteva avere luogo a mezzo posta, ai sensi proprio del Regolamento n. 805/2004; che eventuali vizi di notifica ben potevano essere superati ai sensi dell’art. 18 di quest’ultimo, ove il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostri che egli abbia ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per difendersi; che in effetti l’ingiunta aveva iscritto – peraltro tempestivamente – a ruolo l’opposizione al decreto ingiuntivo, prendendo posizione nel merito delle pretese avanzate contro di essa; che pertanto l’inesistenza della sua notifica – dipendendo dall’evidente difettosità dell’attività processuale successiva di cui egli era onerato – non inficia la piena possibilità, di cui ha potuto godere il debitore, di conoscere l’atto e di difendersi da esso.

4. – Il presente ricorso per cassazione, siccome dispiegato avverso il provvedimento, reso in camera di consiglio, dalla corte di appello sul reclamo avverso il diniego di revoca del (certificato di) titolo esecutivo europeo, è inammissibile per difetto del requisito di decisorietà e di definitività di quel provvedimento.

5. – Va premesso che, con il titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, un titolo esecutivo – giudiziale o stragiudiziale – formatosi in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca, secondo quanto previsto dall’art. 2, comma o par. 3 del Regolamento stesso) può essere munito di uno speciale certificato che lo rende idoneo a fondare, quale titolo esecutivo appunto, un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell’Unione.

La ratio dell’intera normativa è, con evidenza ricavabile dai considerando premessi al testo, l’agile apprestamento di uno strumento di facile e pronta eseguibilità in tutto il territorio dell’Unione sol che al debitore sia stata data la possibilità di contestare adeguatamente la pretesa della controparte e che di questa facoltà non si sia avvalso o non si sia avvalso fruttuosamente.

Importante tappa (verso il traguardo, di recente attinto, della definitiva soppressione di qualunque necessario controllo successivo da parte dello Stato membro richiesto dell’esecuzione, consacrato dal più recente Regolamento n. 1215/2012, divenuto efficace dal 10.1.15) nella creazione ed integrazione dello spazio giuridico europeo, esso comporta l’anticipazione a monte e cioè da parte dello Stato in cui si forma il titolo – con abbandono del tradizionale sistema dell’exequatur o del controllo a valle da parte dello Stato richiesto dell’esecuzione, per quanto sempre più attenuato o facilitato o perfino eventualizzato – del controllo di idoneità del titolo stesso a fungere da base legale di un processo esecutivo in altro Stato membro come se fosse stato lì emesso, sol che l’Autorità dello Stato in cui esso è formato rilevi la sussistenza di alcuni presupposti:

– in via preliminare, la non operatività degli speciali ambiti di esclusione previsti, non applicandosi il Regolamento in materia fiscale, doganale, amministrativa, di responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri, in materia di stato e capacità delle persone, di regime patrimoniale tra i coniugi, di testamenti e successioni, fallimenti e procedure concorsuali, sicurezza sociale ed arbitrato; e comunque nel rispetto delle norme in tema di competenza giurisdizionale espressamente previste, tra cui quelle in tema di assicurazioni e di contratti dei consumatori;

– in via principale, la non contestazione del credito pecuniario;

– ancora, il rispetto di norme procedurali minime (cc.dd. minima standard) all’interno del procedimento al cui esito il titolo è stato pronunziato, volte a dare contezza delle possibilità, per il debitore, di contestare la pretesa avversaria.

Nessun controllo sul merito o sul rito del titolo esecutivo è mai consentito al giudice dello Stato richiesto dell’esecuzione e questa non può essere negata, tranne l’eccezionale evenienza del conflitto con altra pronunzia tra le stesse parti (ovvero forse anche, ma soltanto in via di interpretazione e non senza contrasti, in quella di eventi sopravvenuti alla definitività del titolo).

Ai fini della qualifica di credito non contestato idoneo al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, il detto Regolamento (art. 3) esige:

– che il debitore quel credito non abbia mai contestato nel corso del procedimento giudiziario, in conformità alle relative procedure giudiziarie previste dalla legislazione dello Stato membro di origine;

ovvero:

– che il debitore non sia comparso o non si sia fatto rappresentare in un’udienza relativa a un determinato credito pur avendolo contestato inizialmente nel corso del procedimento, sempre che tale comportamento equivalga a un’ammissione tacita del credito o dei fatti allegati dal creditore secondo la legislazione dello Stato membro d’origine.

6. – Il titolo esecutivo europeo non corrisponde allora ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè:

– da un lato, un titolo esecutivo domestico o nazionale, stragiudiziale (con alcune peculiarità e conseguenti esenzioni, indicate nei commi o par. 3 degli artt. 24 e 25 del Regolamento) oppure reso all’esito di una procedura giudiziale nazionale tipica, nella quale però siano state osservate, se del caso in aggiunta rispetto alle forme minimali sufficienti per la legislazione nazionale, norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione di concezione eurounitaria da parte del debitore ingiunto;

– dall’altro lato, un provvedimento formale che tale rispetto appunto riscontri e certifichi, provvedimento che esso solo potrà definirsi il vero e proprio certificato di titolo esecutivo europeo, evidentemente come quid pluris rispetto al primo.

Ma neppure l’eventuale mancato rispetto delle norme procedurali minime osta al rilascio del certificato (art. 18, comma o par. 1, del Regolamento n. 805 del 2004) se:

– la decisione sia stata notificata al debitore secondo le norme di cui agli artt. 13 o 14 del Regolamento stesso;

– ed il debitore abbia avuto la possibilità di ricorrere contro la decisione per mezzo di un riesame completo e sia stato debitamente informato con la decisione o con un atto ad essa contestuale delle norme procedurali per proporre tale ricorso, compreso il nome e l’indirizzo dell’istituzione alla quale deve essere proposto e, se del caso, il termine previsto;

– ed infine il debitore non abbia impugnato la decisione di cui trattasi conformemente ai relativi requisiti procedurali.

Ed ancora (art. 18, comma o par. 2, del Regolamento), neppure l’inosservanza, nel procedimento svoltosi nello Stato membro d’origine, dei requisiti procedurali di cui agli art. 13 o 14 osta al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo se il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostra che questi ha ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per potersi difendere.

– da un lato, esclude espressamente (art. 10, comma o par. 4) ogni impugnazione del certificato di titolo esecutivo europeo, cioè del (solo) provvedimento con cui lo Stato membro di origine attesta appunto la ricorrenza dei presupposti per la circolazione intraeuropea del titolo esecutivo domestico;

– dall’altro lato, ne ammette pure – ai sensi dell’art. 10, comma o par. 1, lett. b) – la revoca da parte del giudice del Paese membro di origine, se risulti manifestamente concesso per errore sui requisiti stabiliti nel Regolamento stesso, come pure la rettifica per divergenza tra i dati contenuti nel titolo nazionale e nel certificato;

– ed infine ne prevede la neutralizzazione mediante il rilascio di un certificato sulla sorte del titolo originario, che abbia perso in tutto o in parte la sua efficacia esecutiva (ai sensi dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento in esame).

Tale regime consente di concludere che il certificato di titolo esecutivo europeo, costituito dal provvedimento ulteriore e distinto rispetto al titolo esecutivo nazionale, allora integra, cioè completa, quest’ultimo in modo da renderlo idoneo alla circolazione intraeuropea: tanto che la sua funzione può, se non altro descrittivamente, equipararsi ad una sorta di formula esecutiva intraeuropea o ad un provvedimento di funzione analoga a quello previsto dall’art. 647 cod. proc. civ.; in tal modo, esso ha una funzione dichiarativa evidentemente servente rispetto al titolo esecutivo cui accede, conferendogli il riconoscimento della sua idoneità a circolare nello spazio giuridico eurounitario; ma non risolve questioni, nè pronunzia su diritti ulteriori rispetto a quelli consacrati nel titolo in favore del creditore; si limita a certificarne l’idoneità a fondare l’esecuzione in dipendenza di un determinato sviluppo processuale.

In quanto tale, esso allora non ha natura decisoria, dovendo le contestazioni sulla concreta estrinsecazione del diritto di difesa del debitore farsi valere contro il titolo in sè considerato, ma esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento che lo ha prodotto o, in casi eccezionali, con il riesame previsto dallo stesso Regolamento 805, direttamente contro il titolo stesso e mai contro il certificato.

Tanto è reso manifesto dalla previsione dell’art. 19 del Regolamento, che ricollega la concedibilità del certificato di titolo esecutivo europeo alla previsione, nell’ordinamento dello Stato membro in cui il titolo esecutivo si forma, di strumenti processuali straordinari di riesame, in via di eccezione alla regola generale della non ulteriore impugnabilità, del titolo esecutivo in quanto tale; in particolare, tale norma prevede che debba essere possibile per il debitore impugnare non già il certificato di titolo esecutivo europeo, ma il titolo stesso, quando la domanda giudiziale o un atto equivalente o, se del caso, le citazioni a comparire in udienza siano stati notificati secondo una delle forme previste all’art. 14, e:

– o la notificazione non sia stata effettuata in tempo utile a consentirgli di presentare le proprie difese, per ragioni a lui non imputabili, oppure:

– il debitore non abbia avuto la possibilità di contestare il credito a causa di situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali per ragioni a lui non imputabili, purchè in entrambi i casi agisca tempestivamente.

Tanto giustifica la conclusione che, purchè questa sia una facoltà intrinseca all’ordinamento processuale nazionale di produzione del titolo, il certificato di titolo esecutivo europeo non solo può essere comunque concesso, ma soprattutto resta insensibile alle relative problematiche, solo che di quegli strumenti avverso il titolo in sè considerato possa avvalersi il debitore, ricorrendone beninteso i presupposti.

E che sia onere del debitore rivolgere le sue critiche, anche se basate sulla concreta compressione del suo diritto di contestazione della pretesa avversaria, al titolo e non al certificato è confermato pure dalla già richiamata previsione dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento, a mente del quale allorchè una decisione giudiziaria certificata come titolo esecutivo europeo non è più esecutiva o la sua esecutività è stata sospesa o limitata, viene rilasciato, su istanza presentata in qualunque momento al giudice d’origine, un certificato comprovante la non esecutività o la limitazione dell’esecutività utilizzando il modello di cui all’all.

4.

Il che porta a concludere che le contestazioni del debitore relative al processo conclusosi con il titolo esecutivo poi certificato come europeo vanno mosse appunto esclusivamente avverso il titolo esecutivo domestico e coi mezzi di impugnazione di questo, potendo solo in esito ad essi, una volta rimossane l’efficacia esecutiva, conseguire il risultato di elidere in radice quella del certificato europeo già rilasciato.

8. – La conclusione va applicata alla revoca (in francese, retrait;

in inglese, withdrawal) del certificato di titolo esecutivo europeo:

riservata dal Regolamento ai casi di concessione per manifesto errore sulla sussistenza dei requisiti di concedibilità.

Occorre, cioè, valutare la portata di questa previsione; ma va subito precisato che a tali fini risulta neutra la regolamentazione del relativo procedimento nelle forme di quello camera di consiglio, operata dalla Repubblica italiana mediante comunicazione alla competente autorità eurounitaria – la Commissione – ai sensi dell’art. 30, par. o commi 1 e 2 del Regolamento 805 (come si ricava dal c.d. atlante giudiziario civile, a tanto deputato dallo stesso Regolamento, al sito web (OMISSIS)).

Tale attribuzione – se pure rende applicabile il reclamo, in virtù della portata generale dell’art. 739 cod. proc. civ. – non esime dalla necessità di ricostruire comunque l’oggetto del procedimento e la natura del provvedimento che lo conclude suo oggetto, al fine di valutare i mezzi di tutela ulteriori in relazione alle situazioni giuridiche effettivamente coinvolte.

Accertato che le violazioni procedurali idonee ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare il debito sono deducibili solo nel procedimento di riesame previsto dall’art. 19 del Regolamento avverso il titolo, esse non rilevano di per sè sole considerate, ma solo in quest’ultimo e solo per il caso in cui sia in concreto attivato: e, siccome tale procedimento di riesame ha chiaramente ad oggetto il titolo esecutivo domestico o nazionale e non anche il certificato di titolo esecutivo europeo, quelle violazioni vanno fatte valere contro il primo e non contro il secondo.

E, con tutta evidenza e con riferimento al caso in cui il titolo sia costituito – come nella fattispecie – da un decreto ingiuntivo, nell’ordinamento italiano l’ambito di operatività del riesame come disciplinato dall’art. 19 citato coincide sostanzialmente, ma in modo del tutto appagante, con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. Pertanto, per la sussistenza di una sede propria di contestazione, il provvedimento della corte di appello che definisce il reclamo avverso il diniego di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento non è suscettibile anche di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7.

Il sistema di impugnazione del complesso provvedimento in cui si articola il titolo esecutivo europeo (titolo domestico più certificato), delineato sopra al 7, impone quindi – anche a garanzia, in accordo con parte della dottrina, della massima funzionalità possibile all’istituto – di circoscrivere l’oggetto della revoca alla sola carenza evidente dei requisiti formali di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, tanto da limitarla ad un errore manifesto sulla sussistenza dei requisiti formali di rilascio e quindi del procedimento proprio e specifico di richiesta-esame- rilascio del certificato medesimo; qualunque ulteriore contestazione sul rito della formazione del titolo esecutivo, implicante la compressione del diritto del debitore di contestare il debito, ma pure sul merito della pretesa e per il caso sia ritenuta fondata l’indispensabile preliminare contestazione in rito, va ricondotta all’ambito di operatività dell’art. 19 del Regolamento 805 e, quindi, all’esperimento, se ancora possibile, degli strumenti straordinari di revisione del titolo in sè considerato.

Pertanto, in tale contesto e se correttamente interpretato, l’istituto della revoca non può involgere alcun diritto del debitore relativo al merito della pretesa od alla correttezza del rito seguito per l’emanazione del provvedimento costituente il titolo esecutivo:

diritto che è tutelato in altra e specifica sede. Così – cioè – il certificato non è di per sè stesso decisorio, perchè la tutela delle posizioni giuridiche relative alla violazione del diritto di difesa nel procedimento concluso con il titolo è riservata ad altri ambiti processuali, sol che il debitore se ne avvalga correttamente.

9. – Va a questa conclusione applicato il principio generale, oramai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per il quale anche per i provvedimenti resi all’esito di un procedimento in camera di consiglio la carenza del carattere di decisorietà o di definitività li rende insuscettibili di ricorso per cassazione, pure ai sensi del comma settimo dell’art. 111 Cost., perchè questo è esperibile solo nei confronti di provvedimenti giurisdizionali lesivi di situazioni giuridiche sostanziali e per le quali non siano previste altre sedi processuali di tutela loro proprie (per tutte, v.

Cass. Sez. Un., 15 luglio 2003, n. 11026, ovvero 3 marzo 2003, n. 3073; nello stesso senso: Cass. 11 agosto 2004, n. 15487; Cass., ord. 11 marzo 2005, n. 5390; Cass. 7 ottobre 2005, n. 19643; Cass. 26 ottobre 2006, n. 23027; Cass. 1 agosto 2007, n. 16984; Cass. 12 giugno 2009, n. 13760; Cass., ord. 20 novembre 2010, n. 23578; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2757; Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3883; i principi sono stati ribaditi in tema di opposizione esecutiva, tra l’te altre, da Cass. 24 ottobre 2011, n. 22033, come pure, in tema di condanna alle spese contenuta in un provvedimento cautelare ante causam, da Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, oppure, in tema di ricorso avverso ordinanze di inammissibilità di appelli ai sensi dell’art. 348-bis cod. proc. civ., da Cass., ord. 17 aprile 2014, n. 8940).

Del resto, quand’anche la lesione di situazioni aventi rilievo processuale fosse prospettata quale compressione del diritto di azione, la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.

Pertanto, il ricorso, proposto appunto contro un provvedimento reso all’esito di un procedimento in camera di consiglio come quello in esame, non è ammissibile neppure se articolato sulla prospettata violazione di norme processuali: e tanto va dichiarato in dispositivo.

10. – Questa conclusione non impedisce però di affrontare e risolvere comunque la questione di rito sottesa al ricorso.

Essa può qualificarsi di particolare importanza, siccome di rilevanza pratica notevole e suscettibile di riproporsi per il futuro in relazione ad una potenzialmente indefinita serie di concrete applicazioni nello spazio giuridico intraeuropeo o eurounitario sempre più fruito dagli operatori.

E la questione può essere definita pronunciando il principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ.: in particolare, la sottesa doglianza, come sollevata da parte ricorrente, è anche infondata, perchè la notifica a mezzo posta in altro Paese membro dell’Unione Europea di un decreto ingiuntivo è idonea a fondare il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo sia ai sensi del Regolamento CE n. 805, sia ai sensi proprio del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007, malamente invocato dall’odierna ricorrente in senso opposto.

10.1. La notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida, in primo luogo, ai sensi del Regolamento n. 805 del 2004.

Ed infatti:

– questo costituisce certamente lex specialis rispetto a quello del 2007, sicchè esso non è derogato dalla legge generale successiva;

– infatti, il primo non istituisce speciali procedure affiancate alle altre ordinarie ma solo esige – ai fini dell’attribuzione della qualità peculiare al titolo di idoneità a fondare l’esecuzione in ogni Paese membro – che in concreto in queste ultime siano state osservate specifiche modalità: poi prevedendo le caratteristiche della notifica del provvedimento domestico ai fini della sua certificabilità come titolo esecutivo europeo;

– pertanto, è l’osservanza delle norme dettate dal n. 805 a fondare idoneamente il rilascio del certificato del titolo esecutivo europeo e non già quella di altre norme, se del caso di diverso tenore;

– nella specie, sono rispettati i cc.dd. minima standards del Regolamento n. 805, con conseguente irrilevanza di ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di inesistenza o di nullità insanabile e sugli effetti di essa sulla ritualità o meno dell’instaurazione del rapporto processuale;

– invero, una volta eseguita a mezzo posta, nel rispetto cioè quanto meno dell’art. 14 del Regolamento n. 805, la notifica del decreto ingiuntivo, quest’ultimo contenendo gli estremi dell’invito a costituirsi ritualmente per difendersi sotto pena di definitività dell’ingiunzione, si è per ciò stesso avuto il rispetto quanto meno dell’art. 18, comma 2, del Regolamento n. 805;

– in particolare, la possibilità di fruizione del tempo utile per difendersi è resa evidente dall’effettivo confezionamento di un atto di piena presa di posizione sul merito delle pretese;

– la reazione stessa indubbiamente vi è stata ed è stata completa;

– resta irrilevante l’inutilizzabilità in concreto a fini processuali di tale opposizione, la quale è dipesa dalla malaccorta condotta processuale dell’opponente, per la difettosa forma di estrinsecazione della reazione.

10.2. In secondo luogo, la notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida anche e proprio ai sensi del Regolamento n. 1393 del 2007 (applicabile agli Stati dell’Unione, ad eccezione della Danimarca, come ricordato all’art. 1, comma o par. 3).

Ed infatti:

– è questo stesso a consentire notificazione o comunicazione tramite i servizi postali, ovvero direttamente tramite altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro;

– esso Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di notificazione o comunicazione degli atti, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente;

– esso stesso, al suo articolo 15 (notificazione o comunicazione diretta), precisa pure che chiunque abbia un interesse in un procedimento giudiziario può notificare o comunicare atti direttamente tramite gli ufficiali giudiziari, i funzionari o altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro: ed al riguardo, la Repubblica francese ha comunicato di non opporsi alla possibilità di notificazione o comunicazione diretta (come si evince dalle informazioni ricavabili dall’atlante giudiziario europeo al sito (OMISSIS), operate ai sensi dell’art. 23, par. 1, del Regolamento n. 1393 del 2007);

– per le esigenze di semplificazione e di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli Stati membri dell’Unione, che ispira ormai da almeno tre lustri la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi considerando al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vanificazione;

– il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri;

– almeno in quest’ambito, deve allora bastare – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente e, per quanto visto, nel caso del decreto ingiuntivo con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. – la cura con cui normalmente si espleta quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’idonea tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto;

– tale conclusione è conforme a quella della dottrina prevalente, la quale, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00, sia all’art. 14 Reg. CE 1393/07, ritiene che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di … ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti in ciascuno degli Stati membri hanno facoltà di … ecc.: del resto riconducendosi l’attività notificatoria degli organi statali espressamente ed istituzionalmente a ciò deputati, come appunto l’ufficio notifiche (o Ufficio N.E.P.), direttamente allo Stato;

– ed andranno, beninteso, solo osservate le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

10.3. Pertanto, va affermato, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., comma 3 il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

11. – In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; ma l’assoluta novità della questione e la sua peculiare complessità, dipendente dall’interazione di diversi principi eurounitari con quelli nazionali, integrano una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità; letto l’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 5 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 19-03-2015) 22-05-2015, n. 10554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28468/2011 proposto da:

L.F.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO PICCARDI 4, presso lo studio dell’avvocato CORRADO PASCASIO, rappresentata e difesa dall’avvocato CAMPIONE FRANCO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA (già UGF ASSICURAZIONI SPA), in persona del suo procuratore speciale Dott.ssa G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 27 8, presso lo studio dell’avvocato FERRARO MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GIOVE giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI ROMA ROMA CAPITALE (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI SNC;

– intimati –

Nonché da:

ROMA CAPITALE (già COMUNE DI ROMA) (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore On.le A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FULCIERI P. DE CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MORO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MAGNANELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

L.F.E. (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI GENERALI SRL, UGF ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 11042/2011 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 24/05/2011, R.G.N. 67187/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO MORO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato.

Svolgimento del processo
1. L.F.E. convenne in giudizio il Comune di Roma e chiese il risarcimento del danno conseguente alla caduta, a causa di una buca, sul marciapiede di una strada cittadina. Il Giudice di pace di Roma accolse la domanda e condannò al pagamento in solido, di circa Euro 3.500,00, il Comune e l’impresa di costruzioni Marziali Costruzioni snc, chiamata quale appaltatrice dei lavori di manutenzione dal Comune; condannò inoltre l’Assicurazione a manlevare l’impresa di costruzioni della predetta somma, escluso l’importo di franchigia.

Il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello principale del Comune e di quelli incidentali dell’impresa e dell’assicurazione, nella contumacia della originaria attrice, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda e condannò la L. alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado (sentenza del 24 maggio 2011).

2. Avverso la suddetta sentenza L. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, esplicati da memoria.

Il Comune di Roma resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, esplicato da memoria.

L’impresa appaltatrice e l’assicurazione non si difendono.

Motivi della decisione
La decisione riguarda i ricorsi riuniti, principale e incidentale, avverso la stessa sentenza.

1. Con il primo motivo si deduce la nullità del processo di appello, e della conseguente sentenza, per essersi svolto nella dichiarata contumacia della danneggiata, nonostante la nullità della notifica alla stessa dell’appello principale del Comune (primo profilo) e degli appelli incidentali dell’assicurazione (secondo profilo) e dell’impresa appaltatrice (terzo profilo).

Le censure non hanno pregio.

2. Si sostiene (quanto al primo profilo) la nullità della notifica dell’atto di appello, effettuata dal Comune ex art. 139 c.p.c., con ufficiale giudiziario, mediante consegna al portiere, con invio, ai fini dell’avviso della avvenuta notificazione al portiere, di raccomandata senza avviso di ricevimento.

Il Comune, nel controricorso, ammette la comunicazione senza avviso di ricevimento e sostiene che non occorre ai fini del perfezionamento della notifica.

Il giudice di merito, dopo la precisazione in udienza del Comune che la notificazione era stata fatta senza avviso di ricevimento, dichiarò la contumacia della L..

2.1. La questione all’attenzione della Corte è “se, ai fini del perfezionamento rispetto al destinatario della notifica dell’atto (ex art. 139 c.p.c., e L. n. 890 del 1982, ex art. 7), avvenuta nelle mani del portiere che, ai sensi dello stesse norme, rilascia ricevuta, sia necessario (come sostiene la ricorrente) o meno, che la raccomandata contenente l’avviso della avvenuta notificazione al portiere, sia stata fatta con avviso di ricevimento e, quindi, rispetto alla specie, se sia necessaria, o meno, la produzione dell’avviso di ricevimento con conseguenze sulla legittimità della dichiarazione di contumacia del destinatario”.

Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa.

A sostegno vi sono argomenti letterali e sistematici.

2.2. In generale, è opportuno premettere che è oramai principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, la mancata spedizione dell’avviso, sia che si tratti di applicazione dell’art. 139 cit., che di applicazione dell’art. 7 cit., dopo la novella del 2008, costituisce non una mera irregolarità ma una nullità. Con la conseguenza che, fermi gli effetti della notifica per il notificante, la mancata spedizione dell’avviso rende nulla la notifica per il destinatario dello stesso (Cass. n. 17915 del 2008;

n. 1366 del 2010, n. 21725 del 2012; n. 6345 del 2013).

2.3. Nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni.

Tanto, sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., aggiunto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. nella L. n. 31 del 2008).

Ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 cit.) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (art. 7 cit.), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata.

2.4. Dall’analisi del sistema normativo delle notificazioni, nel quale si inseriscono le norme in argomento, emerge che la previsione della sola raccomandata senza avviso di ricevimento è rispondente ad una distinzione ragionevole dalle ipotesi nelle quali l’avviso di ricevimento è richiesto.

2.4.1. Infatti, il legislatore richiede espressamente l’avviso di ricevimento quando si tratti della notifica a mezzo posta dell’atto e non della comunicazione della notizia che la notificazione dell’atto è stata effettuata ad altra persona.

Così è richiesto l’avviso di ricevimento: per la notifica dell’atto a mezzo ufficiale postale, fatta al destinatario, a persona di famiglia, al portiere (art. 7 cit. commi da 1 a 5); per la notifica a mezzo posta effettuata dall’ufficiale giudiziario (art. 149 c.p.c.);

per la notifica dell’atto all’estero (art. 142 c.p.c.), secondo l’interpretazione della giurisprudenza, a specificazione del richiamo nella norma della sola raccomandata (Cass. n. 12834 del 2003).

2.4.2. Eccezionalmente, il legislatore richiede l’avviso di ricevimento anche quando non si tratti della notifica dell’atto ma della notizia da comunicare al destinatario. E lo fa quando l’atto è stato consegnato in luogo lontano dalla disponibilità del destinatario.

E’ l’ipotesi disciplinata dall’art. 140 c.p.c., rispetto alla notifica dell’atto fatta dall’ufficiale giudiziario nel caso di impossibilità della notifica per irreperibilità, incapacità, rifiuto delle persone legittimate a ricevere, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso il Comune e, tra l’altro, dare notizia dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ pure l’ipotesi analoga disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, come modificato dal D.L. n. 35 del 2005, conv. nella L. n. 8 del 2005, rispetto alla notifica fatta a mezzo posta, nel caso di impossibilità di effettuare la stessa per temporanea assenza, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso l’ufficio postale dando notizia al destinatario dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ opportuno mettere in evidenza che, dopo l’intervento della Corte costituzionale che ha riguardato l’art. 140 c.p.c., (sent. n. 3 del 2010), in entrambi i casi, la notificazione si ha per eseguita per il destinatario decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della notizia di avvenuto deposito o dalla data di ritiro del piego, se anteriore.

2.4.3. In definitiva, la previsione letterale della sola raccomandata senza avviso di ricevimento, quando si tratta di dare notizia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto a persona che, secondo una ragionevole previsione, è a contatto con il destinatario, trova giustificazione della propria diversità nell’ambito di un sistema dove è richiesto sempre l’avviso di ricevimento per la notificazione dell’atto e dove lo stesso avviso viene richiesto qualora l’atto non si sia potuto consegnare a persona “vicina”, ma è stato depositato in un ufficio lontano dal normale accesso del destinatario.

Ed infatti, le persone che ricevono l’atto sono soggetti che, o per vincoli contrattuali o per vincoli parentali, secondo l’id quod plerumque accidit consegneranno l’atto al destinatario. Mentre, la maggiore estensione dell’avviso nel caso di notifica a mezzo posta (art.7 cit.) può trovare spiegazione nella diversa autorevolezza esterna normalmente riconosciuta dai destinatari all’ufficiale giudiziario rispetto all’ufficiale postale.

Inoltre, un ulteriore argomento, convince della ragionevolezza della soluzione scelta dal legislatore.

Come si è visto, nei casi eccezionali in cui è richiesto l’avviso di ricevimento nonostante si tratti solo di dare notizia e non di notificare l’atto, il sistema prevede oramai una disposizione di “chiusura”, che consente di considerare per eseguita la notificazione (dieci giorni dalla spedizione della raccomandata informativa, se non ritirato il plico). Invece, nel caso ora all’attenzione della Corte non esiste una norma di chiusura; con la conseguenza che, in caso di mancata ricezione personale dell’avviso si riaprirebbe astrattamente l’applicabilità delle norme previste per la notificazione a mezzo posta, procedendo all’infinito verso la ricerca della effettività della ricezione.

2.4.4. Nella giurisprudenza della Corte non vi sono pronunce espresse che vadano in direzione contraria. Infatti, l’affermazione contenuta in una massima (Cass. n. 23589 del 2008), secondo cui “In tema di sanzioni amministrative, nel caso di notifica a mezzo posta del verbale di accertamento dell’infrazione, ai sensi della L. n. 890 del 182, art. 7, – nel regime applicabile ratione temporis, prima della modifica introdotta dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. in L. n. 31 del 2008 – ove la consegna del piego, per l’assenza del destinatario, sia avvenuta nelle mani del custode dello stabile di residenza di quest’ultimo, non è necessario l’invio della raccomandata con ricevuta di ritorno. Tale adempimento, infatti, è stata introdotto dal D.L. citato ed è imposto per le notifiche successive all’entrata in vigore di quest’ultimo”, non corrisponde al principio di diritto utilizzato nella decisione. In particolare, come emerge dalla motivazione della sentenza, nell’escludere ratione temporis l’applicazione alla specie dell’art. 7, come novellato negli anni 2007/2008, per le notifiche a mezzo posta effettuate precedentemente, la Corte ha incidentalmente rilevato, aderendo senza motivazione alla prospettazione della ricorrente, che con la nuova norma sarebbe stata necessaria la raccomandata con avviso di ricevimento.

2.5. Il motivo è, pertanto, rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo di ufficiale giudiziario, al portiere o al vicino (ex art. 139 c.p.c.), e nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo posta, a persona diversa dal destinatario (L. n. 890 del 1982, ex art. 7, come modificato nel 2007/2008) ai fini del perfezionamento della notifica, rispetto al destinatario, non è necessario che sia fatta con avviso di ricevimento la raccomandata diretta al destinatario e contenente la notizia della avvenuta notificazione dell’atto alle persone suddette; con la conseguenza che, nella specie, è stata legittimamente dichiarata la contumacia della parte, destinataria di atto di appello ricevuto dal portiere e della raccomandata, senza avviso di ricevimento, contenente la notizia dell’avvenuta consegna al portiere dell’atto”.

3. Sempre con il primo motivo, con un secondo e terzo profilo, si deduce la nullità della sentenza e del processo per nullità della notificazione degli appelli incidentali, disposta dal giudice, quando la danneggiata era stata dichiarata contumace.

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’assicurazione, la prospettazione della nullità, per essere stata fatta la notifica, personalmente alla danneggiata già dichiarata contumace (mentre non può rilevare la notifica, di cui si parla a pag. 3 del ricorso, dell’appello incidentale all’avvocato della danneggiata in primo grado, essendo già stata dichiarata la contumacia), a persona convivente, senza che risulti la prova dell’invio della seconda raccomandata, non può essere esaminata dalla Corte. Il ricorrente non chiarisce e omette il necessario rinvio agli atti processuali se la notificazione sia stata effettuata a mezzo posta o dall’ufficiale giudiziario; circostanza rilevante atteso che l’invio della seconda raccomandata sarebbe richiesto nel primo caso (art. 7 cit.) e non nel secondo (art. 139).

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’impresa (anche per questa essendo irrilevante la notificazione all’avvocato di primo grado), si assume che la notifica fu fatta personalmente a soggetto non meglio identificato, oltre la mancanza della seconda raccomandata. Ogni esame della questione resta preclusa dal totale assenza di riferimenti e rinvii agli atti processuali, per cui le modalità della notifica sono solo asserite, senza la possibilità per la Corte di verificarne la decisività.

Entrambi i profili, pertanto, sono inammissibili.

4. Nel merito, il Tribunale ha ritenuto non provato il nesso di causa tra la caduta e l’avvallamento sul marciapiede. Ha messo in evidenza:

che nessuno dei testi l’aveva vista inciampare nell’avvallamento, essendosi questi limitati a riferire che era presente un avvallamento nei pressi della caduta; che, secondo la stessa ammissione della danneggiata, stava camminando a passo veloce per raggiungere l’autobus; che camminava guardando l’autobus e, anche il marciapiede e, quindi senza la necessaria attenzione; che altro teste aveva affermato che l’avvallamento era comunque visibile.

4.1. La decisione è censurata invocando la violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 112 c.p.c., (secondo motivo) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione delle prove (terzo).

I motivi sono tutti inammissibili. Al di là della invocazione della violazione di legge, le censure si sostanziano nella critica alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice con percorso argomentativo privo di vizi logici; quindi, essi consistono in una prospettazione di una diversa valutazione favorevole alla danneggiata, richiedendo inammissibilmente alla Corte di legittimità di farla propria compiendo un giudizio sul merito della causa.

Quanto alla invocata violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale emanato una pronuncia ultrapetita, disponendo la restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, indistintamente, a favore di tutti gli appellanti e, quindi, anche a favore della Assicurazione, mentre sarebbero stati condannati in solido solo il Comune e l’impresa, evidente è la non conferenza della censura. Con la sentenza è stata disposta la restituzione delle somme percepite, naturalmente, a favore di chi le ha versate.

5. Il ricorso incidentale proposto dal Comune, in modo espressamente condizionato, con il quale si invoca la violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendo di aver proposto appello incidentale alla sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto la responsabilità solidale del Comune e dell’impresa, mentre il Comune aveva agito in manleva, facendo valere l’esistenza di un contratto di appalto per la manutenzione, e che tale questione sarebbe restata assorbita nel giudizio di secondo grado per via del rigetto della domanda, resta assorbito.

6. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate secondo i parametri vigenti, seguono la soccombenza a favore del controricorrente. Non avendo gli altri intimati svolto attività difensiva, non sussistono le condizioni per la pronuncia in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale;

condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015