Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., (ud. 24-02-2017) 14-03-2017, n. 6518

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Maura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 713/2016 proposto da:

G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANK MARIO SANTACROCE;

– ricorrente –

contro

S.G.S. DENTAL S.A.S. DI S.G. & C. – P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SS. PIETRO E PAOLO 25 presso lo studio dell’avvocato LUIGI VALENSISE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GRIGGIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1529/2015 del TRIBUNALE di PADOVA, depositata il 15/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/02/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO ANTONIO GENOVESE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Padova, con la sentenza n. 1529 del 2015 (pubblicata il 15 maggio 2015), ha respinto l’appello proposto da G.F., il quale era rimasto soccombente nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo rilasciato dal Giudice di Pace di quella stessa città alla creditrice, SGS Dentral SAS di S.G. & C, a titolo di risarcimento dei danni, riconosciuti dal lodo arbitrale irrituale pronunciato da un arbitro unico, e l’ha condannato anche al pagamento delle spese di lite.

Il ricorrente non contesta la rilasciabilità del decreto ingiuntivo sulla base di un lodo irrituale favorevole (come da risalente insegnamento (Sez. 1, Sentenza n. 1628 del 1975), secondo cui “un lodo arbitrale irrituale, ancorché la sua validità sia oggetto di contestazione in un giudizio in corso, costituisce prova scritta, idonea come fondamento per l’emanazione di un decreto ingiuntivo, in quanto la prova scritta richiesta dall’art. 633 c.p.c., può essere costituita anche da un documento privo di efficacia probatoria piena e l’emissione del decreto ingiuntivo non è preclusa dall’esistenza di contestazioni intorno all’esistenza ed esigibilità del credito”), ma assume l’esistenza di un errore compiuto dal giudice di appello, con riferimento al punto decisivo della controversia costituito dal mancato esame della domanda di merito coltivata dall’opposto, in violazione dell’art. 645 c.p.c., e art. 1442 c.c..

La doglianza, ammissibile in quanto il ricorrente dice chiaramente (alle pp. 2-3 del ricorso) quale è stata la domanda proposta davanti al Giudice di appello (ossia: un errore dell’arbitro per falsa rappresentazione della realtà), è anche fondata, tenuto conto di quanto affermato da questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 22374 del 2006), in ordine all’impugnabilità del lodo (“il lodo arbitrale irrituale non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo o l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico e dell’arbitro stesso”) e del fatto che le censure svolte non sono state esaminate e valutate dal giudice d’appello, il quale ha erroneamente escluso che potesse e dovesse procedersi al loro esame in sede di opposizione al monitorio, essendo – invece – doverosa – ove richiesta – non soltanto una verifica dell’esistenza del titolo (come documento) e ma anche l’esame della fondatezza delle censure nel merito, nei limiti dei vizi censurabili secondo il diritto vivente sopra richiamato.

Il ricorrente, infatti, ha ragione a richiamare il principio di diritto (da ultimo espresso da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12083 del 2015) secondo cui “quando ricorre l’esistenza di un vizio comportante l’annullamento del contratto, il convenuto per l’adempimento ha la facoltà di chiedere l’annullamento, ove non sia ancora decorso il termine prescrizionale, ovvero, pur in assenza di apposita domanda giudiziale, di sollevare apposita eccezione di annullamento ai sensi dell’art. 1442, ultimo comma, cod. civ., non soggetta ai limiti di prescrizione previsti per la domanda di annullamento, limitandosi così a denunziare il vizio all’unico scopo di paralizzare la pretesa di controparte”. Nè ha pregio l’eccepita inammissibilità del ricorso per cassazione in ragione della nullità della notificazione eseguita a mezzo PEC dal difensore del ricorrente, perchè la relata sarebbe un documento privo della firma digitale (a differenza del ricorso e della procura, a cui quella sarebbe stata apposta), essendo stato tale documento diretto inequivocabilmente dalla casella PEC dell’avvocato del ricorrente a quella del difensore avversario, senza che abbia limitato i diritti difensivi della parte ricevente. Infatti, questa Corte ha stabilito che il difetto della firma non è causa di inesistenza dell’atto, ed ha anzi affermato la surrogabilità di quella prescrizione attraverso altri elementi capaci di far individuare l’esecutore dell’atto (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10272 del 2015, secondo cui, “in tema di notificazione L. 21 gennaio 1994, n. 53, ex art. 4, qualora nella relata manchino le generalità e la sottoscrizione dell’avvocato notificante, la sua identificazione, necessaria al fine di verificare la sussistenza dei requisiti soggettivi indispensabili, può avvenire” anche aliunde (e nella specie: “in base alla sottoscrizione, da parte sua, dell’atto notificato e vidimato dal consiglio dell’ordine, unitamente al richiamo al numero di registro cronologico ed all’autorizzazione del consiglio dell’ordine, immediatamente precedenti la relazione di notifica e la firma della persona abilitata a ricevere l’atto.”)).

Orbene, nella specie, la notificazione affidata a mezzo PEC la mancata forma digitale della relata non lascia alcun dubbio sulla riconducibilità alla persona dell’avv. Menzionato, attraverso la sua indicazione e l’accostamento di quel nominativo alla persona munita ritualmente della procura speciale.

Del resto questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 7665 del 2016) ha affermato che “l’irritualità della notificazione di un atto (nella specie, controricorso in cassazione) a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nella specie, in “estensione.doc”, anziché “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale”.

Di conseguenza il ricorso deve essere accolto e cassata la sentenza impugnata, con rinvio della causa, per un nuovo esame condotto alla luce dei principi enunciati, al Tribunale di Padova in diversa composizione.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase del giudizio, al Tribunale di Padova in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 1 Civile della Corte di Cassazione, il 24 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2017


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 24-01-2017) 09-03-2017, n. 6079

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 450-2015 proposto da:

Q.S., elettivamente domiciliato in ROMA, via Emanuele Gianturco 6, presso lo studio dell’avvocato Filippo Sciuto che lo rappresenta e difende disgiuntamente all’Avv. Gianmaria Scofone per procura a margine del ricorso – ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 17/3/14 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LIGURIA, depositata il 9/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/01/2017 dal Consigliere Relatore Dott. Crucitti Roberta.

Svolgimento del processo
1. Nella controversia concernente l’impugnazione da parte di Q.S. di cartelle di pagamento (portanti irpef, ilor ed imposte di registro degli anni 1989 e 1992) e del provvedimento di diniego della definizione dei carichi di ruolo (relativi agli anni 1993, 1997 e 1989) di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 12. La Commissione Tributaria Regionale della Liguria – riformando la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dal contribuente – rilevava che:

– l’eccezione di prescrizione respinta dai primi giudici non era stata riproposta in appello e doveva ritenersi, pertanto rinunciata;

– non sussisteva il denunziato difetto di motivazione del provvedimento di diniego;

– la circostanza che, per alcune delle cartelle, fosse stato effettuato il pagamento, nel rispetto della disposizione normativa, non poteva superare la necessità che il pagamento doveva essere effettuato per tutte le somme derivanti dall’istanza di definizione.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi il contribuente.

3. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

4. A seguito di proposta ex art. 380 bis c.p.c. è stata fissata l’adunanza della Corte in camera di consiglio, con rituali comunicazioni. Il Collegio ha autorizzato, come da Decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della presente motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va rigettata alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte (Sentenza 18/04/2016 n. 7665) l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla controricorrente sul presupposto dell’invalidità della notificazione eseguita a mezzo pec, in quanto non era stato specificato che l’indirizzo di posta elettronica del notificante risultava in pubblici elenchi. E’ stato, infatti, statuito che l’irritualità della notificazione di un atto (nella specie, controricorso in cassazione) a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

2. Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame da parte della C.T.R. del fatto, ribadito in appello, che il provvedimento di diniego non aveva alcuna attinenza con le cartelle esattoriali oggetto della definizione agevolata.

2.1. La censura è inammissibile laddove con il mezzo non viene individuato un “fatto” nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 5083/2014), quanto, piuttosto, si reiterano le stesse censure già articolate con l’appello e rispetto alle quali, peraltro, la C.T.R. ha compiutamente motivato rilevando come l’atto di diniego contenesse tutti i necessari elementi per individuare la pretesa tributaria e le motivazioni poste a base del diniego (indicazione per ogni tributo del numero di codice, degli importi iscritti a ruolo, importi pagati con le relative date ed annotazione di “versamento insufficiente”) con conseguente esclusione, pertanto, dell’adozione da parte dell’Agenzia di una nuova motivazione circa le ragioni del diniego.

3. Il secondo motivo, prospettante anch’esso omesso esame di un fatto decisivo (costituito, secondo la prospettazione difensiva, dalla circostanza che il Giudice di appello non si sarebbe accorto che l’Agenzia aveva proposto appello solo per alcune delle cartelle oggetto di definizione agevolata), è inammissibile per carenza di specificità, non riportando, neppure per stralci, il contenuto degli atti difensivi interessati dalla censura.

4. Infine, non è meritevole di accoglimento il terzo motivo – prospettante violazione di legge- con il quale si censura la C.T.R. laddove aveva ritenuto motivato l’atto di diniego con la semplice indicazione dei singoli tributi erariali mentre si trattava di codici inerenti a tributi non oggetto di iscrizione a ruolo. Il mezzo, infatti, presuppone in fatto la fondatezza del primo motivo, il quale, come già detto, merita rigetto.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente, soccombente, alle spese di lite liquidate come in dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese processuali liquidate in Euro 2.000,00 per compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore i porto a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2017.


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 03-10-2016) 03-02-2017, n. 2868

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO ANGELO – Presidente –

Dott. D’ISA CLAUDIO – Consigliere –

Dott. IZZO FAUSTO – Consigliere –

Dott. TADDEI MARGHERITA – rel. Consigliere –

Dott. ACETO ALDO – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20683-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

L.G.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIUSEPPE PALUMBO 12, presso lo studio dell’avvocato EUGENIO NOVARIO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 46/2011 della COMM.TRIB.REG. di TORINO, depositata il 16/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/10/2016 dal Consigliere Dott. MARGHERITA TADDEI;

udito per il ricorrente l’Avvocato MELONCELLI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE SERGIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Commissione tributaria regionale del Piemonte, con la sentenza n. 46/31/11, depositata il 16.06.2011, confermava la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Novara, che aveva accolto il ricorso con il quale L.G.F. deduceva difetto assoluto di notifica dell’atto presupposto della cartella di pagamento n.(OMISSIS). In particolate la CRT affermava che la redazione da parte del messo notificatore della raccomandata informativa di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. b-bis fosse indispensabile per portare a termine il procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento, effettuato al domicilio del contribuente a mani del coniuge convivente, soggetto diverso dal destinatario.

L’Agenzia delle Entrate, per mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 e artt. 139 e 148, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Deduce che in caso di notificazione nella residenza, dimora o domicilio del contribuente, l’art. 139 c.p.c., dispone che il notificante dia notizia al destinatario dell’avvenuta notifica solo nei casi in cui non vi sia possibilità di consegnare copia dell’atto ad una persona di famiglia o addetta alla casa, e la consegna avvenga nei confronti di un soggetto esterno alla famiglia o all’azienda (portiere o vicino di casa). Nel caso, invece, in cui la consegna sia stata effettuata nelle mani di persona di famiglia, la notifica è valida se effettuata con le modalità di cui all’art. 148 c.p.c., se nella relata apposta in calce all’atto risulti la persona alla quale l’atto è stato consegnato con la precisazione della qualità e il luogo della consegna. Con la decisione impugnata, la CTR ha attribuito erroneamente al nuovo dettato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b/bis – introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 27, lett. a) – valenza di norma precettiva, che integra le disposizioni del codice di procedura civile, prevedendo che in ogni caso di consegna a persona diversa dall’intestatario dell’atto si provveda a comunicare a quest’ultimo tramite raccomandata l’avvenuta notifica.

L.G.F., con controricorso, dopo aver premesso che i fatti non sono contestati, deduce che a seguito della novella legislativa la raccomandata informativa ha la indefettibile funzione di dare al destinatario certezza di conoscenza di quanto notificato, essendo pertanto elemento essenziale del procedimento di notifica.

Motivi della decisione
Il ricorso dell’Ufficio non è fondato e deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese.

Il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60 per le notifiche degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente fa espresso rinvio alle norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile ma ha previsto specifiche modifiche, nel caso la notifica venga eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte prevedendo che il messo deve fare sottoscrivere dal consegnatario l’atto o l’avviso ovvero deve indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto e, nel caso il consegnatario non sia il destinatario dell’atto o dell’avviso, prevedendo alla lett. b) bis, che il messo consegni o depositi la copia dell’atto da notificare in busta sigillata, su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso. Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo deve dare notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata. Il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica: tale è l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte che, tenuto conto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 258 del 22 novembre 2012 relativa al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3 (ora 4) e n. 3 del 2010 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione – ha deciso che nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto D.P.R. n. 600 del 1973, citato art. 26, u.c. e art. 60, comma 1, alinea, sicchè è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione. Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014 (Rv. 634229).

Alla luce del principio di cui sopra il ricorso dell’Ufficio va rigettato: le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 3200,00 di cui Euro 200,00 per spese; oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2017


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 13/12/2016) 30/01/2017, n. 2232

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7153/2013 proposto da:

ISTITUTO PIEMONTESE MEDIAZIONI DI D.G. & C. S.A.S., (p.i. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso l’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MARIA TRINCHERA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., M.O., M.M.C., F.M.A.M., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA UGO DE CAROLIS 77, presso l’avvocato LUCIO LAURITA LONGO, che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati ENRICO SERENO ARGENTA, GIOVANNI ROSTAGNO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1118/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 08/08/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/12/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato CLAUDIA LAZZERI, con delega, che si riporta;

udito, per i controricorrenti, l’Avvocato STEFANO SANTARELLI, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., F.A.M., M.G., O. e M.C. adivano il Tribunale di Asti esponendo di essere proprietarie dell’unità immobiliare ubicata in (OMISSIS), condotta in locazione da Istituto Piemontese Mediazioni s.r.l., poi Istituto Piemontese Mediazioni di D.G. & C. s.a.s.. Assumevano che la conduttrice era rimasta debitrice per canone, oneri condominiali e imposta di registro quanto alla somma di Euro 7.277,15. Domandavano pertanto la condanna della controparte al pagamento di tale somma.

La convenuta non si costituiva.

Con sentenza del 6 dicembre 2010 il Tribunale accoglieva la domanda proposta da M.G. e O. e respingeva quella spiegata dalle altre due ricorrenti, non avendo queste ultime provato il diritto di proprietà sull’immobile.

L’Istituto Piemontese Mediazioni proponeva gravame eccependo preliminarmente la nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.

La Corte di appello di Torino, nel contraddittorio con le attrici in primo grado, che tutte si costituivano, respingeva l’impugnazione con sentenza depositata l’8 agosto 2012. Per quanto qui rileva, il giudice distrettuale osservava che la notificazione del ricorso in primo grado aveva avuto luogo, a norma dell’art. 140 c.p.c., presso la sede sociale dell’appellante. Riteneva poi ammissibile la notificazione con il rito degli irreperibili anche nei confronti delle persone giuridiche o degli enti non personificati in caso di momentanea assenza, incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c.. Aggiungeva che la situazione di fatto riscontrata dall’ufficiale giudiziario era quella delineata dall’ultima parte del capoverso dell’art. 145 c.p.c., secondo cui la notificazione alla società non avente personalità giuridica può essere effettuata, oltre che a quest’ultima, presso la sede, alla persona fisica che rappresenta l’ente, qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e ne risultino specificati residenza, domicilio e dimora.

Contro tale sentenza ricorre per cassazione Istituto Piemontese Mediazioni di D.G. & C. s.a.s., che fa valere un unico motivo di impugnazione, illustrato da memoria. Resistono con controricorso F.A.M., M.G., O. e M.C..

Motivi della decisione
Il motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 145 e 140 c.p.c.. Rileva la ricorrente che l’art. 145, a seguito della modificazione introdotta con la L. n. 263 del 2005, non ammette più la notifica ex art. 140 c.p.c., alle società, ma la consente unicamente nei confronti della persona fisica che ne sia legale rappresentante. Poichè la notifica ex art. 140 c.p.c., era stata posta in atto nei confronti della società, essa era quindi nulla, a norma dell’art. 145 c.p.c., comma 3.

Il ricorso è fondato.

La Corte di merito ha osservato che la notifica era stata effettuata il 28 luglio 2010 presso la sede sociale dell’appellante, in (OMISSIS): nell’occasione – spiega – l’ufficiale giudiziario non aveva rinvenuto alcuna persona che potesse ricevere l’atto e pertanto aveva dato corso agli incombenti previsti dall’art. 140 c.p.c.. Ha rilevato, altresì, che, alla stregua di un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, la notifica con il rito degli irreperibili di cui alla norma testè citata era consentita anche nei confronti delle persone giuridiche e agli enti privi di personalità, nel caso in cui la copia da notificare non potesse essere consegnata presso la sede legale della società per difficoltà di ordine materiale, e cioè per la momentanea assenza, l’incapacità o il rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c. e non fosse indicata nell’atto la persona fisica del rappresentante. Infine ha evidenziato che nel ricorso era indicato il nominativo del legale rappresentante, e cioè dell’accomandatario della società notificanda, ma non ne era menzionata la residenza o il domicilio al quale avrebbe potuto essere consegnato l’atto in ipotesi di impossibilità di consegnare lo stesso presso la sede sociale.

Così facendo, il giudice del gravame ha fatto applicazione delle pronunce di questa Corte (su tutte: Cass. S.U. 4 giugno 2002, n. 8091) rese con riguardo al vecchio testo dell’art. 145 c.p.c., vigente prima della riforma attuata con la L. n. 263 del 2005.

La norma novellata, applicabile alla fattispecie per cui è causa, prevede espressamente, con riguardo alla persona giuridica e all’ente non personificato, la notificazione ex art. 140 c.p.c.: ma tale forma notificatoria operante solo nel caso in cui sia impedita la notificazione presso la sede della società, o presso il legale rappresentante, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. – non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale. Più di preciso, il vano esperimento delle forme previste dall’art. 145, commi 1 e 2, per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purchè la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale (Cass. 7 giugno 2012, n. 9237; Cass. 13 settembre 2011, n. 18762).

Nel caso in esame, invece, è di solare evidenza che l’atto sia stato notificato secondo le modalità dell’art. 140 c.p.c., alla società: dalla relata riprodotta all’interno del ricorso, si ricava, infatti, che l’atto stesso doveva essere notificato a Istituto Piemontese Mediazioni, in persona del legale rappresentante, “con sede in (OMISSIS)”, e che “in detta località” (e cioè presso la sede) non era stato rinvenuto alcun soggetto abilitato a riceverlo.

La notificazione in questione è pertanto da ritenere nulla.

La sentenza va conseguentemente cassata e rinviata ex art. 383 c.p.c., comma 3, al Tribunale di Asti, in altra composizione. Al Tribunale è rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale si Asti, in altra composizione, anche per le spese; dà atto che, stante l’accoglimento del ricorso, non sussistono presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di ulteriore importo a titolo di contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2017


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 06/10/2016) 03/01/2017, n. 31

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNABAI Renato – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25334-2014 proposto da:

CURATELA DEL FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., in persona del Curatore avv. GIOVANNI MAGGIALETTI, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTA REINA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

L.M., nella qualità di legale rappresentante della (OMISSIS) S.R.L., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato LORENZO LO CICERO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1421/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 12/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/10/2016 dal Consigliere Dott. DI VIRGILIO ROSA MARIA;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato LORENZO LO CICERO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 24/4/2014, il Tribunale di Palermo dichiarava il fallimento della (OMISSIS) srl, esercente l’attività di commercio all’ingrosso di prodotti chimici ed altro; il reclamo proposto dalla società veniva accolto dalla Corte d’appello con sentenza del 5-12/9/2014, rilevandosi la fondatezza del motivo di reclamo inteso a far valere la mancanza della notifica L.Fall., ex art. 15, nel testo modificato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, convertito con la L. n. 221 del 2012, sul rilievo che il ricorso ed il decreto di comparizione erano stati notificati all’indirizzo (OMISSIS), indirizzo che, alla stregua della memoria della (OMISSIS) e della nota del Centro assistenza Aruba, risultava pur presente nel certificato camerale, ma riguardava altra società, la (OMISSIS) srl con sede in (OMISSIS), mentre l’indirizzo corretto della (OMISSIS) era (OMISSIS).

Ne conseguiva la mancata instaurazione del contraddittorio e la violazione diritto di difesa, e quindi la nullità della sentenza resa dal Tribunale, con la conseguente rimessione in primo grado, ex art. 354 c.p.c..

Ricorre avverso detta pronuncia il Fallimento, con ricorso affidato a due motivi.

La società ha depositato controricorso, nonchè, fuori termine, la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1.1. – Col primo motivo, il Fallimento si duole della violazione e falsa applicazione del D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 6 bis, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, art. 37; sostiene che la Corte del merito non ha considerato che in base a detta norma tutte le imprese in forma societaria sono obbligate a comunicare l’indirizzo pec alla CCIA, a pena della sospensione dell’iscrizione di qualunque atto presso il registro, e che quindi la pec rappresenta “l’equivalente elettronico” dell’indirizzo fisico della sede legale della società, che ricade sul legale rappresentante delle società la piena responsabilità della titolarità dell’indirizzo denunciato sia in occasione dell’iscrizione della società che successivamente.

1.2. – Col secondo, si duole del vizio di motivazione, quale omesso esame della responsabilità della società della comunicazione di un valido indirizzo pec, mentre la Corte d’appello si è limitata a rilevare l’erroneità dell’indirizzo pec. 2.1. – I due motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno esaminati congiuntamente, e sono da ritenersi fondati.

La L.Fall. art. 15, come modificato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, convertito con la L. n. 221 del 2012, dispone che il ricorso per dichiarazione di fallimento ed il decreto di convocazione devono essere notificati, a cura della Cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti, per poi passare a disporre nel caso di impossibilità o di esito negativo della notifica così effettuata.

Il D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 6, convertito nella L. n. 2 del 2009, dispone che “Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata.

Ed il comma 6 bis, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, convertito nella L. n. 35 del 2012, dispone che: “L’ufficio del registro delle imprese che riceve una domanda di iscrizione da parte di un’impresa costituita in forma societaria che non ha iscritto il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, in luogo dell’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 2630 c.c., sospende la domanda per tre mesi, in attesa che essa sia integrata con l’indirizzo di posta elettronica certificata”.

Tale obbligo è stato esteso agli imprenditori individuali con il D.L. n. 179 del 2012, art. 5, convertito dalla L. n. 221 del 2012.

Nel sistema normativo, è di chiara evidenza come la pec costituisca l’indirizzo pubblico informatico, che deve esser attivo e rinnovato nel tempo, la cui responsabilità sia nella fase di iscrizione che successivamente, grava sul legale rappresentante della società, non avendo a riguardo alcun compito di verifica l’Ufficio camerale.

E’ altresì di immediata evidenza come il legislatore abbia inteso, con la modifica delle modalità di notifica L.Fall., ex art. 15, favorire la celere definizione dei procedimenti fallimentari, nell’interesse del ceto creditorio, e nel pieno rispetto delle esigenze di tutela del fallendo, così perseguendo la realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost..

Detto sistema funziona e ne risultano rispettate tutte le contrapposte esigenze, ove sia adempiuto all’obbligo di comunicare al registro delle imprese un valido indirizzo di posta elettronica certificata.

Venendo al caso di specie, va rilevato che il ricorso ed il decreto L.Fall., ex art. 15 sono stati notificati all’indirizzo pec che risultava dal certificato camerale della (OMISSIS), ma che riguardava altra società; sulla base solo di detta circostanza, la Corte del merito ha concluso nel senso di ritenere che la (OMISSIS) non era mai venuta a conoscenza del procedimento prefallimentare.

Con tale statuizione, la Corte d’appello ha del tutto obliterato il meccanismo notificatorio previsto dalle norme sopra richiamate, senza tenere in conto la modifica normativa ed il diverso sistema introdotto con le norme in oggetto, non considerando che quello era l’indirizzo comunicato all’ufficio camerale, nella piena responsabilità del legale rappresentante della società.

Nè a diversa conclusione può portare il rilievo della controricorrente, che sarebbe stato generato per errore il messaggio di avvenuta notifica, atteso che la casella (OMISSIS) era stata cancellata nel novembre 2013 per mancato rinnovo(così la mail del Centro assistenza Aruba del 10/7/2014), perchè tale eventuale errore non elide il principio normativo sopra indicato, che pone a carico della società, e del suo legale rappresentante, l’obbligo di indicare al registro delle imprese l’indirizzo corretto di posta elettronica certificata e quindi di mantenerlo attivo e funzionante.

Resta, in ogni caso, aperta la possibilità per il notificato di allegare e provare la circostanza che l’erroneità dell’indirizzo pec risultante dal registro delle imprese fosse dovuto a fatto non imputabile, e tale evenienza comprova la correttezza e la tenuta dell’interpretazione qui seguita.

Infine, la conclusione assunta nel presente giudizio è coerente con la precedente pronuncia 13917/2016, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L.Fall., art. 15, comma 3, – nel testo successivo alle modifiche apportate dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, conv. con modif. nella L. n. 221 del 2012 – nella parte in cui non prevede una nuova notifica dell’avviso di convocazione in caso di accertata aggressione ad opera di esterni all’”account” di posta elettronica del resistente, per essere questi tenuto per legge a munirsi di un indirizzo PEC, e quindi ad assicurarsi del corretto funzionamento della propria casella postale certificata e ad utilizzare dispositivi di vigilanza e di controllo, dotati di misure anti intrusione, oltre che a controllare prudentemente la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata”.

3.1 – Il ricorso va pertanto accolto sulla base del seguente principio di diritto: La notifica telematica del ricorso di fallimento e del decreto L.Fall., ex art. 15, comma 3, nel testo successivo alle modifiche apportate dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, convertito dalla L. n. 221 del 2012, si perfeziona nel momento in cui perviene all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, precedentemente comunicato dal medesimo al momento della sua iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi del D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 6, convertito dalla L. n. 2 del 2009 e del D.L. n. 179 del 2012, art. 5, comma 1, convertito dalla L. n. 221 del 2012, salva la prova che l’indirizzo Pec risultante dal detto registro sia erroneo per fatto non imputabile all’imprenditore che ha effettuato la comunicazione.

L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione della pronuncia e la rimessione alla Corte d’appello in diversa composizione, alla quale si rimette anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13. comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 gennaio 2017


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 28-10-2016) 14-12-2016, n. 25680

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7159-2011 proposto da:

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA POMPEO MAGNO 1, presso lo studio dell’avvocato ANDREA ZINCONE, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 72/2010 della COMM. TRIB. REG. della Toscana depositata il 02/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/10/2016 dal Consigliere Dott. LA TORRE MARIA ENZA;

udito per il ricorrente l’Avvocato FERRARA per delega dell’Avvocato ZINCONE che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PISANA che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

G.M. d’Agenzia entrate.

Svolgimento del processo
G.M. ricorre per la cassazione della sentenza della CTR della Toscana, n. 72/30/10 dep. 02/07/10, che in relazione a impugnazione di cartella esattoriale emessa a seguito di notifica di due avvisi di accertamento per Irpef anni 1996 e 1997 ai sensi dell’art. 140 c.p.c. (preceduti da invito al contraddittorio), ha accolto l’appello dell’Ufficio, in riforma della decisione di primo grado.

In particolare la CTR ha ritenuto decisiva la questione della notifica degli avvisi di accertamento, prodromici alla notifica della cartella impugnata, che ha considerato regolare, in quanto effettuata presso il domicilio indicato nelle dichiarazioni dei redditi – indicazione “costituente notizia legale in ordine al domicilio fiscale” – ancorchè non coincidente con le risultanze anagrafiche. Ciò anche in considerazione della mancata contestazione da parte del contribuente in sede di contraddittorio, cui il contribuente aveva partecipato, notificato allo stesso indirizzo al quale erano stati notificati gli accertamenti. L’Agenzia si costituisce con controricorso.

Il ricorrente produce successiva memoria.

Motivi della decisione
1. Col primo motivo del ricorso G.M. deduce violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 2 e art. 60, anche in relazione all’art. 6 dello statuto del contribuente), avendo l’Agenzia notificato gli avvisi di accertamento all’indirizzo risultante dalla dichiarazione dei redditi ((OMISSIS)); indirizzo errato, in quanto egli risiedeva in via del (OMISSIS) (prima del trasferimento in altro Comune), per cui l’Agenzia avrebbe dovuto verificare, attraverso le risultanze anagrafiche, quale fosse il domicilio reale presso il quale notificare gli atti impositivi; ammette di essere a conoscenza degli avvisi, per avere partecipato al contraddittorio (p. 16 del ricorso), ritenendo che ciò non incide comunque sulla inesistenza/nullità della notifica.

2. Col secondo motivo si denunzia omessa, insufficiente motivazione su un fatto decisivo, costituito dalla verifica della effettiva volontà del contribuente di eleggere domicilio all’indirizzo indicato nelle dichiarazioni dei redditi ((OMISSIS)) ai fini della notifica degli avvisi di accertamento, in mancanza di prova (quale la produzione dei frontespizi delle dichiarazioni tributarie 1996 e 1997, avendo l’Ufficio prodotto solo il modello Unico relativo ad annualità diverse, anni 2002 e 2003).

3. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati e vanno respinti.

4. Come accertato dai giudici di merito e non contestato (con ciò cadendo la censura di vizio di motivazione), il domicilio del G., indicato nelle dichiarazioni dei redditi, era quello di (OMISSIS), presso il quale l’Agenzia ha effettuato la notifica degli avvisi di accertamento che hanno preceduto la cartella di pagamento.

5. Giova al riguardo premettere che le notificazioni degli atti tributari debbono essere eseguite al domicilio fiscale del contribuente (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60), che per le persone fisiche si identifica con quello del Comune nella cui anagrafe sono iscritte (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58). Il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, (alla cui stregua le variazioni e modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notifiche degli atti dell’Amministrazione finanziaria, ancorchè soltanto dal trentesimo giorno successivo alla variazione anagrafica), non autorizza la conclusione che dovendo in ogni caso l’Ufficio, prima di notificare un atto al contribuente, controllare, mediante una verifica sui registri anagrafici, l’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi – detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti dell’Amministrazione finanziaria.

Tale interpretazione renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prescritta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, e urterebbe contro il consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza (o di un proprio domicilio in un indirizzo diverso da quello di residenza, ma nell’ambito del medesimo comune ove il contribuente è fiscalmente domiciliato) va effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve conformare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (cfr. Cass. n. 15258 del 2015; Cass. nn. 5358/06, 11170/13, 26715/13, nella quale ultima si legge: “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

6. Sulla scorta di tali considerazioni deve allora affermarsi che altro è il caso di un cambio di residenza e altro è il caso di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi; in quest’ultimo caso, infatti, la notificazione che si sia perfezionata presso l’indirizzo indicato nella dichiarazione dei redditi (anche quando, come nella specie, il perfezionamento della notifica avvenga tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto in casa comunale) deve considerarsi valida, nonostante che tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche. Pertanto, posto che l’Amministrazione finanziaria era a conoscenza del domicilio del contribuente, come indicato nelle dichiarazioni dei redditi presentate, era valida la notificazione dell’atto impositivo siccome eseguita, ex art. 140 c.p.c., nel domicilio indicato nelle dichiarazioni dei redditi del contribuente, giacchè la procedura di notifica, di cui all’art. 140, adottata per gli avvisi di accertamento è stata utilizzata ricorrendone le condizioni, rendendo la conseguente cartella esattoriale impugnabile solo per vizi propri, nel caso di specie non rilevati.

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

8. Le spese dell’intero giudizio vanno compensate, in ragione del consolidarsi della giurisprudenza posta a base della decisione in epoca successiva alla proposizione del ricorso introduttivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-12-2016, n. 25750

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29538/2014 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati ELISABETTA LANZETTA, CHERUBINA CIRIELLO, GIUSEPPINA GIANNICO, SEBASTIANO CARUSO, FRANCESCA FERRAZZOLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.C., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO GENTILE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5483/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 05/07/2014 R.G.N. 3041/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/10/2016 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;

udito l’Avvocato GIANNICO GIUSEPPINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza oggi impugnata, ha respinto l’appello proposto dall’Inps, avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento irrogato a M.C. in data 9.11.2010.
La Corte territoriale ha rilevato che al M. era stato contestato di avere tratto in inganno il datore di lavoro in ordine all’orario di servizio prestato il giorno (OMISSIS) per essersi allontanato, con inganno, senza alcuna autorizzazione dall’ufficio, a fronte del sistema di rilevazione delle presenze a mezzo “badge” che attestava l’entrata e l’uscita dal lavoro, rispettivamente, alle ore 9,16 ed alle ore 15,46.
Ha escluso la sussumibilità della condotta addebitata nella fattispecie disciplinare prevista dall’art. 2, comma 9, lett. a) del CCNL, sostanzialmente riproduttiva di quella prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), sul rilievo della indimostrata sussistenza di modalità fraudolente, non oggetto di specifica indicazione nella contestazione disciplinare e perché il M. si era solo allontanato dall’ufficio senza richiedere la prescritta autorizzazione.
Il ricorso dell’Inps domanda la cassazione della sentenza per un unico motivo, illustrato da successiva memoria, al quale resiste, con controricorso, M.C..

Motivi della decisione

Sintesi del motivo di ricorso. 5. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, art. 2119 c.c., e art. 640 c.p..

Assume che, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, l’uso fraudolento delle apparecchiature atte a documentare la presenza sul luogo di lavoro e l’utilizzo alterato di queste ultime non si consuma solo nella commissione di condotte volte ad alterare fisicamente il sistema di rilevazione delle presenze ovvero nel far timbrare il cartellino da altri colleghi, ma anche nell’omessa registrazione dell’uscita dal luogo di lavoro e nella attestazione non veritiera sulla effettiva presenza sul luogo di lavoro.

Esame del motivo.

Il motivo è fondato.
Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), (nel testo applicabile “ratione temporis” alla vicenda dedotta in giudizio, realizzatasi prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1) sanziona con il licenziamento la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente e la giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia.
La chiara formulazione della disposizione ed anche la sua “ratio”, questa evincibile dall’obiettivo, enunciato nel D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 67, comma 1, di “potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo”, inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.
La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.
La condotta che si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e costituisce, ad un tempo, condotta penalmente rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quinquies, comma 1.
Il Collegio reputa che utili elementi a conforto della innanzi esposta ricostruzione della condotta tipizzata dal legislatore nell’art. 55 quater, comma 1, lett. a), possono desumersi dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1. Tale norma ha introdotto nell’art. 55 quater, il comma 1 bis, che dispone “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.
E’ certo innegabile che l’intervento additivo, sicuramente non qualificabile come fonte di interpretazione autentica, non ha efficacia retroattiva; è, nondimeno, indiscutibile la potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l’interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell’ordinamento giuridico (Cass. SSUU n. 18353/2014; Cass. 22552/2016).
Indipendentemente dall’intervento riformatore, la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione (cfr. p. 9 di questa sentenza), dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione/manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. 17637/2016, 17259/2016).
Va precisato che rimane fermo il principio secondo cui la valutazione della proporzionalità è coessenziale all’applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54 quater, lett. a), dovendo escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari e permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (Cass. 17259/2016, 17335/2016, 11639/2016, 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008; Cort. Costit. 971/1988, 239/1996, 286/1999).
I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all’art. 55 quater (Cass. 17259/2016, 1351/2016), sul rilievo che l’art. 2106 c.c., risulta oggetto di espresso richiamo da parte dell’art. 55, comma 2 e sul rilievo che alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento l’art. 55 quater, comma 1.
Tanto precisato, va rilevato che non è mai stato contestato che il giorno (OMISSIS) il M., negli intervalli temporali compresi tra le timbrature in ingresso (ore 9,16) e in uscita (15,46), si era allontanato dal lavoro senza alcuna autorizzazione e senza che risultasse alcuna timbratura intermedia che attestasse il suo allontanamento dal luogo di lavoro.
Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sul fatto che, dal punto di vista oggettivo, il comportamento contestato al M. è sussumibile entro la fattispecie astratta prevista dalla disposizione sopra richiamata, nella parte in cui, appunto punisce con il licenziamento la “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”. Attraverso la mancata segnalazione dell’uscita nel sistema di rilevazione della presenza in servizio, da effettuarsi attraverso il sistema di “timbratura”, risultò, infatti, attestata falsamente, e con l’elusione del sistema di rilevamento, una circostanza non vera e cioè la presenza in servizio del M..
La sentenza impugnata, che non si è attenuta ai principi sopra richiamati, va cassata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, che dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto, provvedendo anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità:
“Ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita”.
“La fattispecie disciplinare di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), si realizza non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita”.

P.Q.M.

La Corte.

Accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 11/10/2016) 01/12/2016, n. 24574

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 584-2014 proposto da:

M.G.B., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA 20, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO IACOVINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, C.F. (OMISSIS);

– intimato – avverso la sentenza n. 231/2013 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 26/06/2013 R.G.N. 126/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/10/2016 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;

udito l’Avvocato BARBIERI ATTILIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso proposto da M.G.B. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero delle Finanze, ricorso volto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare adottato nei suoi confronti in data 6.8.2010 ed alla pronuncia dei provvedimenti restitutori, economici e reali previsti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

2. Al M. era stato contestato di avere falsamente attestato la presenza in servizio il (OMISSIS).

3. La Corte territoriale ha affermato che il D.Lgs. 165 del 2001, art. 55 quater trova applicazione indipendentemente ed a prescindere dalle previsioni del codice disciplinare e senza che possa attribuirsi rilievo a disposizioni negoziali collettive di segno opposto ovvero alla valutazione del curriculum e della situazione personale del dipendente.

4. Ritenuta pacifica l’attuazione della condotta addebitata, compendiatasi nell’allontanamento dal posto di lavoro in assenza di “timbratura” con modalità fraudolente, ha ritenuto che essa fosse sussumibile entro la fattispecie della “falsa attestazione della presenza in servizio”, punita con la sanzione del licenziamento dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater.

5. Ha rilevato che erano rimasti indimostrati sia la dedotta necessità di assumere farmaci in ragione dell’insorta crisi ipoglicemica, affermandone, comunque, la irrilevanza perchè al rientro in ufficio il M. non aveva effettuato la “timbratura”, nè aveva comunicato l’evento prima della contestazione disciplinare. Ha ritenuto indimostrato anche il dedotto malfunzionamento del sistema di rilevazione delle presenze.

6. Ha, infine, escluso l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 67, comma 2, lett. a) del CCNL, sul rilievo che il M. aveva fatto risultare falsamente la presenza in servizio.

7. Il ricorso di M.G.B. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi, al quale resistono, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate ed il Ministero delle Finanze.

Motivi della decisione
Sintesi dei motivi di ricorso.

8. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 67 del CCNL quadriennio normativo 20022005 ed economico 2002-2003, e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

9. Assume che l’interpretazione data dalla Corte territoriale all’art. 55 quater contrasta con la previsione contenuta nel D.Lgs. 165 del 2001, art. 2 che attribuisce alla contrattazione collettiva la regolazione del potere disciplinare della P.A. datrice di lavoro.

10. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater.

11. Assume che la condotta addebitata in sede disciplinare non sarebbe sussumibile nella fattispecie legale descritta in detta norma in quanto esso ricorrente si era limitato ad allontanarsi dal posto di lavoro senza alterare il sistema di rilevamento della presenza in servizio e senza porre in essere alcuna modalità fraudolenta.

12. Sostiene che la Corte territoriale non ha tenuto conto delle sue condizioni di salute (diabete mellito richiedente assunzione di continue dosi di insulina e di farmaci), e che l’onere di provare la funzionalità del sistema di rilevazione della presenza incombe sulla P.A. datrice di lavoro.

13. Assume, inoltre, che, ai fini del giudizio sulla congruità della sanzione, deve essere valutata la concreta vicenda, la durata del rapporto di lavoro e l’assenza di precedenti disciplinari; deduce di essere stato sanzionato disciplinarmente soltanto con un provvedimento di minima entità nel lontano 1998 e di essere stato sempre apprezzato dal punto di vista professionale.

14. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’Art. 67 del CCNL Agenzie Fiscali deducendo la sproporzione tra la condotta addebitata e la sanzione espulsiva, alla luce delle clausole negoziali collettive.

Esame dei motivi.

15. Il primo motivo è infondato.

16. Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1, come sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 68, comma 1 statuisce che “le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’art. 55 octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’art. 2 comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2”.

17. Il comma 2 della disposizione sopra menzionata rimette ai contratti collettivi la individuazione della tipologia delle infrazioni e delle correlate sanzioni disciplinari, “Ferma l’applicazione dell’art. 2106 c.c.” e “salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo”.

18. La nuova regolazione del rapporto tra fonte legale e fonte negoziale collettiva in materia disciplinare riproduce l’assetto delle medesime fonti ridisegnato dall’art. 2, comma 3 bis (introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 33, comma 1, lett. c)), in materia di regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, quanto alle conseguenze dell’eventuale contrasto delle clausole pattizie con quelle legali “imperative” ovvero nel caso in cui siano violati i limiti fissati alla contrattazione collettiva.

19. L’art. 55 quater, fatta salva la disciplina generale in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo (comma 1, lett. da a) ad f) e comma 2), aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, ai sensi dell’art. 55, comma 1, sono, appunto, sostituite di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2.

20. La formulazione letterale chiara ed inequivoca delle disposizioni sopra richiamate attesta che le norme dei contratti collettivi non costituiscono più fonte esclusiva di individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti, dovendo queste essere integrate, e, se difformi, sostituite, dalle fattispecie legali previste dalle disposizioni sopra richiamate. D’altra parte la natura “imperativa” attribuita dall’art. 55, comma 1 alle norme di derivazione legale in materia di responsabilità disciplinare dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni non lascia alcuno spazio per opzioni interpretative di segno diverso.

21. L’esame delle disposizioni sopra richiamate induce, in conclusione, ad affermare che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater va interpretato nel senso che le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo (comma 1, lett. da a) ad f) e comma 2), sono aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, devono ritenersi sostituite di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2.

22. La preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale collettiva induce, inoltre, a ritenere che, ai sensi dell’art. 55 quater, il giudizio di adeguatezza delle sanzioni alle condotte ex lege tipizzate non è rimesso alla contrattazione collettiva ma compete soltanto al giudice in sede di giudizio di proporzionalità ai sensi dell’art. 2106 c.c. 23. Sulla scorta delle considerazioni svolte deve ritenersi che la sentenza impugnata è corretta nella parte in cui è stata affermata l’irrilevanza delle disposizioni contrattuali invocate dal ricorrente e prevedenti sanzioni meno gravi di quella prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a).

24. Il secondo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.

25. Il motivo è infondato nella parte in cui il ricorrente, precisato dì essersi limitato ad allontanarsi dal posto di lavoro senza alterare o manomettere il sistema di rilevamento delle presenze, sostiene che la condotta addebitata in sede disciplinare non sarebbe sussumibile entro la fattispecie legale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a).

26. Questa disposizione (nel testo applicabile ratione temporis alla vicenda dedotta in giudizio, realizzatasi prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1) sanziona con il licenziamento la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente e la giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia.

27. La chiara formulazione della disposizione ed anche la sua “ratio”, questa evincibile dall’ obiettivo, enunciato nel D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 67, comma 1 di “potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo”, inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.

28. La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.

29. La condotta che si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e costituisce, ad un tempo, condotta penalmente rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quinquies, comma 1.

30. Il Collegio reputa che utili elementi a conforto della innanzi esposta ricostruzione della condotta tipizzata dal legislatore nella lett. a) del c. 1 dell’ art. 55 quater possono desumersi dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1. Tale norma ha introdotto nell’art. 55 quater il comma 1 bis che dispone “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.

31. E’ certo innegabile che l’intervento additivo, sicuramente non qualificabile come fonte di interpretazione autentica, non ha efficacia retroattiva; è nondimeno indiscutibile la potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l’interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell’ordinamento giuridico (Cass. SSUU n. 18353/2014).

32. Indipendentemente dall’intervento riformatore, la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione (cfr. pp. 27-29 di questa sentenza), dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione/manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. 17637/2016, 17259/2016).

33. Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che nella fattispecie dedotta in giudizio ricorresse l’ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente, non essendo stato mai stato contestato che nei giorni (OMISSIS) il M. negli intervalli compresi tra le timbrature in ingresso, effettuate dopo la pausa pranzo, e quelle di uscita si era allontanato dal lavoro senza che risultasse alcuna timbratura. Attraverso la mancata segnalazione dell’uscita nel sistema di rilevazione della presenza in servizio, da effettuarsi attraverso il sistema di “timbratura”, risultò, infatti, attestata falsamente, e con l’elusione del sistema di rilevamento, una circostanza non vera e cioè la presenza in servizio del M..

34. Le deduzioni svolte in merito alla assenza di frode esulano dal perimetro del denunciato vizio di sussunzione, perchè attengono non alla ricostruzione della fattispecie oggettiva ma alla rilevanza dell’elemento soggettivo e mirano ad una non consentita in sede di legittimità rivalutazione dei fatti, adeguatamente esaminati dalla Corte territoriale con riguardo al profilo della frode ed alla assenza di prova sul mancato funzionamento del sistema di rilevazione delle presenze.

35. Il terzo motivo è infondato.

36. Deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (Cass. 17259/2016, 17335/2016, 11639/2016, 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008; Cort. Costit. 971/1988, 239/1996, 286/1999).

37. La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative) e risulta trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente consequenziali ad illeciti disciplinari.

38. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all’art. 55 quater (Cass. 17259/2016, 1351/2016), sul rilievo che l’art. 2106 c.c. risulta oggetto di espresso richiamo da parte dell’art. 55, comma 2 e sul rilievo che alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento l’art. 55 quater, comma 1.

39. Va, inoltre, considerato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, al quale va data continuità, l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., e da effettuarsi con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass.1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014 del 2014), non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. 17259/2016 17335/2016, 11630/2016, 1351/2016, 12069/2015, 6501/13, 18247/2009), poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento.

40. Ciò precisato, nella fattispecie in esame la proporzionalità della sanzione adottata è stata correttamente affermata in ragione della accertata insussistenza di ragioni impeditive della timbratura in entrata, successiva alla dedotta necessità di assumere farmaci fuori dall’ ufficio, necessità che avrebbe, nella prospettiva del ricorrente, impedito la timbratura in ufficio.

41. Va rilevato che la contestazione del giudizio valoriale della proporzionalità muovendo, ancora una volta, dalle previsioni della contrattazione collettiva e dal regime di gradualità delle sanzioni ivi previste, non applicabili al a vicenda dedotta in giudizio (cfr. pp. 19-21 di questa sentenza), resta estranea dal decisum della sentenza impugnata che ha ritenuto, correttamente, di prescindere dalle sue previsioni.

42. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

43. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alla refusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, liquidate in Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 22/09/2016) 29/11/2016, n. 2426

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21765-2011 proposto da:

ASL/(OMISSIS) BASSO MOLISE – GESTIONE LIQUIDATORIA, P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, BORGO ANGELICO 6, presso lo studio dell’avvocato VINCENZA CASALE, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO BRUNO DI SIENA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.R., C.F. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI – controricorrenti –

avverso la sentenza n. 378/2010 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 24/12/2010 r.g.n. 132/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/09/2016 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito l’Avvocato CASALE VINCENZA per delega Avvocato DI SIENA ENRICO BRUNO;

udito l’Avvocato GATTA VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Campobasso, con sentenza n. 4999/2011, seguita da ordinanza di correzione di errore materiale in data 8 aprile 2011, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda proposta dagli odierni controricorrenti, tutti dipendenti della Asl n. (OMISSIS) Basso Molise, diretta ad ottenere il pagamento delle differenze retributive tra il trattamento percepito e quanto spettante per le mansioni di infermiere professionale svolte nei periodi dettagliati in sentenza.

2. Osservava la Corte territoriale che il D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, aveva soppresso, con efficacia retroattiva, il divieto di corresponsione del trattamento corrispondente alla mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, di talchè rilevava l’esercizio di fatto di mansioni superiori, anche se svolte in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001. Osservava altresì che i testi avevano confermato che gli appellanti svolsero, nel periodo dedotto in giudizio, con continuità di tempo, le medesime mansioni degli infermieri professionali.

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la ASL n. (OMISSIS) Basso Molise sulla base di due articolati motivi. Resistono i lavoratori con controricorso, seguito da memoria e art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, articolato in due distinte proposizioni, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 e dell’art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001 e del D.P.R. n. 384 del 1990. Si assume che il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni superiori richiede un formale provvedimento di assegnazione, che nella specie era mancato. Neppure sarebbe condivisibile l’assunto secondo cui le differenze di trattamento retributivo spettano anche nel caso in cui l’assegnazione alle mansioni superiori sia nulla.

2. Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione e travisamento della prova in violazione dell’art. 116 c.p.c.. Si assume che “da una attenta disamina delle dichiarazioni dei numerosi testi escussi…si evince ictu oculi che le stesse, a differenza di quanto deduce la Corte territoriale, non provano la prevalenza delle mansioni svolte”.

4. Il primo motivo è infondato per le considerazioni che seguono.

5. Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, pur nelle varie formulazioni susseguitesi nel tempo, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore. Quanto invece al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, previsto dall’indicato art. 56, comma 6 nella sua originaria formulazione (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), trattasi di disposizione soppressa dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva; la portata retroattiva della disposizione risulta conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193/2011).

5.1. Occorre pure rilevare che il comma 5 qualifica come nulla l’assegnazione alle mansioni superiori al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, ma riconosce al lavoratore il diritto al trattamento economico della qualifica superiore, salva l’eventuale responsabilità per il relativo onere economico del dirigente che abbia disposto l’assegnazione, in caso di dolo o colpa grave.

5.2. A seguito di S.U. n. 25837/2007, questa Corte ha costantemente affermato che lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica – anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso, in forza del disposto del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore (tra le più recenti, Cass. n. 18808/2013; v. pure Cass. n. 796/2014).

5.3. Nè portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorchè nullo (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.). La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003).

5.4. Neppure vale a contrastare tale principiò la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perchè “il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale” (in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del 2007, cit.).

5.5. Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all’esistenza, nè alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, v. pure Cass. 796 del 2014).

5.6. La Corte costituzionale ha osservato (n. 101 del 1995) che il potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’amministrazione. Se fosse dimostrato che nel caso concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori è avvenuta con abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente, lo stesso art. 2126 cod. civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo. E’ stato così superato il rilievo, del giudice remittente, secondo cui questi limiti non basterebbero ad evitare che l’art. 2126 cod. civ., per il tramite dell’art. 2129, diventi nel pubblico impiego fonte di abusi e di favoritismi nella forma di avanzamenti di carriera di fatto, prestandosi “ad essere strumentalizzato quale grimaldello per stabilire e/o indurre connivenze tra chi ha il potere di mantenere l’assegnazione di fatto del dipendente a mansioni superiori, con tutti i conseguenti vantaggi economici, e quest’ultimo”. Il Giudice delle leggi, nel respingere tale rilievo di incostituzionalità dell’art. 2129 cod. civ., nella parte in cui prevede l’applicabilità dell’art. 2126 nel settore del pubblico impiego, ha fornito una chiara indicazione interpretativa, mettendo in rilievo come l’art. 2126 cod. civ., insieme con l’art. 2103 cod.civ., costituisca “un’applicazione ante litteram del principio, sancito dall’art. 36 Cost., che attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, indipendentemente dalla validità del contratto di assunzione o, rispettivamente, del provvedimento di assegnazione a mansioni superiori a quelle di assunzione, esclusi i casi di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa” (sent. n. 101 del 1995, cit.).

5.7. Neppure in caso di assegnazione di un sanitario alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico è stata esclusa l’operatività dell’art. 2126 c.c. (v. Corte costituzionale sent. n. 57 del 1989). Difatti, non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2). L’illiceità che, ai sensi dell’art. 2126 c.c., comma 1, priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento. Deve trattarsi, cioè, dell’illiceità in senso forte (illiceità della causa) prevista dall’art. 1343 cod. civ., non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418 c.c., comma 1, (C.Cost. n. 296 del 1990).

5.8. In conclusione, il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è condizionato all’esistenza, nè alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico, salva l’eventuale responsabilità del dirigente che abbia disposto l’assegnazione con dolo o colpa grave. Il diritto trova un limite nei casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente o comunque in tutti i casi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.

5.9. Nessun profilo di illiceità risulta essere stato prospettato in giudizio con riferimento alla particolare fattispecie. Nè risulta allegato da parte convenuta che l’espletamento di mansioni superiori avvenne all’insaputa o contro la volontà dell’Azienda (invito o proibente domino). La ASL si è invero limitata a rimarcare il difetto dei presupposti di legittimità dell’assegnazione di cui al D.P.R. n. 384 del 1990, artt. 55 e 121: a) vacanza di posti in pianta organica; b) indizione di una procedura per la relativa copertura; c) provvedimento di conferimento delle mansioni superiori per la copertura provvisoria dei posti vacanti. Nessuno di tali elementi osta, per le ragioni illustrate in precedenza, al riconoscimento ex artt. 2126 e 2129 c.c. del trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto svolte dagli odierni controricorrenti.

6. Il secondo motivo è inammissibile, poichè nel ricorso per cassazione non sono trascritte le deposizioni testimoniali su cui si incentra la doglianza, nè è precisato il fatto decisivo sul quale la motivazione sarebbe mancata o sarebbe insufficiente o illogica.

6.1. Qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi, altrimenti, il dedotto vizio di motivazione in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto delle deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata ovvero è stata insufficiente o illogica (Cass. n. 6023 del 2009, 17915 del 2010, 13677 del 2012, 21632 del 2013, n. 48 del 2014; principio elaborato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134).

7. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ASL ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

 


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 03-11-2016) 18-11-2016, n. 23509

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BOTTA Raffaele – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11815-2012 proposto da:

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA SAVOIA 33, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE VESCUSO, rappresentato e difeso dall’avvocato VITTORIO SELLITTI giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI NAPOLI (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, EQUITALIA SUD SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 76/2011 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 28/03/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2016 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato VESCUSO per delega dell’Avvocato SELLITTI che si riporta agli atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato ROCCHITTA che si riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto in subordine accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
M.P. impugnava una cartella di pagamento relativa a due avvisi di accertamento, divenuti definitivi in assenza di impugnazione, per IRPEF 1999 e 2000, davanti alla Commissione tributaria provinciale di Napoli che accoglieva il ricorso del contribuente perchè l’Ufficio non aveva dimostrato la rituale notifica di tali atti propedeutici. L’Agenzia delle Entrate proponeva appello alla Commissione tributaria regionale della Campania che, con sentenza pronunciata il 10/2/2011 e depositata il 28/3/2011, accoglieva il gravame.

Osserva la CTR, in particolare, l’infondatezza della eccezione di nullità della notifica degli atti impugnati avendo l’Ufficio documentato di aver tentato la notifica attraverso i messi comunali, in (OMISSIS), luogo di residenza anagrafica del contribuente alla data del (OMISSIS) e che il M., pur avendone la possibilità, non aveva provveduto a comunicare con esattezza l’ intervenuta variazione del domicilio fiscale.

Contro la sentenza di appello il soccombente propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c., cui resiste la sola Agenzia delle Entrate con controricorso.

Il Collegio ha disposto, come da decreto del Primo Presidente in data 14/9/2016, che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, errata applicazione degli artt. 137, 138, 139 c.p.c., nonchè della L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 27, omesso esame di un punto decisivo della controversia, violazione di legge, giacchè il giudice di appello non ha considerato che dalla documentazione in atti emerge che in (OMISSIS), il contribuente non era più residente, per essersi trasferito in altro Comune, come da comunicazione del (OMISSIS) al Comune di Acerra, e che ciò nonostante la notificazione degli avvisi di accertamento era stata eseguita, il 3/11/2006, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., mediante deposito nella casa comunale di (OMISSIS). Secondo il ricorrente, nel caso di specie neppure sovviene il disposto della L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 27, atteso che il contribuente aveva effettuato tempestiva comunicazione della variazione di indirizzo nei “modelli fiscali”, circostanza peraltro ricavabile dall’elenco dei domicili fiscali esibito in giudizio dall’Agenzia delle Entrate.

Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., atteso che il giudice di appello non ha considerato che mancava la prova dell’impossibilità di effettuazione della notifica ai sensi dell’art. 139 c.p.c. stante la dimostrata circostanza, facilmente conoscibile dal notificante, che al momento del deposito presso la casa comunale di (OMISSIS) degli avvisi di accertamento il contribuente risiedeva in altro Comune. Aggiunge che l’avviso di ricevimento relativo alla comunicazione al destinatario del deposito presso la casa comunale non solo è privo di sottoscrizione ma anche dell’indicazione del soggetto a cui la raccomandata è stata consegnata.

Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, errata applicazione degli artt. 137, 138 e 139 c.p.c., omesso esame di un punto decisivo della controversia, giacché il giudice di appello ha ritenuto regolare la notifica degli avvisi di accertamento anche sulla base della circostanza che il contribuente non avesse comunicato al fisco “l’abbandono” del Comune di residenza, circostanza non soltanto smentita dalla documentazione esibita dalla Agenzia delle Entrate, ma priva di influenza sulle modalità di esecuzione della procedimento notificatorio, regolato dal codice di procedura civile.

I motivi di ricorso, che possono essere scrutinati congiuntamente stante l’omogeneità delle censure, sono infondati.

Il M. assume di essere stato residente ad (OMISSIS) sino al (OMISSIS), allorché si era trasferito in altro Comune ((OMISSIS)), e si duole perché la notifica degli avvisi di accertamento è stata effettuata, ex art. 140 c.p.c., con deposito presso la casa comunale di (OMISSIS), nonostante non risiedesse da più di due mesi in detto Comune e ne avesse dato comunicazione al Comune di (OMISSIS).

La questione posta dal ricorrente può essere agevolmente risolta facendo applicazione del principio di diritto, affermato da questa Corte secondo, secondo cui “la disciplina delle notificazioni degli atti tributari si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sull’onere preventivo del contribuente di indicare all’Ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e di tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, sicché il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’Ufficio procedente ad eseguire le notifiche comunque nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Tuttavia, essendo tale disciplina posta a garanzia dell’Amministrazione finanziaria, cui non può essere addossato l’onere di ricercare il contribuente fuori del suo domicilio, la sua inosservanza non comporta, in ogni caso, l’illegittimità del procedimento notificatorio quando venga seguita una procedura più garantista per il contribuente” (Cass. n. 18934/2015; n. 25272/2014; n. 1206/2011).

Nella specie, la ratio decidendi della sentenza impugnata ruota attorno alla constatazione, la cui correttezza non ha trovato smentite nel corso del giudizio di merito, che l’Ufficio ha dimostrato “che il Contribuente non ha mai comunicato la variazione di residenza come indicata in ricorso introduttivo in (OMISSIS), ma ha indicato tutta una serie di diverse residenze”, sicché neppure è censurabile l’affermazione del giudice di secondo grado secondo cui la notificazione è stata validamente eseguita in luogo diverso da quello di residenza, e applicando le forme dell’art. 140 c.p.c., mediante deposito presso la casa comunale di (OMISSIS) e l’affissione dell’avviso del deposito nell’albo del Comune, all’esito dell’infruttuoso tentativo all’indirizzo, noto all'(OMISSIS), in (OMISSIS), e cioè alla “vecchia” residenza del contribuente, non avendo il destinatario comunicato all’Amministrazione le variazioni di indirizzo utili a consentire una diversa forma di notificazione.

E, in tema di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., è appena il caso di ricordare che la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. n. 26864/2014).

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate, in favore della costituita Agenzia delle Entrate, come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 7.000,00, per compensi professionali, oltre rimborso spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2016


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 19/10/2016) 17/11/2016, n. 23430

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI ANIELLO – rel. Presidente –

Dott. DI VIRGILIO ROSA MARIA – Consigliere –

Dott. BISOGNI GIACINTO – Consigliere –

Dott. FERRO MASSIMO – Consigliere –

Dott. FALABELLA MASSIMO – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5393-2011 proposto da:

G.A. (C.F. (OMISSIS)) LABORATORI G. DI A.G. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi rappresentati e difesi dall’avv. Marco Pepe, elettivamente domiciliati presso il suo studio in Roma, via Tuscolana 4. – ricorrenti –

contro

SEAT PAGINE GIALLE S.P.A. (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Adriana Romoli, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via Ildebrando Goiran 23. – controricorrente –

e contro

FALLIMENTO LABORATORI G. DI A.G. S.A.S. e di G.A., in persona del curatore pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 22/2011, depositata il 10 gennaio 2011.

Sentita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 19 ottobre 2016 dal Presidente relatore dott. Aniello Nappi;

udito l’avv. Pepe per i ricorrenti e l’avv. Romoli per la controricorrente;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale dott. Soldi Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Laboratori G. di A.G. s.a.s. e il socio illimitatamente responsabile G.A., impugnano per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Roma deposita il 3 gennaio 2011, che dichiarò inammissibile il loro reclamo avverso la pronuncia del Tribunale di Roma con cui erano stati dichiarati falliti, su istanza del creditore SEAT Pagine Gialle s.p.a..

Ritenne la corte che il reclamo fosse inammissibile perchè proposto dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza presso il difensore della società, restando irrilevante l’omessa notifica del provvedimento al socio illimitatamente responsabile, pure dichiarato fallito, nè sussistendo i presupposti per una rimessione in termini dei reclamanti.

Il ricorso è affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso la SEAT Pagine Gialle s.p.a..

Motivi della decisione
l. – Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 17, 18 e 147 l.fall., avendo la corte d’appello errato nel ritenere che il “debitore”, cui la sentenza di fallimento va notificata a cura della cancelleria, fosse soltanto la società dichiarata fallita e non anche i soci illimitatamente responsabili anch’essi soggetti al fallimento.

Con il secondo motivo lamentano ancora la violazione degli artt. 17 e 147 l.fall., dovendo farsi decorrere il cd. termine breve per l’impugnazione della sentenza di fallimento dalla notifica a ciascuno dei soggetti dichiarati falliti.

Con il terzo motivo eccepiscono la violazione dell’art. 153 c.p.c., avendo respinto la corte d’appello l’istanza di rimessione in termini, nonostante la condotta gravemente omissiva mantenuta dal loro difensore dopo la dichiarazione di fallimento.

Con il quarto motivo assumono la violazione dell’art. 1 l.fall., poichè dalla documentazione in atti emergeva l’insussistenza delle soglie di fallibilità previste dalla detta norma.

2. Il primo e il secondo motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta connessione, sono parimenti infondati, anche se la motivazione del provvedimento impugnato esige una correzione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Va precisato, anzitutto, che il ricorso proposto dalla società fallita è manifestamente infondato, non potendosi dubitare che il decorso del termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza di fallimento, avvenuta ai sensi dell’art. 17, comma 1, l.fall. nel domicilio eletto presso il difensore della fase prefallimentare, rende inammissibile il reclamo tardivamente proposto, a prescindere dalla circostanza che la sentenza medesima sia stata o meno notificata (ovvero anche solo comunicata) alle altre parti del processo, non trattandosi di prescrizioni imposte a pena di nullità del provvedimento (già così Cass. 7 marzo 1963, n. 554).

Quanto al ricorso del socio accomandatario illimitatamente responsabile, ritiene il Collegio che il cd. termine breve per proporre il reclamo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17 e 18 l.fall., decorra anche per il socio illimitatamente responsabile dichiarato fallito, soltanto a partire dalla notifica nei suoi confronti della sentenza integrale, palesandosi all’evidenza anche per il socio le medesime esigenze di tutela del diritto di difesa, che giustificano la previsione ex lege di un tale onere nei confronti del “debitore”; ferma restando poi, in mancanza di notifica a cura della cancelleria o del creditore istante, l’applicazione del termine lungo ex art. 327 c.p.c., comma 1.

Tuttavia, come già evidenziato da questa Corte in fattispecie analoga a quella che ci occupa (Cass. 25 maggio 2005, n. 11015), nel caso di dichiarazione di fallimento di una società di persone e del socio illimitatamente responsabile, anche in virtù di un ragionevole bilanciamento tra le ricordate esigenze di tutela del diritto di difesa e quelle di concentrazione e celerità dello svolgimento delle procedure concorsuali, deve ritenersi che, nel caso in cui il socio dichiarato fallito abbia anche la veste di legale rappresentante della società, la notifica della sentenza ricevuta in questa veste assicuri la piena conoscenza della decisione anche con riguardo alla dichiarazione del suo fallimento personale, con la conseguenza che da detta notifica decorre il termine breve per proporre reclamo anche nella qualità di socio illimitatamente responsabile.

Nella vicenda qui all’esame, allora, non può dubitarsi che il socio accomandatario G.A. abbia avuto legale e completa conoscenza della sentenza che dichiarava il suo fallimento quale socio illimitatamente responsabile della Laboratori G. di Alessandro Guantera s.a.s., già al momento della notifica dell’atto presso il domicilio eletto da quest’ultima, in quanto amministratore della società, risultando inammissibile per tardività il reclamo da lui proposto, esattamente come quello proposto dall’accomandita.

3.- Il terzo motivo è infondato.

Questa Corte ha già stabilito che la rimessione in termini, oggi disciplinata dall’art. 153 c.p.c., non può essere riferita ad un evento esterno al processo, impeditivo della costituzione della parte, quale la circostanza dell’infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo, giacchè attinente esclusivamente alla patologia del rapporto intercorrente tra la parte sostanziale e il professionista incaricato ai sensi dell’art. 83 c.p.c., che può assumere rilevanza soltanto ai fini di un’azione di responsabilità promossa contro quest’ultimo, e non già, quindi, spiegare effetti restitutori al fine del compimento di attività precluse alla parte dichiarata contumace, o, addirittura, comportare la revoca, in grado d’appello, di tale dichiarazione (Cass. 4 marzo 2011, n. 5260).

Correttamente, allora, la corte d’appello ha escluso che il denunciato errore del difensore dei falliti (neppure prendendo in considerazione la possibilità di proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento), potesse giustificare una rimessione in termini degli allora reclamanti.

4.- Il quarto motivo è inammissibile, restando precluso dall’intervenuto giudicato sulla dichiarazione di fallimento l’esame nel merito dei presupposti di fallibilità della società ricorrente.

5.- Le spese seguono la soccombenza tra le parti costitute.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalla controricorrente, liquidate in Euro 7,200,00, di cui Euro 7.000,00 per onorari, oltre accessori.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2016


Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., (ud. 28-09-2016) 28-11-2016, n. 24107

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29942-2014 proposto da:

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della Società di Cartolarizzazione dei Crediti INPS (SSCI), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, SCIPLINO ESTER ADA VITA, LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PORTUENSE 104, presso lo studio dell’avvocato ANTONIA DE ANGELIS, rappresentato e difeso dagli avvocati ENRICO VASSENA, ROSANNA PATTA giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 315/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI del 24/09/2014, depositata il 03/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/09/2016 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIO FERNANDES;

udito l’Avvocato Sciplino Ester Ada difensore del ricorrente che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 28 settembre 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Il giudice del lavoro presso il Tribunale di Cagliari accoglieva l’opposizione proposta da S.F. al precetto a lui notificato in data 21 marzo 2012 dall’INPS per il pagamento di Euro 19.989,63 per contributi omessi, precetto fondato su decreto ingiuntivo del 2.12.1998, notificato il 14 dicembre 1998 e divenuto esecutivo perché non opposto.

L’adito giudice riteneva prescritto il credito stante la mancanza di validi atti interruttivi della prescrizione posti in essere medio tempore tra la notifica del decreto ingiuntivo e quella del precetto opposto.

Tale decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Cagliari, con sentenza del 10 ottobre 2014.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’istituto affidato ad un unico motivo.

Il S. resiste con controricorso.

Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 143, 148 e 160 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3). Si assume che erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto nulla notifica del precetto effettuata in data 25.6.2002 ai sensi dell’art. 143 c.p.c., con conseguente inidoneità dell’atto ad interrompere il corso della prescrizione.

Vale precisare che il giudice del gravame – premesso che il ricorso alla notifica ex art. 143 c.p.c. presuppone che nel luogo di ultima residenza nota siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto nella “relata” – aveva rilevato che nel caso in esame l’ufficiale giudiziario si era limitato a dichiarare che il S. era irreperibile senza dare atto di eventuali ricerche con cui avrebbe potuto accertare se si era trasferito definitivamente altrove o se, invece, era temporaneamente assente.

Il motivo censura tale motivazione rilevando: che l’omessa indicazione nella “relata” di notifica delle ricerche, anche anagrafiche, fatte dall’ufficiale giudiziario, dei motivi della mancata consegna e della notizie raccolte sulla irreperibilità del destinatario, non era prevista come causa di nullità; che, nel caso in esame, l’istituto aveva utilizzato l’ordinaria diligenza avendo tentato la notifica del precetto al S. nel 2001 ad altro indirizzo da cui risultava trasferito (in località “(OMISSIS)”) e, quindi, in esito a tale tentativo fallito, era stata effettuata in data 25 giugno 2002 la notifica ai sensi dell’art. 143 c.p.c. a (OMISSIS) ove il predetto risultava residente come da certificazione anagrafica in atti.

Il motivo è infondato.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non vi alcuna valida ragione per discostarsene, il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mete risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto, presupposti questi in assenza dei quali la notifica è nulla (Cass. n. 17205 del 11/07/2013; Cass. n. 2976 del 10/02/2006; Cass. n. 18385 del 02/12/2003; Cass. Sez. U, n. 6737 del 10/05/2002 tra le varie).

Nella specie, come correttamente rilevato dalla Corte di merito, la “relata” di notifica dell’ufficiale non contiene alcuna indicazione in ordine alle indagini compiute per accertare la residenza del destinatario. Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5.”.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Il Collegio condivide pienamente il contenuto della sopra riportata relazione e, quindi, rigetta il ricorso.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo in favore del S..

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 17/05/2016) 26/09/2016, n. 18858

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9834/2015 proposto da:

B.P., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO PIZZOFERRATO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

– COMUNE DI SALA BOLOGNESE, C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SAN TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato ANDREA ZANELLO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI DELUCCA, giusta delega in atti;

– UNIONE TERRE D’ACQUA, C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO MARELLI, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 145/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 02/02/2015, R.G. N. 890/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/05/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato ALBERTO PIZZOFERRATO;

udito l’Avvocato GIOVANNI DELUCCA in proprio e per delega ALESSANDRO MARELLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 145 del 2015, depositata il 2 febbraio 2015, rigettava il reclamo proposto da B.P., ai sensi dell’art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, nei confronti del Comune di Sala Bolognese e dell’Unione Terre d’Acqua, avverso la sentenza n. 751 del 2014 emessa tra le parti dal Tribunale di Bologna.

2. Con ricorso ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, la B., in servizio presso il suddetto Comune come istruttore di polizia municipale, con inquadramento nella area C (ex 5^ qualifica funzionale), posizione economica C3, e transitata per mobilità alle dipendenze della Unione Terre d’Acqua dal 1 gennaio 2013, adiva il Tribunale per ottenere, previa declaratoria di illegittimità della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un giorno, 2 dicembre 2012, per 3 giorni dal 19 marzo 2012, e per cinque giorni dal 15 maggio 2012, l’annullamento delle sanzioni conservative e la condanna degli enti convenuti a rifondere le somme indebitamente trattenute, nonchè per ottenere, previa declaratoria della nullità e/o inefficacia e/o ingiustificatezza dei licenziamenti con preavviso del 18 luglio 2012 e del 19 dicembre 2012, in via principale la tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18, in via subordinata, nel caso in cui non fosse stata riconosciuta la natura discriminatoria del recesso, il pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità.

In via di estremo subordine, nel caso in cui si fosse ritenuto applicabile il novellato art. 18, e non si fosse ravvisata la insussistenza del fatto o la punibilità dello stesso con sanzioni conservative, il pagamento di una indennità risarcitoria di 24 mensilità.

3. Il Tribunale, con ordinanza in data 24 settembre 2013, L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, rigettava la domanda.

4. La B. proponeva opposizione. Il Tribunale di Bologna con la sentenza n. 751 del 2014 rigettava l’opposizione.

5. Per la cassazione della sentenza di appello, che decideva sul reclamo intentato contro la suddetta sentenza n. 751 del 2014, ricorre B.P. prospettando quattro motivi di ricorso.

6. Resistono con distinti controricorsi, entrambi assistiti da memoria, l’Unione Terre d’Acqua e il Comune.

Motivi della decisione
1. Occorre premettere che la Corte d’Appello ha delimitato il thema decidendum limitandolo al licenziamento con preavviso irrogato ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, il 2 gennaio 2013, previa contestazione dell’addebito il 19 dicembre 2012, per la mancata valida giustificazione relativamente all’assenza per sette giorni di malattia (21 giugno; 3-5 luglio; 9-11 luglio del 2012).

2. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

3. Con il primo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. b), art. 55 septies, per avere ritenuto che i certificati dei medici fiscali non rappresentassero valida giustificazione dell’assenza per malattia della ricorrente. Assume la ricorrente che, essendo intervenuta visita fiscale, all’esito della quale veniva rilasciato certificato medico che confermava l’esistenza della patologia inabilitante al lavoro, e facendo parte i medici fiscali di una struttura sanitaria pubblica, la malattia era stata certificata secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 55 septies. Erroneamente, quindi, la Corte d’Appello aveva affermato che il certificato del medico curante o della struttura sanitaria pubblica era l’unica documentazione giustificativa dell’impedimento del dipendente a recarsi al lavoro.

3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Occorre rilevare che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 septies, introdotto dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, al comma 1, ha sancito che “nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare l’assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale”. Dunque, il legislatore ha inteso porre a carico del lavoratore l’obbligo di attivarsi nei suddetti sensi, atteso che, come previsto dall’art. 55 quater, comma 1, lett. b, è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso in presenza di “assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione”.

Parallelamente all’obbligo che grava sul lavoratore di rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato, potendo solo la certificazione rilasciata dagli stessi giustificare l’assenza per malattia, il legislatore (art. 55 septies, comma 2) ha stabilito che quest’ultimi provvedano ad inviare la certificazione per via telematica all’INPS che, a sua volta, la inoltra immediatamente all’Amministrazione interessata. Anche l’inosservanza di tale obbligo di trasmissione costituisce illecito disciplinare.

Dunque non è sufficiente che il lavoratore informi il datore di lavoro dell’assenza per malattia, come avvenuto nella specie, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per l’accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui all’art. 55 septies, commi 1 e 2, che si conclude con l’inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al datore di lavoro da parte dell’INPS. Ed è alla mancanza di tale certificazione, che conforti la ragione della malattia quale causa dell’assenza, che l’art. 55 quater, comma 1, lett. b), riconduce il licenziamento senza preavviso.

Su di un piano diverso si pone, dunque, la visita fiscale, che nella ratio della L. n. 150 del 2009, non è alternativa alla certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, a cui deve rivolgersi il lavoratore.

Le Amministrazioni pubbliche, infatti, non sono più obbligate a procedere sempre alla cd. visita fiscale, ma (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 septies, comma 5) “dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all’effettuazione della visita, tenendo conto dell’esigenza di contrastare e prevenire l’assenteismo”. Il controllo, infatti, è richiesto, in ogni caso, sin dal primo giorno, solo quando l’assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.

Correttamente, quindi, la Corte d’Appello ha escluso che i referti medici fiscali non potevano costituire valida giustificazione alla assenza per malattia della B..

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 22105 e 2016 c.c., nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55 e 55 quater, per avere ritenuto che la ricorrente fosse consapevole della necessità di munirsi di certificato del medico curante e per aver ritenuto il giudice di non potere sindacare la proporzionalità del licenziamento inflitto.

Assume la ricorrente che persiste la discrezionalità del giudice, dovendosi valutare la gravità oggettiva e soggettiva dell’inadempimento anche nel caso in esame, verificando in concreto la gravità del fatto addebitato, in particolare con riguardo ai motivi del comportamento e alle circostanze in forza delle quali lo stesso è stato posto in essere, tenuto conto anche delle norme e dei principi generali di buona fede e correttezza. Nella specie, la ricorrente assolveva all’obbligo di comunicare la propria assenza per malattia e si era resa reperibile alla immediata visita del medico fiscale.

4.1. Il motivo è fondato e deve essere accolto.

Come più volte affermato da questa Corte (Cass., n. 22798 del 2012), deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.

Questa Corte, inoltre, ha affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma (Cass. n. 6498 del 2012).

Ciò precisato, deve rilevarsi che nella specie, ritenendo legittima la sanzione espulsiva, escludendo di dover vagliare la sussistenza della proporzionalità alla luce delle circostanze concrete – quali la circostanza che la visita fiscale era intervenuta, e in un breve arco di tempo, dopo al comunicazione, e che la malattia era risultata effettivamente sussistente – la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza richiamata.

5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 18, 15 e 16, dello statuto dei lavoratori, della L. n. 108 del 1990, art. 3, della L. n. 604 del 1966, art. 4, per aver avere escluso la Corte d’Appello, la natura discriminatoria e/o ritorsiva del licenziamento.

Espone la ricorrente che il provvedimento espulsivo costituiva un’ingiusta ed arbitraria reazione dell’Amministrazione al particolare interessamento dimostrato da essa lavoratrice proprio negli ultimi mesi dell’anno 2001, nei confronti della regolarità degli apparecchi autovelox situati nel Comune di Sala Bolognese, con la richiesta di informazioni sull’appalto relativo.

5.1. Il motivo non è fondato. Ed infatti, lo stesso si limita ad enunciare una circostanza del tutto generica quanto alle modalità con cui si sarebbe realizzata, senza precisare se la stessa fosse già stata introdotta nel corso del giudizio, e senza chiarire il prospettato nesso causale, non potendo ciò sostanziarsi nella mera successione temporale degli eventi prospettati.

6. All’accoglimento del secondo motivo di ricorso, segue l’assorbimento del quarto motivo, con il quale si censura la sentenza per violazione di norme di diritto relative al procedimento disciplinare (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, commi 3 e 4, art. 7, dello statuto dei lavoratori).

7. La sentenza deve esser cassata in relazione al secondo motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio. Rigettati il primo ed il terzo motivo di ricorso. Assorbito il quarto motivo di ricorso.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso. Accoglie il secondo. Assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2016

 


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 05/07/2016) 19/09/2016, n. 18326

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17916-2012 proposto da:

COMUNE DI CELLATICA, P.I. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIA NUOVA 96, presso lo studio dell’avvocato PAOLO ROLFO, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO BEZZI, giusta delega in atti;

– ricorrente – contro

B.F., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE AMIATA 33, presso lo studio dell’avvocato MICHELA FUSCO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO VASAPOLLI, ROBERTO MANCINI, MICHELE AGOSTINI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 237/2012 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 31/05/2012 R.G.N. 673/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/07/2016 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito l’Avvocato FUSCO MICHELA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 31 maggio 2012 la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato illegittimi i due licenziamenti irrogati il (OMISSIS) alla dipendente B.F. dal Comune di Cellatica ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001 per assenza ingiustificata protratta per oltre tre giorni, anche non continuativi, nel (OMISSIS). La Corte, ritenuta necessaria (nonostante la specifica e tipizzata previsione normativa) la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi della giusta causa di risoluzione del contratto, ha rinvenuto, nella condotta della lavoratrice, i profili della buona fede trattandosi di madre di una bambina minore affetta da handicap che aveva chiesto, infruttuosamente – per l’arco temporale (OMISSIS) – la fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita e considerato, inoltre, il comportamento dell’ente che aveva proceduto ad un’unica contestazione disciplinare per poi adottare plurimi provvedimenti e che non aveva avvertito la lavoratrice dell’esaurimento di tutto l’arco temporale previsto dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 47 a titolo di congedo per malattia della figlia. In assenza di connotazioni di gravità tali da giustificare la sanzione espulsiva, il giudice di merito ha disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.

Avverso la sentenza impugnata ricorre il Comune con tre motivi. Resiste la B. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il Comune ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. b) nonchè vizio di motivazione, rilevando che la Corte territoriale ha erroneamente recuperato spazi discrezionali e valutativi della giusta causa di licenziamento di contro esclusi dal legislatore il quale, enucleando – con la modifica apportata con il D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 69 – ipotesi tipizzate di licenziamento ha attribuito rilievo pressochè autonomo al dato oggettivo dell’assenza protratta nel triennio, cui non può conseguire, da parte datoriale pubblica, altra reazione se non quella del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro. Rileva, inoltre, parte ricorrente come nonostante le indiscutibili difficoltà derivanti alla lavoratrice dalla disabilità della figlia – la B. avesse fruito a più riprese di permessi speciali e, in genere, di assenze giustificate per ragioni familiari e/o di salute e che rientra, pertanto, nella comune e minima diligenza del dipendente tenere il computo dei giorni a propria disposizione e di quelli mancanti alla necessaria ripresa dell’attività lavorativa. Si deduce, inoltre, che la Corte territoriale ha, in particolare, confuso le problematiche della figlia disabile (che negli anni addietro hanno trovato ampia comprensione da parte del Comune, che a più riprese è venuto incontro alle particolari esigenze della lavoratrice, consentendo l’ampio utilizzo di tutti gli strumenti posti dall’ordinamento a tutela di situazioni svantaggiate) con l’osservanza dei doveri di ufficio a cui è tenuto ogni dipendente, che – nel caso di specie – doveva essere rinvenuta nella condotta tenuta dalla lavoratrice in epoca anteriore e successiva ai fatti addebitati, condotta che è, invece, stata improntata al dispregio delle più elementari regole che il pubblico dipendente è tenuto a seguire (come evidenziato nella memoria autorizzata del 19.9.2011, a cui il Comune rinvia, ove si è sottolineato che la B. l’8.7.2011 non rientrava dal congedo parentale usufruito D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 32).

2. Con il secondo motivo il Comune denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. b) nonchè vizio di motivazione, avendo, la Corte territoriale, censurato la condotta dell’ente pubblico per non aver tempestivamente preavvisato la B. dell’esaurimento dei giorni di congedo dalla stessa fruibili, non sussistendo un siffatto onere a carico del datore di lavoro.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 del CCNL comparto Regioni Enti locali stipulato il 6.7.1995 nonchè vizio di motivazione ove il giudice di merito ha censurato l’adozione di una pluralità di sanzioni disciplinari in conseguenza di una condotta unitaria della dipendente, essendosi, il Comune, limitato ad ottemperare alla previsione legislativa che prevede il decorso di tre giorni di assenza ingiustificata per integrare la fattispecie normativa.

4. Preliminarmente, non può ravvisarsi – nella memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dal Comune – una chiara ed effettiva determinazione a rinunciare al ricorso in Cassazione. Invero, la memoria, che riporta la rubrica “Note per l’udienza del 5.7.2016. Rinuncia al ricorso”, si compendia nella comunicazione di un successivo licenziamento (intimato alla B. in data (OMISSIS)) e nella produzione della sentenza della Corte di appello di Brescia n. 274/2014 di declaratoria di legittimità di tale provvedimento espulsivo, senza manifestare, peraltro, una chiara ed incontrovertibile volontà dell’ente di abbandonare la presente controversia.

5. I motivi, strettamente connessi tra loro, sono fondati.

Il legislatore del 2009 ha integralmente sostituito il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 inserendo, fra l’altro, l’art. 55 quater nel quale, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, sono state introdotte e tipizzate alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento. Tra queste è prevista l’ipotesi dell’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiori a tre nell’arco di un biennio.

14. L’art. 55 quater, comma 1 dispone, invero, che, “Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione del licenziamento disciplinare, nei seguenti casi: (…) b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione”.

La disposizione ha introdotto una tipizzazione di fattispecie di illeciti disciplinari per i quali è prevista l’applicazione del licenziamento. Si pone, quindi, il problema di verificare se – una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma – il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria ovvero se l’amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l’effettiva portata dell’illecito, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell’ipotesi in cui il fatto presenti caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.

Sul piano strettamente letterale, la nuova normativa offre spunti in senso opposto: da una parte, si prevede che si applichi “comunque” il licenziamento ove ricorrano le fattispecie tipizzate ma, dall’altra parte, viene richiamato il generale principio di proporzionalità enunciato dall’art. 2106 c.c. (D.Lgs. n. 165, art. 55, comma 2, primo periodo) e viene mantenuta “ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo”, con implicito richiamo del consolidato orientamento giurisprudenziale relativo alle c.d. norme elastiche ed alla verifica di legittimità demandata al giudice. Il D.Lgs. n. 165, art. 55 septies può soccorrere per una interpretazione di valenza sistematica solamente nelle ipotesi di assenze imputabili a malattia, che non concerne il caso di specie.

Non apparendo dirimente il criterio letterale, come già sottolineato da questa Corte (cfr. Cass. n. 1351/2016), l’esame della giurisprudenza costituzionale impone di privilegiare una ermeneusi “morbida” (come definita dallo stesso ricorrente) che consenta di ritenere che, anche in presenza di uno degli illeciti elencati dalla disposizione, l’amministrazione sia tenuta a svolgere il procedimento disciplinare all’esito del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, la ricorrenza di circostanze influenti sull’intensità del dolo o la gravità della colpa in senso attenuante della responsabilità del dipendente, può irrogare anche una sanzione conservativa. Deve, quindi, escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione. Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost. Cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).

6. Deve, ritenersi, allora, che la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa. In particolare, con riguardo all’assenza non giustificata, la tipizzazione ex ante effettuata dal legislatore onera il lavoratore di dedurre e fornire elementi che consentano (in primis all’Amministrazione e, successivamente ed eventualmente, al giudice) di valutare la ricorrenza di circostanze tali da impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa, in tal senso comprendendo sia l’adempimento della prestazione principale sia tutto il corredo degli obblighi strumentali di correttezza e diligenza, e tali, quindi, da giustificare la condotta tenuta dal lavoratore seppur coincidente con la tipizzazione (oggettiva) effettuata dal legislatore.

7. Ebbene, nel caso di specie, non sussistono dubbi sul fatto che, dal punto di vista oggettivo, il comportamento contestato alla lavoratrice integrava la fattispecie tipizzata al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. b ricorrendo tre giorni di assenza non giustificati nell’arco di un mese ((OMISSIS)).

La Corte territoriale non ha, peraltro, adeguatamente valutato la gravità dell’inadempimento con riguardo agli elementi soggettivi e, in particolare non ha considerato se l’adempimento, da parte della B., dei doveri d’ufficio (con riferimento alla comunicazione delle ragioni di assenza e, soprattutto, all’utilizzo di tutti gli istituti a disposizione del dipendente che si trovi in una situazione di svantaggio, quali ferie e permessi, per giustificare le assenze) doveva ritenersi, e per quale ragione, comportamento non esigibile, dovendosi ritenere – viceversa – rientrare nella normale diligenza del lavoratore il rispetto dell’orario di lavoro e delle condizioni di fruizione (previa richiesta) di pause, ferie e in generale di cause di sospensione del rapporto di lavoro previste dalla legge o dal contratto collettivo.

8. Deve, in conclusione affermarsi il principio di diritto secondo cui ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. b) l’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio consente l’intimazione della sanzione disciplinare del licenziamento purchè non ricorrano elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.

9. Per le ragioni esposte il ricorso va accolto nei sensi di cui in motivazione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 04/05/2016) 06/09/2016, n. 17637

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11863/2014 proposto da:

N.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIROLAMO DA CARPI 1, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO FUNARI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE (OMISSIS) già, AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE (OMISSIS) C.F. (OMISSIS) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO MEDA 35, presso lo studio dell’avvocato BARBARA BENTIVOGLIO, (AVVOCATURA AZIENDALE) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARIA CRISTINA TANDOI, GABRIELLA MAZZOLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9935/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/12/2013, R.G. N. 2875/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE GALLINARO per delega ANTONIO FUNARI;

udito l’avvocato BARBARA BENTIVOGLIO e GABRIELLA MAZZOLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale di Roma, rigettava l’impugnazione dei provvedimenti di sospensione dal servizio e di licenziamento adottati dall’Azienda Unità Sanitaria Locale (OMISSIS) nei confronti di N.G. per essersi lo stesso assentato dal servizio pur avendo fatto risultare la sua presenza mediante timbratura, in entrata ed in uscita, del cartellino marcatempo.

A base del decisum la Corte del merito poneva innanzitutto il rilievo secondo il quale l’allegata non volontarietà del comportamento a causa di malattia costituiva un fatto non dedotto nel ricorso di primo grado e come tale era da considerarsi inammissibile con conseguente non necessità di sospendere il processo sino alla definizione del procedimento penale nel quale era sta disposta perizia per accertare la capacità d’intendere e volere del N. al momento del fatto. Riteneva, poi, la predetta Corte, corretto il comportamento dell’ASL (OMISSIS) che aveva fatto decorrere gli effetti della sospensione e del licenziamento dalla data del rientro dalla malattia. Assumeva, inoltre, la Corte distrettuale l’irrilevanza delle addotte ragioni giustificative del comportamento addebitato non avendo il N. richiesto autorizzazioni per assentarsi dal servizio per prestare assistenza ai genitori ed essendosi allontanato dal luogo di lavoro dopo avere falsamente attestato la sua presenza attraverso la timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita, comportamento questo integrante la previsione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, trattandosi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolenta.

Avverso questa sentenza il N. ricorre in cassazione in ragione di quattro censure, illustrate da memoria, cui resiste con controricorso l’Azienda intimata.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente,deduce vizio di motivazione e sostiene che la Corte del merito non ha ben valutato tutti i fatti dedotti nel giudizio relativi al suo stato d’incapacità ed in particolare alla relazione del dott. I..

Con la seconda censura il ricorrente, denuncia ex art. 360, n. 3, la “indebita reiezione dell’istanza di sospensione del presente giudizio per pregiudizialità rispetto a quello penale in violazione dell’art. 295 c.p.c., e art. 211 disp. att. c.p.p..

Le due censure che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico giuridico vanno trattate unitariamente, non possono trovare accoglimento.

Preliminarmente va rilevato che alla stregua dell’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U. 7 aprile 2014 n. 8053).

Tanto comporta che la censura in esame con la quale si denuncia sostanzialmente un’ “incompletezza, incongruità e contraddittorietà” della motivazione non è scrutinabile in questa sede di legittimità non senza considerare che la sentenza impugnata sotto il profilo in esame non presenta alcuna anomalia motivazionale nei sensi sopra indicati.

A tanto aggiungasi che tutte le deduzioni in ordine alle quali parte ricorrente denuncia una insufficiente motivazione attengono ad allegazioni avvenute in grado di appello e che come tali sono irrilevanti ai fini, appunto,della ritenuta novità della questione afferente la non volontarietà del comportamento per malattia mentale.

Nè il mero richiamo alla relazione del dott. I. vale a superare la non tempestiva deduzione del fatto di cui trattasi quale ragione integrante uno specifico profilo d’impugnazione del licenziamento ritenuto dalla Corte del merito non denunciabile per la prima volta in appello.

Conseguentemente non potendo trovare ingresso, come asserito dalla Corte del merito senza alcuna censura sul punto, in grado di appello il profilo in parola in quanto diverso da quelli specifici posti a base, nel ricorso introduttivo del giudizio, delle impugnazioni dei provvedimenti disciplinari, correttamente detta Corte ha escluso la necessità della invocata sospensione del processo civile sino alla definizione del procedimento penale nel quale era stata disposta perizia per accertare la capacità d’intendere e volere del N. al momento del fatto.

Con la terza critica il N. assume “l’illegittimità dei provvedimenti di sospensione e di licenziamento benchè con efficacia prorogata al momento del rientro in servizio del dott. N. e mancata applicazione delle norme poste dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma 2, lett. e ter”.

Sostanzialmente il ricorrente prospetta che l’ASL alla scadenza del periodo di congedo avrebbe dovuto sottoporre il dott. N. a visita medica d’idoneità specifica ai sensi del denunciato D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma 2, lett. e) ter.

La critica è inammissibile.

La questione infatti è da considerarsi nuova e, quindi, inammissibile, posto che non risulta trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ed il ricorrente, in violazione del principio di specificità del ricorso ex art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, non ha indicato in quale atto del giudizio precedente ha dedotto siffatta questione ed in quali termini (Cass. 2 aprile 2004 n. 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 n.3664 e Cass. 28 luglio 2008 n. 20518).

Nè può sottacersi che l’eventuale violazione da parte dell’ASL della denunciata norma non può certo incidere sulla validità dei provvedimenti disciplinari adottati la cui legittimità non è condizionata, nella specie, dalla eventuale violazione della richiamata normativa.

Con l’ultimo motivo il ricorrente deduce violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, e dell’art. 8, comma 11, lett. a) e f) del CCNL del personale della dirigenza medica e veterinaria del 6 maggio 2010.

Prospetta il ricorrente che nessuna delle ipotesi contemplate dal richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, a differenza di quanto affermato dalla Corte di Appello, è configurabile nella fattispecie e la denunciata normativa contrattuale presuppone l’intenzionalità del comportamento.

La censura è infondata.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, per quello che interessa in questa sede, dispone che:

1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi: a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione; omissis.

Al riguardo va rilevato che, per quanto riguarda la timbratura del cartellino marcatempo, correttamente la Corte del merito ha ritenuto ricorrente nella specie l’ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente, considerato che la timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita non corrispondente alla reale situazione di fatto costituisce certamente una modalità fraudolenta giacchè la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza costituisce condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore l’amministrazione datore di lavoro circa la presenza effettiva sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili (Cass. pen. n. 8426 del 2014).

La rilevata estraneità del profilo della intenzionalità del comportamento rende non conferente la critica concernente la violazione della norma contrattuale collettiva.

In conclusione il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 3.000,00 per compensi oltre Euro 100,00 per esborsi e spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002D.P.R. 30/05/2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17,si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2016