Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 04/02/2016) 09/08/2016, n. 16679

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14623/2015 proposto da:

RIVADOSSI RAFFINERIA METALLI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO 2, presso lo studio dell’avvocato GUGLIELMO FRANSONI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE CORASANITI, ELISA BONZANI, VICTOR UCKMAR giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7229/2014 della COMM. TRIB. REG. della LOMBARDIA SEZ. DIST. di BRESCIA, depositata il 23/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/02/2016 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

udito per il ricorrente l’Avvocato CORASANITI che si riporta alle conclusioni contenute nel ricorso e alla memoria;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. In fattispecie di fatturazione e doppia registrazione di operazioni ritenute inesistenti ma regolate e assolte col regime domestico d’inversione contabile per il commercio di rottami, il fisco mediante plurimi atti recupera, tra l’altro, l’IVA detratta dalla cessionaria Rivadossi a fronte di fatture emesse da presunte cartiere, Eurometal e ItalMetal. La decisione d’appello, per quanto qui ancora interessa, è impugnata dalla contribuente con tredici motivi di ricorso riguardanti le sfavorevoli determinazione riguardo all’imposizione sul valore aggiunto. L’amministrazione non spiega attività difensiva.

2. Da ultimo, la contribuente deposita memoria invocando i più favorevoli trattamenti fiscali e sanzionatori introdotti in materia d’inversione contabile nelle operazioni inesistenti dallo ius superveniens – D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15, comma 1, lett. f), e art. 31, – destinato ad essere applicato rispetto alle previsioni di matrice sanzionatoria con effetto dal primo gennaio 2016 (L. n. 208 del 2015, art. 32, comma 1, mod. art. 1, comma 133).

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo (pag. 167) la ricorrente contesta la decisione del giudice d’appello in punto di legittimo raddoppio dei termini per il recupero dell’IVA per il 2005 (art. 57, comma 3 D.Iva; art. 2697 c.c.). Il motivo non è fondato perchè il raddoppio dei termini decadenziali per l’esercizio dell’attività di accertamento opera a prescindere dalle vicende delle indagini preliminari e del processo penale, essendo sufficiente un accertamento fiscale che comporti la mera sussistenza dell’obbligo di denuncia (Cass. 22587/2012). Il che prescinde dal fatto che una denuncia penale sia stata materialmente confezionata ex artt. 331, 347 e 333 c.p.p., e che la stessa sia stata effettivamente inoltrata all’autorità giudiziaria, in disparte dall’esito della denuncia stessa.

2. Con il secondo motivo (pag. 169) la ricorrente contesta la decisione del giudice d’appello in punto di notificazione degli atti cd. impo-esattivi per il recupero dell’IVA per il 2006 e il 2007 (D.L. n. 78 del 2010, art. 28; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60; L. n. 890 del 1982, art. 14, comma 1). Il motivo non è fondato perchè è assolutamente pacifico che le notifiche tanto degli avvisi di accertamento (Cass. 15315/2014) quanto degli atti di riscossione (Cass. 6395/2014) possano avvenire direttamente a cura del soggetto legittimato (agenzia fiscale o concessionario) mediante gli agenti postali e secondo le regole ordinarie per le raccomandate, senza che, dunque, sia necessaria la mediazione di uno specifico agente notificatore, quale l’ufficiale giudiziario o altro messo incaricato o pubblico ufficiale assimilato. Il D.L. n. 78 del 2010, art. 28, non deroga affatto alle regole del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 4, e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, limitandosi soltanto ad estendere la notifica per raccomandata postale agli atti successivi e consequenziali agli atti cd. impo-esattivi. Inoltre l’art. 56 d.Iva richiama ed estende all’imposizione sul valore aggiunto le modalità di notifica previste per la imposte sui redditi (comma 1) con evidente recepimento dell’intero art. 60 cit..

3. Con il terzo motivo (pag. 173) la ricorrente contesta la decisione del giudice d’appello in punto motivazione degli atti impositivi per il recupero dell’IVA per il 2005 e il 2006 (art. 56 d.Iva; art. 7, comma 1 Statuto). Il mezzo non è fondato perchè, sotto le spoglie della pretesa violazione di norme di diritto procedimentali, mira rivisitare il giudizio di merito della C.t.r. sulla idoneità della motivazione degli atti impositivi. A tal fine la ricorrente trascura di considerare che il giudice d’appello a pag. 4, lett. c), della sentenza osserva come la formula utilizzata dall’ufficio relativamente alla contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti vada letta nell’insieme delle argomentazioni sviluppate sia nell’avviso di accertamento, sia nel PVC, ai fini del positivo giudizio sulla sua idoneità argomentativa. Il che non è stato contestato con specifici e autosufficienti riferimenti ai singoli punti degli avvisi e del PVC. 4. Con il quarto motivo (pag. 179) la ricorrente contesta la decisione del giudice d’appello in punto d’integrazione probatoria disposta dalla C.t.p. riguardo al recupero dell’IVA per gli anni d’imposta dal 2005 al 2008 (art. 7, e art. 1, comma 1 proc. trib.; artt. 99, 112, 115, 210 e 213 c.p.c.). Il mezzo è inammissibile perchè la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse della parte alla regolarità dell’attività giudiziaria ma garantisce solo l’eliminazione del concreto pregiudizio subito dal diritto di difesa in conseguenza della violazione medesima. Ne consegue che è inammissibile il motivo che, come nella specie, deduca un’irrituale acquisizione documentale nel corso del giudizio di primo grado ma ometta di precisare l’effettivo e concreto pregiudizio difensivo subito (Cass. 26831/2014). Si aggiunga che l’irrituale produzione documentale nel giudizio di primo grado, volontaria o provocata dal giudice, non assume rilievo preclusivo nella definizione del giudizio d’appello, laddove può essere, comunque, legittimamente utilizzata dalla parte in appello e dalla C.t.r. nella decisione ai sensi dell’art. 58 proc. trib. (Cass. 6914/2011).

5. Con il quinto motivo (pag. 188) la ricorrente contesta la decisione del giudice d’appello in punto d’integrazione probatoria disposta dalla C.t.p. e riguardo al riparto dell’onere della prova sul recupero dell’IVA per gli anni d’imposta dal 2005 al 2008 (art. 2697 c.c.). Il mezzo è correlato ai quarto motivo ed è egualmente inammissibile perchè la contribuente non specifica in che cosa si sostanzi il pregiudizio difensivo subito.

6. Con il sesto motivo (pag. 190) la ricorrente eccepisce la pretesa nullità della sentenza d’appello per carenza assoluta di motivazione specifica relativa alle ragioni per le quali la C.t.r. ha ritenuto del tutto irrilevanti i diversi elementi fattuali che, allegati in giudizio dalla contribuente, sarebbero stati, a suo dire, in grado di escludere la natura di cartiere di Eurometal e ItalMetal, ovvero per asserita apparenza di motivazione, tale da impedire l’individuazione della ratio decidendi della pronuncia (art. 132 c.p.p., comma 1 – n. 4, e art. 156 c.p.c., comma 3; art. 118 att.; art. 1, comma 2, e art. 36, comma 2 – n. 4 proc. trib.). Il mezzo è inammissibile atteso che esso mira a una valutazione dell’idoneità dimostrativa del ragionamento probatorio del giudice di merito preclusa dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in termini di mera insufficienza argomentativa e non risultando affatto violato il minimo costituzionale della motivazione e risultando, invece, rispettati i limiti formali della motivazione stessa. Infatti il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., applicabile ratione temporis, introduce un vizio specifico, denunciabile innanzi al giudice di legittimità, concernente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo ai fini del decisum. Nella nuova formulazione non vi è alcun riferimento alla motivazione della sentenza impugnata nè sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà argomentativa. La riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, deve, dunque, intendersi finalizzata a ridurre al minimo costituzionale il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza impugnata per cui l’anomalia motivazionale denunciabile per cassazione è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante ed attiene all’esistenza della motivazione in sè (conf. da ultimo Cass. 1050/2016 in applicazione di S.U. 8053/2014). Inoltre, l’inosservanza dell’obbligo di motivazione integra violazione della legge processuale, denunciabile con ricorso per cassazione, solo quando si traduca in mancanza della motivazione stessa, e cioè nei casi di radicale carenza di essa o nel suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (Cass. 25972/2014). Nella specie è la stessa contribuente, a pag. 191 del ricorso, a individuare la ratio decidendi della sentenza d’appello laddove indi riscontri logico-circostanziali della natura di cartiere delle ditte fornitrici: (a) nell’assenza di vere e proprie sedi operative aziendali, (b) nella mancanza di documentazione contabile relativa ai rapporti delle due ditte con i rispettivi fornitori, (c) nel fatto che un tale L., della ditta Eurometal, era stato fermato con una valigetta contenente denaro contante chiuso in varie buste sigillate e contrassegnate in maniera alfanumerica ed era stato filmato mentre entrava nello stabilimento della contribuente con una busta bianca uscendone privo. Vale ricordare che è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 proc. trib. e dell’art. 118 att. c.p.c., solo la sentenza d’appello che sia completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’impugnante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione regionale a disattenderle sicchè sia impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. 28113/2013). Il che certamente non ricorre nella decisione in esame, osservandosi, inoltre, che il giudice di merito ha un discrezionale potere di scelta e di valutazione dei mezzi probatori acquisiti al processo (Cass. 960/2015, 2.1).

7. Con il settimo motivo (pag. 197) la ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto sussistente la prova per presunzioni della natura di cartiere di Eurometal e ItalMetal, (artt. 2729 e 2697 c.c.). Il mezzo è inammissibile perchè pare calibrato più su una lettura comparativa delle allegazioni di fatto, compiuta autonomamente dalla parte ricorrente, che sulla censura del rispetto dei parametri legali dell’art. 2720 c.c., secondo i principi regolativi dettati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17535/2008 e 9750/2015). Nè risulta in alcun modo impugnata la sentenza d’appello riguardo al rispetto dei peculiari requisiti metodologici stabiliti in materia dalle sezioni unite (sent. 584/2008).

8. Con l’ottavo motivo (pag. 199) la ricorrente eccepisce la pretesa nullità della sentenza d’appello per carenza assoluta di motivazione specifica relativa alle ragioni per le quali la C.t.r. ha ritenuto il coinvolgimento della contribuente nelle attività fraudolente di Eurometal e ItalMetal, ovvero per asserita apparenza di motivazione, tale da impedire l’individuazione della ratio decidendi della pronuncia (art. 132 c.p.c., comma 1 – n. 4, e art. 156 c.p.c., comma 3; art. 118 att.; art. 1, comma 2, e art. 36, comma 2 – n. 4 proc. trib.).

Il mezzo è inammissibile per le stesse ragioni diritto enunciate sub 6). Inoltre è la stessa contribuente – a pag. 200/201 del ricorso – a individuare la ratio decidendi della sentenza d’appello laddove individua riscontri logico-circostanziali del suo coinvolgimento:(a) nel contenuto e nel tenore delle intercettazioni telefoniche, non episodiche, ma collegate le une con le altre alle operazioni in corso; (b) nella mancanza di documentazione aziendale idonea a dimostrare l’estraneità della contribuente; (c) nei reiterati prelievi in banca di danaro contante da parte delle ditte cartiere immediatamente dopo gli accrediti dei bonifici disposti dalla contribuente; (d) nelle preoccupazioni manifestate dai rappresentanti della contribuente alla notizia dell’indagine intrapresa dalla polizia tributaria.

9. Con il nono motivo (pag. 203) la ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto sussistente la prova per presunzioni del coinvolgimento della contribuente nelle attività fraudolente di Eurometal e ItalMetal (artt. 2729 e 2697 c.c.). Il mezzo è inammissibile perchè pare calibrato più su una lettura comparativa delle allegazioni di fatto, compiuta autonomamente dalla parte ricorrente, che sulla censura del rispetto dei parametri legali dell’art. 2720 c.c., secondo i principi regolativi dettati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17535/2008 e 9750/2015). Nè risulta in alcun modo impugnata la sentenza d’appello riguardo al rispetto dei peculiari requisiti metodologici stabiliti in materia dalle sezioni unite (sent. 584/2008; vedi sub 7).

10. Con il decimo motivo (pag. 205) la ricorrente eccepisce la pretesa nullità della sentenza d’appello per carenza assoluta di motivazione specifica relativamente alle ragioni per le quali la C.t.r. ha ritenuto la mancanza di ulteriori elementi di riscontro alle dichiarazioni di terzi prodotte a discari dalla contribuente, ovvero per asserita apparenza di motivazione, sì da impedire l’individuazione della ratio decidendi della pronuncia (art. 132 c.p.c., comma 1 – n. 4, e art. 156 c.p.c., comma 3; art. 118 att.; art. 1, comma 2, e art. 36, comma 2 – n. 4 proc. trib.). Il mezzo è inammissibile per le stesse ragioni diritto enunciate sub 6) e le medesime considerazioni svolte infra sub 11).

11. Con l’undicesimo motivo (pag. 208) la ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto sussistente la prova per presunzioni del coinvolgimento della contribuente nelle attività fraudolente di Eurometal e ItalMetal (artt. 2729 e 2697 c.c.). Il mezzo è inammissibile perchè a pag. 5/6 la C.t.r. non nega affatto rilevanza probatoria alle dichiarazioni dei terzi a discarico ma dà atto che la C.t.p. aveva “esposto una chiara disamina delle dichiarazioni rese dai suddetti terzi con relativa confutazione”. Sul punto non v’è specifica impugnazione in ricorso; mentre, se è vero che la prova per presunzioni può essere fondata anche su un solo indizio dichiarativo, è pur vero la C.t.r. nega per relationem la globale efficacia dimostrativa di dichiarazioni che restano confinate nell’apprezzamento di fatto precluso in sede di legittimità e devoluto al monopolio del giudice di merito. Dunque, ancora una volta, il mezzo pare calibrato più su una lettura comparativa delle allegazioni di fatto, compiuta autonomamente dalla parte ricorrente, che sulla censura del rispetto dei parametri legali dell’art. 2720 c.c., secondo i principi regolativi dettati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17535/2008 e 9750/2015). Nè risulta in alcun modo impugnata la sentenza d’appello riguardo al rispetto dei peculiari requisiti metodologici stabiliti in materia dalle sezioni unite (sent. 584/2008; vedi sub 7).

12. Con il dodicesimo motivo (pag. 211) la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto sostanziali (art. 21, comma 7, e art. 74, commi 7 e 8 d.Iva) laddove la C.t.r. non considera che, trattandosi di operazioni regolate in regime domestico d’inversione contabile, esse erano di per sè stesse neutrali e le relative irregolarità non potevano comportare perdita di gettito fiscale recuperabile con gli avvisi di accertamento.

13. Con il correlato tredicesimo motivo (pag. 221) la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto sostanziali (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 5 bis, e art. 10, comma 3 dello Statuto) laddove la C.t.r. non considera che, anche alla luce del principio di proporzionalità delle sanzioni sancito dalla giurisprudenza comunitaria e tenuto conto anche della natura di sanzione indiretta rivestita dal recupero dell’intera imposta in materia regolata in regime d’inversione contabile interna, nessun’altra sanzione poteva essere applicata.

14. Infine, con memoria, la contribuente invoca i più favorevoli trattamenti fiscali e sanzionatori introdotti in materia d’inversione contabile nelle operazioni inesistenti dallo ius superveniens – art. 15, comma 1, lett. f), e dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 31 – destinato ad essere applicato rispetto a tutte le previsioni di matrice sanzionatoria con effetto dal primo gennaio 2016 (art. 32, comma 1, mod. L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 133).

15. Tanto premesso, si osserva che, secondo la giurisprudenza comunitaria il regime dell’inversione contabile costituisce strumento che consente, in particolare, di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale constatate in taluni tipi di operazioni (Equoland p.42 e Veleclair p.34). A tal fine, la disciplina nazionale per il commercio dei rottami, che qui interessa, prevede che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizioni dei cui all’art. 21 e segg. d.Iva e con l’indicazione di cui all’art. 74, che si tratta di operazione con IVA non addebitata in via di rivalsa. Indi, la fattura è integrata dal cessionario, che diviene soggetto passivo d’imposta, con l’indicazione dell’aliquota e della imposta stessa. La fattura, così integrata, è registrata nel registro delle vendite dal cessionario, che in tal modo assolve l’obbligo di pagamento del tributo, detratto con la parallela annotazione nel registro degli acquisti. Inoltre, trattandosi di operazione imponibile (D.L. n. 269 del 2003, art. 35, comma 1, lett. a)), il cedente conserva il diritto all’ordinaria detrazione dell’imposta relativa agli acquisti inerenti. Nella specie è pacifico che la contribuente cessionaria abbia regolarmente effettuato l’inversione contabile a suo carico e reso neutrali operazioni ritenute inesistenti dal fisco e, in particolare, soggettivamente inesistenti dalla C.t.r..

16. Relativamente al regime d’inversione contabile questa Corte ha affermato (ord. 22532/2012, in operazione intra) che il disposto dell’art. 21, comma 7, d.Iva per un verso incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio comunitario di cui all’art. 28 octies, par. 1, lett. d), dir. 1977/388/CE ora (art. 203 dir. 2006/112/CE). Per un altro verso incide indirettamente, in combinato disposto con l’art. 19, comma 1, e l’art. 26, comma 3, d.Iva, pure sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta in carenza del suo presupposto (v. Cass. 12353/2005, 2823/2008, 24231/2011). Nel caso di operazioni inesistenti in regime d’inversione contabile, il cessionario è l’effettivo soggetto d’imposta e l’IVA integrata a debito sulle fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti è dovuta, in base al principio comunitario di cui all’art. 28 octies, anche quando si tratta di forniture inesistenti o diverse da quelle indicate in fattura. Ciò incide – per il combinato disposto dell’art. 21, comma 7, art. 19, comma 1, e art. 26, comma 3 cit. – sul destinatario della fattura medesima che non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta mancando il suo presupposto, ovverosia la corrispondenza anche soggettiva dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata (v. Cass. 13803/2014). Infatti “la presentazione di false fatture (…), alla pari di qualsiasi altra alterazione di prove, è (…) atta a compromettere il funzionamento del sistema comune dell’IVA” e “il diritto dell’Unione non impedisce agli Stati membri di considerare l’emissione di fatture irregolari alla stregua di una frode fiscale e di negare l’esenzione in una siffatta ipotesi” (C. giust. 7.12.2010, C-285/09, 48 e 49). La frode opera, dunque, come limite generale al principio fondamentale di neutralità dell’IVA (implicitamente C. giust., Ecotrade 70, e Cass. 5072/2015 D.6), ossia al principio secondo cui la detrazione dell’imposta è accordata se i requisiti sostanziali dell’operazione sono comunque soddisfatti (Idexx, p.38; Ecotrade pp.63-66), intendendosi per tali che gli “acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’IVA attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili” (Idexx p.43). Consequenzialmente trattandosi nella specie dell’IVA detratta dalla cessionaria Rivadossi col regime domestico d’inversione contabile però a fronte di frode con fatture emesse da cartiere per operazioni soggettivamente inesistenti, non può trovare applicazione il più generale principio secondo cui il diritto alla detrazione non può essere negato nei casi in cui l’operatore nazionale non ha applicato – o non ha applicato correttamente – la procedura dell’inversione contabile senza violazione dei requisiti sostanziali (Cass. 5072/2015, D.3, e 7576/2015, p.8).

17. Il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9 bis, n. 3, introdotto dal decreto di riforma del sistema sanzionatorio tributario (D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15), prima stabilisce: “Se il cessionario o committente applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando il diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2”. Poi aggiunge: “La disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 Euro”. Il che significa che devono essere espunti sia il debito computato che la detrazione operata nelle liquidazioni dell’imposta anche nei casi di operazioni inesistenti che siano astrattamente “esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta e che siano regolate dal cessionario coll’inversione contabile interna”. Per l’insidiosità che verosimilmente si ritiene che tale fattispecie rivesta, trova solo in tale ultimo caso applicazione la sanzione amministrativa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile (con un minimo di mille Euro). Dunque, i più favorevoli trattamenti fiscali e sanzionatori introdotti dal comma 9 bis, n. 3, non trovano applicazione nel caso di operazioni imponibili soggettivamente inesistenti ancorchè regolate in regime domestico d’inversione contabile. La diversa conclusione, che potrebbe essere desunta dal non chiaro tenore della relazione illustrativa laddove si parla di “procedura”, non rileva poichè ogni testo normativo deve essere interpretato secondo il suo contenuto obiettivo mentre i lavori preparatori non costituiscono elemento decisivo per la sua interpretazione (Cass. 1654/1962).

18. Non rileva neppure la recentissima modifica dell’art. 21, comma 7, D.Iva: “Se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”. Si tratta di disposizione che, introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 31, è applicabile dal primo gennaio 2016 sempre ai sensi dell’art. 32, comma 1 (mod. L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 133). La relazione illustrativa afferma che la modifica opera “al fine di rendere chiaro che la relativa prescrizione non riguarda le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge”. Ciò tocca, però, unicamente la posizione del cedente verso il fisco e non quella del cessionario il quale per le operazioni inesistenti, anche se solo soggettivamente, ma pur sempre imponibili perde comunque il diritto di detrazione per effetto del combinato disposto dell’art. 19, comma 1, e dell’art. 26, comma 3 D.Iva.

19. Quanto alla misura della risposta punitiva, la Corte di giustizia osserva, da tempo, che l’importo della sanzione deve sempre essere graduabile e non può eccedere quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione ed evitare l’evasione dell’imposizione sul valore aggiunto (Equoland, p.44 e Redlihs, p.45 e da 50 a 52; cfr. EMS-Bulgaria Transport p.75). In relazione a tali parametri e tenuto conto della perdita del diritto di detrazione, per essere le operazioni imponibili e soggettivamente inesistenti, si esclude l’applicazione delle esimenti di diritto interno previste per le violazioni meramente formali, ovverosia più in dettaglio per quelle sole violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sul tributo (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 5 bis, e art. 10, comma 3 dello Statuto). Tuttavia il decreto di riforma ha quasi completamente ridisegnato e fortemente ridimensionato il sistema sanzionatorio tributario. Vale, dunque, il dettato del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, che ha esteso il principio del favor rei anche al settore fiscale, sancendo l’applicazione retroattiva delle più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute, che devono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo. Pertanto, se è in contestazione l’an della violazione tributaria, sussiste ancora controversia sulla debenza delle sanzioni e s’impone l’applicazione del più favorevole regime sanzionatorio sopravvenuto (Cass. 8243/2008). Ciò è compito devoluto al giudice di merito che dovrà;(a) traguardare la fattispecie concretamente accertata dal giudice d’appello attraverso il nuovo assetto punitivo introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 2015; (b) individuare le ipotesi sanzionatorie confacenti in continuità precettiva con l’originaria contestazione del fisco (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4, art. 6, comma 6, art. 9, commi 1 e 3); (c) graduarne la portata nei limiti comunitari di quanto strettamente necessario per assicurare l’esatta riscossione ed evitare l’evasione dell’imposizione sul valore aggiunto, operando se del caso parziale disapplicazione del diritto interno.

20. In conclusione, accolto il tredicesimo motivo nei sensi di cui al p.19 e rigettato il ricorso nel resto, si deve cassare la sentenza d’appello nei limiti dell’accoglimento e rinviare la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla C.t.r. della Lombardia, sez. Brescia, in diversa composizione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il tredicesimo motivo nei sensi di cui in motivazione, rigetta il ricorso nel resto, cassa la sentenza d’appello nei limiti dell’accoglimento e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla C.t.r. della Lombardia, sez. Brescia, in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 15-12-2015) 20-07-2016, n. 14916

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. CICALA Mario – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1451/2008 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

WORLD ARROW TOURS & CHARTERS;

– intimata –

sul ricorso 4758/2008 proposto da:

WORLD ARROW TOURS & CHARTERS INC, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TUSCOLANA 1348, presso lo studio dell’avvocato GIAMPAOLO RUGGIERO, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 360/34/2007 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del LAZIO, depositata il 02/10/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/2015 dal Consigliere Dott. BIAGIO VIRGILIO;

uditi gli avvocati Gianna Maria DE SOCIO dell’Avvocatura Generale dello Stato, Giampaolo RUGGIERO;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per la dichiarazione di ammissibilita’ del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio indicata in epigrafe, con la quale e’ stato rigettato l’appello dell’Ufficio e confermata l’illegittimità di cinque avvisi di accertamento emessi ai fini IVA per gli anni dal 1999 al 2003 nei confronti della società statunitense World Arrow Tours & Charters Inc.: con essi l’Ufficio aveva recuperato a tassazione l’imposta (precedentemente rimborsata) ritenuta illegittimamente detratta ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74 ter, comma 3, in quanto la società aveva svolto attività di tour operator, e non solo di autonoleggio, con conseguente indetraibilità dell’IVA relativa ai costi sostenuti per le cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate da terzi a diretto vantaggio dei viaggiatori.

Il giudice d’appello ha ritenuto inadeguate le prove fornite dall’Ufficio (sito web, procura rilasciata dalla società al proprio rappresentante in Italia) al fine di dimostrare con ragionevole certezza che la contribuente, negli anni in contestazione, svolgesse effettivamente attività di tour operator e non soltanto di autonoleggio.

2. La World Arrow Tours & Charters Inc. ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo; ha anche depositato memoria.

In via pregiudiziale, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 330 cod. proc. civ., perché notificato presso il difensore domiciliatario per il giudizio di primo grado, anziché presso il difensore costituito nel giudizio di appello e presso il quale essa aveva eletto domicilio per tale grado del processo.

3. La quinta sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 15946 del 2014, resa all’esito dell’udienza del 9 giugno 2014 e depositata l’11 luglio 2014, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle sezioni unite, avendo rilevato contrasti nella giurisprudenza della Corte sulle seguenti questioni: a) se alla proposizione del ricorso per cassazione avverso sentenze delle commissioni tributarie regionali debba applicarsi la disciplina dettata dall’art. 330 cod. proc. civ., oppure quella speciale prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 2, relativo al processo tributario; b) ove si accolga la prima tesi, se sia affetta da inesistenza giuridica oppure da nullità, sanabile secondo le norme del codice di rito, la notificazione eseguita presso il procuratore domiciliatario della controparte in primo grado, nel caso in cui questa b1) sia rimasta contumace in appello, o allorché’ b2) abbia revocato il mandato a detto difensore e lo abbia sostituito con un nuovo difensore presso il quale abbia anche eletto domicilio.

4. I ricorsi sono stati quindi fissati per l’odierna udienza.

5. L’Agenzia delle entrate ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1.1. La prima questione che le sezioni unite sono chiamate a dirimere concerne l’individuazione della disciplina da applicare in ordine al luogo di notificazione del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza di una commissione tributaria regionale.

Si tratta di stabilire, a fronte di orientamenti non univoci, qual e’ il rapporto tra il regime dettato dall’art. 330 cod. proc. civ. e quello previsto, per il processo tributario, dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 17: in particolare, il quesito è se al ricorso per cassazione si applichi in via esclusiva la disciplina del codice di rito ordinario, oppure possa, e in quali limiti, trovare applicazione la normativa speciale dettata, in materia, dal citato art. 17 del decreto sul processo tributario.

1.2. Per quanto qui interessa, l’art. 330 cit. (rubricato “Luogo di notificazione della impugnazione”) dispone, al primo comma, che “se nell’atto di notificazione della sentenza la pane ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, l’impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica, ai sensi dell’art. 170, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio” (le parole “ai sensi dell’art. 170” sono state inserite dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 10, ed hanno effetto per i giudizi iniziati, in primo grado, dopo il 4 luglio 2009).

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17 (articolo rubricato “Luogo delle comunicazioni e notificazioni”), dopo aver stabilito, al comma 1, che “le comunicazioni e le notificazioni sono fatte, salva la consegna in mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio”, prevede, al comma 2, il quale in particolare rileva in questa sede, che “l’indicazione della residenza o della sede e l’elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi del processo”.

Va aggiunto che: a) ai sensi dell’art. 1, comma 2, del citato D.Lgs. n. 546 del 1992, “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”; b) in senso sostanzialmente conforme, l’art. 49 dispone che “alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo 3, capo 1, del libro 2 del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto” (le parole “escluso l’art. 337” sono state soppresse dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. u, entrato in vigore, in pane qua, l’1 gennaio 2016); c) l’art. 62, in tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, stabilisce, infine, al comma 2, che “al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto” (ora il citato D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 9, comma 1, lett. z, ha introdotto la possibilità, sull’accordo delle parti, del ricorso per saltum avverso le sentenze delle commissioni tributarie provinciali, unicamente a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

1.3. Queste sezioni unite, con sentenza n. 29290 del 2008, hanno affermato che la previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17 costituisce eccezione alla sola disposizione di cui all’art. 170 cod. proc. civ. per le notificazioni endoprocessuali, con la conseguenza che, mancando, per la notifica degli atti di impugnazione, una disposizione specifica, deve trovare applicazione quella prevista dall’art. 330 cod. proc. civ. (si e’ ritenuta, quindi, nella fattispecie, validamente eseguita la notificazione del ricorso in appello effettuata presso il procuratore costituito – non domiciliatario – della parte nel giudizio di primo grado).

Con la recente sentenza n. 8053 del 2014, poi, le sezioni unite, occupandosi in particolare della questione dell’applicabilità al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie delle disposizioni di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54 (convertito dalla L. n. 134 del 2012), hanno ribadito la “significativa contrapposizione” tra le disposizioni di rinvio contenute nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art. 49, relative al processo e alle impugnazioni in generale, e la disposizione di rinvio contenuta nel successivo art. 62, relativa al giudizio di cassazione: gli artt. 1 e 49 istituiscono un’autentica specialità del rito tributario, sancendo la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale ultima si applica, quindi, in via del tutto sussidiaria, oltre che nei limiti della compatibilità; l’art. 62, viceversa, per il giudizio di cassazione, fa espressamente riferimento all’applicabilità delle norme del codice di procedura civile, così attribuendo, per questa sola ipotesi, la prevalenza alle norme processuali ordinarie ed escludendo l’esistenza di un “giudizio tributario di legittimità”, cioè di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria.

1.4. Alla stregua del sopra delineato quadro normativo, nonché dei principi che ne ha tratto la sentenza n. 8053 del 2014, deve ritenersi che, quanto all’individuazione del luogo in cui va effettuata la notificazione delle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie, occorre tenere distinta la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17 per il processo tributario, cioè per quello che si svolge dinanzi alle commissioni tributarie, da quella prevista dal codice di rito ordinario in tema di ricorso per cassazione.

In particolare, per un verso non esistono ragioni normative che impongano di affermare che l’art. 17 cit. si riferisce esclusivamente alle notificazioni endoprocessuali, laddove, anzi, proprio la previsione secondo cui “l’indicazione della residenza o della sede e l’elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi del processo” (comma 2), nonché esigenze di coerenza sistematica, inducono alla conclusione che la norma è applicabile, con carattere di specialità e quindi di prevalenza, anche alla notificazione del ricorso in appello.

Per altro verso, alla notificazione del ricorso per cassazione si applica, ai sensi del citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, la disciplina di cui all’art. 330 cod. proc. civ. (che non può certo essere esclusa per il fatto che nel processo tributario ben può accadere che esista un difensore che non sia anche procuratore ad litem, ciò incidendo soltanto sull’ambito applicativo della norma in relazione alla concreta fattispecie).

Va però fatta, al riguardo, la seguente importante precisazione.

La previsione di ultrattività dell’indicazione della residenza (o della sede) e dell’elezione di domicilio non può non riflettersi sull’individuazione del luogo di notificazione del ricorso per cassazione: ne consegue che, in deroga alla regola ordinaria, il ricorso è validamente notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi, anche nel caso in cui il soggetto destinatario della notificazione non si sia costituito nel giudizio di appello (oppure, pur costituitosi, non abbia effettuato alcuna indicazione) (Cass. nn. 10055 del 2000, 2882 e 15523 del 2009, 20200 del 2010, 1972 del 2015).

Non si tratta di estendere al ricorso per cassazione la disciplina del processo tributario, bensì di riconoscere alla norma in esame un effetto esterno che indubbiamente si riverbera sul disposto dell’art. 330 cod. proc. civ., rendendolo, dunque, in parte qua pienamente applicabile.

1.5. Deve essere, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, si applica, con riguardo al luogo della notificazione, la disciplina dettata dall’art. 330 cod. proc. civ.; tuttavia, in ragione del principio di ultrattività dell’indicazione della residenza o della sede e dell’elezione di domicilio effettuate in primo grado, stabilito dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 17, comma 2, è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi del citato art. 330 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi, nel caso in cui la parte non si sia costituita nel giudizio di appello, oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione”.

1.6. Nella fattispecie, non sussistono le condizioni per ritenere valida la notificazione, poiché, come risulta dagli atti ed è evidenziato nell’ordinanza di rimessione, il ricorso e’ stato notificato presso il difensore domiciliatario della parte contribuente per il giudizio di primo grado, anziché presso il nuovo procuratore costituito nel giudizio di appello e presso il quale la parte stessa aveva eletto domicilio per tale grado del processo.

2.1. Vengono, quindi, in rilievo le ulteriori questioni esposte nell’ordinanza interlocutoria, concernenti le conseguenze derivanti dalla violazione della menzionata disposizione del codice di rito, in ordine alle quali si riscontrano orientamenti difformi nella giurisprudenza di questa Corte, espressi anche da pronunce delle sezioni unite.

In particolare, e in sintesi, il Collegio rimettente rileva quanto segue.

A) Notificazione del ricorso per cassazione eseguita presso il procuratore della controparte costituito in primo grado e contumacia della stessa nel giudizio di appello: a1) un primo orientamento, muovendo dal presupposto secondo cui l’elezione di domicilio presso il procuratore spiega effetto limitatamente al grado del giudizio per il quale la procura è stata conferita, salvo espressa contraria previsione, ritiene che siffatta notificazione del ricorso è affetta da giuridica inesistenza, non da mera nullità, in quanto eseguita in luogo e presso persona non aventi più alcun riferimento con il destinatario, con conseguente inammissibilità del ricorso, senza alcuna possibilità di sanatoria mediante costituzione della parte intimata o rinnovazione ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ. (tra altre, Cass., sez. un., nn. 6248 del 1982 e 9539 del 1996, nonché Cass. mi. 1100 del 2001 e 5025 del 2002); a2) altro indirizzo, muovendo dal medesimo presupposto, perviene alla opposta conclusione secondo cui la notificazione, essendo eseguita in luogo diverso da quello prescritto dall’art. 330 c.p.c., comma 1, ma non privo di un qualche collegamento con il destinatario della notifica, deve considerarsi nulla e non inesistente (e, quindi, sanabile mediante rinnovazione o costituzione della parte intimata), in quanto l’atto, pur se viziato, poiché eseguito al di fuori delle previsioni di legge, può essere riconosciuto come appartenente alla categoria delle notificazioni, anche se non è idoneo a produrre in modo definitivo gli effetti propri del tipo di atto in questione (tra altre, Cass., sez. un., n. 10817 del 2008 e Cass. nn. 6947 del 1995, 7818 e 16952 del 2006).

B) Notificazione del ricorso per cassazione effettuata presso il procuratore della controparte costituito in primo grado e revoca del mandato a tale difensore con nomina di uno diverso per il grado di appello: B1) anche in questo caso, ed analogamente, secondo un primo indirizzo la notificazione è affetta da giuridica inesistenza e non da mera nullità (con esclusione, pertanto, di ogni possibilità di sanatoria o rinnovazione), dal momento che, una volta intervenuta la sostituzione del difensore revocato, si interrompe ogni rapporto tra la parte ed il procuratore cessato e questi non è più gravato da alcun obbligo, non operando, in tale ipotesi, la proroga disposta dall’art. 85 cod. proc. civ. per il solo caso della semplice revoca del mandato, non accompagnata dalla nomina di un nuovo difensore (tra altre, Cass., sez. un., n. 3947 del 1987 e Cass. nn. 9147 del 2007, 3338 del 2009, 13477 del 2012); b2) altro orientamento ritiene, invece, che una tale notifica, essendo eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario, è affetta da nullità e non da giuridica inesistenza, con l’effetto che la rituale presentazione del controricorso contenente la difesa nel merito, dimostrando ex post che la notificazione ha raggiunto lo scopo cui era preordinata, impedisce di ritenerla inesistente poiché non riferibile al luogo ed alla parte destinataria, con conseguente ammissibilità del ricorso (ex aliis, Cass. n. 22293 del 2004, 13667 del 2007 e 13451 del 2013).

2.2. Anche se nella fattispecie l’ipotesi ricorrente, come detto sopra, e’ quella indicata nel paragrafo precedente sul) B), ritengono le sezioni unite che le questioni sollevate necessitano di un esame e di una soluzione unitari, poiché investono, in radice, un unico problema di fondo – di notevolissimo rilievo teorico e pratico (in quanto ha dato luogo da decenni, e continua a dar luogo, a persistenti oscillazioni giurisprudenziali) -, che consiste nell’individuare un criterio distintivo il più possibile chiaro, univoco e sicuro tra le tradizionali nozioni di inesistenza e di nullità della notificazione (specificamente, del ricorso per cassazione) e che, in definitiva, tocca la stessa validità concettuale (e concreta utilità) della distinzione tra le due nozioni, cioè, in sostanza, la configurabilità della inesistenza come “vizio” dell’atto, autonomo e più grave della nullità, con le conseguenze che ne derivano.

2.3. L’unica norma del codice di procedura civile che si occupa dell’invalidità della notificazione è l’art. 160, il quale, sotto la rubrica “Nullità della notificazione”, dispone che “La notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l’applicazione degli artt. 156 e 157”.

Ai fini che qui interessano assume centrale rilievo l’art. 156 (“Rilevanza della nullità”), il quale prevede che: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge” (comma 1); “Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo” (comma 2); “La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” (comma 3).

Una prima osservazione può essere già formulata: in tema di notificazione, come in generale di atti processuali, il codice non contempla la categoria della “inesistenza”, nemmeno con riguardo alla sentenza priva della sottoscrizione del giudice, qualificata come affetta da nullità per la quale è tuttavia esclusa, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 2, l’applicazione del principio dell’assorbimento nei mezzi di gravame -sul tema cfr. ora Cass., sez. un., n. 11021 del 2014 -; nullità, quindi, assolutamente insanabile (in relazione alla quale viene evocata, da una gran parte della dottrina e della giurisprudenza, la figura della inesistenza).

Tale constatazione, tuttavia, per un verso non e’ appagante: il legislatore non ha motivo di disciplinare gli effetti di ciò che non esiste, non solo, com’è ovvio, dal punto di vista storico-naturalistico, ma anche sotto il profilo giuridico; per altro verso, induce a ritenere che la nozione di inesistenza della notificazione debba essere definita in termini assolutamente rigorosi, cioè confinata ad ipotesi talmente radicali che il legislatore ha, appunto, ritenuto di non prendere nemmeno in considerazione (già da tempo la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di assegnare carattere residuale alla categoria dell’inesistenza della notificazione: Cass., sez. un., n. 22641 del 2007 e n. 10817 del 2008; Cass. n. 6183 del 2009 e n. 12478 del 2013).

In definitiva, deve affermarsi che l’inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto.

L’inesistenza non è, dunque, in senso stretto, un vizio dell’atto più grave della nullità, poiché la dicotomia nullità/inesistenza va, alla fine, ricondotta alla bipartizione tra l’atto e il non atto.

2.4. Rilievo fondamentale va attribuito in materia al citato art. 156 cod. proc. civ. (richiamato dall’art. 160), nel quale trova diretta espressione unitamente all’art. 121 (“Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”) e 131, comma 1 (secondo il quale, quando la legge non prescrive che il giudice pronunci sentenza, ordinanza o decreto, “i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del loro scopo”) – il principio di strumentalità delle forme degli atti processuali, che permea l’intero codice di procedura civile ed al quale, quindi, l’interprete deve costantemente ispirarsi.

Le forme degli atti, cioè, sono prescritte al fine esclusivo di conseguire un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto e’ destinato ad assolvere nell’ambito del processo, e così, in definitiva, con lo scopo ultimo del processo, consistente nella pronuncia sul merito della situazione giuridica controversa: che il principio del “giusto processo”, di cui all’art. 111 Cost. ed all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, comprenda, tra i valori che intende tutelare (oltre alla durata ragionevole del processo, all’imparzialità del giudice, alla tutela del contraddittorio, ecc.), il diritto di ogni persona ad un “giudice” che emetta una decisione sul merito della domanda ed imponga, pertanto, all’interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire tale finalità, costituisce affermazione acquisita nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., sez. un., nn. 15144 del 2011, 17931 del 2013, 5700 del 2014, nonché Cass. nn. 3362 del 2009, 14627 del 2010, 17698 del 2014, 1483 del 2015), anche alla luce di quella della Corte EDU, la quale ammette limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., tra altre, Omar c. Francia, 29 luglio 1998; Beller c. Francia, 4 dicembre 1995), ponendo in rilievo la esigenza che tali limitazioni siano stabilite in modo chiaro e prevedibile (v., ad es., Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008).

2.5. In particolare, riveste importanza decisiva il comma 3 art. 156 cit., il quale, dopo che nel comma precedente è previsto che la nullità può essere pronunciata – anche al di là dell’espressa comminatoria di legge “quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”, stabilisce, con formula perentoria e di chiusura, che la nullità “non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.

Da tale norma discendono, per quanto concerne la notificazione, le seguenti conseguenze:

a) occorre che un “atto”, riconoscibile come “notificazione”, esista, nei ristretti termini sopra indicati, e che verranno di seguito precisati;

b) se così è, qualunque vizio dell’atto ricade nell’ambito della nullità, senza che possa distinguersi, al fine di individuare ulteriori ipotesi di inesistenza attraverso la negazione del raggiungimento dello scopo, tra valutazione ex ante e constatazione ex post, poiché il legislatore ha chiaramente inteso dare prevalenza a quest’ultima – in piena attuazione del principio della strumentalità delle forme -, cioè ai dati dell’esperienza concreta, sia pure dovuta ad accadimenti del tutto accidentali, rispetto agli elementi di astratta potenzialità e prevedibilità.

2.6. Scopo della notificazione è quello di provocare la presa di conoscenza di un atto da parte del destinatario, attraverso la certezza legale che esso sia entrato nella sua sfera di conoscibilità, con gli effetti che ne conseguono (in termini – per quanto qui interessa – di instaurazione del contraddittorio).

In presenza di una notificazione nulla, così come opera la sanatoria per raggiungimento dello scopo, attraverso la costituzione in giudizio della parte intimata, correlativamente, in mancanza di tale costituzione, il giudice, ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ., deve dispone la rinnovazione della notificazione (fissando a tal fine un termine perentorio), a meno che la parte stessa non abbia a ciò già spontaneamente provveduto.

Entrambi i rimedi, che sono previsti a fronte del verificarsi del medesimo presupposto della nullità della notificazione – con l’unica peculiarità che l’attivazione spontanea della parte (con la costituzione o la rinnovazione) rende superfluo l’intervento del giudice -, operano con efficacia ex tunc, cioè sanano con effetto retroattivo il vizio della notificazione (quella originaria, nel caso di rinnovazione): ciò è previsto espressamente nel citato art. 291 (“la rinnovazione impedisce ogni decadenza”), si configura come una normale qualità del concetto di sanatoria e costituisce un’ulteriore espressione del principio di strumentalità delle forme.

Va ribadito, per completezza, che il detto effetto sanante ex tunc prodotto dalla costituzione del convenuto – la quale non è mai tardiva, poiché la nullità della notificazione impedisce la decorrenza del termine (per tutte, Cass., sez. un., n. 14539 del 2001) – opera anche nel caso in cui la costituzione sia effettuata al solo fine di eccepire la nullità (tra altre, Cass., sez. un., n. 5785 del 1994; Cass. nn. 10119 del 2006, 13667 del 2007, 6470 del 2011).

2.7. La notificazione è solitamente definita come una sequenza di atti, un procedimento, articolato in fasi e finalizzato allo scopo indicato nel paragrafo precedente.

Gli elementi costitutivi imprescindibili di tale procedimento vanno individuati, quanto al ricorso per cassazione: a) nell’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l’attività stessa, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, in virtu’ dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita: restano, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, sì da dover reputare la notifica meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

La presenza di detti requisiti, che possono definirsi strutturali, va ritenuta idonea ai fini della riconoscibilità dell’atto come notificazione: essi, cioè, sono sufficienti a integrare la fattispecie legale minima della notificazione, rendendo qualificabile l’attività svolta come atto appartenente al tipo previsto dalla legge.

In conclusione, deve essere superata la tesi che include in tale modello legale, facendone derivare, in sua mancanza, la inesistenza della notificazione, il requisito del “collegamento” (o del “riferimento”) tra il luogo della notificazione e il destinatario: si tratta, infatti, di un elemento che si colloca fuori del perimetro strutturale della notificazione e la cui assenza (come nelle fattispecie indicate nell’ordinanza di rimessione) ricade, in base all’insieme delle considerazioni fin qui svolte, nell’ambito della nullità, sanabile con effetto ex tunc attraverso la costituzione dell’intimato o la rinnovazione dell’atto, spontanea o su ordine del giudice.

2.8. Vanno, pertanto, enunciati i seguenti principi di diritto:

– “L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtu’ dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, sì da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa”;

– “Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto. Ne consegue che i vizi relativi alla individuazione di detto luogo, anche qualora esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ.”.

3. Alla luce degli esposti principi, nella fattispecie la notificazione del ricorso principale, eseguita presso il difensore domiciliatario della controparte per il giudizio di primo grado, anziché presso il difensore costituito nel giudizio di appello e presso il quale essa aveva eletto domicilio per tale grado del processo, è affetta da nullità per violazione dell’art. 330 cod. proc. civ., sanata dall’avvenuta costituzione della parte medesima.

4. Il ricorso va, pertanto, dichiarato ammissibile, con rimessione degli atti alla quinta sezione civile per l’ulteriore esame.

P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso principale e rimette gli atti alla quinta sezione civile.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2016


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 05-04-2016) 15-07-2016, n. 14594

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20550/2014 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO GALLEANO, che la rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso (ammesso al G.P. in data 9/9/2014);

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., società con socio unico, in persona dell’Amministratore Delegato pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e difende, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 923/2012 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 20/08/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/04/2016 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

uditi gli avvocati Sergio GALLEANO e Luigi FIORILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. P.S. chiede la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bologna, pubblicata il 20 agosto 2013, emessa nella causa proposta nei confronti di Poste italiane spa.

2. La ricorrente espone di aver convenuto la società dinanzi al Tribunale di Bologna chiedendo che venisse accertata la illegittimità dell’apposizione del termine di tre contratti di lavoro subordinato, stipulati ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, (introdotto dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266):

3. Il Tribunale respinse il suo ricorso e la Corte d’appello di Bologna respinse il suo appello. Contro tale decisione la ricorrente propone un ricorso per cassazione articolato in due motivi.

4. La società si è difesa con controricorso, eccependo, preliminarmente inammissibilità del ricorso per tardività della notifica.

5. La questione di fondo è stata rimessa dalla Sezione lavoro al Primo Presidente, il quale ha disposto che la Corte pronunci a Sezioni unite (le problematiche rimesse alle Sezioni unite sono state decise, in causa analoga, con sentenza 31 maggio 2016, n. 11374).

Motivi della decisione
6. L’eccezione di inammissibilità per tardività della notifica del ricorso è fondata.

7. La sentenza della Corte d’appello di Bologna, oggetto dell’impugnazione, fu pubblicata il 20 agosto 2013. Quasi un anno dopo, il 12 agosto 2014, la ricorrente richiese la notifica del ricorso per cassazione presso gli avvocati Luigi Fiorillo e Varoutsickou Cristina, via Panzacchi 19 Bologna (indirizzo dello studio dell’avv. Cristina Varoutsickou, indicata come domiciliataria nella sentenza impugnata).

8. Il difensore della ricorrente per cassazione depositò nella cancelleria della Corte di cassazione un atto datato 15 ottobre 2014, definito “Istanza di concessione termine per notifica”, con il quale espose che la notifica del ricorso richiesta il 12 agosto 2014 con riferimento al domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Cristina Varoutsickou, sito in Bologna, viale Panzacchi n. 19, non era andata a buon fine, in quanto, come si evinceva dalla ricevuta di ritorno, l’avvocato domiciliatario risultava trasferito presso una nuova sede in via della Zecca, 1, Bologna.

Chiese, pertanto, l’assegnazione di un termine per provvedere alla notifica del ricorso al procuratore costituito nel nuovo domicilio eletto.

9. Con provvedimento del 22 ottobre 2014 il coordinatore della Sesta sezione-lavoro, esaminata la richiesta, invitò l’istante a procedere a nuova notifica, precisando che sarebbe stato poi il collegio giudicante a valutare l’idoneità delle giustificazioni e l’ammissibilità del ricorso.

10.11 procuratore della ricorrente richiese in data 12 novembre 2014 una nuova notifica all’avv. Cristina Varoutsickou, in via della Zecca n. 1, Bologna, che è stata effettuata mediante spedizione a mezzo del servizio postale il 13 novembre 2014 (l’atto è stato ricevuto dalla controparte il 19 novembre 2014).

11. Nella sua memoria la società intimata, a sostegno della eccezione di tardività, ha precisato che il trasferimento dell’avvocato domiciliatario era avvenuto sin dal 1 ottobre 2012.

12. Si pongono due problemi, in successione logica tra loro.

13. Il primo è quello della imputabilità dell’errore sul domicilio.

Le Sezioni unite, distinguono a tal fine due ipotesi, a seconda che il procuratore eserciti o meno la sua attività professionale, nel circondario del Tribunale in cui si svolge la controversia.

14. “Nel caso di difensore che svolga le sue funzioni nello stesso circondario del Tribunale a cui egli sia professionalmente assegnato, è onere della parte interessata ad eseguire la notifica accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio professionale del difensore, con la conseguenza che non può ritenersi giustificata l’indicazione nella richiesta di notificazione di un indirizzo diverso, ancorchè eventualmente corrispondente a indicazione fornita dal medesimo difensore nel giudizio non seguita da comunicazione nell’ambito del giudizio del successivo mutamento” (sez. un., 24 luglio 2009, n. 17352, richiamando sez. un., 18 febbraio 2009, n. 3818).

15. Le medesime sentenze delle Sezioni unite indicano una soluzione diversa per il caso (come quello in esame) in cui il difensore svolga le sue funzioni in un altro circondario ed abbia proceduto all’elezione di domicilio ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82. Tali pronunce ricostruiscono il sistema nel senso che solo in caso di svolgimento di attività al di fuori della circoscrizione di assegnazione si delinea un obbligo di comunicare i mutamenti di domicilio, che invece non sussiste quando il procuratore operi nel suo circondario (così, in particolare, sez. un., 3818/2009, cit., cui si rinvia per una più completa ricostruzione della normativa del 1934 e della ratio dell’art. 82).

16. In questo tipo di situazione “la notifica dell’impugnazione al procuratore che, esercente fuori della circoscrizione, abbia eletto domicilio ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, presso un altro procuratore, assegnato alla circoscrizione dell’ufficio giudiziario adito, va effettuata nel luogo indicato come domicilio eletto in forza degli artt. 330 e 141 c.p.c., senza che al notificante sia fatto onere di riscontrare previamente la correttezza di quell’indirizzo presso il locale albo professionale, perchè è onere della parte che ha eletto domicilio comunicare alla controparte gli eventuali mutamenti”.

17. In tal senso si esprimono le sentenze delle sezioni unite prima richiamate, nonchè la successiva giurisprudenza delle sezioni semplici, compresa quella della sesta sezione civile (cfr., da ultima, Cass., 6-3, ord., 18 novembre 2014, n. 24539).

18. Quindi, nel caso in esame, la ricorrente non aveva l’onere di controllare che l’indirizzo dello studio del procuratore domiciliatario della società intimata fosse mutato rispetto a quello dichiarato nel corso del giudizio e riportato nell’intestazione della sentenza impugnata e non ha errato nel richiedere la notificazione presso lo studio del procuratore domiciliatario indicato in sentenza.

19. L’esclusione dell’imputabilità di un errore a carico della ricorrente permette di passare all’esame di un secondo problema, consistente nello stabilire quale comportamento deve tenere la parte dopo aver preso atto del fatto che, a causa del trasferimento dello studio, la notifica richiesta non è andata a buon fine.

20. La giurisprudenza delle Sezioni unite è giunta sul punto ad una posizione precisa, costantemente seguita dalla successive decisioni delle sezioni semplici.

21. Cass., sez. un., 24 luglio 2009, n. 17352, ha fissato il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui la notificazione di un atto processuale da compiere entro un termine perentorio non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere di richiedere la ripresa del procedimento notificatorio, e la conseguente notificazione, ai fini del rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data della iniziale attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie”.

Quindi, se la mancata notifica non è imputabile alla parte che l’ha richiesta, il processo notificatorio continua a ritenersi iniziato nel momento in cui è stata richiesta la notifica. Questa continuità, però, sussiste solo in presenza di alcune condizioni.

22. La prima riguarda l’iniziativa. E’ la parte istante che, preso atto della non riuscita della notifica a causa della modifica del domicilio, deve attivarsi per individuare il nuovo domicilio e completare il processo notificatorio. E deve fare ciò in piena autonomia.

23. Nell’ampia motivazione della sentenza 17352/2009 le Sezioni unite hanno spiegato, correggendo una precedente decisione, che la ripresa del processo notificatorio è rimessa alla parte istante e che deve escludersi la possibilità di chiedere una preventiva autorizzazione del giudice, vuoi perchè questa sub-procedura allungherebbe ulteriormente i tempi processuali, vuoi perchè non sarebbe “neanche utile al fine di avere una previa valutazione certa circa la sussistenza delle condizioni per la ripresa del procedimento di notificazione, in quanto si tratterebbe solo di una valutazione preliminare effettuata non in sede decisoria e per di più in assenza del contraddittorio con la controparte interessata” (sez. un., 17352/2009, cit.; il principio è stato ribadito dalle sezioni semplici: Cass., 11 settembre 2013, n. 20830 e Cass., 25 settembre 2015, n. 19060).

24. L’attività della parte interessata a completare la notificazione deve essere attivata con “immediatezza” appena appresa la notizia dell’esito negativo della notificazione e deve svolgersi con “tempestività” (ancora, sez.. un., 17352/2009, cit.).

25. La giurisprudenza delle sezioni semplici successiva ha applicato costantemente questi principi.

26. Cass., 25 settembre 2015, n. 19060 ha precisato che l’onere di indicare e provare il momento in cui ha appreso dell’esito negativo della notifica grava sull’istante (in tale sentenza la Corte, applicando questo principio, ha ritenuto tardivo un ricorso per il fatto che la parte non aveva fornito una prova adeguata della sua affermazione, in quanto non aveva prodotto la cartolina di ritorno della prima notifica, a mezzo posta, non andata a buon fine).

27. Cass., 30 settembre 2011, n. 19986, ha precisato che l’istante deve provvedere con “sollecita diligenza” ed ha escluso la tardività della notifica del ricorso per cassazione perchè la rinnovazione della notificazione nel caso al suo esame era stata effettuata dopo sette giorni dalla prima tentata notifica e a distanza di quattro giorni dallo scadere del termine.

28. La sesta sezione, che sovraintende alla nomofilachia dell’inammissibilità, applicando i criteri dell’immediatezza dell’iniziativa e della sollecita diligenza nello svolgimento delle conseguenti attività, ha escluso la tardività una nuova notificazione di un ricorso per cassazione richiesta il 22 luglio 2013 a seguito della comunicazione di avvenuto trasferimento dello studio in sede di relazione negativa di una prima notifica richiesta il 16 luglio 2013 (Cass., 6-3, ord. 19 novembre 2014, n. 24641).

29. Più in generale, può affermarsi che, fermo l’onere dell’istante di provare il rispetto dei su indicati criteri, dal sistema sia anche desumibile un limite massimo del tempo necessario per riprendere e completare il processo notificatorio relativo alle impugnazioni, una volta avuta notizia dell’esito negativo della prima richiesta. Tale termine può essere fissato in misura pari alla metà del tempo indicato per ciascun tipo di atto di impugnazione dall’art. 325 c.p.c..

30. Se questi termini sono ritenuti congrui dal legislatore per svolgere un ben più complesso e impegnativo insieme di attività necessario per concepire, redigere e notificare un atto di impugnazione a decorrere dal momento in cui si è stato pubblicato il provvedimento da impugnare, può ragionevolmente desumersi che lo spazio temporale relativo alla soluzione dei soli problemi derivanti da difficoltà nella notifica, non possa andare oltre la metà degli stessi, salvo una rigorosa prova in senso contrario (ad esempio, relativa a difficoltà del tutto particolari nel reperire l’indirizzo del nuovo studio).

31. Principio di diritto: “La parte che ha richiesto la notifica, nell’ipotesi in cui non sia andata a buon fine per ragioni e lei non imputabili, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve attivarsi con immediatezza per riprendere il processo notificatorio e deve svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento. Questi requisiti di immediatezza e tempestività non possono ritenersi sussistenti qualora sia stato superato il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data rigorosa prova”:

32. Nel caso in esame, i requisiti mancano con tutta evidenza, perchè la notifica fu richiesta il 12 agosto 2014, a fronte di un termine che scadeva il 20 agosto 2014; il plico fu restituito al mittente per mancata notifica nel medesimo mese di agosto 2014; il rinnovo della notifica, poi andato a buon fine, è stato richiesto il 12 novembre 2014. Il ricorso di conseguenza è inammissibile per tardività della notifica.

33. L’inammissibilità comporta la condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. Non è invece dovuto il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, poichè la ricorrente ha documentato di essere stato ammessa al patrocinio a spese dello Stato (cfr., ampie, Cass., 2 settembre 2014, n. 18523).

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in 3.000,00 Euro per compensi professionali, 200,00 Euro per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori. Non sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2016


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 13-04-2016) 05-07-2016, n. 13676

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1321/2015 proposto da:

M.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GALLONIO 18, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO FREDIANI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO DORE, GIOVANNI DORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

LIQUIGAS S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio (TOFFOLETTO – DE LUCA TAMAJO RAFFAELE), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FEDERICA PATERNO’, FRANCO TOFFOLETTO, PAOLA PUCCI, ALDO BOTTINI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 418/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 14/11/2014 R.G.N. 226/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato DORE CARLO;

udito l’Avvocato PATERNO’ FEDERICA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza 14 novembre 2014, la Corte d’appello di Cagliari rigettava il reclamo proposto da M.M. avverso la sentenza di primo grado, che, in accoglimento dell’opposizione ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, della società datrice Liquigas s.p.a., aveva respinto l’impugnazione del primo, lavoratore dipendente della seconda, del licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera del 28 dicembre 2012 e le conseguenti domande di condanna reintegratoria e risarcitoria, invece annullato dallo stesso tribunale con ordinanza ai sensi dell’art. 1, comma 49, L. cit., con ordine di reintegrazione a norma della novellata L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, e condanna della società datrice al pagamento, in favore del lavoratore, delle retribuzioni maturate dal licenziamento, per la qualificazione dell’addebito, pur ritenuto provato, ai sensi dell’art. 51, lett. L) CCNL industria chimica, con previsione di sanzione conservativa. A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva l’obiettiva gravità del fatto compiuto dal lavoratore (sollevamento da solo di tre bombole di gas del peso di 30 kg ciascuna e caricamento sulla propria autovettura e di una quarta del peso di 40 kg con l’aiuto di un collega il giorno 5 dicembre 2012, quando era ancora assente dal lavoro, per il periodo dal 29 ottobre al 10 dicembre 2012 a causa di discopatie e di lombalgia da cui affetto e che avevano richiesto due interventi chirurgici il 1 febbraio 2011 e il 6 marzo 2012), attentamente valutato alla luce delle scrutinate risultanze istruttorie e collocato nel contesto del risalente conflitto con la società datrice, per la sua richiesta dall’anno 2010, insoddisfatta, di adibizione non più a mansioni operaie (comportanti la movimentazione di bombole di GPL con l’ausilio di idonei macchinari per evitarne il sollevamento) ma impiegatizie, con recente prospettazione dal suo difensore di fiducia di azione legale in tale senso: con apprezzamento pertanto di gravità del fatto tale da non poter essere ascritto ad una mancanza lieve quale quelle elencate nell’art. 51 CCNL industria chimica (per tale da intendere anche la previsione di chiusura della lettera L, relative a “mancanze recanti pregiudizio alla persona, alla disciplina, alla morale o all’igiene”: al di là della forzata riconducibilità al pregiudizio che il lavoratore possa arrecare a se medesimo), sanzionate con la sospensione, ma idoneo ad integrare giusta causa di licenziamento, neppure questo qualificabile come ritorsivo, in difetto dei suoi presupposti.

Con atto notificato il 7 gennaio 2015, M.M. ricorre per cassazione con quattro motivi, cui resiste Liquigas s.p.a. con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, e art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per omesso esame del fatto decisivo del carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento, risultante dagli elementi gravemente indiziari prospettati.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, e carenza di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per l’acquisizione della prova del fatto contestato da risultanze processuali (dichiarazioni di M.M. nel libero interrogatorio e testimoniali del suocero T. S.) inutilizzabili, perchè condizionate dall’illegittima utilizzazione di immagini registrate da telecamere collocate all’ingresso dello stabilimento datoriale, in violazione del divieto di controlli a distanza.

Con il terzo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 51, lett. L, art. 52 CCNL industria chimica, art. 420 bis c.p.c., e carenza di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per erronea interpretazione della prima norma contrattuale collettiva, sbrigativamente esaminata dalla Corte territoriale ed omessa pronuncia del Tribunale sulla sola questione interpretativa del contratto collettivo nazionale.

Con il quarto, il ricorrente deduce violazione dell’art. 2119 c.c., e carenza di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per omesso esame dei requisiti oggettivi, soggettivi (in riferimento all’elemento intenzionale) e di proporzionalità della giusta causa di licenziamento, nel caso di specie inesistenti, anche considerato l’andamento complessivo del quindicennale rapporto di lavoro tra le parti.

Il primo motivo, relativo a violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, e art. 112 c.p.c., per omesso esame del fatto decisivo del carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento, è inammissibile.

Con esso il ricorrente non deduce la violazione di norme di diritto in senso proprio, per la mancanza dei requisiti peculiari, di sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756), neppure mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina: così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Sicchè esso si risolve in una censura di omessa valutazione di elementi di fatto (indicati a pgg. 9 e 10 del ricorso), inconfigurabile alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, che esige l’esclusiva deducibilità dell’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Parimenti inammissibile è la denuncia di violazione di omessa pronuncia alla stregua di vizio di motivazione anzichè di error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. 4 giugno 2007, n. 12952; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4201). Ed essa è anche infondata per avere la Corte territoriale (lungi dal “non” averne “nemmeno parlato”: così al primo capoverso di pg. 11 del ricorso) motivatamente escluso il carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento intimato (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 9 al settimo alinea di pg. 10 della sentenza).

Il secondo motivo, relativo a violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, e carenza di motivazione, per acquisizione della prova del fatto contestato da risultanze processuali inutilizzabili, perchè condizionate dall’illegittima utilizzazione di immagini registrate da telecamere collocate all’ingresso dello stabilimento datoriale, in violazione del divieto di controlli a distanza, è inammissibile sotto plurimi profili.

Innanzi tutto, esso mescola e sovrappone mezzi d’impugnazione eterogenei, che fanno riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende al contrario rimettere in discussione (Cass. 23 settembre 2011, n. 19443; Cass. 31 gennaio 2013, n. 2299; Cass. 20 settembre 2013, n. 21611).

Anch’esso non attinge poi i requisiti propri della violazione di legge denunciata, che pertanto non si configura, per le ragioni dette (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Inoltre, essa neppure è correttamente individuata ed invocata in una fattispecie estranea alla previsione normativa di divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori: non di una tale violazione trattandosi nel caso di specie, ma di asserita illegittima utilizzazione di documenti irritualmente acquisiti (senza neppure deduzione della norma processuale violata).

E la doglianza è anche infondata, non avendo la Corte territoriale (e neppure il Tribunale) basato la decisione sui documenti contestati (le videoregistrazioni effettuate con gli impianti di sorveglianza dello stabilimento datoriale), ma su un diverso ed autonomo materiale probatorio (in particolare, le dichiarazioni testimoniali del suocero del ricorrente T.S.) puntualmente illustrato (a pgg. 6 e 7 della sentenza).

Il vizio di motivazione denunciato è anche qui inammissibile, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (14 novembre 2014) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (12 agosto 2012), secondo la previsione dell’art. 54, comma 3, del decreto legge citato.

Esso ha, infatti, introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori. Sicchè, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). Il terzo motivo, relativo a violazione dell’art. 51, lett. L, art. 52 CCNL industria chimica, art. 420 bis c.p.c., e carenza di motivazione, per erronea interpretazione della prima norma contrattuale collettiva ed omessa pronuncia del Tribunale sulla questione interpretativa del CCNL, è inammissibile.

Anche qui è ravvisabile, quale ragione di inammissibilità, la confusa combinazione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5., per la già illustrata non consentita prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23 settembre 2011, n. 19443; Cass. 31 gennaio 2013, n. 2299).

Ma il mezzo viola pure i principi di autosufficienza del ricorso, per la mancata trascrizione della disposizione contrattuale collettiva denunciata (Cass. 26 luglio 2011, n. 16289; Cass. s.u. 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 2 aprile 2002, n. 4678) e di specificità del mezzo, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, per l’indicazione, assolutamente vaga, delle altre clausole contrattuali” alla luce delle quali essa debba essere interpretata (così a pg. 18 del ricorso).

Deve, infine, essere ribadita l’inammissibilità del vizio di motivazione denunciato, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, esclusivamente relativo ad omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per le ragioni sopra esposte (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Il quarto motivo, relativo a violazione dell’art. 2119 c.c., e carenza di motivazione, per inesistenza dei requisiti oggettivi, soggettivi e di proporzionalità della giusta causa di licenziamento, anche considerato il quindicennale rapporto di lavoro tra le parti, è infondato.

E’ noto, in tema di licenziamento per giusta causa, che il lavoratore debba astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, dovendosi integrare l’art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l’osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2550).

E d’altro canto, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144).

Inoltre, la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia della gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonchè dall’intensità dell’elemento intenzionale), sia della proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

Ebbene, nella valutazione che le pertiene, in ordine alla verifica della concretizzazione operata dall’interprete della giusta causa di licenziamento quale clausola generale, tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144), reputa questa Corte che la Corte d’appello sarda abbia fatto corretta applicazione dei suenunciati principi di diritto. E che essa abbia pure accertato la ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo, sotto il profilo del giudizio di fatto demandatole, incensurabile in cassazione se, come nel caso in esame, privo di errori logici e giuridici (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498;

Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144): e ciò anche in specifico riferimento al requisito di proporzionalità, che esige valutazione non astratta dell’addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

A ciò la Corte territoriale ha correttamente ed esaurientemente provveduto, accertando, in esito ad un argomentato e coerente percorso motivo esente da vizi logici nè giuridici (per le ragioni esposte a pgg. da 7 a 9 della sentenza), come il comportamento del lavoratore non abbia integrato una violazione del dovere di fedeltà, nè sia riconducibile ad alcuna delle ipotesi elencate nell’art. 51 CCNL industria chimica sanzionate con la sospensione, dovendo piuttosto essere ascritto, tenuto conto del ricostruito contesto del rapporto lavorativo in un clima da anni conflittuale, ad un quadro di “slealtà, che induce a dubitare seriamente della correttezza dei suoi rapporti futuri con l’azienda, e che giustifica pertanto il recesso della Liquigas s.p.a.” (così al primo capoverso di pg. 9 della sentenza). Dove il lessico dubitativo ha un chiaro tenore retorico, non nutrendo la Corte territoriale incertezza alcuna, sulla base della ricostruzione della vicenda operata (e, per le ragioni dette, insindacabile nell’odierna sede di legittimità), in ordine alla rottura definitiva del rapporto fiduciario tra le parti, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto lavorativo.

Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio, secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna M.M. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2016


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-05-2016) 09-06-2016, n. 11868

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3072/2015 proposto da:

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.R.;

– intimato –

nonchè da:

C.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA ADA 57 presso lo studio dell’avvocato PAOLO GAMBERALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO SILVESTRI, giusta delega in atti e memoria di costituzione difensore aggiunto del 08/03/2016;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 10573/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/12/2014 R.G.N. 3195/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/05/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato FIGLIOLA ETTORE (AVVOCATURA GENERALE);

udito l’Avvocato GAMBERALE PAOLO in proprio e per delega dell’Avvocato SILVESTRI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto i reclami riuniti, proposti L. 28 giugno 2012, n. 92, ex art. 1, comma 58, dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da C.R. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, per effetto del licenziamento intimato con provvedimento del 2.9.2012, e, ritenuta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, aveva applicato il comma 6 dell’art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge sopra richiamata, condannando il Ministero a corrispondere al C. l’indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella misura minima di sei mensilità.

2 – La Corte territoriale ha premesso che il procedimento disciplinare era stato avviato con contestazione del 2 marzo 2004, con la quale era stato addebitato al dipendente, per quel che qui interessa, di avere effettuato “operazioni per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma mentre era in missione per esigenze del CSRPAD (Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località ovviamente diverse”. Il procedimento era stato contestualmente sospeso perchè i fatti emersi a seguito di visita ispettiva, di rilievo penale, erano stati segnalati dal Ministero all’autorità giudiziaria.

A seguito del passaggio in giudicato della sentenza del 24 maggio 2012, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati all’imputato, il procedimento disciplinare era stato riavviato mediante richiamo alla originaria contestazione e, all’esito della audizione dell’incolpato, era stato disposto il licenziamento per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva incompatibilità assoluta fra le missioni, non giustificabile se non ipotizzando gravi falsità compiute nel corso dell’uno o dell’altro incarico, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

3 – La Corte ha ritenuto infondato il reclamo proposto dal Ministero perchè, come evidenziato dal Tribunale all’esito del giudizio di opposizione, la amministrazione aveva violato il principio della necessaria immutabilità della contestazione, in quanto il licenziamento era stato disposto in relazione ad episodi specifici non richiamati nella lettera di avvio del procedimento disciplinare, che, oltre ad essere assolutamente generica, non faceva alcuna menzione della impossibilità di svolgere entrambe le attività dichiarate e della conseguente ritenuta falsità di almeno uno degli atti formati nello stesso giorno.

4 – La Corte territoriale ha poi escluso anche la fondatezza del reclamo proposto dal C., poichè tutti gli atti formati in occasione delle missioni e le relative richieste di rimborso erano stati firmati dal reclamante, il quale provvedeva da solo ad organizzare la propria attività lavorativa, ivi comprese le trasferte. Ha osservato, inoltre, la Corte che la distanza, superiore a 500 Km, fra le due località escludeva che il C. avesse potuto svolgere le attività nella stessa giornata, tanto più che, non avendo il dipendente documentato l’uso del mezzo aereo per gli spostamenti, questi ultimi avrebbero richiesto via terra un arco temporale di 4 – 5 ore. Infine ha richiamato l’accertamento compiuto dai giudici contabili per evidenziare che gli orari delle missioni dichiarate erano comunque incompatibili, sicchè, evidentemente, il C. aveva compilato richieste di rimborso non veritiere.

5 – La Corte di appello ha, inoltre, escluso che la condotta fosse solo colpevole ed ha anche ritenuto che il fatto non fosse riconducibile all’art. 13, comma 4 del CCNL 2006/2009, poichè nella specie non era configurabile una “manomissione” dei fogli di presenza, bensì una falsità nelle dichiarazioni, di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva adottata.

6 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sulla base di due motivi.

C.R. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, affidato a due motivi, per censurare i capi della decisione relativi alla affermata sussistenza dei fatti ed alla sussumibilità degli stessi all’ipotesi prevista dall’art. 13, comma 6, del CCNL di comparto. Il Ministero ha resistito con controricorso alla impugnazione incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1 – Il ricorso principale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto lavoratori, L. n. 300 del 1970; CCNL 2002/2003 del 12.5.2003 comparto ministeri; art. 115 c.p.c.” in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Il ricorrente, trascritti nel loro contenuto essenziale gli atti del procedimento disciplinare, rileva che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, sussiste assoluta corrispondenza tra la contestazione degli addebiti e le motivazioni espresse nel provvedimento disciplinare, poichè in sede di riattivazione del procedimento l’amministrazione aveva espressamente richiamato la sentenza del Tribunale Ordinario di Roma e, quindi, il capo di imputazione che conteneva la analitica indicazione di tutte le condotte ritenute di rilievo penale e nel relativo elenco erano inclusi gli episodi in relazione ai quali la misura espulsiva era stata adottata. Aggiunge che nel corso della audizione svoltasi il 28 giugno 2012 il dipendente, assistito dal legale di fiducia, si era difeso proprie sulle plurime sovrapposizioni di missioni, dimostrando di avere piena consapevolezza degli addebiti. La Corte territoriale, quindi, aveva errato nel comparare tra loro solo la contestazione iniziale e l’atto conclusivo del procedimento, senza valutare la nota di riattivazione con la quale l’atto iniziale era stato specificato.

1.1 – Il secondo motivo denuncia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 7 dello Statuto e della normativa contrattuale sul rilievo che il principio della necessaria corrispondenza fra fatto contestato e sanzione non rende illegittimo il licenziamento ogniqualvolta il datore di lavoro provveda solo alla specificazione di aspetti fattuali della condotta contestata, che non risulti modificata quanto alla materialità ed alla gravità. Precisa al riguardo il Ministero che la incompatibilità fra le missioni era già stata evidenziata nella contestazione originaria, nella quale era stato, inoltre, richiamato il verbale ispettivo i cui esiti erano stati posti nella piena conoscenza del C..

2 – Il ricorso incidentale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Rileva, in sintesi, il ricorrente che la attività svolta in data 18 gennaio 2002 presso la ditta Italbus di (OMISSIS) nonchè presso l’Autoscuola di (OMISSIS) risultava attestata da atti formati dallo stesso C. nella sua qualità di pubblico ufficiale, atti rispetto ai quali non era mai stata proposta dalla amministrazione querela di falso. La Corte territoriale, pertanto, non poteva ricorrere al ragionamento presuntivo in presenza di una prova legale ex art. 2700 c.c., tra l’altro riscontrata anche dalle deposizioni testimoniali assunte durante la fase sommaria. Quanto, poi, alle ulteriori missioni il giudice di appello non aveva in alcun modo considerato che le stesse si erano protratte per più giorni, sicchè ben avrebbe potuto il dipendente ultimare l’attività di collaudo nel corso della mattinata per poi svolgere in altra sede l’attività di esaminatore nel pomeriggio. Infine evidenzia che i fatti posti dalla Corte di Appello alla base della prova presuntiva non presentano i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.

2.1 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 4 CCNL personale comparto ministeri 2006/2009, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Assume il ricorrente incidentale che la condotta andava eventualmente sussunta nell’ipotesi prevista dalla lettera g) dell’art. 13, comma 4, del CCNL di comparto, in quanto la condotta addebitata, ove ritenuta provata, avrebbe integrato una manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi, in relazione alla quale il contratto prevedeva una sanzione conservativa.

3 – Ragioni di priorità logica impongono di esaminare innanzitutto il ricorso incidentale con il quale il C., sul presupposto della insussistenza del fatto e, comunque, della non riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, ha chiesto alla Corte, in via principale, di pronunciare ex art. 384 c.p.c., comma 2, e di riconoscere le tutele previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92. L’impugnazione incidentale, quindi, muove dalla ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, applicabilità affermata anche dai giudici di merito che, sia pure senza motivare sul punto, hanno fatto discendere dalla ritenuta violazione delle regole procedimentali le conseguenze previste dal comma 6 della norma modificata.

Ritiene, al contrario, il Collegio che la normativa invocata dal C. non sia applicabile alla fattispecie.

3.1 – Occorre premettere, che in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè sulla base del principio generale desumibile dall’art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata o infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente prospettata dalle parti e della quale si è discusso nei gradi di merito, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti esposti nel ricorso per cassazione, principale o incidentale, e nella stessa sentenza impugnata e fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto (in tal senso Cass. 14.2.2014 n. 3437; Cass. 17.4.2007 n. 9143; Cass. 29.9.2005 n. 19132).

E’ stato anche affermato da questa Corte che la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma, che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di impugnazione, nondimeno la censura motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perchè impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. 4.2.2016 n. 2217).

Nel caso di specie la tutela reintegratoria invocata con il ricorso incidentale è quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, sicchè, per i principi di diritto sopra richiamati, la Corte deve innanzitutto procedere alla esatta qualificazione giuridica dei fatti e, quindi, alla individuazione della normativa applicabile alla fattispecie.

3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro la L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8 nonchè la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poichè, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto all’art. 18 comma 1 e 2 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.

Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacchè plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, alla D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.

La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.

Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perchè sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.

Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.

3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dall’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:

a) la definizione delle finalità della L. n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;

c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento alla sola L. n. 300 del 1970, art. 7 e non agli artt. 55 e 55 bis del D.Lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate “ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e artt. 1419 c.c. e segg.”;

d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poichè, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351).

Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41 Cost., commi 1 e 2, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.

3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 51, comma 2, “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.

Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.

Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.

Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.

In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

3.5 – Resta fuori dal tema dibattuto, e che in questa sede viene rimeditato espressamente, l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando nè nelle previsioni della L. n. 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) nè nel corpo normativo di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1, comma 47 della legge del 2012.

3.5 – L’avere il ricorrente incidentale invocato una normativa sostanziale non applicabile al rapporto non esime, peraltro, la Corte dall’esame delle censure mosse alla sentenza impugnata, poichè il principio iura novit curia impone al giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè il petitum e la causa petendi della domanda proposta restino immutati.

Nel caso di specie il ricorrente incidentale ha invocato la tutela reintegratoria sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati e, comunque, della giusta causa, sicchè la domanda formulata risulta compatibile con la disciplina effettivamente applicabile al rapporto.

4 – Il primo motivo del ricorso incidentale è, però, infondato, poichè non si ravvisa la denunciata violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..

La Corte territoriale, per giungere a ritenere provate la inconciliabilità delle attività attestate dal C. come avvenute nella medesima giornata e la conseguente falsità degli atti formati dal ricorrente incidentale, ha valorizzato una pluralità di elementi, tutti indicati nella articolata motivazione, ed in particolare ha considerato:

a) la distanza, superiore a 500 km, esistente fra le due località, nelle quali il C. avrebbe svolto rispettivamente i collaudi richiesti dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi e gli esami di guida effettuati per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma;

b) il mancato utilizzo del mezzo aereo per gli spostamenti;

c) la natura delle attività svolte nella medesima giornata ed il tempo richiesto da ognuna di esse;

d) gli orari dichiarati nelle richieste di rimborso, non compatibili con lo spostamento in altra località e con le attività ivi apparentemente svolte;

e) la circostanza che fosse lo stesso ricorrente incidentale ad organizzare in assoluta autonomia la propria attività, ivi comprese le trasferte.

4.1 – Questa Corte ha da tempo affermato che “le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione” (Cass. 11.5.2007 n. 10847 e negli stessi termini Cass. 27.10.2010 n. 21961 e Cass. 6.6.2012 n. 9108).

E’ stato anche evidenziato che nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. Il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto va, quindi, accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. 31.10.2010 n. 22656; Cass. 5.2.2014 n. 2632; Cass. 27.4.2016 n. 8324).

Il giudice del merito è solo tenuto ad esplicitare il criterio logico posto alla base della selezione degli indizi e le ragioni del suo convincimento, che deve risultare all’esito di una duplice valutazione: la prima, di tipo analitico, volta a selezionare gli elementi che presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; l’altra, di tipo sintetico, tendente ad una valutazione complessiva di tutte le emergenze in precedenza isolate, per accertare se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva. Detto giudizio di sintesi non è censurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass. 28.10.2014 n. 22801).

Ai principi di diritto sopra richiamati si è attenuta la Corte territoriale che, nel respingere il motivo di reclamo formulato dal C., ha correttamente escluso che le presunzioni costituiscano un mezzo di prova relegato dall’ordinamento in un grado subordinato rispetto agli altri mezzi; ha indicato tutti gli elementi acquisiti al processo che, valutati complessivamente, concorrevano a far ritenere dimostrato il fatto ignoto, ossia la falsità delle attestazioni e delle richieste di rimborso formate dal reclamante; ha escluso che il ragionamento presuntivo potesse essere impedito dalla natura degli atti sottoscritti dal C., evidenziando al riguardo che l’essenza della contestazione andava individuata proprio nell’avere formato atti non rispondenti al vero, sicchè l’appellante non poteva giovarsi della sua qualità di funzionario pubblico.

4.2 – Anche la ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 2700 c.c., invocato dal ricorrente incidentale, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale, giudicando in fattispecie analoga, ha escluso che sia necessaria la querela di falso, quando oggetto del giudizio sia la responsabilità disciplinare del pubblico ufficiale autore dell’atto contenente una falsità ideologica.

E’ stato evidenziato, infatti, che “non appartiene all’ambito delle finalità dell’atto pubblico anche quella di influire sulla sfera giuridica personale del pubblico ufficiale autore dell’atto stesso, anche perchè ciò determinerebbe una situazione di incompatibilità, non irrilevante ai fini della stessa validità dell’atto (cfr. art. 2701 c.c.)” (Cass. 22.6.2002 n. 9147 e la giurisprudenza ivi richiamata).

4.3 – Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui censura la motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nella valutazione della prova documentale (quanto alla durata delle missioni) e delle deposizioni testimoniali (in relazione agli orari nei quali le attività sarebbero state svolte).

Si tratta di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè attengono alla ricostruzione dei fatti, che, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato D.L. n. 83 del 2012), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c.).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. 29.10.2014 n. 23021).

5 – E’ infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale il C. ha sostenuto che, in ogni caso, il fatto andava ricondotto alla previsione dell’art. 13, comma 4, lett. g), del CCNL 12.6.2003, come modificato dall’art. 27 del CCNL per il quadriennio 2006/2009.

Anche a voler prescindere dal rilievo che la disposizione contrattuale invocata è successiva all’epoca dei fatti, va detto che le parti collettive hanno previsto la sanzione disciplinare della sospensione del servizio in relazione a “fatti e comportamenti tesi all’elusione dei sistemi di rilevamento elettronici della presenza e dell’orario o manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi”. La condotta tipizzata (in relazione alla quale il successivo D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, non applicabile ratione temporis alla fattispecie, ha invece espressamente previsto la sanzione del licenziamento) è quella relativa alla falsa attestazione dell’orario di lavoro, derivante sia dalla “elusione” dei sistemi di controllo automatici sia dalla alterazione dei fogli di presenza.

Nel caso di specie, al contrario, le falsità commesse dal ricorrente, ritenute provate dalla Corte territoriale, vanno ben oltre la mera attestazione dell’orario di lavoro, poichè il licenziamento è stato intimato per avere il dipendente formato atti pubblici e richieste di rimborso non rispondenti al vero (quantomeno in parte), inducendo in errore l’Amministrazione quanto alla durata delle missioni e realizzando, in tal modo, un ingiustificato profitto in danno dell’ente.

La Corte territoriale ha, quindi, correttamente escluso che la condotta potesse essere sussunta nella previsione invocata dal reclamante.

6 – Il giudice di appello ha, poi, valutato la gravità del comportamento tenuto, ritenendo provati il carattere doloso dello stesso e la idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in considerazione della qualità di funzionario pubblico rivestita e della natura e delicatezza delle mansioni svolte.

Il capo della sentenza non è stato specificamente censurato nel ricorso incidentale, sicchè non possono essere apprezzate le doglianze contenute nella “memoria di costituzione di difensore aggiunto” dell’8 marzo 2016 e nella memoria ex art. 378 c.p.c.. Detti atti non possono integrare o ampliare il contenuto dei motivi di ricorso e con gli stessi non possono essere dedotte nuove censure nè sollevate questioni nuove (Sez. U. n. 11097 del 15/05/2006; Cass. n. 28855 del 29/12/2005; Cass. n. 14570 del 30/07/2004).

Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.

7 – I motivi del ricorso principale, da trattarsi congiuntamente perchè connessi, sono, invece, fondati.

E’ opportuno premettere che il principio della immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare è finalizzato, al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi.

Valorizzando la ratio del principio, questa Corte ha precisato che non si verifica una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poichè in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso (Cass. 22.3.2011 n. 6499).

E’ stato anche affermato, e va qui ribadito, che il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, sicchè deve ritenersi ammissibile la contestazione per relationem, in quanto consente all’incolpato l’esercizio del diritto di difesa, ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato, perchè emersi nel contraddittorio con lo stesso, come accade nei casi in cui il procedimento disciplinare venga attivato in relazione a fatti già accertati in sede penale (Cass. 3 marzo 2010 n. 5115 e negli stessi termini Cass. 15.5.2014 n. 10662).

7.1 – Rileva, inoltre, il Collegio che allorquando, contestualmente alla contestazione, il datore di lavoro sospenda il procedimento in attesa della definizione del processo penale instaurato per i medesimi fatti, non risultano violati i principi della immutabilità e della specificità della contestazione se, venuta meno la causa di sospensione e riattivato il procedimento disciplinare, il datore di lavoro si avvalga degli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, comunque ricompreso in quello originario, e ciò faccia nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione.

Detto principio, per i procedimenti instaurati in epoca successiva alla entrata in vigore del D.Lgs n. 150 del 2009, è desumibile dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter nella parte in cui, al comma 4, fa riferimento al “rinnovo della contestazione dell’addebito”, in occasione del quale, evidentemente, la pubblica amministrazione potrà avvalersi degli elementi emersi in sede penale, visto che nel nuovo sistema la sospensione può essere disposta solo qualora ricorra una particolare complessità del fatto da accertare ed i dati raccolti dalla amministrazione non siano sufficienti per irrogare la sanzione.

Per i procedimenti ai quali non si estende la nuova normativa la possibilità di avvalersi di quanto emerso in sede penale per meglio circoscrivere la contestazione, discende dalla finalità stessa della sospensione, che mira non solo ad evitare un contrasto fra gli esiti dei due procedimenti, ma anche a consentire un più accurato accertamento dei fatti, tra l’altro effettuato dall’autorità giudiziaria, e, quindi, da soggetto imparziale, con le garanzie che l’ordinamento riconosce sia all’imputato che al soggetto sottoposto ad indagini.

7.2 – La Corte territoriale ha ritenuto violato il principio della immutabilità della contestazione all’esito della comparazione fra la missiva del 2 marzo 2004 (con la quale il procedimento penale era stato avviato e contestualmente sospeso, in quanto i fatti emersi a seguito di visita ispettiva erano stati segnalati anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma) e la lettera di licenziamento ed ha ritenuto la non corrispondenza fra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, perchè nella originaria contestazione gli episodi non erano stati analiticamente indicati ed inoltre era stata sottolineata solo la sovrapposizione degli orari, senza fare cenno alla falsità degli atti ed alla possibilità che le attività dichiarate non fossero state svolte.

Così argomentando il giudice del merito non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra sintetizzati, poichè non ha valutato il tenore della nota di riattivazione del procedimento ed il richiamo contenuto nella contestazione originaria al verbale ispettivo (in relazione al quale è mancato anche ogni accertamento sulla conoscenza che dello stesso il C. avesse all’epoca dell’avvio del procedimento), nè ha considerato la missiva del 2.3.2004 nella sua interezza, non avendo chiarito se, in relazione alla descrizione della condotta contestata, potesse essere attribuito un qualche significato al richiamo fatto alla denuncia penale inoltrata.

Si impone, pertanto, la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, poichè la valutazione sulla asserita violazione del diritto di difesa del dipendente incolpato e, quindi, sulla fondatezza del reclamo proposto dal Ministero delle Infrastrutture, deve essere nuovamente effettuata dal giudice del merito, alla luce dei principi di diritto sopra indicati.

8 – Occorre a questo punto chiarire che nel giudizio di rinvio, anche qualora dovesse essere nuovamente accertata la violazione delle regole del procedimento, non potrà essere riconosciuta al C. una tutela diversa da quella meramente indennitaria, ritenuta applicabile dal Tribunale di Roma con la sentenza resa all’esito del giudizio di opposizione.

Il potere di qualificazione giuridica non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e, in sede di impugnazione, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e per il ricorso per cassazione dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato, in ragione del principio di specificità, dalle censure sollevate con i singoli motivi.

Nel giudizio di rinvio, poi, nel quale l’atto di riassunzione non ha natura di impugnazione perchè volto solo alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata, non possono essere proposti dalle parti, nè presi in esame dal giudice, motivi diversi da quelli che erano stati formulati nel primo giudizio d’appello, che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass. 8.11.2013 n. 25244).

Il Tribunale di Roma, accertata la violazione delle regole del procedimento disciplinare, ha ritenuto che dalla stessa dovessero discendere le sole conseguenze previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, e detto capo della sentenza non è stato oggetto di impugnazione, in via principale o incidentale, da parte del C., che con il reclamo ha lamentato solo la erroneità della pronuncia di rigetto della domanda principale, fondata sulla asserita insussistenza del fatto.

Il C., pertanto, non potrà giovarsi della cassazione della sentenza, per effetto della ritenuta fondatezza del ricorso principale del Ministero, per domandare nel giudizio di rinvio la tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alla novella legislativa, essendo detta domanda preclusa dal disposto dell’art. 329 c.p.c., comma 2.

9 – La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame delle questioni ancora controverse, pronunciando anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi ai principi di diritto enunciati ai punti 3, 7 e 8, e sintetizzati nei termini che seguono:

a) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purchè ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione;

b) il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi sicchè è ammissibile la contestazione per relationem ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato;

c) ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata L. n. 92 del 2012 resta quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 nel testo antecedente alla riforma;

d) il potere del giudice di applicare alla fattispecie ricostruita la esatta regola di diritto, e quindi anche la normativa sul sindacato giurisdizionale sui licenziamenti, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e, per il ricorso per cassazione, dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2016


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2016, n. 10842

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19641-2013 proposto da:

B.C., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI BOCCHERINI 3, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO DE ANGELIS, rappresentato e difeso dall’avvocato IVAR GALIOTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 975/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/02/2013 R.G.N. 8644/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2016 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito l’Avvocato GALIOTO IVAN;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 21 febbraio 2013 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Nola che ha rigettato il ricorso proposto da B.C. Inteso ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento intimato con lettera del 17 dicembre 2009 dalle Poste Italiane s.p.a. per aver autorizzato un proprio collega a timbrare il suo badge identificativo al fine di far risultare l’entrata in ufficio alle ore 11.35 ed essersi, invece, effettivamente presentato in ufficio alle ore 12.25.

Per quanto rileva in questa sede, la Corte territoriale, a seguito di ampia ricognizione giurisprudenziale sull’accezione di giusta causa nel nostro ordinamento, ha motivato tale pronuncia ritenendo che il B. ha leso irrimediabilmente e gravemente il vincolo fiduciario sussistente nei confronti del datore di lavoro.

Il B. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi. La società è rimasta intimata.

Motivi della decisione

– Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonchè errata interpretazione del principio di giusta causa del licenziamento non avendo, la Corte, adeguatamente valutato la gravità della condotta tenuta dal lavoratore che, per una situazione contingente (incidente stradale), imprevista ed imprevedibile, costituente la causa del suo ritardo in azienda, ha agito con leggerezza ma senza alcun dolo.
– Con il secondo motivo si lamenta erronea o falsa interpretazione e/o applicazione dell’art. 2106 c.c. e degli artt. 54, 55, 56 ccnl dipendenti Poste Italiane del 11.7.2007 nonchè errata interpretazione e/o applicazione del principio di proporzionalità avendo la Corte trascurato l’assenza di qualsivoglia recidiva nonchè l’orientamento giurisprudenziale che ritiene il licenziamento quale massima sanzione disciplinare da comminarsi solo dopo attente compiuta valutazione che tenga conto di tutti gli interessi in gioco in base alla quale si deduca l’irrimediabile compromissione del rapporto fiduciario. In particolare, il giudice di merito non ha rispettato il principio di proporzionalità, considerato che l’art. 56, comma 1 del ccnl prevede espressamente la sanzione del rimprovero verbale o dell’ammonizione scritta per il lavoratore che non rispetti l’orario di lavoro o le formalità prescritte per la rilevazione e il controllo delle presenze.
– Con il terzo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso avendo, il giudice di merito, effettuato una ricostruzione dei fatti errata, non intendendo il B. assentarsi dolosamente dal servizio bensì confidando di terminare le operazioni di scambio dei dati con l’automobilista incidentato entro l’inizio del turno di lavoro, non intendendo lucrare alcun vantaggio dalla timbratura anticipata effettuata dal collega.
– I motivi, che possono essere trattati congiuntamente per la loro intima connessione, risultano non solo inammissibili ma, anche, sostanzialmente inconsistenti.

La Corte partenopea muove dal presupposto secondo cui per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento (che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario) occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. E ciò, aggiunge, anche nell’ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, in quanto l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c..

Tale assunto si basa su una consolidata ricostruzione giurisprudenziale della nozione di giusta causa nell’ambito del licenziamento disciplinare, in base alla quale, trattandosi dell’applicazione di un concetto Indeterminato, l’accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti. In particolare, con riguardo all’alterazione del cartellino marcatempo, questa Corte ha già avuto modo di confermare valutazioni di gravità rese dai giudici di merito, ritenendo che la falsa timbratura del cartellino può rappresentare una condotta grave che lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e può giustificare il licenziamento (vedi Cass. n. 24796/2010 e Cass. n. 26239/2008).

Esclusi i profili di ricostruzione del fatto proposti dalla parte ricorrente (che appartengono all’area del giudizio di fatto ed esulano dall’ambito di valutazione di questa Corte), la qualificazione giuridica dei fatti e, nella specie, il giudizio di sussunzione dei fatti contestati nell’ambito della clausola generale della giusta causa è stato, dunque, effettuato dalla Corte territoriale in sintonia con i principi elaborati da questa Corte.

Nè le censure illustrate dalla parte ricorrente sono idonee a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, applicabile ratione temporis, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), vizio che deve compendiarsi – come chiarito dalle Sezioni Unite nella sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053 – nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Invero, con accertamento di fatto congruamente svolto e con adeguata motivazione immune da rilievi di carattere logico-giuridico, la Corte d’appello ha posto in evidenza che la massima sanzione era adeguata al fatto contestato in considerazione “dell’intensità dell’elemento soggettivo della condotta del B. il quale, all’esito dell’evento imprevedibile occorsogli, ben avrebbe potuto comunicare alla parte aziendale possibile ritardo in entrata invece di predisporre l’articolato meccanismo con il quale, coinvolgendo un collega a ciò aduso, ha provveduto ad alterare il sistema di registrazione dell’inizio della propria attività lavorativa”. La Corte ha rilevato, invero, che il cartellino marcatempo costituisce un documento che rientra nella disponibilità esclusiva del titolare, come prescritto da circolari aziendali prodotta in atti; che il B. ha ceduto a terzi il cartellino, integrando una grave violazione del dovere di diligenza sancito dall’art. 2104 c.c.; che è stato posto in essere un ampio premeditato disegno fraudolento, volto ad attestare falsamente la presenza in ufficio del lavoratore, da un momento anteriore anche all’inizio del proprio turno lavorativo (11.35 invece che 12,00) dal quale avrebbe lucrato un beneficio in termini di percezione di compensi ulteriori ovvero di abbreviazione del proprio turno di lavoro; che il collega era aduso a provvedere alla timbratura della badge anche per conto di altri colleghi. Non si è trattato, quindi, come sottolineato da parte ricorrente, della mera violazione delle disposizioni dettate In materia di “formalità prescritte per la rilevazione ed il controllo delle presenze” bensì, come ha correttamente ritenuto la Corte territoriale, “un comportamento gravemente irregolare ed assolutamente anomalo, oltre che inadempiente agli obblighi inerenti il proprio ufficio, e contrario agli interessi del datore di lavoro, che si presenta Idonea anche alla luce del “disvalore ambientale” che lo stesso assume con particolare riguardo al contesto lavorativo in cui si dispiegava la attività del B., a ledere in misura significativa il vincolo fiduciario che, in un’azienda di rilievo quale l’odierna appellata, assume profili di speciale rilievo”.

La Corte d’appello è pervenuta, quindi, alla decisione di conferma della legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro – dandone atto, come si è detto, con congrua motivazione – attraverso un’attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, rilevando che la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro è stata in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, in conformità con il costante orientamento di questa Corte in materia di cui costituisce corollario il principio dell’autonomia della valutazione di un fatto in sede disciplinare e delle prove ivi accolte, rispetto a quella effettuata in sede processuali.

In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato. Nulla sulle spese a fronte della mancata costituzione delle Poste Italiane.
Il ricorso è stato notificato il 16-22 agosto 2013, dunque in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della Legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2016


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/01/2016) 06/05/2016, n. 9140

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente Sezione –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13729/2012 proposto da:

PROVINCIA RELIGIOSA DI S. PIETRO DELL’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO FATEBENEFRATELLI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 229, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO MARIA POMPA, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CATTOLICA ASSICURAZIONI COOP. A R.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

REALE MUTUA ASSICURAZIONI S.P.A., ZURICH INSURANCE PLC, /PRESUTTO ANDREA/, DUOMO UNI ONE ASSICURAZIONI S.P.A., MMI DANNI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 405/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/16 dal Cons. Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

uditi gli avvocati Giuliano Maria POMPA, Pierfilippo COLETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri, statuendosi i principi cui dovrà attenersi il giudice di merito al fine di stabilire se la clausola claims made sia vessatoria.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 dicembre 2008 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta da /Presutto Andrea/ nei confronti della Provincia Religiosa di S. Pietro dell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio Fatebenefratelli (di seguito anche solo Provincia Religiosa), domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti per effetto della condotta dei medici della struttura che lo avevano curato. E nel condannare l’ente al pagamento della somma liquidata al paziente a titolo di ristoro dei pregiudizi patiti, dichiarò tutte le compagnie assicurative chiamate in causa dalla convenuta tenute a manlevare la responsabile-assicurata nei limiti previsti dalle rispettive polizze.

Propose appello la Società Cattolica di Assicurazioni s.p.a., anche quale delegataria delle coassicuratrici Zurich Insurance PLC (per la quota del 30%) e di Reale Mutua (per la quota del 20%), censurando la ritenuta inoperatività della clausola c.d. claims made – letteralmente “a richiesta fatta” – inserita nella polizza n. 11891, da essa stipulata con la Provincia Religiosa, in quanto derogativa, secondo il giudice di prime cure, del primo comma dell’art. 1917 c.c., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti accaduti durante la vigenza del contratto. Sostenne segnatamente l’esponente che, nell’adottare tale errata soluzione, il decidente non aveva considerato che la pattuizione intitolata “Condizione speciale – Inizio e Termine della Garanzia”, in base alla quale la manleva valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell’assicurazione, purchè il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula, era pienamente valida ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta a delimitare l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.

Con la sentenza ora impugnata, depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda di manleva della Provincia nei confronti della Cattolica e delle coassicuratrici.

In motivazione la Curia capitolina, affermata la piena validità della clausola, ne ha altresì escluso il carattere vessatorio rilevando che la stessa, lungi dal rappresentare una limitazione della responsabilità della società assicuratrice, estende la copertura ai fatti dannosi verificatisi prima della stipula del contratto.

Il ricorso della Provincia Religiosa avverso detta decisione è articolato su tre motivi.

Si sono difese con controricorso la Società Cattolica Assicurazioni Coop. a r.l. e Zurich Insurance PLC. A seguito di istanza dell’impugnante, il Primo Presidente, ritenuto che la controversia presentava una questione di massima di particolare importanza, ne ha disposto l’assegnazione alle sezioni unite.

Fissata l’udienza di discussione, entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Va anzitutto sgombrato il campo dall’eccezione, sollevata in limine dalla Società Cattolica di Assicurazione Coop. a r.l. e dalla Zurich Insurance PLC, di inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza. Sostengono invero le resistenti che l’impugnazione violerebbe il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, posto che non sarebbe riportato il testo del contratto nè ne sarebbe indicata l’esatta allocazione nel fascicolo processuale.

Il rilievo non ha pregio.

La preliminare verifica evocata dalle società assicuratrici è destinata ad avere esito positivo a condizione che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto nonchè di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle argomentazioni con le quali il decidente ha giustificato la scelta decisoria adottata.

Nello specifico, il nodo problematico sul quale è stato sollecitato l’intervento nomofilattico delle sezioni unite, attiene alla validità di una clausola il cui contenuto è assolutamente pacifico tra le parti ed è comunque stato trascritto in ricorso, di talchè non avrebbe senso sanzionare con l’inammissibilità l’omissione delle indicazioni necessarie alla facile reperibilità del testo dell’intero contratto, considerato che nessun ausilio esso apporterebbe alla soluzione delle questioni poste dalla proposta impugnazione. E’ sufficiente all’uopo considerare che le deduzioni hinc et inde svolte a sostegno delle rispettive tesi difensive, omettono qualsivoglia riferimento a pattuizioni diverse da quella racchiusa nella clausola in contestazione, volta a circoscrivere, nei sensi che di qui a poco si andranno a precisare, l’obbligo della garante di manlevare la garantita.

2.1. Per le stesse ragioni, e specularmente, l’eccezione di giudicato esterno sollevata da entrambe le parti, nelle memorie ex art. 378 c.p.c., e nel corso della discussione orale, in relazione a sentenze definitive che, con riferimento alla polizza n. (OMISSIS) oggetto del presente giudizio, avrebbero pronunciato sulla validità della contestata condizione, non può sortire l’effetto di precludere la decisione di questa Corte sul merito della proposta impugnazione.

Mette conto in proposito ricordare che, nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con i criteri redazionali desumibili dal disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6. E tanto per la dirimente considerazione che l’interpretazione del giudicato esterno, pur essendo assimilabile a quella degli elementi normativi astratti, in ragione della sua natura di norma regolatrice del caso concreto, va comunque effettuata sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, di talchè la relativa deduzione soggiace all’onere della compiuta indicazione di tutti gli elementi necessari al compimento del sollecitato scrutinio (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 2015, n. 24952).

2.2. Venendo al caso di specie, le contrapposte deduzioni delle parti in ordine all’esistenza di sentenze passate in giudicato che, con esiti niente affatto coincidenti, si sarebbero pronunciate sulle questioni oggetto del presente giudizio, non sono accompagnate dalla indicazione degli elementi indispensabili alla verifica della fondatezza dell’eccezione, nei sensi testè esplicitati.

Ne deriva che l’eccezione di giudicato esterno va disattesa.

3.1. Passando quindi all’esame della proposta impugnazione, con il primo motivo, la Provincia Religiosa, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, contesta la negativa valutazione della natura vessatoria della clausola.

Rileva segnatamente l’esponente che la stessa, non integrando l’oggetto del contratto, ma piuttosto limitando la responsabilità della compagnia assicuratrice, ovvero prevedendo decadenze, limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni e restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, facoltà di sospendere l’esecuzione, richiedeva una specifica sottoscrizione, nella specie mancante. Aggiunge che, mentre la previsione pattizia non infirma la tipicità dello schema negoziale, l’estensione della garanzia a sinistri occorsi in periodi precedenti alla vigenza della polizza è ben possibile anche in contratti conformati sul modello boss occurrence. In ogni caso – evidenzia – l’art. 1341 c.c., è norma che riguarda tutti i contratti, tipici o atipici che siano.

3.2. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 2964 e 2965 c.c., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene che la condizione apposta al contratto sarebbe nulla, ex art. 2965 c.c., per l’eccessiva difficoltà che ne deriverebbe all’esercizio del diritto alla manleva dell’assicurato, questione sulla quale la Corte di merito non si era affatto pronunciata, benchè la stessa fosse stata tempestivamente sollevata sin dal primo grado del giudizio.

3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1374 e 1375 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene l’esponente che la clausola in contestazione sarebbe nulla per contrarietà ai principi di correttezza e buona fede, poichè essa, intitolata inizio e termine della garanzia, non contiene alcun richiamo espresso alla circostanza che viene assicurato non già il fatto foriero di danno, ma la richiesta di danno che, insieme al fatto, deve intervenire nel corso di vigenza temporale della polizza.

4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondate.

Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema denominato “loss occurrence”, o “insorgenza del danno”, sul quale è conformato il modello delineato nell’art. 1917 c.c., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto.

Senza addentrarsi nella “storia” della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perchè provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere.

5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale, esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie: a) clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto); b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.

6.1. Tanto premesso e precisato, ragioni di ordine logico consigliano di partire dall’esame delle censure con le quali l’impugnante contesta in radice la validità della clausola claims made, segnatamente esposte nel secondo e del terzo motivo di ricorso.

Orbene, in relazione ai particolari profili di nullità ivi evocati, le critiche sono destituite di fondamento, ancorchè la problematica della liceità dei patti in essa racchiusi non possa esaurirsi nella loro confutazione e necessiti di alcune, significative precisazioni.

Anzitutto non è condivisibile l’assunto secondo cui il decidente non avrebbe risposto alla deduzione di nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c..

La Corte territoriale ha invero scrutinato la validità del patto, espressamente negando, ancorchè con motivazione estremamente sintetica, che lo stesso integrasse violazione di alcuna norma imperativa. Il che significa che la prospettazione dell’appellata non è sfuggita al vaglio critico del giudicante.

6.2. Deve in ogni caso escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle “richieste di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell’assicurazione”, in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione.

E invero l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonchè a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso.

Ne deriva che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell’art. 2965 c.c..

7.1. Pure infondata è la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Non è qui in discussione che i reiterati richiami del codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il proprio comportamento (art. 1175 c.c.), alla buona fede come criterio informatore della interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), e all’equità, quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle parti (art. 1374 c.c.), facciano della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato; nè che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia, giochino un ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese;

nè, ancora, che, attraverso le richiamate norme, possa venire più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti abbiano inteso raggiungere.

7.2. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del rigetto delle proposte censure, è che, in disparte quanto appresso si dirà (al n. 17.), in ordine al giudizio di meritevolezza di regolamenti negoziali oggettivamente non equi e gravemente sbilanciati, la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative, richiama “nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, secondo l’icastica enunciazione della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).

7.3. Ora, con specifico riguardo alle censure svolte nel terzo motivo, ciò di cui l’impugnante Provincia Religiosa si duole è che l’inserimento della clausola sia avvenuta in maniera asseritamente subdola, posto che la sua denominazione “inizio e termine della garanzia” avrebbe fuorviato il consenso dell’aderente, affatto inconsapevole di un contenuto che stravolge lo schema codicistico del contratto assicurativo, ispirato alla formula loss occurence: da tanto inferendo non già l’esistenza di ipotesi di annullabilità per errore o dolo o di variamente modulati diritti risarcitori dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma la nullità radicale e assoluta della clausola sub specie di illiceità che vitiatur sed non vitiat, con conseguente attivazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 1419 c.c., comma 2, implicitamente, ma inequivocabilmente evocato.

E tuttavia, si ripete, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, al quale si intende dare continuità, che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, non già l’inosservanza di norme, quand’anche imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462;

Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724).

Ne deriva che le censure poste nel primo e nel secondo motivo di ricorso non colgono nel segno.

8.1. L’ampiezza dello scrutinio nomofilattico sollecitato e le peculiarità proprie della fattispecie dedotta in giudizio, inducono queste sezioni unite a esaminare un ulteriore, possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, per vero assai dibattuto, soprattutto in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Merita evidenziare, sul piano fattuale: a) che il sinistro, e cioè l’omessa diagnosi dei cui effetti pregiudizievoli P.A. ha chiesto di essere ristorato, si è verificato nell’agosto 1993; b) che l’arco temporale di vigenza della polizza dedotta in giudizio andava dal 21 febbraio 1996 al 31 dicembre 1997, con effetto retroattivo al triennio precedente; c) che la copertura assicurativa era in ogni caso limitata alle richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il periodo di operatività dell’assicurazione, e quindi entro il 31 dicembre 1997; d) che nella fattispecie la domanda del paziente venne avanzata nel giugno 2001.

E allora, considerato che il sinistro di cui la chiamante ha chiesto di essere indennizzata si è verificato in epoca antecedente alla stipula del contratto, risulta ineludibile il confronto con la vexata quaestio della validità dell’assicurazione del rischio pregresso. Si ricorda all’uopo che l’assicurabilità di fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del contratto, ma ignorati dall’assicurato, è stata ed è fortemente osteggiata da coloro che ravvisano nella clausola claims made così strutturata una sostanziale mancanza dell’alea richiesta, a pena di nullità, dall’art. 1895 c.c.. E invero – si sostiene – posto che il rischio dedotto in contratto deve essere futuro e incerto, giammai il c.d.

rischio putativo potrebbe trovare copertura.

9. Da tale opinione le Sezioni unite ritengono tuttavia di dovere dissentire, così confermando l’orientamento già espresso da questa Corte negli arresti n. 7273 del 22 marzo 2013, e n. 3622 del 17 febbraio 2014.

Affatto convincente appare in proposito il rilievo che l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c., per le dichiarazioni inesatte o reticenti. A ciò aggiungasi che, come innanzi evidenziato, il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perchè esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perchè afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato.

Non a caso, del resto, il rischio putativo è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento dall’art. 514 c.n., con disposizione che non v’è motivo di ritenere eccezionale.

10. L’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi – disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva – volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale delineato nell’art. 1917 c.c., che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perchè vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva.

11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intagibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 c.c., che tra le norme inderogabili non menziona l’art. 1917 c.c., comma 1. Il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di tenere indenne il garantito “di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione”, deve pagare a un terzo.

Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.

12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi l’essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l’obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione.

Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.

13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 c.c., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta prospettiva si predica che si ha delimitazione dell’oggetto quando la clausola negoziale ha lo scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della responsabilità quella che ha l’effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in tesi,nell’oggetto, sarebbe altrimenti insorta.

14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 c.c., non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma – inserito all’interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall’area della risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, comma 1, ultimo periodo); in cui sono imposti all’assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato l’obbligo di salvataggio (art. 1914 c.c.) – si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l’assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624).

Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della fattispecie ipotetica delineata nell’art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare l’assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata. L’affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con riferimento ai contratti assicurativi con clausola claims made pura, non resiste, con riguardo alle altre, al dirimente rilievo che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l’assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell’assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all’indennizzo – e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo.

15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola clamis made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell’art. 1905 c.c., l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato. E poichè non è seriamente predicabile che l’assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità.

16. Infine, e conclusivamente, nessuna consistenza hanno gli altri profili di vessatorietà evocati dalla Provincia Religiosa, a sol considerare che la pretesa, pattizia imposizione di decadenze è resistita dai medesimi rilievi svolti a proposito dell’eccepita nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c.; che la deduzione di un’incisione della libertà contrattuale del contraente non predisponente costituisce al più un inconveniente pratico che, in quanto effetto riflesso delle condizioni della stipula, è semmai passibile di valutazione in sede di scrutinio sulla meritevolezza della tutela, di cui appresso si dirà; che inesistente, infine, è la prospettata limitazione alla facoltà dell’assicurato di opporre eccezioni.

Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso sia le ragioni di nullità fatte valere dall’esponente che il carattere vessatorio della clausola.

17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall’art. 1341 c.c., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico, inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete. E invero i dubbi avanzati da questa Corte allorchè, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità dell’esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che, in casi siffatti, verrebbe a mancare, “in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo” (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622), non appaiono passibili di risposte univoche, in disparte il loro indiscutibile impatto emotivo. E’ sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d.

pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione del fatto illecito, mentre l’esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento. Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso, l’apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell’ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell’assicurato antecedenti alla stipula, di talchè l’eventualità, paventata nell’arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all’indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l’esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talchè anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.

18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato dalla nullità di protezione, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36. E ancorchè la pacifica limitazione della tutela offerta dalla menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata – dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) – escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l’ipotesi di una sua rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio.

Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che attestarsi su una soglia di incisione dell’elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell’immeritevolezza, affidato ai principi generali dell’ordinamento.

19. Va poi da sè che l’esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sè di fulminante evidenza in un senso o nell’altro, non può prescindere dalla considerazione, da un lato, dell’esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorchè in tesi qualificabile come “professionista”, è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile; dall’altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l’entità del premio pagato dall’assicurato, così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.

20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in via di principio – esorbitando dall’area della mera scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto innanzi detto (al n. 7.2), dalla sola tutela risarcitoria – non possono non avere carattere reale, con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti dall’art. 1419 c.c., comma 2, nonchè del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 Cost., “che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa” (Corte cost.

n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).

21. Prima di chiudere, verificando la ricaduta degli esposti criteri sulla fattispecie dedotta in giudizio, non possono queste sezioni unite ignorare la delicata questione della compatibilità della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività. Mette conto in proposito ricordare: a) che il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, convertito con legge n. 148 dello stesso anno, nell’elencare i principi ai quali devono ispirarsi le riforme degli ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto, ha previsto alla lett. e), l’obbligo per tutti di stipulare “idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale”, nonchè di rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e il relativo massimale; b) che il successivo D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, nel ribadire siffatto obbligo – la cui violazione costituisce peraltro illecito disciplinare – e nel precisare che la stipula dei contratti possa avvenire “anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”, ha prorogato di un anno dall’entrata in vigore della norma, e dunque fino al 15 agosto 2013, l’obbligo di assicurazione; c) che con specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con la L. 8 novembre 2012, n. 189, ha poi demandato a un decreto del Presidente della Repubblica la disciplina delle procedure e dei requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, mentre il D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto fare), convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, ha allungato al 13 agosto 2014 l’obbligo degli stessi di munirsi di assicurazione di responsabilità civile.

22. Ciò posto, e rilevato che è stata da più parti segnalata l’incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. E’ peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle “convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”, nonchè in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti.

23. Tornando al caso dedotto in giudizio, si tratta a questo punto di verificare, alla stregua degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass. civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a..

A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha segnatamente valorizzato, ancorchè al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia ai fatti dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare.

Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in sede di legittimità.

18. Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.

Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.

La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2016


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 29/10/2015) 20/04/2016, n. 7849

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ORGA BIO HUMAN S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BENEDETTO CROCE 97, presso lo studio dell’avvocato LALLINI GIANLUIGI, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 12/2009 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 23/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2015 dal Consigliere Dott. LA TORRE MARIA ENZA;

udito per il ricorrente l’Avvocato URBANI NERI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma del 9 giugno 2005, la società Orga bio human s.r.l. impugnava una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di recupero di credito d’imposta per incrementi occupazionali, sul presupposto della definitività dell’avviso notificato e non impugnato, deducendone l’illegittimità per mancanza di previo accertamento di illeciti da parte della ASL e, comunque, per avere presentato istanza di condono.

Rilevava di non avere mai ricevuto la notifica del suddetto avviso, comunque non rientrante fra gli atti impugnabili D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19.

La CTP dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto relativo ad atto definitivo per mancata impugnazione, non essendo stati dedotti vizi della cartella.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 12/22/09 dep. 23 gennaio 2009, ha rigettato l’appello interposto dalla contribuente, ribadendo l’autonoma impugnabilità dell’avviso di recupero e la rituale notifica dello stesso.

Con atto del 25 settembre 2009 la società ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo del ricorso la contribuente deduce violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., n. 5), ritenendo nulla la notifica dell’avviso di recupero che ha preceduto la cartella impugnata, per la mancanza dei presupposti di cui all’art. 140 c.p.c.. A conclusione del motivo viene proposto momento di sintesi (“in definitiva, secondo questa difesa, sulla base di quanto precedentemente illustrato, non sussiste alcun dubbio tanto sulla nullità della notifica dell’avviso di recupero quanto sull’annullamento dell’atto consequenziale rappresentato dalla cartella di pagamento impugnata, con conseguente definitiva estinzione della pretesa tributaria stante la decadenza dei termini di decadenza previsti dall’ordinamento”) e quesito di diritto (“dica la Corte se la mancata spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento ai sensi dell’art. 140 c.p.c. configura un’ipotesi di nullità del procedimento di notificazione e sia pertanto censurabile la sentenza della CTR la quale, nel caso in esame, ha ritenuto ritualmente notificato un avviso di recupero pur in assenza della prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento prescritta dall’art. 140 c.p.c.”).

2. Contrariamente a quanto eccepito dall’Ufficio il motivo è ammissibile, poichè la proposizione congiunta di doglianze ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 è consentita laddove accompagnata, come in questo caso, tanto dal quesito di diritto previsto per il primo vizio, quanto dal momento di sintesi o riepilogo imposto per il secondo (v. Cass. S.U., 31 marzo 2009, n. 7770; conf. 12248 del 2013).

3. Il motivo è altresì fondato con riferimento al dedotto vizio di motivazione.

Si premette che la notificazione della cartella di pagamento è regolata dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, ove è previsto, nelle ipotesi di cui all’art. 140 c.p.c., che la notifica della cartella di pagamento si effettua con le modalità fissate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Quest’ultimo richiede il deposito nella casa comunale, oltre che l’affissione dell’avviso alla porta del destinatario e l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cit., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione), la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa che rende conoscibile l’atto.

La giurisprudenza affermatasi dopo l’indicata dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ha pertanto affermato che: “La notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione” (Cass. n. 4748 del 2011).

Tale elemento essenziale per la verifica della correttezza della notificazione, la cui mancanza è stata dedotta fin dal primo grado dall’odierna ricorrente, non è stato congruamente esaminato e motivato dalla CTR, che non ha precisato di avere verificato la presenza della cartolina attestante il ricevimento della raccomandata informativa – dichiarata ma non provata – mancandone la relativa documentazione in atti. Risulta pertanto del tutto carente la motivazione sul punto, limitandosi la CTR ad affermare che “l’avviso di recupero è stato ritualmente notificato alla società in data 27.09.2004”.

Il ricorso va conseguentemente accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2016


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 23-02-2016) 18-04-2016, n. 7665

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente di Sez. –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16881-2014 proposto da:

U.R., CODACONS – COORDINAMENTO DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI ED UTENTI – SEDE DI LECCE, Adusbef Puglia in persona dei rispettivi Presidenti pro tempore, ADOC PROVINCIALE DI LECCE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PIERO MONGELLI, per delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, quale successore ex lege all’AGENZIA DEL TERRITORIO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

contro

COMUNE DI LECCE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA SCROFA 64, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BALDASSARRE, che lo rappresenta e difende per delega a margine dell’atto di intervento ad adiuvandum;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1903/2014 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 16/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/02/2016 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

uditi gli avvocati Piero MONGELLI in proprio e per delega dell’avvocato Francesco Baldassarre ed Anna Lidia CAPUTI IAMBRENGHI dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso (giurisdizione del giudice amministrativo).

Svolgimento del processo
1. U.R., Codacons – sede di Lecce, Adusbef Puglia e Adoc provinciale di Lecce hanno adito il TAR-Puglia, sez. Lecce, per l’annullamento del provvedimento, di contenuto e data non conosciuti, di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in micro-zone catastali ai sensi del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 639 del 29.7.2012 avente ad oggetto “Richiesta di revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335”; della delibera della Giunta comunale di Lecce n. 746 del 11.10.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, Parziale modifica dell’allegato alla D.G.M. n. 639 del 29 luglio 2010”; nonchè ove occorra della Determinazione del Direttore dell’Agenzia del Territorio del 29.11.2010 avente ad oggetto “Revisione del classamento dell’unità immobiliari urbane, site nel Comune di Lecce, ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 335” e dell’Avviso n. (OMISSIS) di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita notificato in data 21.12.2012; nonchè di tutti gli atti presupposti connessi o consequenziali, ancorchè non conosciuti, nonchè, della nota prot.

56995/98 del 18.06.1999 del Comune di Lecce contenente la proposta di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in microzone catastali ai sensi del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2; della nota del Ministero delle Finanze – Dipartimento del Territorio – UTE – prot. 11773 del 24.06.1999 con cui si esprime parere favorevole alla delimitazione delle microzone da parte del Comune di Lecce;

della nota del Ministero delle Finanze – Dipartimento del Territorio – UTE – prot. 11909 del 25.06.1999 con cui si trasmettono gli atti relativi alla microzonizzazione del Comune di Lecce, in surroga dell’Amministrazione Comunale; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 639 del 29.07.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335”; della nota 24.09.2010 dell’Agenzia del Territorio di Lecce con cui si attesta la sussistenza dei presupposti per la revisione di detto classamento; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 746 dell’11.10.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, – Parziale modifica dell’allegato alla D.G.M. n. 639 del 29 luglio 2010”; della nota 13.10.2010 dell’Agenzia del Territorio di Lecce con cui si attesta la sussistenza dei presupposti per la revisione di detto classamento; della Relazione illustrativa del 19.11.2012 redatta dall’Agenzia del Territorio di Lecce e dell’Avviso di n. (OMISSIS) di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita notificato in data 21.12.2012; nonchè di tutti gli atti presupposti connessi o consequenziali, ancorchè non conosciuti.

2. In sintesi, dinanzi al giudice amministrativo sono stati impugnati da parte di un contribuente e da associazioni di categoria gli atti di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in microzone catastali ai sensi del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2, l’atto con il quale la Giunta Comunale di Lecce ha attivato la procedura L. n. 311 del 2004, ex art. 1 e la conclusione della stessa, per una serie motivi fatti valere con il ricorso introduttivo e con memoria aggiunta:

a) illegittimità costituzionale della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, in relazione agli artt. 3 e 53 Cost.;

b) violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2 – Eccesso di potere per sviamento – violazione del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – eccesso di potere per erroneità dei presupposti;

c) violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, anche in combinato disposto con la determinazione dell’Agenzia del territorio del 16.2.2005 – violazione dell’articolo 7 dello Statuto del contribuente anche in combinato disposto con la L. n. 241 del 1990, art. 3 carenza di motivazione – motivazione apparente;

d) violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 662 del 1939, art. 9 e del D.P.R. n. 1142 del 1949, art. 61;

e) eccesso di potere per sviamento – illogicità manifesta – erroneità dei presupposti sotto altro profilo;

f) violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7 e dell’art. 10 dello Statuto del contribuente: mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revisione catastale;

g) incompetenza della giunta comunale a formulare la richiesta di revisione del classamento.

h) carenza di istruttoria – eccesso di potere per erroneità dei presupposti – carenza di motivazione – violazione e/o falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335;

i) illegittimità dell’individuazione delle microzone secondo altro profilo – eccesso di potere per erroneità dei presupposti;

j) violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2 – eccesso di potere per sviamento – violazione del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – eccesso di potere per erroneità dei presupposti.

3. L’Avvocatura dello Stato ha resistito eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, nonchè l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili. Il Comune di Lecce, invece, ha sostenuto la posizione dei ricorrenti nei confronti dell’amministrazione e ha contestato le censure mosse al Comune.

4. Il TAR ha accolto il ricorso (TAR-Puglia, sez. Lecce, 11 luglio 2013, n. 1621).

In particolare, in punto di giurisdizione, ha ritenuto che dal combinato disposto delle norme processuali tributarie si evince che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia fiscale possono essere disapplicati dalla C.t.p. e dalla C.t.r., ma non sono impugnabili davanti alle stesse. Ha condiviso, inoltre, il principio di diritto (Cons. Stato, sez. 5, 30 settembre 2004 n. 6353) secondo cui la giurisdizione tributaria è delimitata dall’impugnazione degli atti tipici previsti dall’art. 19 proc. trib.

(D.Lgs. n. 546 del 1992) e, in ogni caso, dal fatto che l’atto impugnato concerna aspetti di carattere esecutivo. Ha osservato che, viceversa, nell’esercizio di un potere discrezionale, per di più a carattere generale, trattandosi di atti a contenuto normativo destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti, nei confronti degli stessi non vi era giurisdizione del giudice tributario ma di quello amministrativo. Pertanto, al di fuori dell’area delle controversie riservate alla giurisdizione del giudice tributario, erano impugnabili davanti al giudice amministrativo i regolamenti governativi, ministeriali o di enti locali che istituiscono o disciplinano tributi di qualsiasi genere, in quanto concernenti interessi legittimi (Cons. Stato, sez. 4, 15 febbraio 2001, n. 735; Cons. Stato, sez. 4, 15 febbraio 2001, n. 732). Ha aggiunto che la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura fiscale del rapporto, con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102 Cost., comma 2, (Corte cost., sentenze n. 141 del 2009, n. 130 e n. 64 del 2008). Inoltre, l’art. 7 dello Statuto del contribuente secondo cui la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti, comporta, salvo espresse previsioni di legge, una naturale competenza del giudice amministrativo sull’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativa, come i regolamenti e le delibere tariffarie, atti (aventi natura provvedimentale) che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul rapporto tributario (Cass. 13 luglio 2005, n. 14692). Ha concluso affermando che, nella specie, la questione controversa non attiene all’atto finale impositivo, bensì ai presupposti atti amministrativi, di carattere generale, riguardanti il procedimento di revisione del classamento degli immobili e l’intera attività di microzonizzazione del territorio leccese, nei confronti dei quali le posizioni dei contribuenti erano d’interesse legittimo.

5. Per la riforma di tale decisione ha proposto appello l’Avvocatura dello Stato invocando, tra l’altro, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Il Consiglio di Stato ha accolto tale tesi ritenendo la vertenza devoluta al giudice tributario (Cons. Stato, sez. 4, 16 aprile 2014, n. 1903).

Il giudice d’appello ha rilevato che l’ U. aveva impugnato gli atti amministrativi sopra indicati solo dopo la notificazione dell’avviso di accertamento catastale per revisione e classamento della rendita e quindi dinanzi a un giudice non più fornito di giurisdizione a norma della L. n. 342 del 2000, art. 74. Ha ritenuto, infatti, che tale norma realizzerebbe due diversi effetti: (a) quello di rendere efficace, lesivo e impugnabile il provvedimento e (b) quello di attribuire la giurisdizione sull’atto in via principale, e non più incidentale, al giudice tributario, togliendola al giudice amministrativo essendo consentito d’impugnare immediatamente, visto l’obbligo di rispettare il termine decadenziale, il provvedimento lesivo, proponendo il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, proc. trib., ossia facendo riferimento alla disposizione che consente al giudice tributario di risolvere “in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”. Il che significherebbe, per il Consiglio di Stato, che il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, proc. trib., proposto a norma dell’art. 74 cit., non sarebbe più di mera pregiudizialità, ma aggredirebbe direttamente l’atto presupposto, ossia quello generale di pianificazione in tema di attribuzione o modificazione delle rendite catastali per terreni e fabbricati, senza attendere la mediazione dell’atto impositivo, atteso che non risulta compatibile con il breve termine decadenziale.

6. U.R., Codacons, Adusbef Puglia, Adoc Provinciale di Lecce propongono ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 110 cod. proc. amm. chiedendo che sia affermata la giurisdizione del giudice amministrativo. Osservano che l’art. 2, comma 3, proc. trib. consente una delibazione meramente incidentale da parte del giudice tributario di atti amministrativi generali, ovverosia di atti costituenti presupposto dell’atto impositivo, per risolvere la vertenza sottoposta alla sua attenzione e relativa al singolo rapporto impositivo tra Stato e contribuente, senza alcuna possibilità di allargamento del potere del giudice tributario di annullamento di atti generali e cogenti, con conseguente violazione del divieto costituzionale di creazione di giudici speciali.

7. L’Agenzia delle entrate e il Ministero dell’economia e delle finanze resistono con controricorso. L’intimato Comune di Lecce si difende aderendo alle tesi dei ricorrenti. I ricorrenti e l’ente locale si difendono anche con memorie.

Motivi della decisione
1. I ricorrenti, nella memoria difensiva, eccepiscono preliminarmente la nullità del controricorso erariale per vizi formali della sua notificazione effettuata con PEC, in ragione della asserita violazione delle regole dettate dalla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 4) – 5), e dall’art. 19-bis del provvedimento ministeriale del 16 aprile 2014.

L’eccezione non è fondata. Opera, infatti, nella fattispecle l’insegnamento, condiviso e consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il principio, sancito in via generale dall’art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, vale anche per le notificazioni, anche in relazione alle quali – pertanto la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario” (Cass., sez. lav., n. 13857 del 2014; conf., sez. trib., n. 1184 del 2001 e n. 1548 del 2002). Il risultato dell’effettiva conoscenza dell’atto che consegue alla consegna telematica dello stesso nel luogo virtuale, ovverosia l’indirizzo di PEC espressamente a tale fine indicato dalla parte nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, determina infatti il raggiungimento dello stesso scopo perseguito dalla previsione legale del ricorso alla PEC. Nella specie i ricorrenti non adducono nè alcuno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa, nè l’eventuale difformità tra il testo recapitato telematicamente, sia pure con estensione.doc in luogo del formato.pdf, e quello cartaceo depositato in cancelleria. La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l’interesse all’astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass., sez. trib., n. 26831 del 2014).

Ne consegue che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte.

2. L’intimato Comune di Lecce, nella memoria difensiva, si sofferma sulla propria nel giudizio di legittimità. Sul punto non possono esserci dubbi sul fatto che la sua costituzione, pur effettuata mediante “atto d’intervento ad adiuvandum”, altro non sia che un controricorso in adesione alle tesi dei ricorrenti. Infatti, quando il litisconsorte processuale si limita ad aderire alla richiesta della parte ricorrente senza formulare una propria diversa domanda di annullamento totale o parziale della decisione, si è in presenza di una costituzione in giudizio processualmente valida, anche se subordinata alla sorte dell’impugnazione diretta. Nè al riguardo è necessaria la proposizione di un ricorso incidentale, atteso che la facoltà di contraddire da parte di chi abbia ricevuto la notifica del ricorso non implica necessariamente l’assunzione di una posizione antitetica a quella del ricorrente, ma comprende anche l’ipotesi di adesione, parziale o totale, alle relative richieste in sintonia con il principio dell’art. 24 Cost. che garantisce l’esercizio della facoltà di difesa in ogni stato e grado del giudizio. Altrimenti, si negherebbe alla parte portatrice di un interesse convergente o analogo a quello dell’impugnante, che non abbia a sua volta ritenuto di proporre una propria impugnazione, di costituirsi nel giudizio di legittimità e rendere note le proprie posizioni: esigenza, questa, cui è finalizzato il combinato disposto di cui agli artt. 331 e 370 cod. proc. civ. (Cass., sez. 2, n. 7564 del 2006).

3. Il ricorso è fondato.

Il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel definire all’art. 2 l’oggetto della giurisdizione tributaria, prima elencava al comma 1 i tributi di riferimento, poi al comma 2 stabiliva che “Sono inoltre soggette alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti le sovraimposte e le imposte addizionali nonchè le sanzioni amministrative, gli interessi ed altri accessori nelle materie di cui al comma 1”, infine al comma 3 prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il successivo L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 37, si limitava a modificare il solo comma 1, mentre la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, sostituiva l’intero testo dell’articolo 2, che al comma 1 ridisegnava l’oggetto generale della giurisdizione tributaria, inserendo anche “le controversie aventi ad oggetto… le sovrimposte addizionali, le sanzioni amministrative,…, gli interessi e ogni altro accessorio”, con disposizione analoga a quella del vecchio testo del comma 2; riscriveva, inoltre, il comma 2 con la previsione che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”, con disposizione analoga al vecchio testo del comma 3; riscriveva, infine, il comma 3 nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

I commi 1 e 2 erano modificati dall’art. 3-bis, comma 1, lett. a) – b), D.L. 30 settembre 2005, n. 203, lasciando inalterate le parti che qui vengono in riguardo. Lo stesso dicasi per il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. a), n. 2), (a decorrere dal 1 gennaio 2016).

4. Sul comma 1 è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 5 maggio 2008, n. 130, ne ha dichiarato l’illegittimità, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria.

Sul comma 2 è ancora intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 10 marzo 2008, n. 64, ne ha dichiarato l’illegittimità riguardo al secondo periodo, nella parte in cui stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e, con sentenza 8 febbraio 2010, n. 39, ha dichiarato l’illegittimità del comma 2, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue.

3. Il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel definire all’art. 7 i poteri dei giudici tributari, al comma 5 stabiliva e stabilisce tuttora che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente”.

Il medesimo decreto legislativo, nel definire all’art. 19 gli atti impugnabili, stabiliva tra l’altro che “Il ricorso può essere proposto avverso:… f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 3” che all’epoca prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il testo dell’art. 19, lett. f) non è stato aggiornato per molti anni nonostante il sopravvenuto L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, che portava al comma 2 dell’art. 2 l’originaria previsione del comma 3 e riscriveva quest’ultimo nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

Solo di recente la lett. f) dell’art. 19 è stata adeguata dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 12, comma 3, lett. a), nel senso che “Il ricorso può essere proposto avverso:…f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 2”.

5. La L. 21 novembre 2000, n. 342, nel regolare all’art. 74 l’attribuzione e la modificazione delle rendite catastali, stabilisce che “Dall’avvenuta notificazione decorre il termine per proporre il ricorso di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, e successive modificazioni”.

All’epoca dell’entrata In vigore della suddetta disposizione il richiamato comma 3 dell’art. 2 proc. trib. prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il testo dell’art. 74 non è stato mai aggiornato nonostante la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, che portava al comma 2 dell’art. 2 l’originaria previsione del comma 3 e riscriveva quest’ultimo nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

6. Il senso del perdurante rinvio “al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, e successive modificazioni” non è quello di richiamare nella L. 21 novembre 2000, n. 342, all’art. 74, qualsivoglia testo del ridetto del comma 3, anche il più eterogeneo, ma quello di rinviare a tutte modificazioni del processo tributario riguardanti “le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Trattasi di materia che – dopo la L. 28 dicembre 2001, n. 448 è stata portata dal comma 3 al comma 2, così come ha chiarito anche l’intervento sull’art. 19, lett. f) fatto dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16.

Dunque, laddove la L. 21 novembre 2000, n. 342, all’art. 74 stabilisce che “Dall’avvenuta notificazione decorre il termine per proporre il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni”, si deve leggere ed intendere “comma 2” per effetto indotto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, così raccordandosi anche con l’intervento sul D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, lett. f) fatto dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16.

7. Del resto il nuovo testo del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, appare del tutto eccentrico laddove afferma che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio” con disposizione che si correla all’art. 7 laddove al comma 5 stabilisce che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente”.

Dunque, quello che si viene qui a delineare è un sistema coerente che collega l’attribuzione e la modificazione delle rendite catastali (art. 74 cit.) alla specifica norma processuale tributaria di riferimento (art. 2, nuovo comma 2, cit.) e la disapplicazione di un regolamento o un atto generale (art. 7, comma 5, cit.) con la generale cognizione incidentale del giudice tributario (art. 2, nuovo comma 3, cit.), in piena coerenza logica e giuridica.

Ne emerge chiara la distinzione tra le cd. operazioni catastali individuali – devolute alle commissioni tributarie dagli art. 2, comma 2 (già 3), e art. 19, lett. f), proc. trib. – e gli atti generali di qualificazione, classificazione etc. – devoluti al giudice amministrativo in sede d’impugnazione diretta e al giudice tributario solo in via di mera disapplicazione.

8. Nessuna disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 attribuisce alle commissioni tributarie un potere direttamente incisivo degli atti generali in deroga alla tipica giurisdizione di legittimità costituzionalmente riservata agli organi della giustizia amministrativa. Non vi è spazio – sia nel vecchio contenzioso fiscale di cui al D.P.R. n. 636 del 1972 sia nel processo tributario di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992 – per l’impugnazione di atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti (Cass., sez. un., n. 3030 del 2002), atteso che l’azione del contribuente dinanzi alla commissioni tributarie viene ad essere esercitata – ai sensi dell’art. 19 del menzionato D.Lgs. – mediante l’impugnazione di specifici atti impositivi o di riscossione o di determinati atti di rifiuto (Cass., sez. un., 13793 del 2004).

Sicchè, senza la “mediazione” rappresentata dall’impugnativa dell’atto impositivo, di riscossione o di diniego, il giudice tributario non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere solo incidenter tantum e unicamente ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell’atto amministrativo presupposto dell’atto impugnato (Cass., sez. un., n. 6224 del 2006).

La controversia sugli atti amministrativi generali esula pertanto dalla giurisdizione delle commissioni tributarie, il cui potere di annullamento riguarda soltanto gli atti indicati dall’art. 19 del precitato D.Lgs. o a questi assimilabili, e non si estende agli atti amministrativi generali, dei quali l’art. 7 dello stesso D.Lgs. consente soltanto la disapplicazione, ferma restando l’impugnabilità degli stessi dinanzi al giudice amministrativo.

9. Nè è sostenibile che, per quanto riguarda gli atti generali di formazione, aggiornamento e adeguamento del catasto la L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 74 voglia derogare al normale riparto della giurisdizione tra giudice tributario e amministrativo. Una volontà di tale genere non ha certamente espresso tale disposizione laddove, per un verso, richiama l’art. 2, comma 3 (ora 2), del ridetto D.Lgs., atteso che la disposizione richiamata resta nell’ambito dell’ordinaria impugnazione degli esiti fiscalmente rilevanti delle cd. operazioni catastali individuali; per un altro, il nuovo testo del comma 3, regola la risoluzione in via incidentale di ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella giurisdizione delle commissioni tributarie, da cui non è ricavabile una giurisdizione tributaria di legittimità sugli atti amministrativi generali con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti pur se territorialmente stabiliti.

Dunque, sul piano della giurisdizione, il fatto che al contribuente U. fosse stato già notificato un atto individuale impugnabile autonomamente in forza della L. 21 novembre 2000, n. 342 (art. 74) e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (artt. 2 e 19) non implica che si fosse di per sè stessa consumata, riguardo agli atti dell’amministrazione sulle cd. microzone del territorio comunale di Lecce, quella giurisdizione generale di legittimità che è costituzionalmente e unicamente riservata agli organi della giustizia amministrativa.

10. Ogni questione sull’interesse ad agire dell’ U., di cui pare dubitare la difesa erariale, resta al di fuori dalla delibazione sulla giurisdizione, che è legata invece al petitum sostanziale fatto valere in giudizio e alle regole del processo sulla devoluzione ai vari comparti giurisdizionali. Peraltro, ogni dubbio sul legittimo innesco del giudizio dinanzi al giudice amministrativo è ancor più infondato ove si ponga mente al ruolo rivestito dai soggetti co- ricorrenti, e cioè le articolazioni locali di organizzazioni di tutela radicate sul piano nazionale, cioè Adusbef, Aduc e Codacons. Infatti, ampia giurisprudenza civile, penale e amministrativa ha accertato che il Codacons, per statuto, promuove azioni giudiziarie a tutela degli interessi degli utenti, dei consumatori, dei risparmiatori e dei contribuenti (ex multis Cons. Stato, sez. 3, n. 5043 del 2015, 2.3); analogamente l’Aduc e l’Adusbef operano nell’ambito della difesa dei diritti dei cittadini in quanto utenti e consumatori. Trattandosi di soggetti esponenziali d’interessi diffusi (v. decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206), le suddette associazioni mai potrebbero attivare un ricorso dinanzi alla giustizia tributaria, non essendo destinatari di alcun provvedimento rilevante ai fini dell’impugnazione ex L. 21 novembre 2000, n. 342 (art. 74) ed ex D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (artt. 2 e 19). Le suddette, invece, agiscono quali associazioni a tutela d’interessi collettivi e, dunque, la loro domanda di annullamento erga omnes degli atti della P.A. relativi alle microzone del territorio comunale di Lecce non potrebbe che essere diretta al giudice amministrativo, invocandosi proprio quella giurisdizione generale di legittimità che è costituzionalmente riservata al monopolio del comparto costituito dal Tribunale amministrativo regionale e dal Consiglio di Stato.

11. Orbene, quando si procede all’attribuzione di ufficio di un nuovo classamento ad un’unità immobiliare a destinazione ordinaria, l’Agenzia competente deve specificare se il mutamento è dovuto a una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l’unità immobiliare e, nel caso, indicare l’atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano (ex multis Cass., sez. trib., n. 9629 del 2012), trattandosi di uno dei possibili presupposti del riclassamento (ex multis Cass., sez. trib., n. 11370 del 2012).

In particolare quando si tratta di un mutamento di rendita inquadrabile nella revisione del classamento delle unità immobiliari private site in microzone comunali ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 335, la ragione giustificativa non è la mera evoluzione del mercato immobiliare, nè la mera richiesta del Comune, bensì l’accertamento di una modifica nel valore degli immobili presenti nella microzona, attraverso le procedure previste dal successivo comma 339 ed elaborate con la determinazione direttoriale del 16 febbraio 2005 (G.U. n. 40 del 18 febbraio 2005) cui sono allegate linee guida definite con il concorso delle autonomie locali.

Nello specifico, l’intervento è possibile nelle microzone “perle quali il rapporto tra il valore medio di mercato… e il corrispondente valore medio catastale si discosta significativamente dall’analogo rapporto relativo all’insieme delle microzone comunali” (comma 335). Per il D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2, comma 1, la microzona è una porzione del territorio comunale, spesso coincidente con l’intero Comune, che presenta omogeneità nei caratteri di posizione, urbanistici, storico-ambientali, socioeconomici, nonchè nella dotazione dei servizi e infrastrutture urbane; in ciascuna microzona le unità immobiliari sono uniformi per caratteristiche tipologiche, epoca di costruzione e destinazione prevalenti.

Questo insieme di disposizioni ribadisce e presuppone che il singolo classamento debba avvenire mediante l’utilizzo e la modifica del reticolo di microzone, avente portata generale in ambito comunale. Si tratta di atti amministrativi, non dissimili da altri di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria per la P.A., essendo volti a risolvere specifici problemi tecnico-estimativi posti in astratto dall’ordinamento fiscale e destinati ad operare nei confronti di una generalità indeterminata di destinatari, individuabili solo ex post.

12. Sul piano processuale, dalla natura generale, unitaria e inscindibile del contenuto e degli effetti degli atti amministrativi generali discende sia la mancanza di esigenza di notifica ad almeno uno dei destinatari (non individuabili a priori), sia che il loro annullamento in sede giudiziale determina il venire meno degli effetti nei confronti di tutti i destinatari, compresi quelli rimasti estranei alla controversia (ex multis Cons. Stato, sez. 6, n. 6153 del 2014). La giurisprudenza amministrativa ha più volte posto in rilievo sia che il dovere generale di riconoscere la rimozione per annullamento di un atto generale o presupposto, con conseguente ripristino ex tunc della situazione giuridica preesistente, prescinde dall’estensione del giudicato ai soggetti che non hanno assunto la qualità di parti nel giudizio (es. Cons. Stato, sez. 5, n. 1068 del 2005), sia che il giudicato di annullamento di atti generali o indivisibili si estende a tutti i soggetti interessati, pur non aventi qualità di parte (es. Cons. Stato, sez. 6, n. 211 del 1981 e n. 224 del 1998).

E’, inoltre, principio consolidato quello secondo cui in tema di prestazioni patrimoniali imposte aventi natura tributaria, ai fini del riparto della giurisdizione occorre distinguere tra l’impugnativa di atti generali (o a contenuto normativo), che fissano i criteri per la determinazione delle prestazioni pecuniarie, e l’impugnazione di concreti provvedimenti con i quali l’amministrazione determina l’ammontare della prestazione e/o ne impone l’esecuzione, atteso che nel primo caso gli atti costituiscono espressione di potestà discrezionale e incidono su posizioni di interesse legittimo tutelabili dinanzi al giudice amministrativo (ex multis Cons. Stato, sez. 6, n. 6353 del 2004), laddove s’impugnino le operazioni dell’amministrazione per denunciarne i vizi tipici previsti dalla L. n. 1034 del 1971, artt. 2 e segg. (Cass., sez. un., n. 675 del 2010) e ora dall’art. 7 del codice del processo amministrativo.

Di contro si è ripetutamente affermato che la giurisdizione tributaria ha per oggetto sia l’an che il quantum della pretesa tributaria e comprende anche l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta o dei limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato, ma non ricorre allorquando non è in discussione l’obbligazione tributaria e neppure il potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione, proprio del rapporto tributario; non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie devolute alle relative commissioni (Cass., sez. un., n. 7256 del 2013).

Nè rileva la tendenza all’allargamento della giurisdizione tributaria che, iniziato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448, è proseguito con leggi successive e con l’evolversi della giurisprudenza di legittimità. Vale, Infatti, il richiamo della Corte costituzionale ai limiti intrinseci a tale giurisdizione non ampliabili ad libitum (sent. n. 64 e n.130 del 2008, n.39 del 2010).

Mentre è stata riconosciuta sì la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dal fisco, ma solo a condizione che si prospetti una ben individuata pretesa e/o uno specifico pregiudizio rilevante per il contribuente (Cass., sez. trib., n. 17010 del 2012, in tema d’interpello) o collegato all’interesse fiscale diretto e immediato di un ente territoriale (Cass., sez. un., n. 15201 del 2015).

13. In conclusione, la circostanza che il 21 dicembre 2012 sia stato notificato all’ U. l’avviso di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita non può incidere sulla perdurante giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a conoscere dell’impugnazione diversamente diretta all’annullamento degli atti amministrativi generali (che hanno accertato la modifica del valore degli immobili presenti nelle microzone comunali, attraverso le procedure previste dai ridetti commi 335-339 e dalla menzionata determinazione direttoriale del 16 febbraio 2005) e proposta anche da associazioni di categoria dei consumatori e degli utenti per l’interesse collettivo a contestare l’introduzione di un aggravio aggiuntivo alle necessità del vivere e correlato a diritti fondamentali tutelati e riconosciuti dall’ordinamento (cfr. art. 2, comma 2, cod. cons.) in favore dei consumatori e degli utenti medesimi, fra i quali assoluta preminenza è da riconoscersi ai diritti economici relativi alle necessità del vivere, quali la casa.

Dunque resta fuori dal perimetro della giurisdizione amministrativa solo il segmento del ricorso introduttivo riguardante la contestuale impugnazione dell’avviso di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita che è devoluta alle commissioni tributarie quale cognizione riguardo alla mera operazione catastale individuale.

Sul punto si rammenta che il principio di autonomia delle singole giurisdizioni in materia di verifica della validità degli atti amministrativi non esclude che il giudice tributario, dinanzi al quale sia stata prospettata l’illegittimità di un atto costituente presupposto di quello impositivo, possa disporre la sospensione del processo, nel caso in cui la medesima questione formi oggetto di uno specifico giudizio pendente dinanzi al giudice amministrativo (Cass., sez. trib., n. 16937 e n. 18992 del 2007; v. Cass., sez. un., n. 6265 del 2006). Qualora poi, indipendentemente dalla sospensione, sia intervenuta al riguardo una pronuncia del giudice amministrativo, la stessa, soprattutto se passata in giudicato, non può non svolgere effetto vincolante nel processo tributario, non ostandovi il dovere- potere del giudice tributario, non fornito di giurisdizione in via principale, di verificare in via incidentale la validità degli atti presupposti e di procedere alla loro disapplicazione (ult. cit.), fermo restando che il giudicato di annullamento di atti generali comporta il ripristino ex tunc della situazione giuridica preesistente e si estende a tutti i soggetti interessati (conf. sopra 12).

14. Pertanto, accolto il ricorso nei sensi sopra indicati e cassata l’impugnata sentenza nei limiti ivi precisati, deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo sul ricorso introduttivo, ad eccezione dell’impugnazione dell’avviso di accertamento notificato all’ U. il 21 dicembre 2012; consequenzialmente le parti devono essere rimesse dinanzi al Consiglio di Stato per la riassunzione del giudizio nei termini di legge.

La novità della questione di giurisdizione e il complesso evolversi della legislazione in materia costituiscono giustificati motivi per compensare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie parzialmente il ricorso, cassa in relazione la sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo nei sensi indicati in motivazione, rimette le parti dinanzi al Consiglio di Stato per la riassunzione del giudizio nei termini di legge, compensa le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2016


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 30-09-2015) 09-03-2016, n. 4609

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26036/2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ESA SERRAMENTI SRL;

– intimato –

avverso la sentenza n. 411/2009 della COMM.TRIB.REG. del LAZIO, depositata il 10/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/09/2015 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato CASELLI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Lazio con sentenza in data 10.9.2009 n. 411, rigettava l’appello proposto dall’Ufficio di Roma della Agenzia delle Entrate e confermava la decisione di prime cure che aveva annullato l’avviso di accertamento emesso nei confronti di ESA Serramenti s.r.l. avente ad oggetto il recupero della maggiore IVA, IRPEG ed IRAP dovuta dalla società per l’anno 2002 in relazione ad indebita applicazione dell’aliquota ridotta al 10% sulla fattura emessa per la esecuzione di lavori di manutenzione straordinario di un edificio adibito a casa di cura e riabilitazione di proprietà di Medicus Hotel Monteripoli s.r.l., nonchè per omessa fatturazione di una quota parte di lavori effettuati nell’anno 2002 alla committente Nuova Script.

I Giudici di appello rilevavano che l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta era da ritenere corretta in quanto i lavori avevano interessato una casa di cura e quindi beneficiavano delle agevolazioni fiscali di cui dalla L. 2 luglio 1949, n. 408, artt. 13, 14, 16 e 18, estese agli edifici contemplati dal R.D. 21 giugno 1938, n. 1094, art. 2, comma 2, convertito nella L. 5 gennaio 1939, n. 35, (tra cui erano ricomprese anche le case di cura). Quanto alla omessa fatturazione della prestazioni di servizi, ritenevano infondata la pretesa tributaria, atteso che dai documenti non risultava “l’epoca certa della operazione da fatturare” e pertanto non poteva escludersi che la stessa fosse stata eseguita nell’anno 2001.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate, che ha dedotto due censure, per vizi di violazione di norme di diritto.

La parte intimata non si è costituita.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile non essendo stato instaurato il contraddittorio nei confronti di ESA Serramenti s.r.l..

Occorre premettere che, nella notifica eseguita a mezzo del servizio postale, sia nelle forme di cui all’art. 149 c.p.c., e della L. n. 890 del 1982, avvalendosi dell’Ufficiale giudiziario o dei messi notificatori autorizzati dalla legge, sia nelle forme previste dalla L. n. 53 del 1994, direttamente dal procuratore ad litem, disciplina estesa all’Avvocatura Generale dello Stato dall’art. 55 n. 69 del 2009, costituisce principio ripetutamente affermato da questa Corte che la notifica non si esaurisce con la spedizione dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario, e l’avviso di ricevimento prescritto dall’art. 149 c.p.c., e dalle disposizioni della L. 20 novembre 1982, n. 890, è il solo documento idoneo a dimostrare sia l’intervenuta consegna che la data di essa e l’identità e l’idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita (cfr. Corte cass. sez. lav. 24.7.2007 n. 16354). Pertanto, la mancata produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento comporta, non la mera nullità, ma la insussistenza della conoscibilità legale dell’atto cui tende la notificazione (della quale, pertanto, non può essere disposta la rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.) con la conseguente inammissibilità del ricorso medesimo, in quanto non può accertarsi, in caso di mancata costituzione in giudizio della controparte, l’effettiva e valida instaurazione del contraddittorio, anche se risulta provata la tempestività della proposizione dell’impugnazione (cfr. Corte Cass. sez. lav. 29.3.1995 n. 3764; id. 2^ sez. 18.7.2003 n. 11257; id. 1^ sez. 10.2.2005 n. 2722 – con riferimento alla notifica del ricorso per cassazione -; id. 5^ sez. 8.5.2006 n. 10506, con riferimento alla notifica dell’atto di appello; vedi sez. lav. 24.7.2007 n. 16354).

Tuttavia, la parte notificante può domandare di essere rimessa in termini, ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c., (norma attualmente inserita nell’art. 153 c.p.c., comma 2, in seguito alla novella della L. n. 69 del 2009), per il deposito dell’avviso che affermi di non aver ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivata nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso, secondo quanto previsto dal L. n. 890 del 1982, art. 6, comma 1, (cfr. Corte Cass. SU 14.1.2008 n. 627, con riferimento al giudizio di cassazione; cfr. da ultimo Corte Cass. 2^ sez. ord. interl. 4.1.2011 n. 98).

Il difensore della Agenzia ricorrente ha depositato in allegato alla memoria prova della notifica del ricorso per cassazione a mezzo di posta certificata (PEC), in data 10.8.2015, al dott. S. G. difensori abilitato della società contribuente nominato ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, ed alla udienza di discussione ha chiesto ritenersi ritualmente costituito il contraddittorio e in subordine rinvio a nuovo molo con assegnazione di termine per il rinnovo della notifica del ricorso.

La istanza non può trovare accoglimento dovendo ribadirsi il principio di diritto affermato da questa Corte in ripetute pronunce secondo cui “in tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio di ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificato rio e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (cfr.

Corte Cass. SU 24.7.2009 n. 17352; id. 5^ sez. ord. 15.1.2010 n. 586;

id. sez. lav. 22.3.2010 n. 6846; id. 3^ sez. 15.4.2010 n. 9046: id.

sez. lav. 13.10.2010 n. 21154).

Nella specie risulta dagli atti che:

– in data 2.11.2010, è stata eseguita la notifica del ricorso mediante spedizione postale L. n. 69 del 2009, ex art. 55, indirizzata alla società presso la sede legale (OMISSIS) (la impugnazione deve quindi ritenersi tempestiva, tenuto conto della doppia festività consecutiva del giorno di scadenza 31 ottobre – domenica – e del 1 novembre 2010): la cartolina AR restituita in data 5.11.2010, reca mancata consegna per “irreperibilità del destinatario”. – in data 30.11.2010 il ricorso risulta consegnato anche all’Ufficiale Giudiziario, per la notifica a mani proprie alla medesima sede legale di (OMISSIS) con l’indicazione “cfr. allegata visura camerale 29.11-2010 CCIAA di Roma”: dalla visura camerale, tuttavia, risultava che la originaria sede legale in (OMISSIS) era stata trasferita in “(OMISSIS)” con delibera assembleare 14.3.2008: la notifica a “mani proprie” dell’Uff. Giud., eseguita in data 1.12.2010, presso la vecchia sede legale, riporta nella relata “non rintracciata la notificanda all’indicato indirizzo. Il nominativo della stessa non figura nei citofoni e sulle cassette e la medesima risulta sconosciuta nello stabile privo di portiere”. – il ricorso per cassazione risulta consegnato nuovamente all’Ufficiale Giudiziario in data 5.1.2011 ma, stavolta, per essere notificato ex art. 149 c.p.c. “presso lo studio del dott. S. G. a (OMISSIS)” (nominato in primo grado, mentre la società risulta non costituita in grado appello:

sic sent. CTR) e l’atto risulta spedito a mezzo posta il successivo 6.1.2011: la relata di notifica risulta negativa, essendo stata restituita la busta contenente il ricorso in data 7.1.2011 con l’annotazione “trasferito”.

Da quest’ultima data non risultano compiute ulteriori ricerche e riprese dell’attività notificatoria, fino alla data 7.8.2015 in cui l’Avvocatura dello Stato richiede all’Ordine dei Commercialisti di Tivoli di conoscere l’indirizzo dello studio professionale del dott. Sorbara, ed in data 10.8.2015 acquisisce l’estratto del registro delle imprese della CCIAA di Roma, relativo alla società contribuente, dal quale risulta la modifica statutaria della sede legale deliberata nel marzo 2008.

Il quadriennio trascorso inutilmente trascorso dall’ultima relata di notifica negativa fino alla ripresa delle indagini sulla sede e residenza dei destinatari della notifica, si palesa come evento ostativo all’accertamento di un “continuum” nello svolgimento dell’attività notificatoria, cui è tenuta diligentemente la parte notificante nel caso in cui la notifica dell’atto risulti impedita per fatti ad essa non imputabili.

Orbene il difensore della Agenzia fiscale non ha allegato di aver avuto conoscenza solo in ritardo – per cause allo stesso non imputabili – delle informazioni necessarie a rinnovare tempestivamente la notifica del ricorso per cassazione, e dunque non ha fornito valide ragioni giustificative della prolungata inerzia protrattasi fino alla ripresa, nell’anno 2015, del procedimento notificatorio, tanto più che la conoscenza – a far data almeno dal 30 novembre 2010 – della modifica statutaria, risalente al 2008, della sede legale della società, non consente di ravvisare quel minimo di diligenza richiesta, venendo meno in conseguenza la condizione essenziale per giustificare il ritardo nella notifica e cioè che la iniziativa diretta del richiedente sia svolta in un ragionevole lasso di tempo e comunque in tempo utile rispetto alla trattazione del ricorso alla data fissata per la pubblica udienza.

Il ricorso deve in conseguenza essere dichiarato inammissibile non dovendo procedersi a liquidazione delle spese di lite in considerazione della contumacia della società intimata.

P.Q.M.
La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2016


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-09-2015) 04-03-2016, n. 4248

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente Sezione –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3776/2009 proposto da:

G.M.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 44, presso lo studio degli avvocati MIGLINO FRANCO, ARNALDO MIGLINO e CHIARA GAMBARDELLA, che la rappresentano e difendono, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.D. (OMISSIS), in persona del procuratore speciale A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MONTESANTO COSTANTINO, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

G.R.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 449/2008 della CORTE D’APPET LO di SALERNO, depositata il 29/04/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/09/2015 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato Arnaldo MIGLINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per la ritrasmissione degli atti alla Sezione per consentire la eventuale produzione della procura.

Svolgimento del processo
1) Con sentenza n. 3263/2005 il Tribunale di Salerno – adito da A. D., rappresentato dal suo procuratore speciale A.G., nei confronti di G.M.T. e R. – accolse le domande dell’attore, dirette ad ottenere l’accertamento dell’avvenuta usucapione di un locale terraneo in (OMISSIS) e la dichiarazione di nullità dell’atto di divisione intercorso tra le convenute il 20 maggio 1992, nella parte in cui il bene in questione era stato assegnato alla prima di loro.

Il Tribunale rigettò la domanda riconvenzionale, avente per oggetto la condanna dell’attore alla rimozione di un lucchetto che aveva apposto a chiusura dell’immobile, al rilascio di questo, al risarcimento di danni. Impugnata da G.M.T., la decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Salerno, che con sentenza n. 449 del 29 aprile 2008 ha rigettato il gravame.

G. nel febbraio 2009 ha proposto ricorso per cassazione, in base a undici motivi.

A.G., in rappresentanza di A.D., si è costituito con controricorso.

G.R. non ha svolto attività difensiva.

Con ordinanza n. 25353 del 2014 la Seconda sezione civile ha trasmesso gli atti al Primo Presidente della Corte, il quale ha assegnato la causa alle Sezioni Unite, affinchè in relazione al primo motivo sia risolto un contrasto di giurisprudenza rilevante per la decisione.

La causa è stata nuovamente discussa alla odierna udienza.

E’ stato dato avviso al difensore del controricorrente, che ha eletto domicilio in (OMISSIS), sia con comunicazione presso la cancelleria della Corte di Cassazione, sia al numero di fax (Cass. SU 10143/12; 7658/13).

Motivi della decisione
2) Con il primo motivo (“inosservanza, violazione, falsa applicazione degli artt. 77 e 100 c.p.c.”) viene denunciato che il procuratore A.G. non ha prodotto in nessun grado di giudizio la procura notaio Barela del 2001 dalla quale dovrebbe derivare il suo potere sostanziale e processuale di rappresentare il sig. D..

Parte ricorrente ne inferisce la mancanza in capo all’istante di un “potere rappresentativo di natura sostanziale” e ne chiede la verifica.

2.1) L’ordinanza 25353/14 ha rilevato:

che il resistente ha replicato che l’eccezione di cui si tratta non può avere ingresso in questa sede, in quanto è stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità e implica la necessità di accertamenti e valutazioni di merito;

che “l’obiezione del controricorrente” non è fondata quanto a quest’ultimo profilo, “essendo stato dedotto un vizio di natura processuale, in relazione al quale la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto”; che con riguardo al profilo relativo alla “novità” della questione – non prospettata e non rilevata nei gradi di giudizio di merito – la giurisprudenza di legittimità non è univoca.

In particolare la Seconda sezione ha ricordato che (SU 24179/09) “in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone come causa di esclusione anche della legitimatio ad processum del rappresentante, il cui accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto, e con possibilità di diretta valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo”.

La Sezione ha osservato che le Sezioni Unite non hanno però precisato se la formazione del “giudicato sul punto” debba derivare dall’affermazione del giudice circa la sussistenza del potere rappresentativo in chi agisce in giudizio in nome altrui, o “se possa desumersi senz’altro dall’avvenuta decisione nel merito della causa”.

L’ordinanza di rimessione ha aggiunto che “in proposito, nell’ambito delle sezioni semplici, si è delineato un contrasto di giurisprudenza poichè la Prima sezione con la sentenza 30 ottobre 2009 n. 23035 e la sezione Lavoro con la sentenza 21 dicembre 2011 n. 28078 si sono orientate, rispettivamente, nel senso della sufficienza di giudicato “implicito” e nel senso della necessità del giudicato “esplicito”.

In particolare la sentenza 23035/09 ha affermato che “il limite della rilevanza del difetto di valida rappresentanza processuale è costituito dal formarsi del giudicato, il quale impedisce il riesame non solo delle ragioni o questioni giuridiche che sono state proposte e fatte valere in giudizio, ma anche di quelle che, seppure non espressamente dedotte o rilevate, costituiscono il necessario presupposto, anche di ordine processuale, della pronuncia di merito (cd. giudicato implicito); conseguentemente, è inammissibile nel giudizio di legittimità il motivo di ricorso con il quale si deduce il vizio di rappresentanza di un ente collettivo nei precedenti gradi del giudizio, quando lo stesso non sia stato mai dedotto nel corso dei medesimi”.

Per contro, secondo la massima della citata sentenza della Sezione Lavoro (n. 28078/11): “poichè la delega del presidente dell’Inpdap ad un direttore di sede periferica, per agire in giudizio, attiene al momento genetico del processo e alla valida instaurazione del contraddittorio, la procura da questi conferita al difensore dichiarando di agire per l’Inpdap, senza neppure dedurre di averne ricevuto i poteri rappresentativi in base alla suddetta delega, determina la nullità del giudizio, rilevabile d’ufficio semprechè, sulla specifica questione, non si sia formato il giudicato interno, che si determina allorchè la carenza del potere rappresentativo sia stata appositamente denunciata e, quindi, sia stata espressamente negata dal giudice di merito ovvero sia rimasta senza esplicita risposta e tale omessa pronuncia non sia stata poi oggetto di appello”.

3) Il quesito posto dalla Seconda Sezione va esaminato, giacchè la questione, che è anche rilevabile d’ufficio, consente alla Corte le verifiche di fatto indispensabili allo scopo, in quanto ha natura processuale (cfr. tra le tante: Cass. 17653/12; 12664/12; 8077/12;

1221/06).

Consta pertanto, dall’esame del fascicolo, che parte controricorrente non ha versato in atti la procura generale con la quale A.D. avrebbe investito il figlio G. del potere rappresentativo ora contestato dal ricorrente.

Lo stesso controricorso, che tace sul punto, e si trincera dietro la novità della questione sollevata con il primo motivo, non ha negato la mancanza della produzione.

Neanche in corso di trattazione il controricorrente, che era gravato dell’onere di documentare la esistenza dei propri poteri di rappresentanza, ha provveduto a darne documentazione o a dedurre in ordine al testo della procura o alle modalità di rilascio.

4) Il tema del giudicato implicito sulle questioni processuali ha trovato rinnovata ampia trattazione a partire dalla svolta giurisprudenziale, concretizzatasi con Cass. Sez. Un. 24883/08, in tema di applicazione dell’art. 37 c.p.c., norma secondo la quale il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.

La Corte ha in quella circostanza stabilito che: “1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c., (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito.

In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito”.

4.1) Questo orientamento è stato tenuto fermo dalle Sezioni Unite (SU 8075/15; 22745/14; 9693/13; 9594/12), nonostante le opinioni dottrinali, restie ad accettare un “uso improprio del giudicato implicito” e in particolare che il “vincolo dei principi” prevalga su quanto desunto dalle regole positivamente stabilite.

Esso costituisce ormai diritto vivente (cfr. Cass. SU 29/2016) ed è stato recepito dal codice del processo amministrativo all’art. 9.

4.1.1) Le Sezioni Unite, poche settimane dopo aver reso la sentenza 24883/08, hanno precisato la portata della novità immessa nel sistema.

Nei paragrafi da 3.5) a 3.11), la sentenza 26019/2008 ha affermato che il potere di controllo delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità, mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di Cassazione, va ritenuto compatibile con la prospettiva del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., allorchè si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio – in quanto tale sistema di verifica consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il giudicato, attraverso la successiva proposizione dell’actio nullitatis o del rimedio impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c., da parte del litisconsorte pretermesso – ovvero di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi, come il difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell’azione, la decadenza sostanziale dall’azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza sociale.

La Corte ha osservato che in tutte queste ipotesi si prescinde “dal vizio relativo all’individuazione del giudice”, poichè si tratta non già di provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale, bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare, “difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio”.

4.2) La dottrina ha colto, nel trittico di sentenze del 2008 (va ricordata anche la n. 29523/08) e nella approfondita pronuncia in tema di ricorso incidentale (SU n. 5456/09), la quale pure ha escluso (10.2) che sussista una decisione implicita sulle questioni processuali diverse dalla giurisdizione, i segni dell’adesione alla teoria del c.d. doppio oggetto del processo, descritta da SU n. 6737/02, in un passo testualmente ripreso da SU n. 24883/08.

Non è qui il caso di soffermarsi su questo profilo teorico: giova ai nostri fini rilevare che è stato comunque confermato, al di là dei perduranti dissensi dottrinali sul giudicato implicito in ordine alla giurisdizione, che ha pregio la distinzione tra diverse soluzioni:

quella riservata alla questione di giurisdizione e quella che è prospettata da SU n. 26019/08 per le questioni processuali “fondanti”.

Queste ultime non si possono considerare implicitamente risolte, ma sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perchè servono a salvaguardare l’ordinamento dal disvalore “di sistema” costituito dall’emissione di sentenze inutiliter datae.

E’ stato prospettato che solo per le questioni pregiudiziali di rito di minor rilievo, che non condizionino cioè “l’efficacia e l’utilità stessa della decisione”, vi sarebbe materia per un ripensamento a livello normativo, che muova dalla riscrittura dell’art. 37.

Resta invece consolidato l’insegnamento che vuole sempre riesaminabili, salvo che in sede di rinvio, le questioni vitali (capacità di agire, litisconsorzio, giudicato, etc.) individuate da Cass. 26019/08, non esplicitamente risolte.

Una malintesa visione della ragionevole durata del processo non deve condurre a sormontare la “giustezza” del processo, che è tale se si evita di far nascere occasionalmente una sentenza instabile, perchè facilmente sottomessa alle folgori dell’opposizione ex art. 404 c.p.c. o del contrasto con il precedente giudicato (cfr supra, SU 26019/08, 3.5).

4.3) In questa direzione cospira, se ve ne fosse bisogno, anche quanto le Sezioni Unite hanno avuto modo di osservare, occupandosi delle impugnative negoziali (SU 26242/14), sul tema del giudicato implicito.

Ivi è stato affermato che nel nostro sistema positivo non è riconosciuta l’idea di “un giudicato implicito che postuli il rigoroso e ineludibile rispetto dell’ordine logico-giuridico delle questioni”.

E se questa considerazione cadeva a proposito di una questione di merito e si riferiva al controverso operare del meccanismo del c.d.

dedotto e deducibile, rivisto alla luce delle dottrine di matrice tedesca sul motivo portante del giudicato, ancor più appropriata suona con riguardo alle questioni processuali tra le quali si pone quella esaminata, che concerne la sussistenza del potere di rappresentanza in capo a colui che abbia agito in giudizio in nome di altri.

5) La mancanza del potere di rappresentanza, essendo quest’ultima una delle condizioni di esistenza del potere di azione, giustifica il rilievo officioso in sede di legittimità1anche se non vi sia stata contestazione nei gradi di merito.

Va dunque ribadito quanto già appartiene all’insegnamento manualistico: all’indispensabilità della qualità di rappresentante sostanziale (oltre a SU 24179/09 cit., v. Cass. 16274/15 e 4248/13) fa riscontro anche la necessità di conferire per iscritto (art. 77 c.p.c.) la legittimazione processuale, così come quest’ultima non può esistere senza la prima.

E’ utile ricordare che proprio con una giustificazione di sicuro taglio processuale le Sezioni Unite hanno rivisto l’inquadramento del rilievo della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator.

A tutela della sicurezza dei traffici giuridici, si è osservato, è stato posto nell’ambito delle mere difese il potere della parte di rilevare il difetto di rappresentanza, della cui assenza, risultante dagli atti, il giudice deve peraltro tener conto anche in mancanza di una specifica richiesta di parte (SU 11377/15).

5.1) A questo inevitabile rigore fa da riscontro simmetricamente, come vuole parte della dottrina, la ampia sanabilità del vizio della rappresentanza volontaria di cui qui si tratta – l’odierna sentenza non tratta infatti dei vizi della procura – ammessa dall’art. 182 c.p.c..

Deve essere in proposito rammentato che secondo le Sezioni unite (Cass. 9217/10), già in controversia instaurata prima della novella n. 69 del 2009, “l’art. 182 c.p.c., comma 2, secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione può assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2, nel senso che il giudice deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali”.

5.1.1) Questo principio va in linea di principio confermato, con la precisazione che qualora il rilievo del vizio non sia officioso, ma venga per la prima volta sollevato in sede di legittimità dalla controparte, sorge immediatamente per il rappresentato l’onere di procedere alla sanatoria, con la produzione necessaria allo scopo.

Non v’è infatti luogo per assegnare un termine, a meno che non sia motivatamente richiesto, allorquando il rilievo non sia officioso (e quindi nuovo), perchè il giudice è stato preceduto dal rilievo di parte, sul quale l’avversario è chiamato a contraddire (cfr infra sub 5.3).

5.2) La opzione interpretativa avviata nel 2010 (riconosciuta anche da Cass. 23670/08; 7529/09; più di recente cfr Cass. 11898 del 28/05/2014), che è intesa a favorire la celebrazione del processo al fine di giungere a una stabile soluzione di merito, è sicuramente nel senso che si può desumere dal disposto vecchio e nuovo dell’art. 182 c.p.c..

Esso mira, oggi più esplicitamente, a consentire che sia posto rimedio alla nullità rilevante.

Occorre perciò evitare per quanto possibile, in funzione della pienezza del rimedio, disarticolazioni nei vari gradi di giudizio “fra rilevabilità e sanabilità del difetto”.

E’ stato sostenuto in dottrina, per contestare la sanabilità in sede di impugnazione del difetto di legittimazione processuale che il rilievo in appello potrebbe incidere sul principio di parità delle parti. Sarebbe infatti consentito al falso rappresentato, e non all’altra parte, di giovarsi, con la ratifica, solo dei giudizi in cui la sua posizione sia risultata vittoriosa, rigettando le conseguenze della soccombenza.

L’osservazione non è convincente: l’altra parte ha comunque interesse ad una pronuncia che non sia esposta a impugnazioni straordinarie, ma venga utilmente reincanalata; inoltre potrà pur sempre rivalersi sul falso rappresentante, se ve ne sono le condizioni.

Peraltro anche la dottrina più perplessa (ma le perplessità concernono soprattutto la diversa materia dei vizi della procura) riconosce che le situazioni contemplate dall’art. 182, sono molteplici: non è questa l’occasione per compilarne una mappa, ognuna potendo meritare una riflessione, pur alla luce del principio generale adottato.

5.3) Tirando le fila del discorso che si è condotto, occorre quindi respingere le posizioni rispecchiate in precedenza da Cass. 17893/09 e Cass. SU 23019/05, restie alla sanatoria in grado di impugnazione, e riaffermare l’opposto principio, secondo il quale è possibile la sanatoria del difetto di rappresentanza, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie (v. Cass. 22099/13; 798/13).

Giova chiarire che qualora sorga in sede di legittimità la contestazione esplicita del potere rappresentativo del soggetto che ha agito in giudizio, o stia resistendo, la prova (documentale) della sussistenza della legittimazione processuale puoi essere fornita anche in questa sede, ai sensi dell’art. 372 c.p.c.. (v. Cass. 12547/03; 24813/13).

La mancanza di ogni produzione impone, nel caso odierno, di adottare la soluzione in rito di cassazione della sentenza impugnata, dichiarando la nullità di tutti gli atti del giudizio svoltosi su impulso processuale viziato.

6) Resta assorbito l’esame degli altri motivi di ricorso.

Le spese dei giudizi di merito possono essere equamente compensate tra le parti, poichè parte G. non ha verificato in quella sede il potere rappresentativo dell’attore, pervenendo all’eccezionale situazione della contestazione tardiva.

Le spese di questo grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso.

Cassa senza rinvio la sentenza impugnata e dichiara la nullità di tutti gli atti del giudizio.

Dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Condanna parte resistente alla refusione delle spese di questo grado di giudizio liquidate in Euro 3.000 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 22 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2016


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 19-11-2015) 17-02-2016, n. 3067

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3344/2013 proposto da:

C.P. C.F. (OMISSIS), rappresentato e difeso da sè medesimo, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIRO MENOTTI 24, presso il suo studio;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza definitiva n. 13621/2012 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 04/07/2012 R.G.N. 66698/2008;

avverso l’ordinanza definitiva della CORTE DI APPELLO DI ROMA, depositata il 11/01/2013 R.G.N. 5391/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/11/2015 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero della Giustizia, vittorioso in giudizio d’appello, ha notificato all’avv. C.P. un’ingiunzione di pagamento R.D. n. 639 del 1910, ex art. 3, per ottenere la restituzione delle spese processuali allo stesso corrisposte quale procuratore antistatario in base alla sentenza del Tribunale.

L’avv. C. ha proposto opposizione all’ingiunzione del Ministero ed il Tribunale, con sentenza del 4/7/2012, ha rigettato l’opposizione.

Con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., dell’11/1/2013 la Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’avv. C. in quanto privo di ragionevole probabilità di accoglimento.

La Corte territoriale ha affermato la legittimità formale dell’ordinanza ingiunzione, essendo la firma riferibile al soggetto indicato quale direttore dell’ufficio che aveva emanato l’atto e comunque stante l’inessenzialità della sottoscrizione autografa come desumibile dalla possibilità che la firma autografa potesse essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del responsabile.

Ha rilevato, altresì, che l’ingiunzione era basata su sentenza di secondo grado esecutiva; che era irrilevante la circostanza della successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma su cui era fondata la sentenza posta a base dell’ingiunzione.

Ha osservato altresì, che legittimato passivo alla restituzione delle somme era l’avv. C. quale procuratore antistatario e che l’eccezione di compensazione sollevata dall’avv. C. per un dedotto mancato compenso per l’attività di vicepretore da lui svolta era basata su circostanze generiche.

Avverso l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., nonchè avverso la sentenza del Tribunale ricorre in Cassazione l’avv. C..

Il Ministero è rimasto intimato.

Motivi della decisione
Il ricorrente deduce, in primo luogo, che l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., è impugnabile ai sensi dell’art. 111 Cost e art. 360 c.p.c., u.c., pur nel silenzio del legislatore in quanto provvedimento decisorio, incidente su diritti tra cui quello all’impugnazione ed è definitivo.

Denuncia vizi propri di detta ordinanza ed in particolare con un primo motivo violazione del diritto di difesa e del contraddittorio, degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 348 ter c.p.c.. Lamenta la violazione del contraddittorio stante il mancato rinvio della causa davanti alla Corte d’appello per consentire all’appellante di esaminare la comparsa del Ministero, costituitosi il giorno prima della prima udienza con un fascicolo asserito quale “duplicato” di quello di primo grado corredato di nuovi documenti sui quali non c’era stato contraddittorio.

Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 348 ter c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto detta norma prevedeva che l’ordinanza dovesse essere succintamente motivata e che nella specie il provvedimento non aveva soddisfatto tale esigenza.

Ripropone le censure circa la regolarità formale dell’ordinanza ingiunzione, la mancanza di un capo condannatorio nella sentenza posta a base dell’ingiunzione e l’affermata irrilevanza del suo passaggio in giudicato, il difetto di legittimazione passiva del procuratore antistatario e, infine, l’infondatezza della motivazione di rigetto dell’eccezione di compensazione.

Il ricorrente poi propone contestualmente sette motivi avverso la sentenza del Tribunale. Logicamente prioritario è l’esame del ricorso proposto avverso l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..

A seguito del manifestarsi di un contrasto in seno a questa Corte (tra l’orientamento espresso da Cass. n. 7273 del 2014 – secondo la quale l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c., non è ricorribile per cassazione per difetto di definitività se emessa nell’ambito suo proprio, cioè per manifesta infondatezza nel merito, ma deve ritenersi ricorribile ove dichiari l’inammissibilità dell’appello per ragioni processuali, avendo in tal caso carattere definitivo e valore di sentenza – ed il diverso orientamento espresso da Cass. n. 8940 del 2014, secondo la quale il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non è mai esperibile avverso l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello ex artt. 348 bis e ter c.p.c., a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita l’adozione ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all’esperibilità del ricorso straordinario, la non definitività dell’ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l’appello sta deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti nonchè al rispetto delle regole processuali fissate dagli articoli sopra richiamati) le SSUU di questa Corte con la recente sentenza n 1914/2016, cui questo Collegio intende dare continuità ed alla cui ampia ed esauriente motivazione ci si riporta, ha ritenuto l’impugnabilità ex art. 111 Cost., dell’ordinanza suddetta per vizi suoi propri consistenti in violazione della normativa processuale.

Con la sentenza citata le sezioni unite hanno affermato che, “avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, deve altresì escludersi che l’ordinanza in esame sia impugnabile con censure riguardanti il “merito” della controversia, giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.. La questione resta circoscritta pertanto alla ricorribilità (o meno) dell’ordinanza suddetta per vizi propri di carattere processuale, cioè alle ipotesi in cui, non essendo l’errore del giudice d’appello deducibile come motivo di impugnazione del provvedimento di primo grado, manca la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo attraverso il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di primo grado”.

Ciò premesso i due motivi d’impugnazione sopra esposti possono essere esaminati ma nei limiti sopra precisati.

Con riferimento al primo motivo nessuna violazione del principio del contraddittorio o del diritto di difesa risulta verificatasi nella fattispecie in esame considerato che la decisione è stata emessa dalla Corte d’appello all’esito dell’udienza di trattazione nella quale le parti sono comparse ed hanno potuto esporre le loro richieste e difese come risulta da quanto riferito dallo stesso ricorrente, che ha affermato di aver anche eccepito la nullità del deposito di nuovi documenti da parte del Ministero.

Per quanto attiene, in particolare, alla produzione di detta documentazione di cui si duole il ricorrente la censura risulta del tutto generica non essendosi precisato neppure se e in che modo tale documentazione abbia inciso sulla decisione assunta dalla Corte o se sia stata esaminata.

In relazione al secondo motivo secondo cui l’ordinanza non sarebbe motivata occorre ribadire che, essendo il merito ridiscutibile attraverso il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado e non essendo pertanto in proposito configurabile la definitività richiesta per il ricorso ex art. 111 Cost., comma 7, le problematiche concernenti la motivazione dell’ordinanza impugnata possono essere affrontate in sede di impugnazione dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., non attraverso la denuncia di un errar in iudicando, quindi di un “vizio di motivazione” – o quel che resta di esso dopo l’ultima riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – bensì solo attraverso la denuncia di violazione della legge processuale che sancisce l’obbligo di motivazione, denuncia che è stata peraltro ammissibilmente proposta nei suddetti termini dall’odierno ricorrente. Sulla base della univoca giurisprudenza di queste sezioni unite, sia remota che più recente, non può pertanto esservi dubbio che la violazione del dovere di motivazione è riscontrabile solo nelle ipotesi di totale mancanza della motivazione dal punto di vista materiale e grafico ovvero nelle ipotesi ad esse assimilabili, ossia quando, pur essendovi una motivazione in senso materiale e grafico, essa non contiene una effettiva esposizione delle ragioni poste a base della decisione perchè propone contrasti irriducibili fra affermazioni inconciliabili ovvero si presenta perplessa o comunque risulta obiettivamente incomprensibile e quindi non idonea a rivelare la ratio decidendi, essendo peraltro necessario che tale situazione risulti esclusivamente dal medesimo testo della sentenza senza che sia necessario il raffronto con uno o più atti processuali” (cfr.

SSUUU citata).

Alla stregua di quanto sopra esposto deve affermarsi l’infondatezza del motivo di ricorso in esame, in quanto nella specie oggettivamente sussiste, dal punto di vista materiale e grafico, una motivazione della ordinanza impugnata, e tale motivazione non risulta di per sè (perciò prescindendo dal raffronto con la sentenza di primo grado e l’atto d’appello) illogica, contraddittoria o perplessa al punto di renderla incomprensibile.

Il secondo motivo deve essere pertanto, rigettato e, per quanto sopra espostoci motivo è inammissibile nella parte in cui censura la decisione della Corte d’appello nel merito. L’infondatezza dei motivi sopra esposti comporta il rigetto del ricorso proposto avverso l’ordinanza pronunciata dai giudici d’appello.

Il ricorrente ha, altresì, proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale formulando sette motivi.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., omessa motivazione ovvero motivazione solo apparente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Rileva che, contrariamente a quanto affermato dal giudice, l’ingiunzione non era formalmente legittima per la mancanza della vidimazione, la mancata individuazione del soggetto che l’aveva emessa nonchè del responsabile del procedimento.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omessa motivazione e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5). Deduce che la sentenza posta a base dell’ingiunzione non era passata in giudicato con la conseguenza che il credito non era liquido ed esigibile e che inoltre detta sentenza era priva di un capo di condanna restitutorio contenendo soltanto una pronuncia di incompetenza del giudice, ma il Tribunale nulla aveva osservato in merito.

Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art 2909 c.c. (art. 360 c.p.c., n 3). Lamenta che la sentenza posta a base dell’ingiunzione era stata emessa tra soggetti diversi ai quali egli era estraneo.

Con il quarto motivo l’avv. C. denuncia “falsità dei presupposti argomentativi, con vizio di motivazione che è solo apparente ed abnorme, mancata pronuncia su un punto centrale del processo in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”. Lamenta che la Corte non si era pronunciata su motivi specifici ed in particolare che nelle more era intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale che aveva dichiarato l’illegittimità della L. n. 254 del 1975, art. 69, comma 6, circa la competenza del giudice di sorveglianza; che nella specie il rapporto era ancora sub iudice e dunque era applicabile al giudizio, con la conseguenza dell’infondatezza della sentenza della Corte d’appello posta a base dell’ingiunzione.

Con il quinto motivo denuncia ulteriore illogicità della motivazione, violazione dell’art. 1173 c.c.. Lamenta che la Corte, pur dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 341/2006, aveva ancora utilizzato una sentenza che poggiava soltanto su una norma dichiarata incostituzionale.

Con il sesto motivo rileva che il difensore anche se antistatario non è parte del giudizio e dunque nei suoi confronti non può fare stato una sentenza emessa tra altri.

Con il settimo motivo denuncia vizio di motivazione relativa all’eccezione di compensazione.

I motivi, congiuntamente esaminati stante la loro connessione, sono inammissibili e comunque infondati.

I motivi attinenti alla regolarità formale dell’ordinanza ingiunzione risultano inammissibili non avendo il ricorrente depositato detta ordinanza in violazione dell’art. 369 c.p.c., produzione tanto più necessaria considerato che il Tribunale, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha ritenuto che l’ordinanza indicasse il soggetto che l’aveva sottoscritta, i responsabile del procedimento, il destinatario dell’atto, i termini entro cui ottemperare e come ricorrere e dunque i dati identificativi previsti dalla legge tali da consentire una difesa al destinatario.

Sono ugualmente inammissibili le censure che hanno quale presupposto l’esame della sentenza della Corte d’appello di Roma posta a base dell’ingiunzione in violazione dell’art. 369 c.p.c.. Il Tribunale ha, peraltro, fornito corretta motivazione della sua decisione osservando che l’eccezione di mancanza di un capo condannatorio era irrilevante trattandosi, comunque, di sentenza esecutiva di secondo grado e che la circostanza che la sentenza era fondata su norma (L. n. 354 del 1975, art. 69, comma 6) poi dichiarata incostituzionale (sent. Corte Cost. n. 341/2006) non ne faceva venire meno l’efficacia nè poteva essere messa in discussione in questa sede. Le doglianza del ricorrente sono, del resto, infondate poichè il credito del Ministero era ben individuato nella sentenza del Tribunale di Roma, poi riformata, e dunque si trattava di credito restitutorio, a seguito della riforma della sentenza del Tribunale, certo senza la necessità di ulteriori accertamenti. Deve rilevarsi, inoltre, che qualora la sentenza della Corte d’appello con cui era stata dichiarata l’incompetenza del giudice adito ai sensi dell’art. 69 citato avesse già contenuto un capo restitutorio relativo alle spese processuali liquidate dal Tribunale, il Ministero avrebbe potuto procedere direttamente all’esecuzione, senza la necessità di dover ricorrere alla procedura di cui al R.D. citato ed emettere un’ordinanza ingiunzione opponibile.

Deve osservarsi, altresì, che non esiste alcun vizio di motivazione o di omessa pronuncia con riferimento alla intervenuta sentenza della Corte Costituzionale di dichiarazione di illegittimità dell’art. 69 citato avendo il Tribunale esaminato la questione ed escluso qualsiasi rilevanza nel presente giudizio dell’avvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale poichè questa non faceva venire meno l’efficacia della sentenza della Corte d’appello fino all’eventuale diverso esitò nell’ulteriore grado del giudizio.

Quanto all’eccezione di difetto di legittimazione passiva non essendo l’avv. C. parte del giudizio va rilevato che il Tribunale ha correttamente rilevato che il ricorrente, quale procuratore antistatario, era tenuto alla restituzione delle somme pagate per spese processuali. Tale decisione è conforme ai principi affermati da questa Corte (cfr. Cass. n., 10827/2007, n. 8215/2013) secondo cui “In tema di distrazione delle spese, ai sensi dell’art. 93 c.p.c., allorchè sia riformata la sentenza, costituente titolo esecutivo, di condanna alle spese in favore del difensore della parte vittoriosa dichiaratosi antistatario, ad essere tenuto alla restituzione delle somme pagate a detto titolo è il medesimo difensore distrattario, come titolare di un rapporto instauratosi con la parte già soccombente”.

Infine il settimo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza il Tribunale ha affermato che l’eccezione di compensazione era fondata su circostanze generiche relative ad un dedotto mancato compenso per l’attività di vicepretore svolta dall’avv. C. non meglio specificate e documentate nè suscettibili di prova testimoniale.

A fronte di tali rilievi il ricorrente ha omesso di riportare il contenuto dei propri scritti fin dal primo grado al fine di dimostrare che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, egli aveva allegato e provato tutti i fatti posti a fondamento dell’eccezione di compensazione; non riporta neppure il contenuto, quantomeno nei tratti salienti, dei documenti dai quali, a suo dire, sarebbe stato possibile ricavare l’attività dallo stesso svolta, non quantifica le somme che a suo dire aveva diritto a percepire, nè indica i criteri per la determinazione.

Per le considerazioni che precedono i ricorsi devono essere rigettati. Nulla per spese non avendo il Ministero svolto attività difensiva.

Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi, nulla per spese Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2016


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 10-12-2015) 03-02-2016, n. 2133

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 5499/2014 proposto da:

C.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 23, presso lo studio dell’avvocato GIUSTINIANI GIOVANNI, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.F. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27 presso lo studio dell’Avvocato GIOFFRE’ MARIA ANTONIA che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3527/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/12/2015 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato Giovanni Giustiniani difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Giuseppe Fadda (delega avvocato Giuffrè) difensore del controricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“con la sentenza impugnata la Corte di Appello ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dal Sig. G.P., perchè la notifica dell’atto di citazione in appello risultava essere tardiva, in quanto effettuata il 15/02/2013, ossia oltre il termine c.d. breve, di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c., posto che la sentenza di primo grado era stata notificata, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, presso la cancelleria del Tribunale di Monza (non avendo in primo grado l’avvocato dell’odierno ricorrente eletto domicilio nel circondario del Tribunale) in data 07/12/2012;

per la cassazione della sentenza ricorre il Sig. C.P., affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi di ricorso;

l’intimato resiste con controricorso;

preliminarmente occorre verificare la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata da parte resistente nel controricorso, ritualmente notificato e depositato, con la quale il resistente deduce che la notifica del ricorso, effettuata in data 20/02/2014, sarebbe tardiva, poichè avvenuta oltre i termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c., posto che in data 28/10/2013 sarebbe stata ritualmente notificata la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano all’odierno ricorrente, presso il suo procuratore costituito Avv. Marco Parolari, domiciliato ex lege presso la cancelleria della Corte di Appello (non avendo egli eletto domicilio nel circondario dell’Autorità procedente);

l’eccezione appare fondata e si propone che venga accolta, per le ragioni di cui appresso.

Il resistente ha depositato, unitamente al controricorso, una copia conforme all’originale della sentenza impugnata, la quale contiene una relazione di notificazione del seguente tenore a richiesta come in atti, io sottoscritto Ufficiale Giudiziario addetto all’Ufficio Unico della Corte d’Appello di Milano, ho notificato copia autentica della sentenza n. 3527/13 emessa dalla Corte d’Appello di Milano a C.P., rappresentato e difeso dall’avv. Marco Parolari ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Cernusco Lombardone (LC) Via del Lago di Como e dello Spluga n. 4 ed entrambi domiciliati ex lege presso la cancelleria della Corte d’Appello di Milano;

fatto salvo il principio per cui la legge riconnette l’effetto particolare della decorrenza del termine breve per l’impugnazione ai sensi degli artt. 325 e 326 c.p.c., solo quando la notificazione della sentenza sia eseguita al procuratore costituito ai sensi dell’art. 170 c.p.c., comma 1, e art. 285 c.p.c., non essendo idonea quella effettuata alla parte personalmente (cfr. Cass., 1 giugno 2010, n. 13428), nel caso di specie tale principio deve essere coordinato con l’altro orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la notifica della sentenza alla parte presso il procuratore costituito è equivalente a quella eseguita al procuratore stesso ed è, pertanto, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, oltre che per il notificante (cfr. Cass. S.U., 13 giugno 2011, n. 12898), certamente per il notificato (Cfr. Cass., 2 aprile 2009, n. 8071 ed altre successive).

In particolare, con riferimento alla questione posta dal resistente va richiamato e ribadito il principio di diritto per il quale “ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione la notifica della sentenza alla parte presso il procuratore costituito – ancorchè eseguita nel luogo ove questi deve considerarsi elettivamente domiciliato a norma del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, – deve considerarsi equivalente alla notifica al procuratore stesso ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., soddisfacendo, l’una e l’altra forma di notificazione, l’esigenza di assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della persona professionalmente qualificata ad esprimere un parere tecnico sulla convenienza e l’opportunità della proposizione del gravame”. (così Cass., 28 aprile 2000, n. 5449), con la precisazione per la quale il procuratore va indicato per nome e cognome e come destinatario, in tale qualità, della notificazione presso la cancelleria del giudice a quo, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, onde potere ritenere che permanga, in forza di queste specificazioni, un collegamento tra la parte, il suo procuratore e il domicilio reale di quest’ultimo, in modo che il procuratore possa avere conoscenza dell’atto a lui destinato (arg. ex Cass. 19 marzo 2004, n. 5563, nonchè, di recente, Cass. 27 febbraio 2014, n.2698). Poichè nel caso di specie la relazione di notificazione della sentenza impugnata contiene il riferimento a …

a C.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Parolari …, in applicazione dei principi di diritto appena richiamati, non può farsi distinzione tra notificazione al procuratore domiciliatario per la parte e notificazione alla parte presso il procuratore domiciliatario (cfr. anche Cass. 15 giugno 2004, n. 11257; 24 novembre 2005, n. 24795; 18 aprile 2014, n. 9051).

Pertanto, essendo stata la sentenza notificata come sopra in data 28 ottobre 2013, risulta tardiva la notificazione del ricorso in data 20 febbraio 2014″.

La relazione è stata notificata come per legge.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il Collegio ha condiviso i motivi in fatto ed in diritto esposti nella relazione. Giova precisare che la documentazione prodotta dal ricorrente ai sensi dell’art. 372 c.p.c., consistente nella nota rilasciata dal funzionario presso la Corte d’Appello di Milano – cancelleria centrale civile del 6 maggio 2015 – con la quale si comunica la mancata ricezione della notificazione della sentenza della stessa Corte d’Appello n. 3527/13 -, è superata, oltre che dalla relazione di notificazione a firma dell’Ufficiale giudiziario indicata nella relazione, da altra nota dello stesso funzionario di cancelleria del 6 novembre 2015, depositata dal resistente – con la quale “facendo seguito ed a rettifica della precedente comunicazione resa in data 6/5/14 …” si conferma l’avvenuta notificazione presso la cancelleria della sentenza anzidetta, in data 28 ottobre 2013.

Resta così confermata tale ultima data come quella dell’avvenuta notificazione presso la cancelleria ai sensi e per gli effetti del R.D. n. 37 del 1934, art. 82.

Occorre allora verificare se, come sostenuto dal ricorrente nella memoria in atti, il resistente, già appellato, avrebbe dovuto effettuare la notificazione, ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione della sentenza d’appello, all’avvocato dell’appellante, all’epoca l’avv. Marco Parolari, presso l’indirizzo PEC del medesimo, che, a detta del ricorrente, sarebbe stato indicato in atti e comunicato al suo ordine di appartenenza.

La norma di riferimento è costituita dall’art. 125 c.p.c., comma 1, come modificata dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, (prima della sostituzione attuata dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45 bis, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114), ai sensi della quale, nell’atto di parte “il difensore deve, altresì, indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata la proprio ordine e il proprio numero di fax”. Soltanto se tale adempimento risulta eseguito, è possibile la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata. Orbene, nell’atto di citazione in appello – la cui lettura è possibile a questa Corte perchè necessaria per delibare l’ammissibilità del ricorso – si legge che l’appellante è “giudizialmente assistito e rappresentato dall’avv. Marco Parolari, c.f. …, con studio in Cernusco Lombardone (LC) – via Spluga n. 4, ivi elettivamente domiciliato (fax …, email marco.parolari(at)lecco.pecavvocati.it, per le comunicazioni di Cancelleria ex art. 134 c.p.c., comma 3, e art. 136 c.p.c., comma 3)…”. Testuale è pertanto la mancata indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata utilizzabile per le notificazioni ad istanza di parte e testuale è l’elezione di domicilio in luogo diverso dalla sede della Corte d’Appello.

Nè vi è luogo a dibattere dell’ambito applicativo della norma del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, convertito nella L. n. 221 del 2012, che prevede la domiciliazione digitale, poichè questa è stata inserita dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, comma 1, lett. b), convertito nella L. n. 114 del 2014, non applicabile nel caso di specie.

Ne consegue la validità della notificazione della sentenza effettuata presso la Cancelleria della stessa Corte d’Appello, anche ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, secondo quanto già esposto nella relazione.

Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore del resistente, nell’importo complessivo di Euro 5.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si da atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 3 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2016


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 10-12-2015) 02-02-2016, n. 2047

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente – Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere – Dott. CIGNA Mario – Consigliere – Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere – Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente: ordinanza sul ricorso 22318-2013 proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis; – ricorrente – e contro L.C.; – intimato – avverso la sentenza n. 31/02/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO del 14/11/2012, depositata il 18/02/2013; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/12/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in Cancelleria la relazione di seguito integralmente trascritta;

L’Agenzia delle Entrate ricorre contro il sig. L.C. per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, riformando la decisione di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva rettificato i redditi del contribuente per l’anno 2005. In particolare, per quanto qui interessa la Commissione Tributaria Regionale ha disatteso l’eccezione dell’Ufficio di tardività del ricorso introduttivo del contribuente. In proposito il giudice territoriale ha accertato in fatto che il plico postale contenente l’atto impostavo era stato ritirato dal contribuente presso l’ufficio postale in data 4.1.2011 e quindi ha affermato che questa (e non la data – anteriore – in cui era spirato il termine di dieci giorni dall’invio della raccomandata contenente l’avviso di giacenza) era la data a cui ancorare il dies a quo del termine per l’impugnazione.

Il ricorso dell’Agenzia si fonda su un solo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con il quale si denuncia la violazione della L. n. 890 del 1982, artt. 8 e 14, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, nonché la falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6 in cui sarebbe incorso il giudice territoriale. Secondo la difesa erariale la decisione gravata violerebbe la disposizione, contenuta nella L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, alla cui stregua “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”. La doglianza appare fondata, con le seguenti precisazioni.

Va premesso che, secondo quanto riferisce la stessa ricorrente a pag. 9 del ricorso, per la notifica dell’atto impugnato l’Ufficio si avvalse della possibilità di procedere alla notifica diretta per posta L. n. 890 del 2002, ex art. 14. Nella specie non è quindi direttamente applicabile il disposto della L. n. 890 del 2002, art. 8, giacché, come questa Corte ha chiarito nella sentenza n. 17598/10, nel caso di notifica per posta effettuata direttamente dall’Ufficio, “il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata, alle quali, pertanto, non si applicano le disposizioni della L. n. 890 del 1982, concernenti le sole notificazioni effettuate a mezzo posta tramite gli ufficiali giudiziali (o, eventualmente, i messi comunali e i messi speciali autorizzati), bensì le norme concernenti il servizio postale ordinario”.

Peraltro il regolamento del servizio di recapito adottato con D.M. 1 ottobre 2008, contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere che gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate) che non sia stato possibile recapitare per assenza del destinatario o di altra persona abilitata al ritiro vengano consegnati presso l’ufficio postale di distribuzione (art. 24), ove i medesimi rimangono in giacenza per trenta giorni a decorrere dal giorno successivo al rilascio dell’avviso di giacenza (art. 25); nessuna disposizione di detto regolamento contiene – né, in considerazione dell’oggetto del regolamento, avrebbe ragione di contenere – una regola (analoga a quella dettata in materia di notifiche effettuate a mezzo posta dalla L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4) sul momento in cui si debba ritenere pervenuto al destinatario un atto che l’agente postale abbia depositato in giacenza presso l’ufficio postale a causa della impossibilità di recapitarlo per l’assenza del medesimo destinatario o di altra persona abilitata. Sotto altro aspetto, non pare possibile evocare, nella specie, il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che la data a cui si ritiene pervenuta al destinatario una comunicazione trasmessa per posta raccomandata ordinaria va individuata in quella del rilascio dell’avviso di giacenza, con conseguente irrilevanza del periodo legale del compimento della giacenza e di quello intercorso tra l’avviso di giacenza e l’eventuale ritiro da parte del destinatario (Cass. 6527/03, in tema di comunicazione di licenziamento, Cass. 27526/13, in tema di disdetta del contratto di locazione).

Tale principio, fondato sul disposto degli artt. 1334 e 1335 c.c., concerne l’efficacia da attribuire alla comunicazione degli atti negoziali unilaterali e non si attaglia alla ipotesi di notificazione L. n. 890 del 1982, ex art. 14. Ciò non solo per il rilievo che altro è una comunicazione e altro è una notificazione (quale comunque deve ritenersi, pur in assenza dell’intervento di un agente notificatore, quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 14, il testo del quale letteralmente esordisce con le parole “La notificazione”); ma anche perché il menzionato art. 14 fa riferimento ad atti notificati “al contribuente” e, pertanto, la disciplina del procedimento notificatorio ivi previsto non può essere ricostruita senza considerare la portata del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 1 (Statuto del contribuente), alla cui stregua “l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati.

Ora, se è vero che lo stesso comma fa salve “le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”, è innegabile che, quando una disposizione espressa manchi, il principio di effettiva conoscenza deve orientare l’interprete e, nel caso che ci occupa, non consente di ancorare il momento di perfezionamento della notifica (dal quale decorrono termini, brevi e tassativi, per l’impugnazione degli atti impositivi) al compimento di un adempimento – il rilascio dell’avviso di giacenza – nel qual è certo che il destinatario dell’atto non ne ha conoscenza (non essendo stato reperito dall’agente postale) incolpevolmente (non avendo ancora avuto la possibilità di recarsi a ritirare l’atto presso l’ufficio postale).

Una ricostruzione del sistema che trasponga alla notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14 i principi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla presunzione di conoscenza degli atti ricettizi risulterebbe dunque irrimediabilmente in contrasto con l’art. 24 Cost. (cfr. C. cost. n. 346/98: “la funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddicono e l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza dalla abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazioni…..non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli.”).

Per converso non appare convincente la soluzione, adottata nella sentenza gravata, di ancorare il momento del perfezionamento della notifica al ritiro dell’atto presso l’Ufficio postale; ciò non solo perché in tal modo si rimetterebbe al destinatario la scelta del momento da cui far decorrere il termine di impugnazione dell’atto notificato, ma soprattutto perché il “bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario” a cui fa riferimento lo stralcio sopra trascritto della sentenza della Corte costituzionale n. 346/98 non consente di comprimere l’interesse del notificatore al punto da consentire al destinatario dell’atto di impedire gli affetti della notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14, omettendo di recarsi a ritirare l’atto presso l’ufficio postale. Si ritiene quindi, in definitiva, che il suddetto bilanciamento debba rinvenirsi facendo applicazione – non diretta ma analogica – della regola dettata nella L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; peraltro, poiché il citato regolamento del servizio di recapito adottato non prevede la spedizione di una raccomandata contenete l’avviso di giacenza, ma soltanto, all’art. 25, il “rilascio dell’avviso di giacenza”, la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, è quella che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza (o, nel caso o in cui l’agente postale abbia, ancorché non tenuto, trasmesso l’avviso di giacenza tramite raccomandata, dalla data di spedizione di quest’ultima), ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore. Poiché la sentenza gravata ha fatto applicazione della diversa regola secondo cui la notificazione si avrebbe per eseguita dalla data del ritiro del piego, anche se posteriore al decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata contenete l’avviso di giacenza, la stessa va cassata con rinvio (non è possibile procedere in sede di legittimità al diretto esame degli atti, di carattere extraprocessuale, relativi alla notifica dell’atto impositivo). Si propone la cassazione con rinvio della sentenza gravata. Che il contribuente non si è costituito in questa sede; che la relazione è stata notificata alla ricorrente; che non sono state depositate memorie difensive; che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide gli argomenti esposti nella relazione; che, pertanto, il ricorso va accolto e la sentenza gravata va cassata con rinvio al giudice territoriale, che si atterrà al principio di diritto enunciato nella relazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza gravata e rinvia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che regolerà anche le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 11/11/2015) 26/01/2016, n. 1351

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5556/2013 proposto da:

P.S. c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CONCA D’ORO 184/190, presso lo studio dell’avvocato DISCEPOLO Maurizio, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contor AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA “OSPEDALI RIUNITI UMBERTO I, G.M. LANCISI, G. SALESI” di ANCONA, p.i. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORVIETO 1, presso lo studio dell’avvocato VENTURA Francesco, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1260/2012 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 10/12/2012 R.G.N. 637/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2015 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato VENTURA FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Ancona, P.S. deduceva di aver prestato servizio presso l’Azienda Ospedaliera Umberto I, quale ausiliario specializzato area socio assistenziale, dapprima con contratto a tempo determinato dal 10.9.1998 al 30.4.1999, e quindi, presso l’Azienda Ospedaliera G.M. Lancisi di Ancona con contratto a tempo indeterminato dall’8.8.2002 al 31.12.2003, mentre a decorrere da 1.1.2004 era passata alle dipendenze dell’Azienda Opedaliero Universitaria Ospedali Riuniti “Umberto I – G. Lancisi – G. Salesi” di Ancona, conservando la qualifica di ausiliario specializzato.

Deduceva la ricorrente che in data 15 aprile 2011 aveva ricevuto una lettera di contestazione degli addebiti nella quale la si metteva a conoscenza del fatto che il Dirigente Professioni Sanitarie Area Infermieristica ed Ostetrica, a seguito del certificato medico presentato il 26.3.2011, redatto dal Dott. Pe.Al., aveva “provveduto a richiedere conferma al medico estensore circa l’avvenuta correzione manuale della prognosi da due a tre giorni”.

Le si comunicava che il Dott. Pe., con nota del 11.4.2011 aveva dichiarato che il certificato recava correzioni non apportate dal medico personalmente al momento della compilazione. Nella nota si aggiungeva che “il comportamento da lei tenuto non è osservante delle disposizioni vigenti in materia di corretta giustificazione dell’assenza dal servizio, in quanto è stata prodotta una certificazione che attesta falsamente lo stato di malattia”.

La sig.ra P. chiedeva quindi di essere ascoltata personalmente e dichiarava di non aver in passato mai corretto un certificato medico; aggiungeva di trovarsi in un momento di particolare difficoltà personale, di aver agito impulsivamente apponendo una correzione senza riflettere sulle conseguenze del gesto e sulla gravità del fatto, anche considerato lo stato ansioso depressivo da cui era affetta e che documentava con certificazione medica.

L’azienda ospedaliera, in data 1.6.11, infliggeva alla ricorrente la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso “visto il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 55 quater, comma 1, lett. A) e comma 3; visto altresì l’art. 14, comma 2, lett. H) del vigente regolamento di disciplina, approvato con determina n. 290/G del 23.7.2010, che prevede in particolare l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altra modalità fraudolenta, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.

Il licenziamento veniva impugnato dalla ricorrente con ricorso al Tribunale di Ancona, con cui lamentava la violazione del divieto degli automatismi espulsivi e del principio della gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla infrazione commessa sotto i profili soggettivo e oggettivo (in via subordinata con richiesta di rimessione alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater); violazione del predetto art. 55 quater; della L. n. 604 del 1966, art. 1, per mancanza di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

Resisteva l’azienda ospedaliera. Il Tribunale respingeva la domanda con sentenza del 2.7.12, che veniva appellata dalla P., riproponendo le medesime censure; resisteva la datrice di lavoro.

Con sentenza depositata il 10 dicembre 2012, la Corte d’appello di Ancona rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la lavoratrice, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste l’azienda ospedaliera con controricorso.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo della causa, oltre ad illogica motivazione della sentenza impugnata.

Lamenta che la sentenza impugnata aveva omesso di esaminare la natura dolosa o meno del comportamento, il cui onere probatorio gravava sulla datrice di lavoro. Evidenzia che al fine di valutare la legittimità del licenziamento è necessario accertare, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta: 1) se la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone ne proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore (Cass. n. 4060/2011; Cass. 23 aprile 2004 n. 7724; Cass. 23 aprile 2002 n. 5943); 2) che l’irrogazione della massima sanzione disciplinare è giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 24 luglio 2006 n 16864; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994); 3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo); 4) che sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova dei dolo;

e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente.

Lamenta che la valutazione dei fatti, pur rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, non si sottrae al controllo di legittimità ove non adeguatamente motivata e non sia frutto di un bilanciamento tra le esigenze imprenditoriali di cui all’art. 41 Cost. e della proporzionalità della sanzione.

2.- Con il secondo motivo la lavoratrice denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè la piena capacità di intendere e volere della P. al momento della commissione del fatto, anche alla luce della documentazione sanitaria inerente il suo stato depressivo.

3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, in relazione agli artt. 4 e 41 Cost., per prevedere la norma in questione un automatismo della più grave delle sanzioni, senza alcun intervento valutativo dell’amministrazione nei profili soggettivi della responsabilità, in contrasto con i principi desumibili da Corte Cost. 9.7.1999 n. 286, e dall’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs n. 165 del 2001, art. 55, comma 2.

4.- I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Ed invero, come esattamente rilevato dalla Corte territoriale, sebbene debba condividersi la tesi dell’illegittimità, in via astratta (come del resto in più occasioni affermato dal Giudice delle leggi, cfr. C. Cost. n. 971/88, n. 239/96 e n. 286/99), di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari (specie laddove queste consistano nella massima sanzione) in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, così come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (giusta il perdurante richiamo all’art. 2106 c.c., da parte dell’art. 55, comma 2), e pur dovendosi qui rimarcare che la proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative L. n. 689 del 1981, ex art. 11, etc.), trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo in definitiva possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente consequenziali ad illeciti disciplinari, deve rilevarsi che nella specie la Corte di merito ha adeguatamente motivato circa la sussistenza nel caso esaminato di tale proporzionalità, ritenendo sussistente il dolo nella volontaria falsificazione del certificato da consegnare al datore di lavoro, con aumento della prognosi di malattia da due a tre giorni al fine di aumentare l’assenza per malattia, e dunque la proporzionalità della sanzione a fronte di un comportamento gravemente fraudolento, tale da minare la fiducia del datore di lavoro sui futuri adempimenti.

Deve peraltro rimarcarsi che anche in tema di giusta causa di licenziamento, invocata dalla ricorrente nel primo motivo, questa Corte ha affermato che l’art. 2119 c.c., configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa tuttavia la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.

Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria (Cass. 12.8.09 n. 18247).

Se è poi pur vero che nel caso in esame la massima sanzione è tipizzata dalla legge (art. 55 quater) e che, per le ragioni viste, ciò non di meno anche tale previsione è sindacabile alla luce del principio di civiltà giuridica del canone di proporzionalità della sanzione, resta che anche in tal caso l’accertamento in concreto della giustificatezza del licenziamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto, come nella specie, da motivazione congrua e immune da vizi (e plurimis, Cass. 17 maggio 2012 n. 7751, Cass. 26 gennaio 2011 n. 1788; Cass. 8 gennaio 2008 n. 144; Cass. n. 11674/2005).

In tal senso, ed in analoga fattispecie, si è già pronunciata questa Corte con sentenza 6.6.14 n. 12806, ove, evidenziata la coincidenza (come nel caso in esame) della condotta contestata rispetto alla previsione di legge (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater), è stato considerato che, anche dal punto di vista soggettivo, il comportamento risultava grave in base alla congrua motivazione dalla sentenza impugnata.

Nel caso oggi in esame la Corte territoriale ha logicamente valutato la gravita del fatto e la sua idoneità a minare la fiducia del datore di lavoro in ordine ai futuri adempimenti della dipendente, escludendo inoltre, con adeguata motivazione, che la presenza di uno stato ansioso depressivo, di cui la ricorrente soffriva da molti anni e specie in assenza di qualsivoglia prova circa la commissione del falso in un momento di acuzie della malattia, potesse escludere l’incapacità di intendere e di volere al momento della commissione dell’illecito.

Il vizio motivo, di cui alla seconda censura, risulta dunque insussistente, specie alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti da testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di altri elementi istruttori non integra invece di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (Cass. sez. un. 22 settembre 2014 n. 19881), così come avvenuto nella specie.

4.1- Non può infine essere accolta la censura contenuta in ricorso circa l’illegittimità del Regolamento di disciplina dell’azienda ospedaliera datrice di lavoro, ovvero la sua possibile interpretazione come preclusiva della regola dell’automatismo della sanzione disciplinare alla luce del più volte citato art. 55 quater di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009.

Sotto il primo profilo la censura è inammissibile, posto che il Regolamento non risulta prodotto, in contrasto con l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nè ne viene riprodotto il testo ritenuto rilevante in ricorso, in contrasto col principio di autosufficienza; sotto il secondo profilo la censura risulta infondata alla luce delle precedenti considerazioni in tema di automatismo delle sanzioni e del perdurante principio di proporzionalità delle sanzioni, il cui giudizio è tuttavia rimesso al giudice del merito che, se logicamente motivato, risulta insindacabile in sede di legittimità.

5.- Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2016