Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 07-06-2017) 06-09-2017, n. 20863

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14171-2016 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA B. TORTOLINI, 34, presso lo studio dell’avvocato NATALIA PAOLETTI, rappresentato e difeso dagli avvocati STEFANO PELLEGRINO e ROBERTO PELLEGRINO;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA C.F. (OMISSIS), in persona del Procuratore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMO COLLA’ RUVOLO;

– controricorrente –

nonché contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10700/15/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata l’01/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 07/06/2017 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON. Disposta la motivazione semplificata su concorde indicazione del Presidente e del Relatore.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 16 novembre 2015 la Commissione tributaria regionale della Campania respingeva l’appello proposto da A.S. avverso la sentenza n. 23777/21/14 della Commissione tributaria provinciale di Napoli che ne aveva respinto il ricorso contro la cartella di pagamento IRAP, IRPEF ed altro, IVA ed altro 20052006. La CTR osservava in particolare che erano infondate le eccezioni, riproposte quali motivi di appello, di nullità della notifica degli avvisi di accertamento “presupposti” dell’atto esattivo impugnato, di nullità della cartella esattoriale oggetto della lite per carenza del suo contenuto motivazionale (calcolo dei crediti erariali posti in esecuzione) ed infine di decadenza dal potere impositivo/esattivo.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo tre motivi.

Resistono con controricorso l’Agenzia delle entrate ed Equitalia Servizi di Riscossione spa, quale incorporante di Equitalia Sud spa.

Motivi della decisione
che:

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente si duole di violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b) bis, art. 24 Cost., L. n. 212 del 2000, art. 6, nonchè vizio motivazionale, poichè la CFR ha affermato il rituale perfezionamento della procedura notificatoria degli atti impositivi “presupposti” della cartella di pagamento impugnata, in particolare evidenziando, per un verso la mancata prova della spedizione della “raccomandata informativa” non essendo avvenuta la consegna/ricezione diretta di detti atti, appunto come specificamente previsto dalla prima disposizione legislativa evocata, per altro verso l’insussistenza della qualità di “familiare” della persona ricevente detti atti impositivi.

La censura è infondata.

Va anzitutto ribadito che “In tema di notificazione a mezzo del servizio postale, eseguita mediante consegna dell’atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno provvisorio, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare, onde non è sufficiente, per affermare la nullità della notifica, la mancata indicazione della qualità di convivente sull’avviso di ricevimento della raccomandata, il cui contenuto, in caso di spedizione diretta a mezzo piego raccomandato, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16, comma 3, è quello prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria e non già quello previsto dall’art. 139 c.p.c.” (Sez. 5, Sentenza n. 15973 del 11/07/2014, Rv. 632118 01).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tale principio di diritto, peraltro essendo in fatto ammesso dallo stesso ricorrente che la persona ricevente gli atti impositivi in questione era effettivamente la compagna convivente del figlio a sua volta pacificamente convivente del contribuente.

Peraltro risulta accertato in fatto, quindi non ulteriormente sindacabile in questa sede, che la previsione speciale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b) bis, sia stata pienamente rispettata dal messo notificatore, il quale ha attestato, con validità probatoria fino a querela di falso, l’avvenuta spedizione della “raccomandata informativa” da questa disposizione legislativa prevista nel caso, come quello di specie, in cui l’atto notificando non sia stato consegnato direttamente al destinatario.

Va tuttavia sul punto precisato, in diritto, che tale disposizione prevede esclusivamente la spedizione di una “lettera raccomandata”, non quindi di una raccomandata con avviso di ricevimento, sicchè le prove valutate dal giudice tributario di appello ossia le attestazioni del messo notificatore correlative al punto di fatto de quo ne risultano pienamente adeguate.

Con il secondo mezzo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta violazione/falsa applicazione della L. n. 241 del 2000, art. 3, L. n. 212 del 2000, art. 7, e vizio motivazionale, poichè la CTR ha escluso la sussistenza dell’eccepito “vizio proprio” della cartella esattoriale impugnata consistente nella mancata indicazione del criterio di calcolo dei crediti erariali esposti nella medesima.

La censura è infondata.

Vi è infatti da rilevare che, basandosi l’atto esattivo impugnato sulla rilevata rituale notificazione degli atti impositivi correlativi, la sua motivazione non può che essere riferita agli stessi, come del resto è pienamente legittimo (cfr. in senso analogo, Sez. 5^, Sentenza n. 21177 del 08/10/2014, Rv. 632486 – 01), sicchè dall’integrazione sostanziale di tale complesso di atti impositivi ed esattivi il contribuente ha potuto senz’altro esattamente apprendere i termini, anche quantitativi, della pretesa erariale e quindi è stato messo in grado di esercitare il suo diritto di difesa costituzionalmente garantito.

Esprimendosi la sentenza impugnata in questo stesso senso è dunque corretta anche su tale punto.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente si duole di violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, e di vizio motivazionale, poichè la Commissione tributaria regionale ha respinto la sua eccezione di decadenza dell’agenzia fiscale dal potere impositivo, peraltro fraintendendola ossia riferendola alla fase della riscossione e quindi ai termini decadenziali per l’emissione della cartella esattoriale, invece che alla fase dell’accertamento e pertanto agli analoghi termini legalmente fissati per la notifica degli atti impositivi “presupposti”.

La censura è infondata.

Ancorché riferibile l’eccezione de qua non alla cartella di pagamento impugnata, bensì agli avvisi di accertamento, comunque la stessa si palesa preclusa dalla mancata impugnazione degli stessi, nonostante la loro rituale notificazione rilevatasi nei giudizi di merito e, per i profili di competenza, anche in questa sede di legittimità.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000 per ciascuna parte controricorrente oltre spese prenotate a debito per l’Agenzia delle entrate e oltre Euro 200 per esborsi, 15% per contributo spese generali ed accessori di legge per l’Agente della riscossione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione Semplificata.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2017


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 11-05-2017) 31-08-2017, n. 20672

La vicenda che ha dato alla Corte lo spunto per interessare il Primo Presidente riguardava un contenzioso avente ad oggetto l’opposizione contro un provvedimento di accoglimento della contestazione del credito proposta da due creditori procedenti in un procedimento di espropriazione presso terzi. Nel corso del procedimento, la parte privata aveva utilizzato due standard diversi per le comunicazioni, il pdf e il p7m, e ciò in ragione della complessità e della diversa natura degli atti (alcuni nativi digitali, altri nativi analogici). La vicenda è giunta sino in Cassazione, dove però alcune questioni procedurali hanno reso il ricorso manifestamente inammissibile. L’occasione, tuttavia, è stata sfruttata per tentare di fare chiarezza sulla possibilità di sanare la nullità di atti che non rispettano gli standard tecnici. Effetti della violazione delle disposizioni tecniche Alle Sezioni Unite viene quindi chiesto di fare chiarezza sugli effetti della violazione delle disposizioni tecniche e in particolare sull’estensione dei file. Occorre, insomma, capire se gli atti nulli sono comunque sanabili se raggiungono il loro scopo. Per la sesta sezione, l’atto che non rispecchia le specifiche tecniche dovrebbe essere considerato non sanabile e lo standard di conversione p7m dovrebbe essere tutelato in quanto idoneo a offrire la massima garanzia possibile di conformità dei documenti che non sono stati creati in formato digitale.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al n. 16969/2016 R.G. proposto da:

UNICREDIT S.P.A. – C.F. e P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO, 111, presso lo studio dell’avvocato GIULIO GONNELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO GALLO;

– ricorrente –

contro

Z.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MECENATE 27, presso lo studio dell’avvocato ANDREINA DI TORRICE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO BISCONTI;

– controricorrente –

e contro

Z.M., Z.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato MARINA MAGGIULLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GAETANO NARO;

– controricorrenti –

e contro

CONSORZIO PER L’AREA DI SVILUPPO INDUSTRIALE DELLA PROVINCIA DI PALERMO IN LIQUIDAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2216/2016 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 26/04/2016;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del dì 11/05/2017 dal Consigliere Dott. Franco DE STEFANO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che:

UniCredit spa ricorre, affidandosi a due motivi, per la cassazione della sentenza (n. 2216 del 26/04/2016) con cui il tribunale di Palermo ha rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza del 12/05/2014 del g.e. di quel tribunale, di rigetto dell’opposizione dalla medesima proposta contro il provvedimento di accoglimento della contestazione del credito proposta dai creditori procedenti Z.P., M. e G. nel procedimento di espropriazione presso terzi promosso contro il debitore esecutato Consorzio per l’Area di sviluppo industriale di Palermo in liq.ne;

in particolare, la ricorrente notifica un primo ricorso, in cui il suo difensore dichiara di agire in forza di procura generale alle liti del 29/10/2010, a mezzo p.e.c. in data 27/06/2016, ma pure ulteriore ricorso (ovvero, come specifica nella memoria il medesimo ricorso, ma semplicemente reiterandolo), sempre a mezzo p.e.c., stavolta in data 19/09/2016, nella cui intestazione continua a farsi riferimento univoco alla procura generale del 29/10/2010, ma che reca stavolta acclusa una procura speciale da parte di tale avv. V.F. – quale procuratore speciale e così legale rappresentante di UniCredit – in favore del medesimo difensore che aveva formato il primo ricorso;

degli intimati notificano separati controricorsi contro ciascuno dei due ricorsi sia Z.P. (in data 22/07 e 19/10/2016) sia, con unitario atto, Z.G. e M. (in data 25/07 e 26/10/2016), in particolare eccependo, nei primi controricorsi, l’inammissibilità per carenza di procura speciale e, nei secondi, il vizio derivante dalla reiterazione del ricorso;

non espleta attività difensiva in questa sede il Consorzio;

è formulata proposta di definizione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197;

la ricorrente deposita memoria ai sensi del secondo comma, ultima parte, del medesimo art. 380 bis, con la quale, tra l’altro, solleva questione di ritualità della notifica del controricorso di Z.P., siccome avvenuta con allegazione al messaggio di PEC di tre file in formato “.pdf” e non “.p7m” e quindi da ritenersi privi di firma digitale, poi ribadendo pure la ritualità della procura allegata al ricorso notificato per secondo, siccome appunto sottoscritta digitalmente con file con estensione “.p7m”;

considerato che:

ben potrebbe immediatamente provvedersi – con altrettanto immediata individuazione della soccombenza della ricorrente – in conformità alla proposta di inammissibilità, già formulata dal relatore, per entrambi i ricorsi:

– del primo, perchè formato da difensore privo di procura speciale, non potendo valere la procura generale rilasciata il 29/10/2010 per impugnare una sentenza del 2016 (e tanto per giurisprudenza a dir poco consolidata; tra le innumerevoli: Cass. 20/11/2009, n. 24548; Cass. 31/05/2005, n. 11583; Cass. 16/05/2003, n. 7710) e neppure valendo (stando alla tesi sviluppata con la memoria) la e-mail della cliente, sul punto informata, tanto integrando una fattispecie singolarmente estranea a quella disegnata per il conferimento di una procura speciale dalle previsioni del codice di procedura civile;

– del secondo, perchè proposto – il 19/09/2016 – una volta decorso il termine breve (non soggetto, atteso l’oggetto della controversia, alla sospensione feriale: e cioè scaduto il 60 giorno dal 27/06/2016, venerdì 26/08/2016) dalla prima notificazione, sebbene relativa ad un’impugnazione inammissibile (in tali sensi, da ultimo ed ove riferimenti, Cass. Sez. U. 13/06/2016, n. 12084, già ricordata da Cass. 08/03/2017, n. 5793); nè valendo a sanare l’inammissibilità del primo per difetto di valida procura la rinnovazione della sua notifica, una volta scaduti i termini per l’impugnazione;

tuttavia, ad avviso del Collegio, il ricorso non potrebbe essere definito, sia pure anche solo ai fini di regolare le spese nei rapporti tra la ricorrente ed uno solo dei controricorrenti ( Z.P.) senza prendere posizione, anche a seguito della formale eccezione della ricorrente nella memoria depositata in vista dell’adunanza non partecipata e per gli effetti sensibili sul carico delle spese di giudizio che la sua soluzione potrebbe avere (per il valore della controversia e l’entità dell’attività svolta da prendere in considerazione ai fini della liquidazione), su di una problematica che stima il Collegio investire una questione di massima di particolare importanza, sulla quale non risulta essersi ancora consolidato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante investa un punto focale del processo civile telematico e l’applicazione ad esso di fondamentali principi della processualistica;

tale questione ha ad oggetto gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche specifiche sulla forma degli “atti del processo in forma di documento informatico” (o, descrittivamente, nativi informatici) da notificare – riferendosi i precedenti di legittimità noti a fattispecie di atti in formato analogico e poi trasformati e notificati in via telematica, ovvero ad altre più articolate, ma non esattamente negli specifici termini di cui appresso – e, in particolare, sull’estensione (che indica o descrive il tipo) dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità: sicchè va stabilito se esse prevedano o meno una nullità di forma e, quindi, se questa sia poi da qualificarsi indispensabile ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, rendendosi – in caso di risposta affermativa al quesito necessario poi definire l’ambito ed i limiti dell’applicabilità alla fattispecie del principio generale di sanatoria degli atti nulli in caso di raggiungimento dello scopo previsto dall’art. 156 c.p.c., comma 3;

ritiene al riguardo il Collegio che la sesta sezione – cioè, la “sezione di cui all’art. 376, comma 1, primo periodo” del codice di procedura civile – ben possa rimettere direttamente la questione alle Sezioni Unite, anzichè alla pubblica udienza della sezione ordinaria (ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), visto che la problematica della ritualità della notifica di uno o più degli atti di costituzione della parte dinanzi a questa Corte, eseguita con documento nativo informatico a mezzo p.e.c. ma con file – ricorso o controricorso e soprattutto relativa indispensabile procura speciale – con estensione (e quindi forma o struttura informatica) diversa da quella espressamente prescritta, attiene all’ammissibilità o meno dei medesimi e quindi rileva agli effetti dell’applicazione dell’art. 375 c.p.c., n. 1), materia che è riservata appunto di norma proprio alla cognizione della sesta sezione ai sensi dell’art. 376, comma 1, primo periodo, nonchè art. 380 bis c.p.c., come novellato;

ciò premesso ed al riguardo, ad avviso di questo Collegio neppure può trovare diretta ed immediata applicazione il principio generale di sanatoria della nullità, perchè l’osservanza delle specifiche tecniche sullo stesso confezionamento dei file informatici nativi dovrebbe poter attenere all’esistenza stessa dell’atto e, quanto alla procura speciale, all’ufficiosa indispensabile verifica dell’instaurazione di un valido e rituale rapporto processuale dinanzi a questa Corte, alla stregua della disciplina ormai applicabile;

pertanto, non dovrebbero poter giovare i precedenti di Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665 (siccome riferito ad un documento nativo analogico, notificato in via telematica con estensione “.doc” anzichè “.pdf”), nè di Cass. ord. 26/01/2016, n. 1403 (relativa ad un atto trasmesso mediante file con estensione “p7m” dedotto come illeggibile ma comunque decifrato o reperito al punto da consentire la piena difesa), ma, a ben guardare, neppure l’altro principio, di eguale portata generale, dell’insussistenza di un diritto all’astratta regolarità del processo (a chiarissime lettere ribadito, in materia, dalla stessa Cass. Sez. U. 7665/16, ovvero, più in generale, dalla più recente ancora Cass. Sez. U. 11141/17), visto che l’intrinseca esistenza dell’atto e della procura attiene ad elementi talmente coessenziali dell’uno e dell’altro ai fini di una valida instaurazione del rapporto processuale dinanzi al giudice di legittimità da suggerirne come indispensabile la verifica ufficiosa (sicchè neppure può trovare applicazione il principio elaborato da Cass. 19/12/2016, n. 26102, quanto alla – mera – carenza della firma digitale ad un documento formato ab origine su supporto analogico);

va allora rilevato che il formato dell’atto del processo in forma di documento informatico è regolato, in via di sostanziale delegificazione, dall’art. 12 del Provvedimento 28/12/2015 (successivo a numerosi altri analoghi) del Direttore Generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA) del Ministero della Giustizia in forza dell’art. 11 del decreto del Ministro della giustizia del 21/02/2011, n. 44, recante il “Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24″ e successive modificazioni”;

ai sensi del capoverso di tale disposizione, per quel che qui può rilevare, è stabilito poi che “La struttura del documento firmato è PAdES-BES (o PAdES Part 3) o CAdES-BES; il certificato di firma è inserito nella busta crittografica;… nel caso del formato CAdES il file generato si presenta con un’unica estensione p7m”, mentre le definizioni degli acronimi PAdES e CAdES si rinvengono alle lett. z) ed y) del precedente art. 2 del detto provvedimento DGSIA: risultando quindi indispensabile l’estensione “p7m”, a garanzia dell’autenticità del file e cioè dell’apposizione della firma digitale al file in cui il documento informatico originale è stato formato, solo per il secondo caso, in cui cioè il documento informatico originale è creato in formato diverso da quello “pdf”;

completano il quadro normativo di riferimento, applicabile ratione temporis alla fattispecie (caratterizzata dalla notifica diretta, da parte del difensore di Z.P., del controricorso al difensore del ricorrente in data 19/10/2016 a mezzo p.e.c.), l’art. 13, lett. a), e art. 19 bis, del già richiamato provvedimento del DGSIA: ai sensi dell’uno, la notifica insieme all’atto del processo in forma di documento informatico di un allegato è consentita se questo è in formato “.pdf” – ai sensi dell’art. 13, lett. a), del richiamato provvedimento DGSIA – ma, se il secondo è firmato digitalmente, dovrebbe quest’ultimo appunto recare l’estensione in virtù del già detto cpv. dell’art. 12 – “p7m”, a garanzia della sua autenticità; ai sensi dell’altro, in caso di notificazioni eseguite in via diretta dall’avvocato, “qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata, si applica quanto previsto all’art. 12, comma 2”;

in via descrittiva, invero, parrebbe dirsi che con l’imposizione dell’elaborazione del file in documento informatico con estensione “p7m” il normatore tecnico abbia inteso offrire la massima garanzia possibile, allo stato, di conformità del documento, non creato ab origine in formato informatico ma articolato anche su di una parte o componente istituzionalmente non informatica, quale la procura a firma analogica su supporto tradizionale, al suo originale composito, incorporando appunto i due documenti in modo inscindibile e, per quel che rileva ai fini processuali e soprattutto se non altro con riferimento alla presente fattispecie – della regolare costituzione nel giudizio di legittimità (per la quale è da sempre stata considerata quale presupposto indispensabile la ritualità della procura speciale), con assicurazione di genuinità ed autenticità di entrambi in quanto costituenti un unicum;

diversa – ed in questa sede irrilevante – valenza dovrebbe avere poi il potere di autenticazione riconosciuto in via generale dalla normativa primaria all’avvocato notificante, che dovrebbe riguardare appunto la conformità degli atti già ritualmente formati ai loro rispettivi originali, ma non parrebbe riferito anche all’intrinseca o strutturale regolarità almeno della procura speciale indispensabile per il ricorso o per il controricorso in Cassazione e, verosimilmente, per la firma in calce a questi ultimi due atti in quanto tali: riguardo ai quali le formalità previste dalle norme tecniche specifiche potrebbero porsi come indispensabili presupposti od elementi di esistenza stessa di un atto riferibile a colui che vi figura essere il suo autore;

pertanto, opina il Collegio che la questione di massima di particolare importanza riguarda, nell’ambito di una pure istituzionale discrezionalità in capo alla parte notificante – donde l’onere, per la controparte, di calibrare attentamente ogni eccezione o doglianza di nullità al riguardo – nella scelta tra l’alternativa (PAdES o CAdES) della modalità strutturale dell’atto del processo in forma di documento informatico e firmato da notificare direttamente dall’avvocato, la configurabilità o meno, al riguardo e se non altro quando l’atto da notificare comprende anche la procura speciale indispensabile per la ritualità del ricorso o del controricorso in sede di legittimità, di una prescrizione sulla forma dell’atto indispensabile al raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 2) e posta pertanto a pena di nullità, nonchè, in caso di risposta affermativa, sull’applicabilità – e relativi presupposti ed eventuali limiti – del principio di sanatoria dell’atto nullo in caso di raggiungimento dello scopo;

ricorrono pertanto, al riguardo e ad avviso del Collegio, le condizioni per rimettere gli atti al Primo Presidente, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c, comma 2, seconda ipotesi, sulle questioni suddette, riassunte al punto 1 delle ragioni della decisione.

P.Q.M.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione di massima di particolare importanza indicata in motivazione.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2017


Cassazione civile Sez. VI – 2, Ordinanza del 30/08/2017 n. 20582

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1450/2016 proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso il proprio studio, rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 12385/2015 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 05/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non depositata del 20/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONINO SCALISI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che:

il Consigliere relatore dott. A. Scalisi ha proposto che la controversia di cui al RG. 1450 del 2016, fosse trattata in Camera di Consiglio non partecipata dalla Sesta Sezione Civile di questa Corte, ritenendo infondati i tre motivi del ricorso perché: a) corretta la notifica dei verbali; b) il ricorrente non dà conto di quali sarebbero i canoni ermeneutici violati e di come osservandoli si sarebbe potuto pervenire ad un diverso risultato interpretativo, c) il Tribunale si è limitato a rilevare che la fotografia prodotta dal G. era illeggibile, dovendosi, per il resto ritenere escluso che la circostanza fosse pacifica per il solo fatto della contumacia dell’amministrazione.

La proposta del relatore è stata notificata al ricorrente, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Letti gli atti del procedimento di cui in epigrafe.

Considerato che:

1.- con ricorso depositato il 12.10.2010 G.G. oppose innanzi al giudice di pace di Roma tre verbali di accertamento elevati a suo carico nel febbraio 2010 per altrettante violazioni dell’art. 157 C.d.S., comma 6, con i quali gli veniva contestata la sosta dell’autovettura in via (OMISSIS) senza esposizione del ticket, l’opponente eccepiva la tardività della notificazione, in quanto effettuata ex art. 140 c.p.c., DA UN DIPENDENTE COMUNALE E PERFEZIONATASI MEDIANTE SPEDIZIONE DELL’AVVISO DI DEPOSITO DEGLI ATTI PRESSO LA CASA COMUNALE SUCCESSIVAMENTE AI 150 GIORNI PREVISTI DALL’ART. 201 C.D.S., COMMA 1. Nel merito rilevava di essere in possesso di permesso di sosta in area ZTL, ciò che gli consentiva anche il parcheggio sulla limitrofa via (OMISSIS) in forza di apposita delibera comunale.

L’Ente convenuto restava contumace;

Il Giudice di pace respingeva il ricorso;

PROPONEVA APPELLO IL G. ED IL TRIBUNALE DI ROMA RESPINSE L’OPPOSIZIONE. SECONDO IL TRIBUNALE, NEL PROCEDERE ALLA NOTIFICA DI UN ATTO, IL FUNZIONARIO COMUNALE SVOLGE UNA FUNZIONE INDIPENDENTE RISPETTO A QUELLA DELL’AMMINISTRAZIONE DI APPARTENENZA, RISPETTO ALLA QUALE È TERZO; NELLA SPECIE ANDAVANO, DUNQUE, APPLICATI I PRINCIPI GENERALI RELATIVI AL MOMENTO DI PERFEZIONAMENTO DELLA NOTIFICA, CON CONSEGUENTE RILIEVO, AI FINI DELLA VERIFICA DI TEMPESTIVITÀ, DEL MOMENTO IN CUI L’ATTO ERA STATO CONSEGNATO DAL RICHIEDENTE PER LA SUCCESSIVA NOTIFICAZIONE A MEZZO POSTA, INCOMBENTE VERIFICATOSI ENTRO IL TERMINE DI CUI ALL’ART. 201 C.D.S., COMMA 1; osservò, inoltre, che l’esenzione dal pagamento del ticket riguardava solo alcune delle strade del centro storico indicate nella delibera comunale, che non ricomprendevano l’area per la quale il g. era munito di permesso, e che era rimasto indimostrato il fatto che la segnaletica verticale presente sulla via (omissis) consentisse la sosta gratuita ai titolari del permesso medesimo.

Avverso tale sentenza G.G. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi; l’intimato non ha svolto difese;

Considerato che:

2.- con il primo mezzo il ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 4, e art. 140 c.p.c., assumendo l’erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto tempestiva la notifica dei verbali; osserva, infatti, che in caso di notifica a mezzo posta rileva il diverso termine per il notificante- rendendo sufficiente a tal fine la consegna dell’atto-soltanto ove questi sia soggetto diverso dal richiedente, fattispecie qui non ricorrente perché la notifica era stata richiesta ed eseguita dall’amministrazione comunale; ed a tal fine contesta, più specificamente, il richiamo del giudice d’appello alla disciplina del processo tributario (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 4), caratterizzato dall’effettiva autonomia del messo notificatore rispetto all’amministrazione finanziaria, invece, mancante nella fattispecie;

2.1.- La censura non è fondata;

La sentenza impugnata ha, infatti, correttamente ritenuto che il messo incaricato della notifica di atti è in posizione di autonomia funzionale rispetto all’amministrazione di appartenenza; tale rilievo trova conferma – come pure osservato dal tribunale – nel fatto che in base alla L. n. 265 del 1999, art. 10, tutte le amministrazioni possono avvalersi dei messi comunali per le notificazioni dei propri atti, ove non sia possibile ricorrere utilmente al servizio postale o alle altre forme di notifica previste dalla legge, con attribuzione agli stessi di un mandato “ex lege” e di un corrispondente rapporto di preposizione gestoria in capo all’amministrazione richiedente (cfr. Cass. n. 23679/2008), rapporto del quale la richiamata ipotesi in ambito tributario costituisce un’ulteriore esemplificazione normativa. In altri termini, quando procede alla notifica – in virtù di una facoltà espressamente attribuitagli per previsione normativa – il messo comunale svolge una funzione autonoma che lo pone in rapporto di indipendenza con l’amministrazione richiedente, quantunque si tratti di quella presso cui egli è incardinato;

3.- Con il secondo mezzo il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ed, in subordine, violazione dell’art. 12 preleggi, e art. 1362 c.c. e ss., assumendo che il tribunale avrebbe, erroneamente, letto od interpretato i documenti relativi all’estensione dell’area esente da ticket, omettendo di considerare che gli stessi consentivano il parcheggio gratuito ai veicoli muniti di permesso per la ztl “(OMISSIS)”;

3.1.- La censura, per come formulata, è inammissibile, poiché per un verso il tribunale ha preso in considerazione ed espressamente valutato il contenuto del documento di cui è denunziato l’omesso esame e, per altro verso e sotto il profilo ermeneutico, il ricorrente non dà conto di quali sarebbero i canoni ermeneutici violati e di come, osservandoli, si sarebbe potuti pervenire ad un diverso risultato interpretativo;

4.- Con il terzo mezzo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 115 c.p.c., e nullità della sentenza, per aver il Tribunale ritenuto non provato il contenuto della segnaletica verticale, invece pacifico perché incontestato;

4.1.- Anche tale motivo non è fondato, poiché il tribunale sul punto si è limitato a rilevare che la fotografia prodotta dal G. era illeggibile, dovendosi per il resto ritenere escluso che la circostanza fosse pacifica per il sol fatto della contumacia dell’amministrazione.

In definitiva, il ricorso va rigettato. Non occorre provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione, posto che Roma Capitale, in questa fase, non ha svolto attività giudiziale.

Il Collegio da atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 26-04-2017) 29-08-2017, n. 20506

La sentenza in questione chiarisce che la notifica postale effettuata direttamente dall’ufficio finanziario in effetti non sottostà alle regole della legge 890/1982 sempre che non sia effettuata da un agente notificatore. Quindi, allorché sia l’ufficio finanziario a notificare l’atto direttamente, spedisce una raccomandata ordinaria e di conseguenza non è necessario che la raccomandata depositata all’ufficio postale sia accompagnata dall’avviso di deposito cosiddetto CAD, previsto dalla legge 890/1982. Inoltre non è necessario che in caso di consegna dell’atto al portiere sia dichiarato nell’avviso di ricevimento il soggetto a cui la raccomandata è stata consegnata. In particolare la Corte di Cassazione rileva che la Commissione tributaria non ha fatto corretta applicazione della normativa nel ritenere che serva la prova che l’avviso di deposito della raccomandata all’ufficio postale sia stato materialmente ricevuto dal destinatario. Quindi in definitiva si chiarisce che la notifica postale degli atti rivolti al contribuente va effettuata sempre con una raccomandata A.R. ordinaria se è l’ufficio ad effettuarla. Per i tributi degli enti locali non vi sono dubbi, poiché l’art. 1 comma 161 legge 296/2006 prevede specificatamente che si utilizzi la raccomandata A.R. ordinaria. Ovviamente in questo caso in seguito al deposito all’ufficio postale il portalettere lascia un avviso di giacenza all’ufficio postale della raccomandata non recapitata già al primo tentativo negativo di consegna, senza necessità di inviare la cosiddetta CAD prevista invece quando si applica la legge 890/1982.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12499-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO, rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE PARATORE;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA CENTRO S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2108/30/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della TOSCANA, depositata il 06/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/04/2017 dal Consigliere Dott. ROBERTA CRUCITTI.

Svolgimento del processo
Nella controversia originata dall’impugnazione da parte di C.A. di cartella portante IRPEF degli anni di imposta 2005 e 2006, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettando l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, confermava la decisione di primo grado che aveva annullato la cartella, perchè mancante la prova della notificazione degli atti prodromici, non avendo l’Ufficio prodotto l’avviso di ricevimento della raccomandata come prescritto dalla specifica normativa.

In particolare, il Giudice di appello condivideva le argomentazioni del primo Giudice circa l’irregolarità della notificazione a mezzo posta per compiuta giacenza non essendo stata fornita la prova dell’invio della necessaria raccomandata di avvertimento della giacenza stessa, e ciò in base al combinato disposto della L. n. 890 del 1982, artt. 8 e 4.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione, su unico motivo, l’Agenzia delle entrate.

C.A. resiste con controricorso mentre Equitalia Centro s.p.a. non ha svolto attività difensiva.

A seguito di proposta ex art. 380 bis c.p.c. e della fissazione dell’adunanza della Corte in Camera di consiglio, ritualmente comunicate, il controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1 Con l’unico motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, artt. 4 e 8 laddove la Commissione regionale aveva fatto derivare la nullità della notificazione degli avvisi di accertamento, prodromici alla cartella impugnata, dalla mancanza di prova dell’avvenuta ricezione della CAD, circostanza irrilevante dal momento che, per espressa disposizione di legge, in queste ipotesi gli effetti del perfezionamento della procedura notificatoria sono ancorati unicamente alla spedizione di tale comunicazione di avvenuto deposito.

2. Disattese le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dalla parte privata, non essendo rispondente al vero che il mezzo tenda ad un inammissibile nuovo accertamento in fatto laddove, al contrario, è stata correttamente prospettata una violazione di legge, la censura è fondata.

3. Dalla lettura congiunta degli atti processuali (sentenza impugnata e scritti difensivi delle parti) si evince che, nel caso in esame, la notificazione degli atti prodromici la cartella impugnata è avvenuta a mezzo del servizio postale.

4. Ciò posto in fatto, va rilevato, in diritto, che la notificazione degli atti impositivi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (in tema di imposte dirette ma richiamato dalle norme attinenti alla notificazione degli atti impositivi relative agli altri tributi) è eseguita dai messi comunali o dai messi autorizzati dall’Ufficio (lett. a) secondo le norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss., ivi comprese, quindi, in mancanza di espressa esclusione, le modalità di cui all’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo del servizio postale. Si applicheranno, in questo, caso le norme specifiche dettate dalla L. n. 890 del 1982, artt. 7 e 8 con piena equiparazione del messo comunale o del messo autorizzato dall’Ufficio all’Ufficiale giudiziario (per tale equiparazione v., tra le tante e di recente, Cass. 14273 del 13/07/2016).

5. Per costante giurisprudenza di questa Corte, poi, è legittimamente eseguita anche la notificazione diretta da parte degli Uffici finanziari a mezzo del servizio postale universale (cfr Cass., tra le altre, n. 3254 del 18 febbraio 2016, nella quale la Corte precisa che “Tale conclusione trova conforto nel tenore letterale della L. n. 890 del 1992, art. 14 come modificato dalla L. n. 146 del 1998, art. 20 dal quale risulta che, la notifica degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari. La circostanza che tale disposizione faccia salve le modalità di notifica di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e delle singole leggi d’imposta non elide la possibilità riconosciuta agli uffici finanziari – e per quel che qui interesse alla società concessionaria – di utilizzare le forme semplificate a mezzo del servizio postale – con specifico riferimento all’inoltro di raccomandata consegnata al portiere v. D.M. 9 aprile 2001, art. 39 (cfr. Cass. n. 27319/2014) – senza il rispetto della disciplina in tema di notifiche a mezzo posta da parte dell’ufficiale giudiziario. In questa direzione, del resto, depone proprio il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1 che consente anche agli ufficiali della riscossione di provvedere alla notifica della cartella mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, precisando che in caso di notifica al portiere, la stessa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento da quest’ultimo sottoscritto, prevedendo, lo stesso art. 26, il rinvio al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 unicamente per quanto non regolato nello stesso art. (cfr. Cass. n. 14196/2014)”.

Pertanto, nel caso di notificazione diretta a mezzo del servizio di posta universale non troveranno applicazione le norme dettate dall’art. 149 c.p.c. e della L. n. 890 del 1982 ma unicamente quella concernente il servizio postale ordinario (Cass. n.ri: N. 17723 del 2006; N. 17598 del 2010, N. 20027 del 2011;, N. 270 del 2012; n. 9111 del 06/06/2012).

Con dette pronunce si è, infatti, statuito che in tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di liquidazione o di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, (in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.), ed, in particolare, per quello che qui interessa, quella dettata dal D.P.R. n. 655 del 1982, il cui art. 40, prevede, per le raccomandate che non abbiano potuto essere recapitate, un periodo di giacenza negli uffici di destinazione di trenta giorni, stabilendo, altresì, che “deve essere dato avviso della giacenza di oggetti raccomandati od assicurati, che non abbiano potuto essere distribuiti, ai destinatari ed ai mittenti, se identificabili”.

Con le conseguenze che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (come ribadito di recente da Cass. n. 10245 del 26 aprile 2017.) e che, in detta ipotesi, ai fini della ritualità della notificazione, non sarà necessaria la CAD, ovvero la comunicazione dell’avvenuto deposito all’Ufficio postale da effettuarsi mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8.

6. Nella specie, disattesa l’eccezione sollevata in controricorso laddove la ratio decidendi della sentenza impugnata è unicamente quella espressa nel penultimo capoverso della seconda pagina, la Commissione tributaria regionale, invocando la normativa della L. n. 890 del 1992, ha ritenuto necessaria ai fini del perfezionamento della notificazione, la prova che l’avviso di giacenza del plico presso l’Ufficio postale (pacificamente immesso dall’agente postale in cassetta per come danno atto entrambe le parti) fosse stato materialmente ricevuto dal destinatario ma, nell’affermare ciò, non ha fatto corretta applicazione della normativa di riferimento, laddove non ha precisato i presupposti di fatto legittimanti l’applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8.

Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana la quale provvederà al riesame, adeguandosi ai superiori principi e regolerà le spese processuali del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2017


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 03-05-2017) 22-08-2017, n. 20256

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16217-2016 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

E.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA GONDAR 22, presso lo studio dell’avvocato MARIA ANTONELLI, che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente agli avvocati CRISTINA ZUNINO e VALENTINA PICCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1533/3/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di GENOVA, depositata il 23/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 03/05/2017 dal Consigliere Dott. LUCA SOLAINI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso in Cassazione affidato a due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perché connessi, nei cui confronti la parte contribuente ha resistito con controricorso illustrato da memoria, l’Agenzia delle Entrate impugnava la sentenza della CTR della Liguria, relativa a un avviso d’accertamento Irap 2008, lamentando la violazione dell’art. 142 c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in combinato disposto, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 42 e 43, dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 156 c.p.c., in quanto erroneamente i giudici s’appello hanno ritenuto invalida la notifica dell’atto impositivo effettuata al contribuente che era residente all’estero, mediante spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della residenza estera rilevato dai registri dell’anagrafe degli italiani residenti all’estero, ovvero, in subordine, in caso di notifica ritenuta irregolare, comunque, sanata per il raggiungimento dello scopo, essendosi il contribuente costituito e difeso nel merito, dimostrandosi pienamente edotto della pretesa impositiva.

Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma semplificata.

Il ricorso è fondato.

Infatti, seppur l’art. 142 c.p.c., in tema di notificazione degli atti giudiziari a persona non residente, nè dimorante nè domiciliato nella Repubblica, faccia riferimento alle modalità di notificazione consentite dalle convenzioni internazionali (non invocate nel presente giudizio da alcuna delle parti in causa), e preveda – comma 1 – in caso d’impossibilità, che la notifica avvenga per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al Pubblico Ministero che ne cura la trasmissione al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona a cui è diretto l’atto, tuttavia, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 4, norma speciale prevista per la notifica degli atti impositivi che accertano una maggiore credito erariale, si prevede che “in alternativa a quanto disposto dall’art. 142 c.p.c.” la notificazione ai contribuenti non residenti “è validamente effettuata mediante spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della residenza estera rilevato dai registri dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero”. La norma, che non fa distinzioni fra il caso del contribuente residente in paese della UE e il caso del contribuente residente in paese extra UE – quindi, applicabile anche per il cittadino residente in Svizzera come nel caso di specie – è stata introdotta dal D.L. n. 40 del 2010, art. 2, comma 1, lett. a), ed è applicabile, senza incertezze normative, alla notifica dell’avviso oggetto d’impugnazione, avvenuta il 3.10.2013.

Nel caso di specie, pertanto, il contribuente si è iscritto all’AIRE a decorrere dal 25 novembre 2008 (vedi, p. 3 del controricorso), ed ha ricevuto, in data 3.10.13, la notifica dell’avviso d’accertamento all’indirizzo comunicato all’anagrafe degli italiani residenti all’estero, notifica che risulta essere stata rituale e tempestiva; inoltre, è fondato il rilievo dell’ufficio secondo cui, la proposizione del ricorso del contribuente che si è difeso nel merito ha sicuramente sanato l’eventuale nullità della notifica dell’avviso (Cass. nn. 5057/15, 654/14, 1238/14, ord. n. 917/16) ed escluso qualsivoglia decadenza dalla potestà impositiva.

La sentenza va, pertanto, cassata e rinviata nuovamente alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, affinché, riesamini il merito della controversia.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2017


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 06-06-2017) 31-07-2017, n. 19012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29818/2011 R.G. proposto da (OMISSIS), in liquidazione (C.F. (OMISSIS)), in persona del liquidatore pro tempore, e P.G. (C.F. (OMISSIS)), rappresentate e difese dall’avv. Massimiliano Bianchi e dall’avv. Alberto Jorio, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, piazza Sant’Andrea della Valle 6. – ricorrenti –

contro

Fallimento della (OMISSIS), in liquidazione (C.F. (OMISSIS)), e fallimento di P.G. (C.F. (OMISSIS)), in persona del curatore pro tempore, G.F.C. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1524/2011 della Corte d’appello di Torino, depositata il 24 ottobre 2011.

Sentita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 giugno 2017 dal Consigliere Fichera Giuseppe.

Lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Soldi Anna Maria, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Torino, con sentenza depositata il 24 ottobre 2011, ha respinto il reclamo proposto dalla (OMISSIS), in liquidazione, nonchè dal socio accomandatario P.G., avverso la sentenza dichiarativa del loro fallimento pronunciata dal Tribunale di Torino.

Ha ritenuto la corte d’appello che la notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento al liquidatore e socio accomandatario della società, con la forma prevista per i soggetti irreperibili, si fosse ritualmente perfezionata; ha soggiunto il giudice di merito che la debitrice non aveva dimostrato il mancato superamento dell’esposizione debitoria complessiva idoneo all’esonero dalla soggezione al fallimento, stante l’inattendibilità delle scritture contabili prodotte, ove non risultavano annotate le ragioni vantate dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento.

(OMISSIS), in liquidazione, e Giuseppina hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi; non hanno spiegato difese le parti intimate.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo deducono (OMISSIS), in liquidazione, e P.G. violazione degli artt. 138, 139, 140, 143, 145 e 148 c.p.c., nonchè della L.Fall., art. 15, e dell’art. 24 Cost., per avere il giudice del reclamo ritenuta valida la notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento, mediante deposito presso la casa comunale dell’ultima residenza nota del suo liquidatore e socio accomandatario, senza che fossero state curate le ricerche della medesima secondo canoni di ordinaria diligenza.

Con il secondo motivo assume violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e, di nuovo, degli artt. 138, 139, 140, 143, 145 e 148 c.p.c., della L.Fall., art. 15, e dell’art. 24 Cost., avendo trascurato la corte d’appello le prove idonee a dimostrare l’effettiva presenza del liquidatore della fallita presso la sua residenza anagrafica all’epoca della notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento.

Con il terzo motivo lamenta nullità dell’intero procedimento e della sentenza di fallimento impugnata, per omessa attivazione del contraddittorio con i soggetti destinatari dell’istanza di fallimento nella fase cd. prefallimentare.

Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), palesandosi carente e contraddittorio il ragionamento della corte d’appello sulla ritenuta ignoranza incolpevole del creditore istante, nonchè sulla prove dedotte a dimostrazione dell’effettiva presenza del liquidatore della fallita presso la sua residenza anagrafica.

Con il quinto motivo assume violazione degli artt. 2697, 2710, 2727 e 2729 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e della L.Fall., art. 1, comma 2, e L.Fall., art. 15, avendo erroneamente ritenuto il giudice di merito che le ricorrenti non avessero fornito la prova della contemporanea presenza dei requisiti dimensionali da cui dipende l’esonero dalla dichiarazione di fallimento e, in particolare, dell’esposizione debitoria inferiore ad Euro 500.000,00.

Con il sesto motivo deduce vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avendo la corte d’appello omesso di motivare le ragioni che inducevano a ritenere inattendibili i bilanci della società poi fallita.

2. Il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta connessione, sono tutti parimenti infondati.

Com’è noto, secondo l’orientamento di questa Corte, cui si intende dare continuità, i presupposti, legittimanti la notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c., non sono solo il dato soggettivo dell’ignoranza, da parte del richiedente o dell’ufficiale giudiziario, circa la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario dell’atto, nè il mero possesso del certificato anagrafico, dal quale risulti il destinatario stesso trasferito per ignota destinazione, essendo anche richiesto che la condizione di ignoranza non sia superabile attraverso le indagini possibili nel caso concreto, da compiersi ad opera del mittente con l’ordinaria diligenza. A tal fine, la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione (Cass. 27/11/2012, n. 20971).

Orbene, l’ordinaria diligenza, alla quale il notificante è tenuto a conformare la propria condotta, per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando, al fine del legittimo ricorso alle modalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c., va valutata in relazione a parametri di normalità e buona fede secondo la regola generale dell’art. 1147 c.c. e non può tradursi nel dovere di compiere ogni indagine che possa in astratto dimostrarsi idonea all’acquisizione delle notizie necessarie per eseguire la notifica a norma dell’art. 139 c.p.c., anche sopportando spese non lievi ed attese di non breve durata. Ne consegue l’adeguatezza delle ricerche svolte in quelle direzioni (uffici anagrafici, portiere della casa in cui il notificando risulti aver avuto la sua ultima residenza conosciuta) in cui è ragionevole ritenere, secondo una presunzione fondata sulle ordinarie manifestazioni della cura che ciascuno ha dei propri affari ed interessi, siano reperibili informazioni lasciate dallo stesso soggetto interessato, per consentire ai terzi di conoscere l’attuale suo domicilio, residenza o dimora (Cass. 04/06/2014, n. 12526).

Nella vicenda all’esame, il giudice di merito ha fatto corretta applicazione dei principi sopra ricordati, avendo osservato che una volta verificata l’impossibilità di notificare il ricorso per la dichiarazione di fallimento presso la sede sociale (per la chiusura dei locali), e constatato che nell’anno precedente un tentativo di notifica di un atto di precetto presso l’ultima residenza nota del suo liquidatore era fallito, la notifica nella forma degli irreperibili costituiva l’unico strumento per assicurare il contraddittorio.

Nè può dubitarsi dell’adeguatezza delle ricerche effettuate dall’ufficiale giudiziario, prima di procedere al deposito del plico presso la casa comunale ai sensi dell’art. 143 c.p.c., nell’ultima residenza nota della P., in (OMISSIS), avendo costui attestato di non avere rinvenuto il nominativo della predetta, nè sui citofoni e neppure sulle cassette postali situate all’indirizzo anagrafico – che anzi risultava al relativo interno dell’edificio un diverso nominativo -, ed avendo ricevuto informazioni negative sulla medesima dai residenti interpellati; circostanze queste che comprovano in maniera chiara le ricerche effettivamente compiute dall’organo notificatore.

2.1. Inammissibile, infine, si mostra il denunciato vizio di motivazione, in thesi desumibile dalla scarsa rilevanza attribuita dalla corte d’appello a taluni documenti prodotti dalle reclamanti nel corso del giudizio (costituiti dalle buste contenenti talune missive indirizzate, tra il 2010 e il 2011, all’ultima residenza anagrafica della P.), in quanto in tema di errores in procedendo non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto (Cass. 10/11/2015, n. 22952).

3. Il quinto e sesto motivo, avvinti dal comune oggetto, sono anch’essi infondati.

Ai fini della prova, da parte dell’imprenditore, della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui alla L.Fall. art. 1, comma 2, i bilanci degli ultimi tre esercizi costituiscono la base documentale imprescindibile, ma non anche una prova legale, sicchè, ove ritenuti motivatamente inattendibili dal giudice, l’imprenditore rimane onerato della prova circa la ricorrenza dei requisiti della non fallibilità (Cass. 31/05/2017, n. 13746; Cass. 01/12/2016, n. 24548; Cass. 30/06/2014, n. 14790).

Nella vicenda all’esame della Corte, il giudice di merito ha plausibilmente ritenuto inattendibili i bilanci depositati dalla fallita al fine di comprovare l’indebitamento complessivo della società -, considerato che proprio nelle scritture contabili esibite non risultava annotato neppure il credito (di rilevante importo) vantato dal creditore istante, pure portato da titolo esecutivo; dunque correttamente è stata ritenuto che la società debitrice non avesse dato la prova – su di essa pacificamente incombente – di avere requisiti dimensionali inferiori a quelli prescritti dalla L.Fall., art. 1, comma 2.

4. Nulla sulle spese, in difetto di attività difensiva delle parti intimate.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2017


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 22-03-2017) 17-07-2017, n. 17636

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15098/2015 proposto da:

R.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA MARRANA 7 presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CATTIVERA, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO GATTA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SEVEL – Società Europea Veicoli Leggeri S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIACINTO FAVALLI, MARIO CAMMARATA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1040/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 04/12/2014 R.G.N. 1214/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2017 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO GATTA;

udito l’Avvocato BENEDETTA GAROFALO per delega verbale Avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO.

Svolgimento del processo
Con sentenza 4 dicembre 2014, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., la Corte d’appello di L’Aquila rigettava l’appello proposto da R.G. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto la domanda di impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli da Sevel s.p.a. il 13 aprile 2010, per avere lavorato nei campi durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia (intervento di meniscectomia), così ritardandone la guarigione.

Esclusa ogni denunciata indebita estensione valutativa del primo giudice a periodo temporale non oggetto di contestazione e pure ogni confusione nell’apprezzamento delle condizioni del ginocchio sinistro del lavoratore, in luogo del destro operato, la Corte territoriale ribadiva la dipendenza causale del ritardo nella guarigione dalla prestazione della suddetta attività (in particolare consistita nella legatura di viti e nella conduzione di un mezzo agricolo), accertata dal C.t.u. medico-legale.

Con atto notificato il 4 giugno 2015, R.G. ricorre per cassazione con sei motivi, cui resiste la società con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per ampliamento della contestazione datoriale del 1 aprile 2010, alla base del licenziamento disciplinare del 13 aprile 2010, a fatti, collegati a certificati medici del (OMISSIS), relativi al ginocchio sinistro (e non al destro, interessato dall’intervento chirurgico per cui il lavoratore in malattia), in violazione del principio di immutabilità della contestazione.

2. Con il secondo, il ricorrente deduce omesso esame di fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 115 c.p.c., quale la documentazione medica dell’intervento di (OMISSIS) al ginocchio sinistro del lavoratore.

3. Con il terzo, il ricorrente deduce nullità della sentenza, per la mancata esplicazione delle ragioni di ravvisato pregiudizio per la propria guarigione nella sporadica attività agricola prestata, indicata in una presunta attività di coltivazione delle viti, anzichè nella loro legatura e nella guida di un mezzo agricolo, come accertato dal Tribunale.

4. Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 134 c.p.c., per il mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi in ordine all’inesistenza di alcun aggravamento a carico del ginocchio destro del lavoratore a causa dell’attività svolta durante il periodo di assenza per malattia.

5. Con il quinto, il ricorrente deduce manifesta illogicità della sentenza, per la censurata prestazione di attività agricola durante la malattia, da una parte e, dall’altra, per la mancata prestazione, se allora possibile, di una parziale prestazione al datore di lavoro, peraltro al di fuori della contestazione disciplinare.

6. Con il sesto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2103 e 2119 c.c., per difetto di proporzionalità tra l’addebito contestato e la sanzione espulsiva inflittagli, senza neppure specifica indicazione degli elementi giustificativi.

7. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per ampliamento della contestazione a base del licenziamento disciplinare nell’inosservanza del principio di immutabilità della contestazione, è infondato.

7.1. Occorre premettere che la violazione del principio di immutabilità della contestazione attiene alla correttezza del procedimento disciplinare, che evidentemente non può che collocarsi in una fase anteriore a quella di eventuale impugnazione giudiziale del provvedimento sanzionatorio cui esso mette capo, in quanto corollario del principio di specificità della contestazione medesima. E detto principio risponde all’esigenza, rilevante ai fini della garanzia dell’esercizio del diritto di difesa, che i fatti addebitati siano specificamente individuati nell’atto di contestazione, secondo l’impostazione giurisprudenziale più squisitamente contenutistica di applicazione del principio esclusivamente in relazione alla funzione di garanzia di esercizio del diritto di difesa del lavoratore, con la negazione di qualsiasi profilo di illegittimità qualora in concreto nessun vulnus sia arrecato a tale diritto (Cass. 22 aprile 2015, n. 8238; Cass. 5 marzo 2010 n. 5401; Cass. 13 giugno 2005 n. 12644).

Nè si verifica alcuna violazione del diritto di difesa, qualora sia rispettato il principio generale, in materia di sanzioni disciplinari, di assicurazione al lavoratore della possibilità di contestare l’addebito in relazione all’unico fatto materiale accertato, anche diversamente qualificato giuridicamente, con le garanzie del contraddittorio (Cass. 10 marzo 2016, n. 4725; Cass. 20 marzo 2007, n. 6638).

7.2. Nel merito, deve peraltro essere esclusa la violazione denunciata, non avendo la Corte territoriale valutato comportamenti diversi da quelli oggetto del licenziamento impugnato: posto che la documentazione medica successiva si riferisce all’accertamento, compiuto dalla Corte e adeguatamente giustificato (per le ragioni esposte al terzo e al quinto capoverso di pg. 2 della sentenza), dell’aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore, per effetto dell’attività prestata.

8. Il secondo motivo, relativo ad omesso esame della documentazione medica relativa all’intervento di (OMISSIS) al ginocchio sinistro del lavoratore, è inammissibile.

8.1. Il ricorrente non ha, infatti, osservato il protocollo deduttivo (consistente nell’indicazione del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, del “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, del “come” e del “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e della sua “decisività”) in ordine all’omesso esame, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: neppure peraltro la censura inerendo ad un fatto, ma piuttosto ad una valutazione compiuta dalla Corte territoriale, nel senso dell’irrilevanza della condizione del ginocchio sinistro rispetto al documentato accertamento dello stato di quello destro, oggetto dell’intervento chirurgico giustificante l’assenza dal lavoro (dal primo periodo al secondo capoverso di pg. 3 della sentenza).

9. Il terzo motivo, relativo a nullità della sentenza per mancata esplicazione delle ragioni di ravvisato pregiudizio alla guarigione del lavoratore per la sporadica attività agricola prestata, è infondato.

9.1. Non ricorre la denunciata nullità quale error in procedendo. Essa è, infatti, integrata da una motivazione che sia solo apparente, inidonea a rendere percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. s. u. 3 novembre 2016, n. 22232).

Ma la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni di pregiudizio comportate dall’esercizio dell’attività agricola in pendenza della malattia del lavoratore, per le ragioni succintamente ma adeguatamente illustrate (in particolare al penultimo capoverso di pg. 3 della sentenza), sulla base di accertamento in fatto (recepito dal giudice di primo grado, al terzo capoverso di pg. 2 della sentenza), insindacabile nell’odierna sede di legittimità; infine, nella palese e coerente confluenza delle attività di legatura delle viti e della guida di un mezzo agricolo in quella di coltivazione, cui funzionalmente accedenti.

10. Il quarto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 134 c.p.c., per mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi in ordine all’inesistenza di aggravamento a carico del ginocchio destro del lavoratore per attività svolta durante il periodo di malattia, è inammissibile.

10.1. E’ noto come nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ai sensi dell’art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non sia censurabile con ricorso per cassazione, qualora la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori (Cass. 12 marzo 2009, n. 6023; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22534).

E ciò non risulta nel caso di specie.

11. Il quinto motivo, relativo a manifesta illogicità della sentenza per la censurata prestazione di attività agricola durante la malattia del lavoratore e la mancata, neppure parziale, al datore di lavoro peraltro al di fuori della contestazione disciplinare, è infondato.

11.1. La Corte territoriale ha reso una chiara e congruente giustificazione dell’aggravamento della condizione patologica del lavoratore per effetto dell’attività lavorativa prestata nel periodo di malattia (sulla base delle argomentazioni svolte dal penultimo capoverso di pg. 3 al primo di pg. 4 della sentenza), senza alcuna intrinseca contraddittorietà tale da non rendere comprensibile il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione assunta, nell’impossibilità di individuarne gli elementi di fatto considerati o presupposti, in funzione della sua intelligibilità e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento Cass. 8 gennaio 2009, n. 161; Cass. 10 novembre 2010, n. 22845; Cass. 20 gennaio 2015, n. 920; Cass. 22 giugno 2015, n. 12864).

Sicchè, tanto escluso, la censura eccede il rigoroso perimetro devolutivo di denunciabilità del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

12. Il sesto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2106 e 2119 c.c., per difetto di proporzionalità tra addebito contestato e licenziamento, è infondato.

12.1. E’ noto come la giusta causa di licenziamento debba rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144).

Sicchè, la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonchè dall’intensità dell’elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

Ebbene, nella valutazione che le pertiene, in ordine alla verifica della concretizzazione operata dall’interprete della giusta causa di licenziamento quale clausola generale, tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144), reputa questa Corte che la Corte d’appello aquilana abbia fatto corretta applicazione dei suenunciati principi di diritto. E che essa abbia pure accertato la ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo, sotto il profilo del giudizio di fatto demandatole, incensurabile in cassazione se, come nel caso in esame, privo di errori logici e giuridici (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo(2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144): e ciò anche in specifico riferimento al requisito di proporzionalità, che esige valutazione non astratta dell’addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

Ed infatti, la Corte territoriale ha a ciò provveduto con accertamento in fatto, succintamente ma adeguatamente motivato (al terzo capoverso di pg. 4 della sentenza e con evidente richiamo anche del profilo dell’intenzionalità, all’ultimo capoverso di pg. 3), insindacabile in sede di legittimità.

13. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e condanna R.G. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2017


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 20/04/2017) 13/07/2017, n. 17335

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21063/2012 proposto da:

Borio Mangiarotti S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Augusto Imperatore n. 22, presso l’avvocato Pottino Guido rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bucolo Alberto, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.p.a.;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VERBANIA, depositato il 13/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/04/2017 dal cons. TERRUSI FRANCESCO;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS LUISA, che chiede che la Corte respinga il ricorso con le conseguenze previste dalla legge.

Svolgimento del processo
che:

la Borio Mangiarotti s.p.a. propose domanda di ammissione al passivo del fallimento di (OMISSIS) s.p.a. (dichiarato in data 9-7-2010), per la somma di Euro 364.312,50 portata da una cambiale ipotecaria;

la domanda venne accolta ma al chirografo, essendo l’ipoteca revocabile ai sensi della L.Fall., art. 67;

invero la presunzione di onerosità da parte del terzo datore di ipoteca ((OMISSIS) s.p.a.) poteva dirsi sussistente nel solo diverso caso di garanzia concessa contestualmente al sorgere del credito;

l’opposizione della creditrice, basata sull’assunto che, invece, l’ipoteca era stata concessa in relazione al debito cambiario sorto contestualmente al rilascio del titolo, veniva rigettata dal Tribunale di Verbania;

il tribunale riteneva non dimostrato che il rilascio della nuova cambiale avesse determinato l’estinzione dell’originario rapporto di garanzia relativo al pagamento del prezzo della vendita immobiliare a cui era da associare il rilascio dei titoli inizialmente emessi;

in particolare la mera sostituzione di quei titoli con altri, potendo risolversi in mera dilazione di pagamento, non poteva implicare – secondo il collegio – una novazione del rapporto in difetto di prova della volontà di estinguere l’obbligazione precedente; il decreto del Tribunale di Verbania, depositato il 13-7-2013, è impugnato con ricorso per cassazione della Borio Magiarotti s.p.a.; il fallimento non ha svolto difese;

il procuratore generale ha depositato conclusioni scritte; la ricorrente ha depositato una memoria.

Motivi della decisione
che:

il primo motivo di ricorso, con cui si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1992 e seg. e 1230 c.c., è infondato; la ricorrente sostiene che l’emissione di nuova cambiale, unita alla restituzione delle precedenti, aveva costituito ipso facto novazione del rapporto cambiario, senza necessità di alcuna ulteriore indagine e di alcuna ulteriore prova sulla interna volontà delle parti non risultante dal documento;

codesta affermazione pecca di astrattismo, e la fattispecie in esame, per come pacificamente ricostruita dal giudice a quo, ne rende giustizia;

la fallita aveva concesso ipoteca su alcuni immobili a fronte di cambiali rilasciate dalla società P&D s.r.l. per il pagamento di alcune rate del prezzo di una compravendita stipulata il 21-5-2009; in data anteriore alla scadenza di una delle rate, i contraenti avevano convenuto di posticipare il pagamento del saldo e di rideterminare la misura degli interessi; donde l’acquirente P&D s.r.l. aveva emesso un nuovo titolo cambiario a favore della venditrice Borio Mangiarotti, per l’importo residuo del prezzo (appunto Euro 364.312,50); la cambiale di cui si tratta era stata rilasciata a garanzia del pagamento di tale residuo, e la fallita (OMISSIS) s.p.a. aveva quindi ribadito l’ipoteca concessa a latere della vendita sugli immobili di sua proprietà;

tali essendo i fatti come emergenti dalla decisione impugnata, è essenziale considerare che l’art. 1230 c.c. prevede che l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all’obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso, e che la volontà di estinguere l’obbligazione precedente deve risultare in modo non equivoco;

il mero fatto che, in correlazione con la dilazione di una obbligazione già assunta, vengano rilasciati nuovi effetti cambiari in sostituzione dei precedenti, non è segno di una volontà novativa;

difatti la novazione oggettiva si configura come contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente, con nuove e autonome situazioni giuridiche;

di un simile contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l’animus novandi, consistente nell’inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l’aliquid novi, da intendersi come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto (v. tra le tante Cass. n. 12083-15);

nel caso di specie il titolo del rapporto e l’oggetto della prestazione erano pur sempre quelli discendenti dalla vendita intercorsa tra la Borio Magiarotti e la P&D s.r.l., e non giova insistere sull’astrattezza dell’obbligazione cambiaria, volta che la stessa ricorrente ha dedotto che le cambiali ipotecarie erano state emesse sempre a garanzia del saldo del prezzo della vendita, in guisa di tale causa essendo state azionate;

il secondo motivo di ricorso, con cui si denunzia l’omesso esame e l’omessa e insufficiente motivazione su fatto controverso, è inammissibile;

la ricorrente sostiene di aver contestato anche l’esistenza del requisito soggettivo della revocatoria e lamenta l’omissione o comunque l’insufficienza motivazionale del giudice a quo su tale punto;

può osservarsi che, in prospettiva di autosufficienza, la ricorrente ha ammesso di essersi limitata a sottolineare l’inesistenza di rapporti commerciali o contrattuali col terzo datore di ipoteca prima del fallimento;

per quanto emerge dal ricorso, la difesa sulla questione della inscientia era stata affidata alla considerazione di aver rinunziato all’ipoteca legale nei confronti dell’acquirente (P&D s.r.l.) quanto al saldo del prezzo convenuto;

dinanzi a tali argomentazioni dell’opponente, poste a corredo della prova della inscientia su di lei gravante ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 1, n. 3, è pertinente la (seppur sintetica) motivazione del tribunale nella parte in cui ha osservato che l’opponente non aveva offerto alcuna allegazione e alcuna prova “su circostanze esterne, concrete e specifiche tali da far ritenere che la società terza datrice di ipoteca si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa”;

difatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, gli atti revocabili previsti dalla L.Fall., art. 67, comma 1, rivestono connotati tali da evidenziare di per sè la possibilità che l’imprenditore che li compie possa trovarsi in situazione di insufficiente liquidità (v. Cass. n. 8826-11); cosicchè la prova della inscientia deve essere fornita in relazione alla specifica apparente condizione economica del debitore in quanto idonea a far supporre l’esistenza di una situazione di normalità;

da questo punto di vista la prova, per quanto suscettibile di essere fornita con ogni mezzo, non si esaurisce nella dimostrazione di un mero stato d’animo (v. Cass. n. 683-99; Cass. n. 6240-88);

essa postula – come esattamente ritenuto dal tribunale di Verbania l’indicazione di circostanze esterne concrete e specifiche, perchè solo dinanzi all’indicazione puntuale di simili circostanze è possibile affermare il presupposto di non conoscenza secondo il parametro della ragionevolezza di una persona di ordinaria prudenza e avvedutezza;

l’onere può ritenersi assolto solo ove abbia a oggetto la prova di concreti collegamenti tra il soggetto onerato e i sintomi conoscibili, per una persona di ordinaria prudenza e avvedutezza, del predetto stato (e v. già Cass. n. 1043-83; Cass. n. 4070-85, Cass. n. 3630-86, fino a giungere a Cass. n. 3781-08 e a Cass. n. 17286-14);

il giudice del merito ha dunque esaurito l’onere motivazionale, e la relativa valutazione, a lui istituzionalmente riservata, si sottrae al sindacato di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 20 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2017


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 07-10-2016) 20-06-2017, n. 15147

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10057-2014 proposto da:

PROVINCIA DI COSENZA, in persona del Presidente e legale rappresentante in carica, On.le O.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIA 175, presso lo studio dell’avvocato SERAFINO CONFORTI, rappresentata e difesa dagli avvocati ORNELLA NUCCI, GAETANO PIGNANELLI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.R.M., C.P., C.F., CU.FA., C.G., C.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VERONA 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO COCOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato FERRUCCIO FEDELE giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1337/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 17/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato ORNELLA NUCCI;

udito l’Avvocato FERRUCCIO FEDELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’improcedibilità in subordine rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Paola con sentenza 16.4.2013, ritenuta inefficace, in difetto dei presupposti di legge ex art. 27 LEC, la disdetta comunicata dalla Provincia di Cosenza per anticipata cessazione del rapporto di locazione di immobile, destinato a sede dell’Istituto alberghiero di Stato, intrattenuto con gli eredi dei locatori C.A. e Fa. ed oggetto del contratto stipulato il 25.6.1990, e ritenuto altresì giustificato il rifiuto dei locatori di ricevere la consegna dell’immobile che presentava danni e modifiche non autorizzate, condannava l’ente pubblico al risarcimento dei danni e quindi al pagamento delle somme necessarie ai lavori di ripristino dell’immobile deteriorato e danneggiato, al pagamento dell’indennità di occupazione ex art. 1591 c.c. dalla data 16.10.2006 di scadenza della naturale del rapporto fino alla pubblicazione della decisione, al pagamento della ulteriore indennità per diciotto mesi, tempo necessario alla esecuzione dei lavori.

La decisione veniva parzialmente riformata dalla Corte d’appello che con sentenza 17.10.2013 n. 1337: 1- riconosceva non dovuto il risarcimento corrispondente alle spese (Euro 322.701,19) per lavori di manutenzione straordinaria (rifacimento intonaco esterno e manto copertura terrazzo), in quanto gravanti esclusivamente sul locatore ai sensi dell’art. 1576 c.c., non incidendo sulla ripartizione degli obblighi ex lege l’omesso avviso ex art. 1577 c.c. da parte dell’ente conduttore; 2- accertava la legittimità del rifiuto dei locatori a ricevere la consegna dell’immobile, in condizioni di degrado tali, accertate in esito alla c.t.u., da richiedere ingenti lavori di ripristino, con conseguente responsabilità della Provincia in mora nell’adempimento della obbligazione ex art. 1590 c.c..

La Provincia di Cosenza ha impugnato per cassazione la sentenza, che dichiara non esserle stata notificata, deducendo con due motivi vizi di errori di diritto e vizio di motivazione.

Resistono con controricorso C.P., F., Fa., E., G. e R. che eccepiscono la improcedibilità del ricorso per violazione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2) e la inammissibilità del ricorso in quanto tardivamente notificato, assumendo che la sentenza di appello era stata ritualmente notificata, in data 10.1.2014, ai procuratori costituti dell’ente pubblico, presso la Cancelleria della Corte d’appello.

Motivi della decisione
I resistenti hanno eccepito la inammissibilità e la improcedibilità del ricorso per cassazione ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2), non avendo l’ente ricorrente prodotto la sentenza impugnata autenticata corredata della relata di notifica ed essendo stato notificato il ricorso in data 17.4.2014 oltre il decorso del termine breve ex art. 325 c.p.c..

Sostengono che la Provincia, diversamente da quanto dalla stessa allegato in tale atto, non ha riferito che la sentenza di appello le era stata ritualmente notificata in data 10.1.2014, mediante deposito presso la Cancelleria della Corte d’appello di Catanzaro, non avendo eletto i difensori dell’ente pubblico domicilio nel comune in cui aveva sede l’Ufficio giudiziario (Corte appello di Catanzaro) ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82.

Il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile in quanto proposto oltre il termine breve di decadenza ex art. 325 c.p.c., comma 2 e art. 326 c.p.c., comma 1: la sentenza di appello, giusta certificazione del funzionario della Cancelleria della Corte d’appello di Catanzaro, risulta notificata, ai fini della decorrenza del termine breve in data 10.1.2014, mentre il ricorso principale è stato notificato in data 17.4.2014, oltre la scadenza alla data 11.3.2014 del termine perentorio di giorni 60.

Occorre premettere che, la notifica della sentenza di appello è stata eseguita alla Provincia di Cosenza presso la Cancelleria della Corte d’appello di Catanzaro, non essendo stata fatta dai difensori della parte elezione di domicilio nella circoscrizione in cui aveva sede l’ufficio del Giudice adito e trovando in conseguenza applicazione il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 secondo cui “1. (I procuratori: da intendersi sostituito, ai sensi della L. n. 27 del 1997, con “gli avvocati”), i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del Tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

2. In mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria”.

Non osta alla ritualità della indicata notifica della sentenza, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, la disciplina normativa che ha richiesto al difensore di indicare negli atti difensivi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata (PEC), introdotta dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35 ter, lett. a), conv. in L. 14 settembre 2011, n. 148, nonchè dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25 comma 1, lett. a), che hanno modificato -con efficacia dall’1.2.2012- l’art. 125 c.p.c. e l’art. 366 c.p.c., comma 2, (indirizzo PEC coincidente con quello comunicato al Consiglio dell’Ordine ex D.L. n. 185 del 2008), ed ancora dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 conv. in L. 17 dicembre 2012, n. 221 che ha reso obbligatorie le comunicazioni e le notificazioni telematiche. Tale disciplina è stata interpretata sistematicamente dalla SS.UU. di questa Corte che hanno rilevato come la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 2, dettata per il giudizio di legittimità, secondo cui la notifica mediante deposito dell’atto presso la Cancelleria della Corte di cassazione era da considerare valida esclusivamente nel ricorso di entrambe le condizioni negative della omessa elezione di domicilio in Roma della omessa indicazione dell’indirizzo PEC, esprimesse un principio di carattere generale, evidenziando come la indicazione dell’indirizzo PEC si ponesse in aggiunta all’onere di elezione del domicilio, assolvendo entrambe alla medesima funzione di assicurare la speditezza delle notificazioni e comunicazioni del processo, con la conseguenza che anche nel giudizio di merito la ritualità della notifica degli atti mediante deposito in Cancelleria rimane subordinata alla mancanza di entrambe le condizioni predette: se, pertanto, non è stato eletto domicilio, ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 ma risulta indicato l’indirizzo PEC, la notificazione va eseguita presso tale indirizzo e quindi la notifica in Cancelleria deve essere dichiarata invalida (cfr. Corte cass. SSUU 20.6.2012 n. 10143). La notifica in Cancelleria può essere, tuttavia, validamente eseguita se la notifica telematica all’indirizzo PEC non riesce, in quanto il servizio “genera un avviso di mancata consegna”, ossia fornisce risposta che la notifica non si è potuta effettuare per malfunzionamento della casella elettronica per fatto imputabile al titolare dell’indirizzo PEC (regolamento DM 44/2011): ma in tal caso è richiesta anche la pubblicazione nel “portale dei servizi telematici” (D.L. n. 112 del 2008, artt. 34 e 51 conv. L. n. 133 del 2008) dell’avviso di avvenuta notifica con deposito in Cancelleria.

Tanto premesso dall’esame del ricorso proposto in appello dalla Provincia di Cosenza depositato presso la Cancelleria della Corte d’appello di Catanzaro in data 17.5.2013, emerge dalla procura ad litem rilasciata a margine dell’atto che il Presidente dell’ente territoriale aveva conferito il “jus postulandi” all’avv. Gaetano Pignanelli ed all’avv. Ornella Nucci, dichiarando di eleggere domicilio “presso la sede dell’Ente in Cosenza P.zza XV Marzo n. 1”. La elezione di domicilio veniva altresì ripetuta nella intestazione del ricorso (“La Provincia di Cosenza…., domiciliata presso la sede dell’Ente, in Cosenza P.zza XV Marzo n. 1,…”). Dalla medesima intestazione del ricorso in appello, risulta che i predetti difensori avevano indicato il proprio indirizzo PEC, e l’avv. Nucci aveva indicato anche il proprio numero di FAX, ma entrambi chiedendo “espressamente che eventuali comunicazioni vengano trasmesse al numero fax od indirizzo PEC”.

Orbene questa Corte ha già avuto modo di esaminare -anteriormente alla introduzione della previsione normativa di obbligatorietà della notifica telematica: D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies conv. in legge n. 221/2012, introdotto dal D.L. n. 114 del 2014, art. 52 conv. in L. n. 114 del 2014, non applicabile alla fattispecie in esame- la ipotesi di concorrente indicazione nell’atto difensivo, da parte del difensore, dell’indirizzo PEC e del domicilio eletto, presso i quali ricevere le comunicazioni e le notificazioni degli atti processuali (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 25215 del 27/11/2014; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14969 de 16/07/2015; id. Sez. 6 – 2, Sentenza n. 22892 del 10/11/2015; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 2133 del 03/02/2016 -in motivazione-; id. Sez. 2 – I Sentenza n. 23412 del 17/11/2016), rilevando:

a) che l’indicazione della PEC, prevista per rendere più agevoli le comunicazioni di Cancelleria, non rende inapplicabile l’intero insieme delle norme e dei principi sulla domiciliazione nel giudizio, non potendo obliterarsi la volontà espressamente manifestata dalla stessa parte o dal suo difensore diretta a designare l’elemento topografico dell’elezione di domicilio in maniera compatibile con le regole del processo;

b) che la PEC costituisce, dunque, oggetto di un’informazione di carattere aggiuntivo finalizzata alle comunicazioni di cancelleria, e che è destinata surrogarsi, anche agli effetti della notifica degli atti, ad una domiciliazione mancante, ma non già a prevalere su di una domiciliazione che il difensore abbia volontariamente effettuato;

c) che tale scelta volontaria prevaleva anche nel caso di elezione di domicilio ex lege presso la cancelleria del giudice adito, in conformità del R.D. n. 37 del 1934, art. 82;

d) che se la indicazione dell’indirizzo PEC, senza ulteriori specificazioni, individuava il luogo virtuale cui dovevano essere effettuate tanto le “comunicazioni”, quanto le “notificazioni” degli atti processuali, diversamente la espressa destinazione del luogo virtuale soltanto alla ricezione delle “comunicazioni” di Cancelleria, se accompagnata da una elezione di domicilio – tanto più se in luogo diverso da quella dello studio del procuratore ad litem -, concentrava esclusivamente sul domicilio eletto il luogo di destinazione delle “notificazioni”: con la conseguenza che, qualora il luogo indicato non fosse ricaduto nella circoscrizione dell’Ufficio giudiziario, doveva ritenersi valida la notifica eseguita mediante deposito dell’atto presso la Cancelleria R.D. n. 34 del 1937, ex art. 82.

Orbene la Provincia (così come nel ricorso per cassazione) nell’atto di appello ha effettuato autonoma elezione di domicilio presso la sede legale dell’ente (dunque in luogo diverso da quello indicato nel R.D. n. 37 del 1934, art. 82: nella specie, nell’ambito della circoscrizione della Corte d’appello di Catanzaro), con la conseguenza che l’indicazione, nello stesso atto di appello, anche dell’indirizzo PEC dei legali “non domiciliatari”, accompagnata dalla esplicita richiesta di ricevere colà soltanto le “comunicazioni”, assume rilevanza (così come nel ricorso per cassazione) esclusivamente ai fini delle “comunicazioni” di Cancelleria ex artt. 134 e 135 c.p.c. e art. 176 c.p.c., comma 2, ma non anche ai fini delle “notificazioni”, dovendo pertanto ritenersi correttamente e validamente eseguita la notifica della sentenza di appello (ex artt. 170 e 285 c.p.c.) presso la Cancelleria della Corte d’appello di Catanzaro.

Pertanto, perfezionatasi in data 10.1.2014 la notifica della sentenza di appello n. 1337/2013 mediante deposito presso la Cancelleria del Giudice a quo, ai sensi del R.D. n. 34 del 1937, art. 82, come da attestazione del predetto Ufficio di Cancelleria in data 22.3.2014, ne segue che il ricorso per cassazione proposto dalla Provincia di Cosenza e notificato in data 17.4.2014, oltre il termine di decadenza ex art. 325 c.p.c., comma 2 e art. 326 c.p.c., comma 1, deve essere dichiarato inammissibile.

La parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 21/03/2017) 29/05/2017, n. 13453

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2168/2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.M.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di CATANZARO, depositata in data 10/07/2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/03/2017 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso, in subordine questione di costituzionalità;

udito l’Avvocato Gianni De Bellis per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Svolgimento del processo
1. A seguito di ordinanza interlocutoria n. 18001 emessa dalla quinta sezione civile il 14 settembre 2016 il primo presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite il primo presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alte sezioni unite sulla questione relativa all’individuazione, nel processo tributario, del dies a quo del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell’appellante in caso di notificazione postale diretta e sulla rilevanza, ai fini della ritualità di tale costituzione e dell’ammissibilità del ricorso e dell’appello, dell’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico.

2. Era accaduto, infatti, che il 24 settembre 2010 la commissione tributaria provinciale di Cosenza avesse annullato la cartella di pagamento notificata a Z.M. per il recupero d’imposte evase nel 2005 e impugnata dal contribuente il 13 novembre 2009. Per la riforma di tale decisione l’Agenzia delle Entrate adiva la commissione tributaria regionale della Calabria che però dichiarava inammissibile l’appello per mancato deposito – nel termine previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1 (d’ora in poi proc. trib.), della fotocopia della ricevuta della spedizione della raccomandata con la quale il gravame era stato proposto.

4. Per la cassazione di tale decisione l’avvocatura erariale ha proposto ricorso affidato a unico motivo. Ha denunciato che, nel dichiarare inammissibile l’appello per mancato deposito della fotocopia della ricevuta d’invio della raccomandata, la commissione tributaria regionale ha fatto erronea applicazione di norme di diritto processuali (art. 53, comma 2 e art. 22, comma 1, proc. trib.), laddove ha negato che fosse idonea provare la spedizione della raccomandata e la tempestività dell’appello l’avvenuta esibizione dell’avviso di ricevimento riportante la spedizione del 24 marzo 2011 e la ricezione del 28 marzo 2011, entrambe rientranti nel termine del novellato art. 327 c.p.c., riguardo alla pubblicazione del 24 settembre 2010 e in quello dell’art. 53, comma 2, proc. trib. riguardo alla costituzione del 21 aprile 2011. Ha osservato che le disposizioni processuali – e quelle del processo tributario in particolare – devono essere interpretate, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, nel senso di limitare inammissibilità irragionevoli. Inoltre la difesa erariale ha lamentato che il giudice d’appello ha trascurato la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata fide-facente quanto alle indicazioni in esso contenute, ivi compresa la data di spedizione del plico.

5. La parti private non hanno resistito; indi, fissata la pubblica udienza innanzi alla quinta sezione, questa ha rimesso gli atti al primo presidente il quale ha investito le sezioni unite con l’ordinanza indicata in premessa. La difesa erariale deposita memoria.

Motivi della decisione
1. In via preliminare va precisato che la tempestività dell’appello viene in discussione attesa la evidente e documentata ricezione della raccomandata il 28 marzo 2011, ovverosia oltre il termine lungo del novellato art. 327 c.p.c., a decorrere dalla sentenza di primo grado del 24 settembre 2010. Dunque, le questioni sollevate rilevano al fine di verificare: a) se la costituzione della parte appellante, in data 21 aprile 2011, fosse avvenuta nel termine degli artt. 22 e 53 proc. trib.; b) se la spedizione del plico postale contenente il gravame fosse avvenuta entro il termine lungo del novellato art. 327 c.p.c.. In sintesi la costituzione è sicuramente tempestiva se il relativo termine decorre dalla ricezione della raccomandata contenente il gravame, diversamente viene in rilievo la certezza legale della data di spedizione del plico onde potere calcolare il rispetto del ridetto termine laddove manchi ricevuta postale di spedizione; il che rileva anche ai fini della verifica del rispetto del termine per impugnare.

2. Il primo interrogativo al quale le sezioni unite sono chiamate a dare risposta è quello se, in riferimento ai ricorsi spediti con raccomandata postale, il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante, di cui all’art. 22, comma 1 e all’art. 53, comma 2, proc. trib. sia da interpretarsi come decorrente dalla ricezione del plico da parte del destinatario ovvero dalla data di spedizione del plico medesimo. Nella giurisprudenza di questa Corte si sono manifestati due orientamenti.

2.1 Il primo e più restrittivo è stato inaugurato dalla sentenza n. 20262 del 2004 secondo la quale il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, atteso che l’art. 22, comma 1, proc. trib. prevede modalità di deposito (copia del ricorso e fotocopia della ricevuta di spedizione della raccomandata postale) che presuppongono solo la spedizione del ricorso e non la sua ricezione e sottrae, quindi, il detto adempimento alla regola di cui all’art. 16, comma 5, secondo periodo, proc. trib. (il quale dispone che i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto e che trova applicazione, fra l’altro, nel caso di deposito del ricorso notificato attraverso ufficiale giudiziario). Affermazioni similari si rinvengono anche nelle pronunzie n. 14246 del 2007, n. 1025 del 2008 e n. 7373 del 2011.

2.2 Quest’ultima riassuntiva decisione osserva che l’art. 22 proc. trib. – richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, comma 2, proc. trib. – richiede, ai fini della rituale costituzione in giudizio del ricorrente, il deposito, non solo di copia del ricorso spedito per posta, ma anche della ricevuta di spedizione dell’atto per raccomandata a mezzo del servizio postale. E la mancata allegazione di detta ricevuta è sanzionata con l’inammissibilità dell’impugnazione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e non sanabile neppure per effetto della costituzione del resistente. Rileva, inoltre, che la ratio di siffatta previsione è da ravvisare nel fatto che la decorrenza del termine di trenta giorni, per la costituzione in giudizio del ricorrente, è normativamente ancorata alla spedizione, e non alla ricezione del ricorso da parte del resistente. Il che si evincerebbe dal fatto che l’art. 22, comma 1, proc. trib. prevede modalità di deposito che presuppongono solo la spedizione del ricorso, e non la sua ricezione, sottraendo, in tal modo, detto adempimento alla regola di cui all’art. 16, comma 5, proc. trib. a tenore del quale i termini che hanno inizio dalla notificazione o comunicazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto. Infine afferma che l’omesso deposito della ricevuta di spedizione verrebbe a incidere sul riscontro della stessa tempestività della costituzione in giudizio dell’appellante, dalla quale la legge fa scaturire l’inammissibilità del proposto gravame. Trattasi di orientamento ripreso successivamente da talune pedisseque decisioni quali la n. 8664 del 2011 e la n. 20787 del 2013, sino alla più recente la n. 16758 del 2016.

2.3 A conclusioni opposte giunge l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 12185 del 2008 laddove, in consapevole contrasto con la prima tesi, si afferma:

“In tema di contenzioso tributario, qualora la notificazione del ricorso introduttivo abbia avuto luogo mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, dev’essere effettuato il deposito presso la segreteria della commissione tributaria decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell’atto da parte del destinatario: la regola, desumibile dall’art. 16, u.c., secondo cui la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione, in quanto volta ad evitare che eventuali disservizi postali possano determinare decadenze incolpevoli a carico del notificante, si riferisce infatti ai soli termini entro i quali la notificazione stessa deve intervenire, ed avendo carattere eccezionale non può essere estesa in via analogica a quelli per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale, trovando in tal caso applicazione il principio generale secondo cui la notificazione si perfeziona con la conoscenza legale dell’atto da parte del destinatario”.

2.4 L’orientamento emerso del 2008 è riassunto e seguito dalla sentenza n. 9173 del 2011. Tale decisione premette che nel processo tributario le notificazioni sono fatte secondo le norme dell’art. 137 c.p.c. e segg. (art. 16, comma 2). Tuttavia esse possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico (senza busta) raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3). La disciplina della fase introduttiva prevede che il ricorso è proposto mediante notifica a norma dei commi 2 e 3 del precedente art. 16 (art. 20, comma 1). Qualunque notificazione a mezzo del servizio postale, prosegue la decisione in esame, si considera fatta nella data di spedizione (art. 16, comma 5) e, quando la spedizione del ricorso è fatta a mezzo posta, il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione (art. 20, comma 2). Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, copia del ricorso spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (art. 22, comma 1); i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5).

Indi, osserva che l’art. 20, comma 2 (“il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione”) riproduce sì l’esordio dell’art. 16, comma 5 (“qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione”), però quest’ultima norma prosegue stabilendo che “i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”. Siccome il termine di trenta giorni fissato dall’art. 22, per la costituzione in giudizio del ricorrente ha inizio dalla proposizione vale a dire dalla notificazione – del ricorso esso non può che decorrere dalla data di recapito postale dell’atto al destinatario, così come avviene per il termine assegnato per la costituzione della parte resistente (art. 23, comma 1). E’ vero che, ai fini della costituzione dell’attore, l’art. 22 non parla del deposito dell’avviso di ricevimento, mentre menziona, tra gli atti da depositare, la ricevuta di spedizione postale del ricorso, ma ciò sta significare soltanto che il ricorrente si può costituire in giudizio anche prima e indipendentemente dal recapito dell’atto al destinatario, e non che dalla spedizione inizia a decorrere, a pena d’inammissibilità, il termine per costituirsi senza neppure poter conoscere gli esiti della notifica postale.

Rileva, inoltre, che non v’è alcuna ragione logica e giuridica (artt. 3 e 24 Cost.) per distinguere il regime della notifica diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite l’ufficiale giudiziario (come invece fa l’orientamento che s’ispira al precedente del 2004), atteso che in quest’ultimo caso è pacifico che il termine per la costituzione del ricorrente decorre dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario (anche in caso di notifica a mezzo del servizio postale), dovendo essere depositato l’originale del ricorso notificato a norma dell’art. 137 c.p.c. e segg.. Del resto, in un procedimento a carattere impugnatorio come il processo tributario, non può non valere il principio generale, più volte affermato riguardo agli artt. 347 e 165 c.p.c., secondo cui il termine per la costituzione decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di gravame nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione (cfr., nel processo civile, Cass. n. 9329 del 2010). Dunque, per tale via si riconduce a unità l’intera disciplina della fase introduttiva del processo tributario, con una pluralità di modi che valorizzano comunque la ricezione dell’atto da parte del destinatario, sia con notifica tramite l’ufficiale giudiziario (originale dell’atto notificato), sia mediante consegna diretta all’amministrazione (ricevuta di deposito), sia per raccomandata con avviso di ricevimento.

Infine, conclude che l’orientamento accolto è coerente sia ai principi di semplificazione del processo tributario espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 520 del 2002, sia ai principi sull’osservanza dei termini posti a carico del notificante fin dal momento in cui l’atto è consegnato per la notifica e sul consolidarsi degli effetti al momento della ricezione dell’atto sanciti dalla Corte Costituzionale nelle decisioni n. 28 e n. 107 del 2004.

2.5 Tale secondo e maggioritario orientamento è seguito da altre decisioni immediatamente successive (conf. nn. 18373 – 16565-14010 – 10816 – 10815 – 4002 del 2012; n. 7645 del 2014) e persino dalla sesta sezione in epoca recente (Cass n. 12027 del 2014; n. 14183 del 2015; n. 18296 del 2015) e recentissima (Cass. n. 19138 del 2016).

3. Tanto premesso queste sezioni unite ritengono di dovere dare continuità al secondo orientamento inaugurato nel 2008 dalla sentenza n. 12185 e seguito nel 2011 dalla sentenza n. 9173 e poi da altre ancora.

3.1 La chiave ermeneutica per soluzione del quesito – se, con riferimento ai ricorsi spediti a mezzo di raccomandata postale, il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante decorra dalla ricezione del plico da parte del destinatario ovvero dalla spedizione del plico medesimo – si muove non solo sul piano dell’interpretazione testuale, teleologica e sistematica, ma anche sul piano della tenuta costituzionale e convenzionale dell’opzione prescelta.

Infatti dalla giurisprudenza della Corte EDU si trae il monito ad ancorare le sanzioni processuali a canoni di proporzionalità (Omar vs. Francia; Be/ler vs. Francia), chiarezza e prevedibilità (Faltejsek vs. Rep. Ceca) e, dunque a far prevalere le interpretazioni dirette a consentire al processo di giungere al suo sbocco naturale (Adreyev vs. Estonia; Reklous & Davourlis vs. Grecia; Efstathiou et autres vs. Grecia), senza enfatizzare un fin de non recevoir non riscontrabile nei dati convenzionali di riferimento dell’art. 6 CEDU (conf. Cass. n. 7645 del 2014). Trattasi, peraltro di disposizione che – a mente dell’art. 117 Cost., comma 1 e riguardo all’irrazionale e discriminante ostacolo all’accesso alla giurisdizione – opera nei confronti del contenzioso fiscale, quanto meno, con riferimento ai processi su sanzioni tributarie aventi copertura convenzionale secondo la Corte EDU (Ferrazzini vs. Italia) e che – a mente dell’art. 6 TUE – opera pure con riferimento alle vertenze sui tributi armonizzati.

Di recente, le sezioni unite, pronunziando in tema di notificazioni, osservano che le forme processuali sono prescritte al fine esclusivo di conseguire lo scopo ultimo del giudizio, consistente nella pronuncia sul merito della situazione controversa, perchè il principio del giusto processo comprende anche il diritto di ogni persona a un giudice che emetta una decisione sul merito della domanda e impone all’interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire tale finalità (Cass., Sez. U., n. 14916 del 2016; conf. Sez. U., nn. 15144 del 2011; 17931 del 2013; 5700 del 2014).

3.2. La riflessione non può che prendere le mosse dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 30, recante la delega al Governo per l’emanazione di decreti legislativi concernenti disposizioni per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario. Il comma 1 della disposizione delegante indica alla lett. era g) il seguente criterio direttivo:

“adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile; in particolare dovrà essere altresì stabilito quanto segue: 1) previsione di una disciplina uniforme per la proposizione del ricorso nei vari gradi di giurisdizione (…) 4) disciplina delle comunicazioni e delle notificazioni con la previsione dell’impiego più largo possibile del servizio postale”.

Quindi, in altre parole, va perseguito l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile con la previsione di una disciplina uniforme per la proposizione del ricorso mediante un assetto delle comunicazioni e delle notificazioni tale da consentire, comunque, l’impiego più largo possibile del servizio postale.

3.3 Il sistema della notificazione e della costituzione introduttiva del giudizio, al di fuori dei procedimenti che s’instaurano con ricorso previamente depositato (es. processo del lavoro), è normalmente basato sul principio del rispetto di un termine prefissato e decorrente dalla notifica materiale dell’atto al convenuto, intimato o appellato.

Nel processo civile ordinario l’art. 165 c.p.c., stabilisce che l’attore, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto, deve costituirsi in giudizio depositando in cancelleria la nota d’iscrizione a ruolo e il proprio fascicolo contenente l’originale della citazione, mentre se la citazione è notificata a più persone, l’originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione. Inoltre l’art. 369 c.p.c., stabilisce che il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte di cassazione, a pena d’improcedibilità, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto. Secondo dottrina e giurisprudenza pressochè unanimi nell’ordinario processo civile di cognizione e nel giudizio di legittimità il termine finale per la costituzione della parte attrice o ricorrente si computa dalla data in cui si perfezione la notifica nei confronti della parte convenuta o intimata. Infatti si recentemente ribadito, in tema di appello civile, che “Il termine per la costituzione dell’appellante, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., in relazione all’art. 165 c.p.c., decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di appello nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione” (Cass. n. 1662 del 2016 e n. 9329 del 2010; conf. n. 10837 del 2007 anche riguardo al deposito del ricorso per cassazione).

3.4 Analoga disciplina è contenuta per il processo amministrativo nell’art. 45 del relativo Codice, laddove stabilisce che “Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario” (conf. Cons. Stato, Sez. 4, 17.1.2017, n. 137).

Similmente si esprime per la giustizia contabile l’art. 180 del relativo Codice, laddove stabilisce che “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo l’atto di impugnazione deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione, unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni”.

Non diverso è pure il funzionamento della Corte Costituzionale laddove la L. 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 31 e 32, prevede che il ricorso del Governo contro leggi regionali e della Regione contro leggi statali deve essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro il termine di dieci giorni dalla notificazione.

3.5 Nel processo tributario le notificazioni sono fatte, in primo luogo, secondo le norme dell’art. 137 c.p.c. e segg. (art. 16, comma 2), col ministero dell’ufficiale giudiziario o di altro soggetto equiparato, quali il messo comunale e il messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria (art. 16, comma 4; cfr. Cass n. 4517 del 2013) e l’avvocato autorizzato dall’ordine forense (Cass. n. 22639 del 2014). In proposito la giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere che il termine per la costituzione del ricorrente dinanzi alle commissioni tributarie decorre, ove la notificazione del ricorso sia avvenuta tramite l’ufficiale giudiziario, dalla ricezione di quell’atto da parte del destinatario (Cass. n. 23589 del 2016 e giur. ivi cit.), atteso che questa ipotesi non è sottratta alla regola generale per la quale i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5). Dunque, per le notifiche col ministero di agente notificatore la disciplina dettata per il processo tributario non si discosta affatto da quella ordinariamente prevista per il processo civile di cognizione, risultando così osservata la previsione della legge-delega di tendenziale adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile (art. 30 cit.).

Consequenzialmente, qualora la notificazione sia eseguita col ministero dell’ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale, la parte può, anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento, farsi consegnare dall’ufficiale giudiziario l’originale dell’atto per ottenere l’iscrizione della causa a ruolo o per eseguire il deposito del ricorso o controricorso nei giudizi di cassazione (Cass. n. 18087 del 2004); peraltro, la causa non può essere messa in decisione se non sia allegato agli atti l’avviso di ricevimento, salvo che il convenuto si costituisca (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 5, comma 3).

3.6 Inoltre, nel processo tributario, la notificazione del ricorso introduttivo e dell’appello, in forza del rinvio operato dagli artt. 20 e 53 cit. al precedente comma 3 dell’art. 16 cit., può essere effettuata all’amministrazione finanziaria e all’ente locale mediante consegna all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia (Cass. n. 22576 del 2004). Anche in questo caso, ovviamente, il termine per la costituzione del ricorrente dinanzi alle commissioni tributarie decorre dalla materiale e attestata consegna dell’atto all’ufficio destinatario.

3.7 Infine, in applicazione di altra direttiva della legge-delega, le notificazioni degli atti introduttivi dei giudizi dinanzi alle commissioni tributarie possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3). La disciplina della fase introduttiva prevede che il ricorso è proposto mediante notifica a norma dei commi 2 e 3 del precedente art. 16 (art. 20, comma 1). Qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione (art. 16, comma 5) e, quando la spedizione del ricorso è fatta a mezzo posta, il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione (art. 20, comma 2). Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, copia del ricorso spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (art. 22, comma 1); i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5). Il servizio postale in parola è quello cd. “universale”, fornito in esclusiva da Poste Italiane (D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 4; conf. Cass. n. 19467 del 2016 e n. 27021 del 2014).

3.8 Tale disciplina va correlata alla previsione della legge-delega di tendenziale adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile. Dunque, non v’è alcuna ragione logica e giuridica (artt. 3, 24, 76 Cost.) per distinguere il regime della notifica diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale. Il rilievo che l’art. 22, non vincola la costituzione del ricorrente al contestuale deposito dell’avviso di ricevimento è argomento solo suggestivo. Infatti la menzione espressa, tra gli atti da depositare, della sola ricevuta di spedizione postale diretta del ricorso, rappresenta univoco indice rivelatore del solo fatto che il ricorrente si possa costituire anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento, così come nella notifica ex art. 149 c.p.c., il notificante può farsi consegnare dall’ufficiale giudiziario l’originale dell’atto per ottenere l’iscrizione della causa a ruolo anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento a mente della L. n. 890, art. 5, comma 3.

3.9 Del resto non è privo d’importanza il rilievo che costringere la parte a costituirsi senza neppure conoscere gli esiti della notifica del ricorso non trova giustificazione logica, ben potendo i notificante, in caso di notificazione non andata a buon fine per ragioni a lui non imputabili, voler conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria riattivando il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare gli strettissimi limiti di tempo recentemente precisati dalle sezioni unite (Cass., Sez. U., n. 14594 del 2016) e senza essere obbligato, anche se solo dal 7 luglio 2011, al forse inutile versamento del contributo unificato (introdotto con la modifica del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 9).

3.10 I principi di semplificazione del processo tributario enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 520 del 2002 restano così pienamente osservati in coerenza con l’art. 30 della legge-delega, così riconducendo a unità l’intera disciplina della fase introduttiva dinanzi alle commissioni tributarie con modalità sì diversificate ma che valorizzano sempre la ricezione dell’atto da parte del destinatario, sia con notifica tramite l’ufficiale giudiziario (originale dell’atto notificato) anche ai sensi dell’art. 149 c.p.c. (avviso di ricevimento), sia mediante consegna diretta all’amministrazione (ricevuta di deposito), sia per plico raccomandato senza busta (avviso di ricevimento). Inoltre è pienamente salvaguardata l’osservanza dei termini d’impugnazione a carico del notificante fin dal momento in cui l’atto è consegnato per la notifica, così come è garantito il consolidamento degli effetti alla data della ricezione dell’atto (Corte Cost. n. 28 e n. 107 del 2004).

3.11 Tali conclusioni non sono inficiate dal rilievo che il procedimento dinanzi alle commissioni tributarie, al fine di soddisfare esigenze di speditezza e deflazione, contempli una specifica fase processuale dedicata all’esame preliminare del ricorso (artt. 27 e segg. proc. trib.) nell’ambito del quale è monocraticamente affidata al presidente, la dichiarazione d’inammissibilità nei casi espressamente previsti, “se manifesta”, con decreto reclamabile innanzi alla commissione; tale esame avviene una volta “scaduti i termini per la costituzione in giudizio delle parti” (art. 27) e cioè una volta che sia scaduto il termine per la costituzione in giudizio anche del resistente che, a mente dell’art. 23, è di sessanta giorni dalla data in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale. Il che non collide col ritenere che la costituzione del ricorrente avvenga nei trenta giorni dalla stessa data.

3.12 Invero, come è stato osservato in dottrina, dal fatto che la legge non prevede che il ricorrente debba depositare l’avviso di ricevimento ai fini della costituzione in giudizio si può desumere solo, sul piano logico e giuridico, che egli possa costituirsi in giudizio prima della ricezione dell’atto da parte del destinatario, non già che il termine di costituzione decorre dalla data della spedizione, laddove la notificazione è un procedimento che si conclude con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (o con l’evento che la legge considera equipollente alla ricezione).

Ciò è confermato dalla più recente disciplina del cd. reclamo/mediazione (art. 17-bis proc. trib.) laddove per le controversie non superano una certa soglia di valore, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa, disponendosi espressamente che “il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica, entro il quale deve essere conclusa la procedura” (comma 2). In tal caso “il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente decorre dalla scadenza del termine di cui al comma 2” e “se la Commissione rileva che la costituzione è avvenuta in data anteriore rinvia la trattazione della causa per consentire l’esame del reclamo” (comma 3). Il che lascia evidentemente intendere come, ai fini della procedura di reclamo/mediazione, s’individui uno spatium deliberandi di novanta giorni che decorre dal perfezionamento della notifica con la ricezione del ricorso, onde far decorrere dalla scadenza un nuovo termine di trenta giorni per la costituzione del ricorrente.

3.13 E’ appena il caso di rilevare che, seguendo il primo orientamento, il diverso regime di costituzione per la sola notificazione diretta mediante raccomandata postale con avviso di ricevimento colliderebbe (a) con gli artt. 3 e 24 Cost., riguardo alle altre forme di notificazione previste per il processo tributario e in particolare con quella ex art. 149 c.p.c.; (b) con gli artt. 3 e 24 Cost., riguardo alla circostanza al diverso computo del termine per la costituzione nelle vertenze fiscali obbligatoriamente soggette a reclamo/mediazione; (c) con l’art. 76 Cost., riguardo al tendenziale rispetto dei principi del processo civile ordinario previsto dalla legge-delega del 1991; (d) con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 CEDU, riguardo all’irrazionale e discriminante ostacolo all’accesso alla giurisdizione (con riferimento ai processi riguardanti sanzioni tributarie aventi copertura convenzionale); (e) con l’art. 6 TUE sempre in relazione all’art. 6 CEDU (con riferimento al contenzioso sui tributi armonizzati).

3.14 Non resta, quindi, che affermare il seguente principio di diritto: “Nel processo tributario, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante, che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario (o dall’evento che la legge considera equipollente alla ricezione)”.

4. Il secondo interrogativo rimesso alle sezioni unite riguarda la rilevanza o meno, ai fini della ritualità della costituzione del ricorrente nel processo tributario, dell’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione postale diretta del ricorso quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico raccomandato.

4.1. Secondo un primo indirizzo – in cui si annoverano le pronunce della quinta sezione nn. 24182 del 2006, 1025 del 2008, 7373 – 8664 – 10312 del 2011, 20787 del 2013, 23234 del 2014, oltre a quelle dell’omologa articolazione della sesta sezione nn. 12932 e 18121 del 2015 – la rituale costituzione in giudizio del ricorrente richiede il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita, dell’originale del ricorso notificato o di copia dello stesso spedito per posta, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale. In difetto il ricorso sarebbe inammissibile nè esso sarebbe sanabile per via della costituzione del convenuto. Tale orientamento è seguito da numerose decisioni della quinta sezione (es. sent. nn. 24182 del 2006; 1025 del 2008; 7373 – 8664 – 10312 del 2011; 20787 del 2013; 23234 del 2014) e dell’omologa articolazione della sesta sezione (es. ord. nn. 1293218121 del 2015). Tanto veniva richiamato anche nella pronunzia n. 12932 del 2015, che a sua volta richiamava la decisione n. 20786 del 2014.

Nell’indirizzo in esame viene, talvolta, in rilievo la considerazione che la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere effettuata la notifica senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, regolante le notificazioni degli atti giudiziari a mezzo del servizio postale. Pertanto sarebbe priva di alcun valore probatorio la data di spedizione della raccomandata risultante dall’avviso di ricevimento in quanto priva di fede privilegiata e non accompagnata da alcuna attestazione da parte dell’ufficiale postale, in quanto l’apposizione di alcune indicazioni non sarebbe riconducibile all’agente postale, visto che la disciplina settoriale prescrive che gli avvisi di ricevimento siano predisposti dagli interessati.

4.2 Secondo un altro indirizzo il deposito, all’atto della costituzione, della ricevuta di spedizione è surrogabile mediante il deposito, sempre all’atto della costituzione, della ricevuta di ritorno, atteso che anche l’avviso di ricevimento del plico raccomandato riporta la data della spedizione, per cui il relativo deposito deve ritenersi perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria che la norma assegna all’incombente. Si osserva, inoltre, che l’avviso di ricevimento del plico costituisce, pur sempre, atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c.. Pertanto le indicazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario. Ne deriva che la presenza o meno in atti della ricevuta di spedizione postale del ricorso è processualmente ininfluente ove sia comunque prodotto tempestivamente l’avviso di ricevimento del plico. Tale orientamento ribadito dalle recentissime decisioni n. 19138 e n. 27286 del 2016 è seguito da numerose decisioni della quinta sezione (es. sent. nn. 4615 del 2008; 27991 del 2011; 23593 del 2012; 7645 del 2014; 5376 del 2015) e dell’omologa articolazione della sesta sezione.

5. Sul piano normativo, va premesso che il D.P.R. 12 gennaio 2007, n. 18, dà piena ed intera esecuzione alla novellata Convenzione postale universale che, all’art. 13, prevede il “servizio di raccomandata” e quello supplementare di “avviso di ricevimento per gli invii della posta-lettere raccomandati o a consegna attestata”.

Indi il D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, chiarisce che s’intende per “invio raccomandato (il) servizio che consiste nel garantire forfettariamente contro i rischi di smarrimento, furto o danneggiamento e che fornisce al mittente una prova dell’avvenuto deposito dell’invio postale e, a sua richiesta, della consegna al destinatario” (art. 1). Precisa che “le persone addette ai servizi postali (…) sono considerate incaricate di pubblico servizio in conformità all’art. 358 c.p.” (art. 18). Stabilisce al fornitore del servizio universale sono riservati “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie” (art. 4).

Il Codice postale (D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156), all’art. 37 prevede: “I mittenti di oggetti raccomandati (…) possono ottenere un avviso di ricevimento mediante il pagamento della relativa tassa”. Indi all’art. 12 (nel testo vigente dal 16 settembre 2003) fissa la regola che “le persone addette ai servizi postali (…) sono considerate pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità degli artr. 357 e 358 c.p.”.

Il Regolamento postale (D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655), all’art. 6 stabilisce: “Gli avvisi di ricevimento, di cui all’art. 37 codice postale, sono forniti gratuitamente dagli uffici postali e sono predisposti dagli interessati”. Inoltre, all’art. 7, precisa: “L’avviso di ricevimento è avviato insieme con l’oggetto cui si riferisce”. Infine, all’art. 8, prescrive: “L’agente postale che consegna un oggetto con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario; se il destinatario rifiuta di firmare, è sufficiente, ai fini della prova dell’avvenuta consegna, che l’agente postale apponga sull’avviso stesso la relativa dichiarazione”.

5.1 Le Condizioni generali del servizio postale di cui al D.M. 9 aprile 2001, all’art. 14, affermano che “posta raccomandata è il servizio che fornisce al mittente una ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare il percorso dell’invio”. Inoltre, all’art. 17, stabiliscono che “Il mittente di invii di posta raccomandata o assicurata può chiedere che gli venga inviata conferma dell’avvenuto recapito, con avviso di ricevimento ordinario o prioritario o altro strumento, anche telematico, dietro pagamento della tariffa corrispondente allo strumento prescelto”. Infine, all’art. 33, prescrivono che “il destinatario di un invio a firma con avviso di ricevimento deve sottoscrivere anche l’avviso” e che “se la sottoscrizione è rifiutata, la prova della consegna è fornita dall’operatore postale, quale incaricato di pubblico servizio”.

Successivamente, le Condizioni generali del servizio postale di cui al D.M. n. 33894 del 2008, all’art. 2, definiscono “la posta raccomandata come servizio per la spedizione di invii di corrispondenza verso qualsiasi località del territorio nazionale ed estero che fornisce al mittente la ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare lo stato di lavorazione e la percorrenza, anche in corso, dell’invio”; indi precisano che “Su richiesta del mittente Poste Italiane fornisce i servizi accessori di cui all’art. 5”. Tra questi v’è l’avviso di ricevimento, cioè “la ricevuta che, compilata dal mittente all’atto della spedizione e firmata dal destinatario all’atto della consegna, viene recapitata al mittente ai fini della conferma dell’avvenuta consegna”.

All’art. 10 le stesse Condizioni generali indicano nel dettaglio: “Ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario, e precisamente: nome e cognome, via, piazza o altro; numero civico (scala ove necessario per l’individuazione del punto di recapito); località e codice di avviamento postale esatto. Qualora l’indirizzo non sia completo ed esatto, Poste Italiane non garantisce la corretta esecuzione del recapito. Il mittente confeziona gli invii postali con modalità idonee in rapporto al peso e al contenuto e comunque in modo da evitare qualunque rischio di danni a persone o cose. Le modalità di confezionamento degli invii postali sono opportunamente pubblicizzate da Poste Italiane. Per alcuni servizi è previsto l’utilizzo di specifici moduli di accettazione”.

Poi all’art. 20, per invii a firma ivi compresi gli invii raccomandati, le medesime Condizioni generali stabiliscono: “Il recapito è effettuato tramite consegna al destinatario o ad altra persona individuata ai sensi degli artt. 26, 27, 28, e 29, previa firma per ricevuta. In caso di impedimento alla firma da parte del destinatario, l’attestazione dell’avvenuta consegna è fornita dall’addetto al recapito in qualità di incaricato di pubblico servizio. Il destinatario di un invio a firma con avviso di ricevimento deve sottoscrivere anche l’avviso. Se la sottoscrizione è rifiutata, la prova della consegna è fornita dall’addetto al recapito, quale incaricato di pubblico servizio.

Analogamente, la prova della consegna è fornita dall’addetto al recapito nel caso di invii multipli diretti allo stesso destinatario, per i quali la sottoscrizione di ciascun avviso di ricevimento contestualmente alla consegna risulti eccessivamente onerosa”.

5.2. Da ultimo, giusta delibera dell’AGCOM n. 385/13/CONS del 20 giugno 2013 (G.U. n. 165 del 16 luglio 2013), sono entrate in vigore le più recenti Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste Italiane. L’art. 2, stabilisce la posta raccomandata è il servizio per la spedizione di invii di corrispondenza verso qualsiasi località del territorio nazionale ed estero che fornisce al mittente la ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare lo stato di lavorazione e la percorrenza, anche in corso, dell’invio. Aggiunge che, su richiesta del mittente, Poste Italiane fornisce i servizi accessori di cui all’art. 5. Tra questi è contemplato l’avviso di ricevimento, ovverosia “la ricevuta che, compilata dal mittente all’atto della spedizione e firmata dal destinatario all’atto della consegna, viene recapitata al mittente ai fini della conferma dell’avvenuta consegna”. L’art. 10, precisa: “Ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario, e precisamente: nome e cognome, via, piazza o altro; numero civico (scala ove necessario per l’individuazione del punto di recapito); località e codice di avviamento postale esatto”. L’art. 16, stabilisce che l’accettazione può avvenire “senza materiale affrancatura mediante apposizione di codice identificativo dello specifico rapporto contrattuale”.

5.3 Le disposizioni normative e le varie condizioni generali che disciplinano la posta raccomandata non indicano espressamente da chi e come debba essere compilata quella parte dell’avviso di ricevimento contenente il numero, il giorno e l’ufficio di spedizione del plico, dati che, invece, nel modulo per l’accettazione della raccomandata sono inequivocabilmente riservati all’ufficio postale di partenza.

Però l’art. 10 delle Condizioni generali, nelle ultime versioni, afferma che “ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario”. Ciò costituisce un indubbio indice rivelatore del fatto che, laddove l’art. 5 delle stesse Condizioni parla di “ricevuta (…) compilata dal mittente all’atto della spedizione”, non si può che riferire alle indicazioni d’indirizzo necessarie “ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale”, in disparte l’apposizione di codice identificativo dello specifico rapporto contrattuale a mente dell’art. 16. Il che trova concreto e obiettivo riscontro nella prassi operativa del fornitore del servizio postale universale (Poste Italiane) che individua sul retro dell’avviso di ricevimento (mod. 23-I/O, ed. 2015) e con la dicitura “compilazione a cura del mittente” i campi rimessi all’iniziativa di quest’ultimo, cioè i servizi richiesti e l’indirizzo del destinatario, e non – come del resto è fin troppo ovvio – i campi relativi a numero, data e ufficio di spedizione.

Ne deriva che l’agente postale addetto al recapito non si limita a certificare la consegna al destinatario di un plico qualsiasi ma proprio di quel plico che reca lo stesso numero e la stessa data di spedizione indicati nell’avviso di ricevimento e questo, in tanto risponde al servizio supplementare previsto dalla Convenzione postale universale per gli invii raccomandati o a consegna attestata, in quanto vi sia garanzia di conformità tra gli estremi che identificano la spedizione nella ricevuta postale e nell’avviso di ricevimento.

5.4 La giurisprudenza in materia di formalità postali è nel senso che bollettini di spedizione e registri di raccomandate e pacchi in contrassegno costituiscono atti pubblici poichè attestano l’attività svolta dall’impiegato postale (Cass. pen., 29.11.1983 – 21.3.1984, n. 2572, Vicinanza, Rv. 163258), il quale riveste compiti pubblicistici. In particolare, il bollettino di spedizione della raccomandata è ritenuto atto pubblico anche per la parte riservata all’utente del servizio, giacchè ha efficacia documentale in ordine alla relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi e il destinatario del plico, nonchè riguardo all’attività compiuta dal pubblico ufficiale accettante nell’esercizio della sua funzione (Cass. pen., 25.5-3.7.1976, n. 7563, Cantarella, Rv.136929; conf. 9.2-3.7.1989, n. 9076, Simoncini, Rv. 181710; v. sulla ricevuta postale quale atto pubblico Cass. n. 359 del 2002). Pure il registro della corrispondenza raccomandata in arrivo è considerato atto pubblico, essendo destinato a provare la consegna dei plichi ai destinatari nonchè l’apposizione delle firme da parte loro in presenza del pubblico ufficiale (Cass. pen., 2-27.4.1981, n. 3866, Annarumi, Rv. 148563), al pari dell’avviso di ricevimento (Cass. pen., 23.1-7.2.2003, n. 6274, PM in proc. Chianese, Rv. 223567).

5.5 Nonostante la trasformazione in società per azioni dell’Ente Poste, permane tuttora in capo all’agente postale l’esercizio di poteri certificativi propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione della connotazione pubblicistica della disciplina normativa che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse finalità pubbliche. Infatti prevale, ai fini della qualifica di pubblico ufficiale in capo all’agente, il criterio oggettivo – funzionale di cui agli artt. 357 e 358 c.p., in riferimento alla natura del servizio postale esercitato (Cass. pen., 27.3.2003, n. 25509, Rapanà, Rv. 224982; conf. Cass. pen., 14.12.1999, n. 3282, Ferrara).

5.6 Sul versante del contenzioso fiscale, l’art. 16, comma 3, proc. trib. – laddove prevede che le notificazioni possano essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale, mediante spedizione dell’atto in plico (senza busta) raccomandato con avviso di ricevimento – abilita il notificante alla notificazione in via diretta, cioè senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ma pur sempre con quella dell’ufficiale postale), e, quindi, con modalità semplificate di notificazione, che, data anche la spiccata specificità del processo tributario (cfr. Corte Cost., sent. n. 18 del 2000), non violano gli artt. 3 e 24 Cost.. Nella notificazione diretta a mezzo del servizio postale universale l’avviso di ricevimento del plico costituisce di norma atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c.; pertanto le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario (Cass. n. 17723 del 2006; conf. n. 20135 del 2014, in motivazione). Ne consegue che, al fine di contestare la veridicità delle attestazioni contenute negli avvisi di ricevimento, vale di norma lo strumento della querela di falso (cfr. Cass. n. 4919 del 1981) e le relative attestazioni possono godere, in tesi generale, di fede privilegiata (Cass. nn. 3065 e 11452 del 2003; 8032 del 2004; 8500 del 2005). Il che, tuttavia, richiede non poche precisazioni ai fini che qui interessano.

5.7 E’ pacifico che il bollettino di spedizione della raccomandata (ora mod. 22-R), oltre alla parte riservata all’utente del servizio (indirizzi del mittente e del destinatario; servizi richiesti), reca un’altra parte riservata all’ufficio postale di partenza contenente il timbro, la data e la firma dell’ufficiale postale all’epoca della lavorazione manuale della corrispondenza e più di recente reca il numero della raccomandata con il codice a barre e la stampigliatura meccanografica dei dati essenziali delle spedizione con giorno, ora, ufficio di partenza, etc.. Questi dati sono attualmente riportati con stampa meccanografica anche sull’avviso di ricevimento (ora mod. 23-I/O), precompilato dal mittente solo con l’indirizzo proprio e con quello del destinatario.

5.8 La stampigliatura con macchina numeratrice e datatrice non fa perdere ai documenti postali in generale la natura di atti pubblici, ancorchè privi della sottoscrizione del pubblico ufficiale che ha presieduto alle operazioni, pur sempre identificabile al pari dell’ufficio emittente (Cass. pen., 19.2-29.4.1985, n.4073, Santin, Rv.168923), poichè sin dai primi anni ‘80 la normativa postale (es. D.P.R. 28 aprile 1981, n. 336, art. 1; R.D. 30 maggio 1940, n. 775, art. 102-bis) si è orientata nel non richiedere più la convalida con bollo e firma per i propri atti automatizzati nei rapporti con l’utenza (Cass. pen., 24.220.4.1988, n. 4799, Toffalini, Rv. 178183).

Ne deriva che il tracciamento automatizzato con le macchine operatrici assicura la relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi ed il destinatario del plico, garantendo l’identità dei dati relativi a giorno e modi di spedizione tanto sul modulo per l’accettazione della raccomandata quanto sull’avviso di ricevimento, entrambi sempre generati dal sistema operativo di Poste Italiane.

5.9 In epoca più risalente e, comunque, laddove non vi sia, per qualsivoglia ragione, l’inserimento automatico e meccanografico dei dati di spedizione sull’avviso di ricevimento, resta compito tipico dell’agente postale – per osservare quelle ineludibili esigenze di certezza legale connaturate alla posta raccomandata secondo la normativa nazionale, internazionale e contrattuale – l’annotazione a propria cura o comunque il controllo del numero della raccomandata e della sua data di spedizione. Infatti solo la conformità e la circolarità dei rispettivi dati identificativi consente di collegare tra loro il modulo per l’accettazione della raccomandata, il plico postale e l’avviso di ricevimento. Dunque, ove su quest’ultimo sia apposto dall’agente postale almeno il timbro a secco dell’ufficio accettante, la data ivi stampigliata attesta il giorno di spedizione perchè la timbratura eseguita in un pubblico ufficio postale equivale ad attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui la timbratura è stata eseguita (Cass. n. 17335 del 2015; conf. n. 8438 del 2012).

La giurisprudenza chiarisce, sul punto, che la veridicità dell’apposizione della data mediante il timbro postale a calendario è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, poichè si riferisce all’attestazione di attività compiute dal pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni in relazioni alla ricezione (Cass. pen., 14.4.1994 – Cass. pen. 1996, 93, s.m.). Infatti, riguardo al timbro postale mancante di firma si ritiene che si ha atto pubblico in senso tecnico giuridico pur in difetto di sottoscrizione dell’atto stesso, esistendo la possibilità d’identificarne la provenienza e non richiedendone la legge la sottoscrizione ad substantiam (Cass. pen., 10.1. 1989 – Cass. pen. 1991, 1, 418, s.m.; conf. 1.3.1985 – Cass. pen. 1986, 1083, s.m.; 27.5.1982 – Cass. pen. 1983, 1980, s.m.; v. sull’accettazione del plico Cass. pen., 27.1.1987 – Cass. pen. 1988, 826, s.m.).

5.10 Si è pure ritenuto che, ai fini del processo tributario, la data di presentazione delle raccomandate, consegnate all’ufficio postale, risultante dalla copia dell’elenco delle raccomandate consegnate per la spedizione alle Poste Italiane, che annovera il codice a barre identificativo e che reca il timbro postale, è certa e validamente attestata, risultando da atto equipollente a quelli pure contenenti lo stesso timbro, sia che questo sia stato apposto sul piego postale, sia che lo sia stato sulla busta della raccomandata, secondo una prassi adottata dagli uffici postali, di notoria conoscenza, e riconducibile ad una nozione costituzionalmente adeguata delle dette disposizioni, anche in rispondenza della nozione ristretta delle inammissibilità processuali, posta a cardine interpretativo del contenzioso fiscale dalla Corte costituzionale (Cass. n. 24568 del 2014; conf. n. 7312 del 2006).

5.11 In conclusione, ove sull’avviso di ricevimento manchino in tutto in parte – ovvero siano d’incerta paternità – i dati alfanumerici sulla data e l’ufficio postale di accettazione, essi sono surrogati, con efficacia di atto pubblico anche in difetto di sottoscrizione, dal timbro datario dell’ufficio postale di partenza che attesti l’avvenuta consegna per l’inoltro in forme e modi equipollenti a quelli della ricevuta di spedizione.

5.12 Diverso e più complesso è il caso in cui numero, data e ufficio postale di accettazione non siano riportati con stampigliatura meccanografica dall’ufficio postale ovvero i dati alfanumerici sulla data e l’ufficio di accettazione non siano asseverati da timbro postale ma siano semplicemente manoscritti o comunemente dattiloscritti.

Come si è visto, il numero della raccomandata non può che essere verificato e/o attribuito dall’agente postale al momento della accettazione del plico, dovendosi documentare con certezza legale la relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi ed il destinatario del plico, nonchè l’attività compiuta dall’impiegato accettante nell’esercizio della sua funzione in giorno e ufficio ben definiti. Il che, inserendosi in una precisa sequenza procedimentale diretta a documentare le attività compiute in relazione alla accettazione del plico da spedire, assume sì le connotazioni dell’atto pubblico in senso tecnico giuridico pur in difetto di sottoscrizione (cfr. in gen. Cass. pen., 7.6-14.8.2001, n. 31696, Sevi A., Rv. 220027), però solo laddove esista la concreta possibilità d’identificare sull’avviso di ricevimento la certa provenienza delle attestazioni su giorno e numero della raccomandata (oltre che sull’ufficio postale accettante).

5.13 E’ vero che, secondo il Regolamento postale, l’avviso di ricevimento è avviato insieme all’oggetto cui si riferisce (art. 7) e che l’agente che consegna un plico con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario (art. 8, comma 1), provvedendo a rispedire subito all’interessato la ricevuta così completata (art. 8, comma 2). Però ciò comporta unicamente che, in mancanza di tracciamento meccanografico automatizzato e/o di timbratura di asseveramento, le indicazioni su data, ufficio e numero di spedizione che siano manoscritte o comunemente dattiloscritte sull’avviso potrebbero essere valutate sul piano indiziario. Ma un riscontro di tal genere non è sufficiente riguardo alle notifiche processuali che, incidendo su interessi di rango costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.), necessitano di quella certezza pubblica che è propria degli atti fidefacenti e non altrimenti surrogabili (Cass. n. 25285 del 2014, n. 19387 del 2012). A maggior ragione ciò vale allorquando l’avviso di ricevimento sia chiamato a supplire la mancanza in atti della prescritta ricevuta postale di spedizione dell’atto introduttivo dei vari gradi del processo tributario di merito, ferma restando, però, la c.d. “prova di resistenza” se la data di ricezione del ricorso, essendo asseverata dall’agente postale addetto al recapito in giorno anteriore alla scadenza del termine per impugnare l’atto o appellare la sentenza, dia obiettiva certezza pubblica della tempestiva consegna del plico all’ufficio postale da parte del notificante per l’inoltro al destinatario.

5.14 Tirando le fila del discorso sin qui condotto può essere enunciato il seguente principio di diritto:

“Nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso o dell’appello, che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente o l’appellante, al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purchè nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario; solo in tal caso l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione, laddove, in mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso o dell’appello, unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto o della sentenza”.

6. Riguardo alla specifica fattispecie in esame e in applicazione dei principi di diritto enunciati sub p. 3.14 e p. 5.14, si devono trarre le seguenti conclusioni finali:

a) La costituzione della parte appellante, in data 21 aprile 2011, è sicuramente tempestiva perchè il relativo termine di trenta giorni decorre dalla ricezione in data 28 marzo 2011 della raccomandata contenente l’appello;

b) L’avviso di ricevimento, recante data di spedizione (21 marzo 2011) semplicemente manoscritta e non asseverata dall’ufficio postale, non è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria, ai fini del riscontro della tempestività dell’appello, che la legge assegna alla ricevuta di spedizione non prodotta dal fisco;

c) La ricezione della raccomandata contenente l’appello (28 marzo 2011) è giuridicamente irrilevante, essendo avvenuta quando il termine per impugnare la sentenza del 24 settembre 2010 era irrimediabilmente spirato in forza del testo novellato dell’art. 327 c.p.c. (applicabile ratione temporis trattandosi giudizio introdotto il 13 novembre 2009);

d) Il ricorso per cassazione contro la sentenza d’inammissibilità dell’appello deve, pertanto, essere rigettato con correzione della motivazione (art. 384 c.p.c.);

e) Nulla va disposto per le spese del giudizio di legittimità mancando difese della controparte intimata;

f) Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater (nel caso di prenotazione a debito il contributo non è versato ma prenotato al fine di consentire, in caso di condanna della controparte alla rifusione delle spese in favore del ricorrente, il recupero dello stesso in danno della parte soccombente).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2017


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 21/03/2017) 29/05/2017, n. 13452

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26585-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COSTRUZIONI S. S.A.S. DI S.E. E C., S.A., elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 287, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IORIO, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE FALCONE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di CATANZARO, depositata in data 18/04/2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/03/2017 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso, in subordine questione di costituzionalità;

uditi gli avvocati Raffaella Ferrando per l’Avvocatura Generale dello Stato e Giuseppe Falcone.

Svolgimento del processo
1. A seguito di ordinanza interlocutoria n. 18000 emessa dalla quinta sezione civile il 14 settembre 2016 il primo presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite sulla questione relativa all’individuazione, nel processo tributario, del dies a quo del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell’appellante in caso di notificazione postale diretta e sulla rilevanza, ai fini della ritualità di tale costituzione e dell’ammissibilità del ricorso e dell’appello, dell’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico.

2. Era accaduto, infatti, che con due avvisi di accertamento, sul presupposto maggiori ricavi non dichiarati e derivanti da una vendita immobiliare a tali coniugi R., l’Agenzia delle entrate aveva chiesto per l’anno 2005 il pagamento di maggiori imposte alla s.a.s. Costruzioni S. di E.S. & C. (IRAP e IVA) e al socio accomandante (49%) S.A. (IRPEF). Società e socio accomandante avevano impugnato gli atti impositivi poi annullati dalla commissione tributaria provinciale di Cosenza con separate sentenze del 13 gennaio 2011.

3. Per la riforma di tali decisioni l’Agenzia delle entrate adiva, in data 24 giugno 2011, la commissione tributaria regionale della Calabria che, riuniti gli appelli del fisco, li ha dichiarati inammissibili per mancato deposito nel termine previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, (d’ora in poi proc. trib.) delle fotocopie delle ricevute della spedizione delle raccomandate con le quali gli appelli erano stati proposti.

4. Per la cassazione di tale decisione l’avvocatura erariale ha proposto ricorso affidato a unico motivo. Ha denunciato che, nel dichiarare inammissibili gli appelli per mancato deposito della fotocopia della ricevuta di invio delle raccomandate, la commissione tributaria regionale ha fatto erronea applicazione di norme di diritto processuali (art. 53, comma 2, e art. 22, comma 1, proc. trib.), laddove ha sostanzialmente negato che fossero idonee provare la spedizione delle raccomandate e la tempestività degli appelli l’avvenuta esibizione degli avvisi di ricevimento riportanti la spedizione del 22 aprile 2011 e la ricezione del 26 aprile 2011, riguardo a sentenze del 13 gennaio 2011 e alla costituzione in giudizio del 24 maggio 2011. Ha osservato che le disposizioni processuali – e quelle del processo tributario in particolare – devono essere interpretate nel senso di limitare inammissibilità irragionevoli, anche in funzione del principio generale del raggiungimento dello scopo. Inoltre la difesa erariale ha lamentato che il giudice d’appello ha trascurato la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata fide-facente quanto alle indicazioni in esso contenute, ivi compresa la data di spedizione del plico.

5. Le parti private hanno resistito con controricorso e hanno replicato con memoria alla relazione ex art. 380-bis di accoglimento delle tesi erariale avanzando anche istanza di assegnazione della causa alle sezioni unite. Indi, a seguito di ordinanza della sesta sezione, è stata fissata la pubblica udienza innanzi alla quinta sezione che ha rimesso gli atti al primo presidente il quale ha investito le sezioni unite. Le parti si difendono con ulteriori memorie.

Motivi della decisione
1. In via preliminare va evidenziato che il processo è viziato, sin dal primo grado, dall’assenza di S.E. che, quale socio accomandatario e persona fisica, è litisconsorte necessario pretermesso. Infatti dalla sentenza d’appello, dalle difese delle parti e dagli altri atti processuali non risulta la presenza in giudizio del socio accomandatario S.E. (in proprio) ma solo della s.a.s. Costruzioni S. di S.E. & C. (Irap, Iva) e del socio accomandante S.A. (Irpef). Com’è noto l’Irap è imposta assimilabile all’Ilor, in quanto essa ha carattere reale, non è deducibile dalle imposte sui redditi ed è proporzionale, potendosi, altresì, trarre profili comuni alle due imposte dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 17, comma 1, e art. 44. Ne consegue che, essendo l’Irap imputata per trasparenza ai soci, ai sensi dell’art. 5 t.u.i.r., sussiste il litisconsorzio necessario di tutti i soci medesimi nel giudizio di accertamento dell’Irap dovuta dalla società (Cass. Sez. U, n. 10145 del 2012).

1.1 Nella specie il vizio, sanato in parte dalla commissione regionale con la riunione degli appelli della società e del socio accomandante (Cass. n. 3830 del 2010), resta riguardo alla posizione del socio accomandatario quale persona fisica e si estende anche all’accertamento di maggior imponibile Iva a carico della s.a.s. atteso che l’Agenzia procede con unico atto per Irap e Iva evase dalla società, su elementi sostanzialmente comuni. Ne deriva che neppure il profilo dell’imposizione sul valore aggiunto si sottrae al vincolo del simultaneus processus, attesa la concreta inscindibilità logica delle due situazioni (Cass. n. 12236 del 2010).

1.2 Il rilievo di tale profilo, però, presuppone che, riguardo agli appelli dell’Agenzia contro la società e il socio accomandante, non siano fondate le exceptiones litis ingressum impedientes sollevate dalla difesa privata e recepite della commissione regionale nella sentenza contro la quale ricorre la difesa erariale.

2. Il primo interrogativo al quale le sezioni unite sono chiamate a dare risposta è quello se, in riferimento ai ricorsi spediti con raccomandata postale, il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante, di cui all’art. 22, comma 1, e all’art. 53, comma 2, proc. trib. sia da interpretarsi come decorrente dalla ricezione del plico da parte del destinatario ovvero dalla data di spedizione del plico medesimo. Nella giurisprudenza di questa Corte si sono manifestati due orientamenti.

2.1 Il primo e più restrittivo è stato inaugurato dalla sentenza n. 20262 del 2004 secondo la quale il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, atteso che l’art. 22, comma 1, proc. trib. prevede modalità di deposito (copia del ricorso e fotocopia della ricevuta di spedizione della raccomandata postale) che presuppongono solo la spedizione del ricorso e non la sua ricezione e sottrae, quindi, il detto adempimento alla regola di cui all’art. 16, comma 5, secondo periodo, proc. trib. (il quale dispone che i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto e che trova applicazione, fra l’altro, nel caso di deposito del ricorso notificato attraverso ufficiale giudiziario). Affermazioni similari si rinvengono anche nelle pronunzie n. 14246 del 2007, n. 1025 del 2008 e n. 7373 del 2011.

2.2 Quest’ultima riassuntiva decisione osserva che l’art. 22 proc. trib. – richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, comma 2, proc. trib. – richiede, ai fini della rituale costituzione in giudizio del ricorrente, il deposito, non solo di copia del ricorso spedito per posta, ma anche della ricevuta di spedizione dell’atto per raccomandata a mezzo del servizio postale. E la mancata allegazione di detta ricevuta è sanzionata con l’inammissibilità dell’impugnazione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e non sanabile neppure per effetto della costituzione del resistente. Rileva, inoltre, che la ratio di siffatta previsione è da ravvisare nel fatto che la decorrenza del termine di trenta giorni, per la costituzione in giudizio del ricorrente, è normativamente ancorata alla spedizione, e non alla ricezione del ricorso da parte del resistente. Il che si evincerebbe dal fatto che l’art. 22, comma 1, proc. trib. prevede modalità di deposito che presuppongono solo la spedizione del ricorso, e non la sua ricezione, sottraendo, in tal modo, detto adempimento alla regola di cui all’art. 16, comma 5, proc. trib. a tenore del quale i termini che hanno inizio dalla notificazione o comunicazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto. Infine afferma che l’omesso deposito della ricevuta di spedizione verrebbe a incidere sul riscontro della stessa tempestività della costituzione in giudizio dell’appellante, dalla quale la legge fa scaturire l’inammissibilità del proposto gravame. Trattasi di orientamento ripreso successivamente da talune pedisseque decisioni quali la n. 8664 del 2011 e la n. 20787 del 2013, sino alla più recente la n. 16758 del 2016.

2.3 A conclusioni opposte giunge l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 12185 del 2008 laddove, in consapevole contrasto con la prima tesi, si afferma:

“In tema di contenzioso tributario, qualora la notificazione del ricorso introduttivo abbia avuto luogo mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, dev’essere effettuato il deposito presso la segreteria della commissione tributaria decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell’atto da parte del destinatario: la regola, desumibile dall’art. 16, u.c., secondo cui la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione, in quanto volta ad evitare che eventuali disservizi postali possano determinare decadenze incolpevoli a carico del notificante, si riferisce infatti ai soli termini entro i quali la notificazione stessa deve intervenire, ed avendo carattere eccezionale non può essere estesa in via analogica a quelli per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale, trovando in tal caso applicazione il principio generale secondo cui la notificazione si perfeziona con la conoscenza legale dell’atto da parte del destinatario”.

2.4 L’orientamento emerso del 2008 è riassunto e seguito dalla sentenza n. 9173 del 2011. Tale decisione premette che nel processo tributario le notificazioni sono fatte secondo le norme dell’art. 137 cod. proc. civ. e ss. (art. 16, comma 2). Tuttavia esse possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico (senza busta) raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3). La disciplina della fase introduttiva prevede che il ricorso è proposto mediante notifica a norma dei commi 2 e 3 del precedente art. 16 (art. 20, comma 1). Qualunque notificazione a mezzo del servizio postale, prosegue la decisione in esame, si considera fatta nella data di spedizione (art. 16, comma 5) e, quando la spedizione del ricorso è fatta a mezzo posta, il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione (art. 20, comma 2). Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, copia del ricorso spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (art. 22, comma 1); i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5).

Indi, osserva che l’art. 20, comma 2 (“il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione”) riproduce sì l’esordio dell’art. 16, comma 5 (“qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione”), però quest’ultima norma prosegue stabilendo che “i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”. Siccome il termine di trenta giorni fissato dall’art. 22 per la costituzione in giudizio del ricorrente ha inizio dalla proposizione vale a dire dalla notificazione – del ricorso esso non può che decorrere dalla data di recapito postale dell’atto al destinatario, così come avviene per il termine assegnato per la costituzione della parte resistente (art. 23, comma 1). E’ vero che, ai fini della costituzione dell’attore, l’art. 22 non parla del deposito dell’avviso di ricevimento, mentre menziona, tra gli atti da depositare, la ricevuta di spedizione postale del ricorso, ma ciò sta significare soltanto che il ricorrente si può costituire in giudizio anche prima e indipendentemente dal recapito dell’atto al destinatario, e non che dalla spedizione inizia a decorrere, a pena d’inammissibilità, il termine per costituirsi senza neppure poter conoscere gli esiti della notifica postale.

Rileva, inoltre, che non v’è alcuna ragione logica e giuridica (artt. 3 e 24 Cost.) per distinguere il regime della notifica diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite l’ufficiale giudiziario (come invece fa l’orientamento che s’ispira al precedente del 2004), atteso che in quest’ultimo caso è pacifico che il termine per la costituzione del ricorrente decorre dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario (anche in caso di notifica a mezzo del servizio postale), dovendo essere depositato l’originale del ricorso notificato a norma degli artt. 137 cod. proc. civ. e seg.. Del resto, in un procedimento a carattere impugnatorio come il processo tributario, non può non valere il principio generale, più volte affermato riguardo agli artt. 347 e 165 cod. proc. civ., secondo cui il termine per la costituzione decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di gravame nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione (cfr., nel processo civile, Cass. n. 9329 del 2010). Dunque, per tale via si riconduce a unità l’intera disciplina della fase introduttiva del processo tributario, con una pluralità di modi che valorizzano comunque la ricezione dell’atto da parte del destinatario, sia con notifica tramite l’ufficiale giudiziario (originale dell’atto notificato), sia mediante consegna diretta all’amministrazione (ricevuta di deposito), sia per raccomandata con avviso di ricevimento.

Infine, conclude che l’orientamento accolto è coerente sia ai principi di semplificazione del processo tributario espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 520 del 2002, sia ai principi sull’osservanza dei termini posti a carico del notificante fin dal momento in cui l’atto è consegnato per la notifica e sul consolidarsi degli effetti al momento della ricezione dell’atto sanciti dalla Corte Costituzionale nelle decisioni n. 28 e n. 107 del 2004.

2.5 Tale secondo e maggioritario orientamento è seguito da altre decisioni immediatamente successive (conf. nn. 18373-16565-1401010816-10815-4002 del 2012; n. 7645 del 2014) e persino dalla sesta sezione in epoca recente (Cass n. 12027 del 2014; n. 14183 del 2015; n. 18296 del 2015) e recentissima (Cass. n. 19138 del 2016).

3. Tanto premesso queste sezioni unite ritengono di dovere dare continuità al secondo orientamento inaugurato nel 2008 dalla sentenza n. 12185 e seguito nel 2011 dalla sentenza n. 9173 e poi da altre ancora.

3.1 La chiave ermeneutica per soluzione del quesito – se, con riferimento ai ricorsi spediti a mezzo di raccomandata postale, il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante decorra dalla ricezione del plico da parte del destinatario ovvero dalla spedizione del plico medesimo – si muove non solo sul piano dell’interpretazione testuale, teleologica e sistematica, ma anche sul piano della tenuta costituzionale e convenzionale dell’opzione prescelta.

Infatti dalla giurisprudenza della Corte EDU si trae il monito ad ancorare le sanzioni processuali a canoni di proporzionalità (Omar vs. Francia; Beller vs. Francia), chiarezza e prevedibilità (Faltejsek vs. Rep. Ceca) e, dunque a far prevalere le interpretazioni dirette a consentire al processo di giungere al suo sbocco naturale (Adreyev vs. Estonia; Reklous & Davourlis vs. Grecia; Efstathiou et autres vs. Grecia), senza enfatizzare un fin de non recevoir non riscontrabile nei dati convenzionali di riferimento dell’art. 6 CEDU (conf. Cass. n. 7645 del 2014). Trattasi, peraltro di disposizione che – a mente dell’art. 117 Cost., comma 1, e riguardo all’irrazionale e discriminante ostacolo all’accesso alla giurisdizione – opera nei confronti del contenzioso fiscale, quanto meno, con riferimento ai processi su sanzioni tributarie aventi copertura convenzionale secondo la Corte EDU (Ferrazzini vs. Italia) e che – a mente dell’art. 6 TUE – opera pure con riferimento alle vertenze sui tributi armonizzati.

Di recente, le sezioni unite, pronunziando in tema di notificazioni, osservano che le forme processuali sono prescritte al fine esclusivo di conseguire lo scopo ultimo del giudizio, consistente nella pronuncia sul merito della situazione controversa, perchè il principio del giusto processo comprende anche il diritto di ogni persona a un giudice che emetta una decisione sul merito della domanda e impone all’interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire tale finalità (Cass., Sez. U, n. 14916 del 2016; conf. Sez. U., nn. 15144 del 2011; 17931 del 2013; 5700 del 2014).

3.2. La riflessione non può che prendere le mosse dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 30, recante la delega al Governo per l’emanazione di decreti legislativi concernenti disposizioni per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario. Il primo comma della disposizione delegante indica alla lettera g) il seguente criterio direttivo:

“adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile; in particolare dovrà essere altresì stabilito quanto segue: 1) previsione di una disciplina uniforme per la proposizione del ricorso nei vari gradi di giurisdizione (…) 4) disciplina delle comunicazioni e delle notificazioni con la previsione dell’impiego più largo possibile del servizio postale”.

Quindi, in altre parole, va perseguito l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile con la previsione di una disciplina uniforme per la proposizione del ricorso mediante un assetto delle comunicazioni e delle notificazioni tale da consentire, comunque, l’impiego più largo possibile del servizio postale.

3.3 n sistema della notificazione e della costituzione introduttiva del giudizio, al di fuori dei procedimenti che s’instaurano con ricorso previamente depositato (es. processo del lavoro), è normalmente basato sul principio del rispetto di un termine prefissato e decorrente dalla notifica materiale dell’atto al convenuto, intimato o appellato.

Nel processo civile ordinario l’art. 165 cod. proc. civ. stabilisce che l’attore, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto, deve costituirsi in giudizio depositando in cancelleria la nota d’iscrizione a ruolo e il proprio fascicolo contenente l’originale della citazione, mentre se la citazione è notificata a più persone, l’originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione. Inoltre l’art. 369 cod. proc. civ. stabilisce che il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte di cassazione, a pena d’improcedibilità, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto. Secondo dottrina e giurisprudenza pressochè unanimi nell’ordinario processo civile di cognizione e nel giudizio di legittimità il termine finale per la costituzione della parte attrice o ricorrente si computa dalla data in cui si perfezione la notifica nei confronti della parte convenuta o intimata. Infatti si recentemente ribadito, in tema di appello civile, che “Il termine per la costituzione dell’appellante, ai sensi dell’art. 347 cod. proc. civ., in relazione all’art. 165 cod. proc. civ., decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di appello nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione” (Cass. n. 1662 del 2016 e n. 9329 del 2010; conf. n. 10837 del 2007 anche riguardo al deposito del ricorso per cassazione).

3.4 Analoga disciplina è contenuta per il processo amministrativo nell’art. 45 del relativo Codice, laddove stabilisce che “Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario” (conf. Cons. Stato, Sez. 4, 17.1.2017, n. 137).

Similmente si esprime per la giustizia contabile l’art. 180 del relativo Codice, laddove stabilisce che “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo l’atto di impugnazione deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione, unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni”.

Non diverso è pure il funzionamento della Corte Costituzionale laddove la L. 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 31 e 32, prevede che il ricorso del Governo contro leggi regionali e della Regione contro leggi statali deve essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro il termine di dieci giorni dalla notificazione.

3.5 Nel processo tributario le notificazioni sono fatte, in primo luogo, secondo le norme degli artt. 137 cod. proc. civ. e seg. (art. 16, comma 2), col ministero dell’ufficiale giudiziario o di altro soggetto equiparato, quali il messo comunale e il messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria (art. 16, comma 4; cfr. Cass. n. 4517 del 2013) e l’avvocato autorizzato dall’ordine forense (Cass. n. 22639 del 2014). In proposito la giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere che il termine per la costituzione del ricorrente dinanzi alle commissioni tributarie decorre, ove la notificazione del ricorso sia avvenuta tramite l’ufficiale giudiziario, dalla ricezione di quell’atto da parte del destinatario (Cass. n. 23589 del 2016 e giur. ivi cit.), atteso che questa ipotesi non è sottratta alla regola generale per la quale i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5). Dunque, per le notifiche col ministero di agente notificatore la disciplina dettata per il processo tributario non si discosta affatto da quella ordinariamente prevista per il processo civile di cognizione, risultando così osservata la previsione della legge-delega di tendenziale adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile (art. 30 cit.).

Consequenzialmente, qualora la notificazione sia eseguita col ministero dell’ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale, la parte può, anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento, farsi consegnare dall’ufficiale giudiziario l’originale dell’atto per ottenere l’iscrizione della causa a ruolo o per eseguire il deposito del ricorso o controricorso nei giudizi di cassazione (Cass. n. 18087 del 2004); peraltro, la causa non può essere messa in decisione se non sia allegato agli atti l’avviso di ricevimento, salvo che il convenuto si costituisca (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 5, comma 3).

3.6 Inoltre, nel processo tributario, la notificazione del ricorso introduttivo e dell’appello, in forza del rinvio operato dagli artt. 20 e 53 cit. al precedente comma 3 dell’art. 16 cit., può essere effettuata all’amministrazione finanziaria e all’ente locale mediante consegna all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia (Cass. n. 22576 del 2004). Anche in questo caso, ovviamente, il termine per la costituzione del ricorrente dinanzi alle commissioni tributarie decorre dalla materiale e attestata consegna dell’atto all’ufficio destinatario.

3.7 Infine, in applicazione di altra direttiva della legge-delega, le notificazioni degli atti introduttivi dei giudizi dinanzi alle commissioni tributarie possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3). La disciplina della fase introduttiva prevede che il ricorso è proposto mediante notifica a norma dei commi 2 e 3 del precedente art. 16 (art. 20, comma 1). Qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data di spedizione (art. 16, comma 5) e, quando la spedizione del ricorso è fatta a mezzo posta, il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione (art. 20, comma 2). Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, copia del ricorso spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (art. 22, comma 1); i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto (art. 16, comma 5). Il servizio postale in parola è quello cd. “universale”, fornito in esclusiva da Poste Italiane (D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 4; conf. Cass. n. 19467 del 2016 e n. 27021 del 2014).

3.8 Tale disciplina va correlata alla previsione della legge-delega di tendenziale adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile. Dunque, non v’è alcuna ragione logica e giuridica (artt. 3, 24 e 76 Cost.) per distinguere il regime della notifica diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale. Il rilievo che l’art. 22 non vincola la costituzione del ricorrente al contestuale deposito dell’avviso di ricevimento è argomento solo suggestivo. Infatti la menzione espressa, tra gli atti da depositare, della sola ricevuta di spedizione postale diretta del ricorso, rappresenta univoco indice rivelatore del solo fatto che il ricorrente si possa costituire anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento, così come nella notifica ex art. 149 cod. proc. civ. il notificante può farsi consegnare dall’ufficiale giudiziario l’originale dell’atto per ottenere l’iscrizione della causa a ruolo anche prima del ritorno dell’avviso di ricevimento a mente del comma 3 dell’art. 5 della legge 890.

3.9 Del resto non è privo d’importanza il rilievo che costringere la parte a costituirsi senza neppure conoscere gli esiti della notifica del ricorso non trova giustificazione logica, ben potendo i notificante, in caso di notificazione non andata a buon fine per ragioni a lui non imputabili, voler conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria riattivando il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare gli strettissimi limiti di tempo recentemente precisati dalle sezioni unite (Cass., Sez. U, n. 14594 del 2016) e senza essere obbligato, anche se solo dal 7 luglio 2011, al forse inutile versamento del contributo unificato (introdotto con la modifica del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 9).

3.10 I principi di semplificazione del processo tributario enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 520 del 2002 restano così pienamente osservati in coerenza con l’art. 30 della legge-delega, così riconducendo a unità l’intera disciplina della fase introduttiva dinanzi alle commissioni tributarie con modalità sì diversificate ma che valorizzano sempre la ricezione dell’atto da parte del destinatario, sia con notifica tramite l’ufficiale giudiziario (originale dell’atto notificato) anche ai sensi dell’art. 149 c.p.c. (avviso di ricevimento), sia mediante consegna diretta all’amministrazione (ricevuta di deposito), sia per plico raccomandato senza busta (avviso di ricevimento). Inoltre è pienamente salvaguardata l’osservanza dei termini d’impugnazione a carico del notificante fin dal momento in cui l’atto è consegnato per la notifica, così come è garantito il consolidamento degli effetti alla data della ricezione dell’atto (Corte Cost. n. 28 e n. 107 del 2004).

3.11 Tali conclusioni non sono inficiate dal rilievo che il procedimento dinanzi alle commissioni tributarie, al fine di soddisfare esigenze di speditezza e deflazione, contempli una specifica fase processuale dedicata all’esame preliminare del ricorso (artt. 27 e seg. proc. trib.) nell’ambito del quale è monocraticamente affidata al presidente, la dichiarazione d’inammissibilità nei casi espressamente previsti, “se manifesta”, con decreto reclamabile innanzi alla commissione; tale esame avviene una volta “scaduti i termini per la costituzione in giudizio delle parti” (art. 27) e cioè una volta che sia scaduto il termine per la costituzione in giudizio anche del resistente che, a mente dell’art. 23, è di sessanta giorni dalla data in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale. Il che non collide col ritenere che la costituzione del ricorrente avvenga nei trenta giorni dalla stessa data.

3.12 Invero, come è stato osservato in dottrina, dal fatto che la legge non prevede che il ricorrente debba depositare l’avviso di ricevimento ai fini della costituzione in giudizio si può desumere solo, sul piano logico e giuridico, che egli possa costituirsi in giudizio prima della ricezione dell’atto da parte del destinatario, non già che il termine di costituzione decorre dalla data della spedizione, laddove la notificazione è un procedimento che si conclude con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (o con l’evento che la legge considera equipollente alla ricezione).

Ciò è confermato dalla più recente disciplina del cd. reclamo/mediazione (art. 17-bis proc. trib.) laddove per le controversie non superano una certa soglia di valore, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa, disponendosi espressamente che “il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica, entro il quale deve essere conclusa la procedura” (comma 2). In tal caso “il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente decorre dalla scadenza del termine di cui al comma 2” e “se la Commissione rileva che la costituzione è avvenuta in data anteriore rinvia la trattazione della causa per consentire l’esame del reclamo” (comma 3). Il che lascia evidentemente intendere come, ai fini della procedura di reclamo/mediazione, s’individui uno spatium deliberandi di novanta giorni che decorre dal perfezionamento della notifica con la ricezione del ricorso, onde far decorrere dalla scadenza un nuovo termine di trenta giorni per la costituzione del ricorrente.

3.13 E’ appena il caso di rilevare che, seguendo il primo orientamento, il diverso regime di costituzione per la sola notificazione diretta mediante raccomandata postale con avviso di ricevimento colliderebbe (a) con gli artt. 3 e 24 Cost. riguardo alle altre forme di notificazione previste per il processo tributario e in particolare con quella ex art. 149 cod. proc. civ.; (b) con gli artt. 3 e 24 Cost. riguardo alla circostanza al diverso computo del termine per la costituzione nelle vertenze fiscali obbligatoriamente soggette a reclamo/mediazione; (c) con l’art. 76 Cost. riguardo al tendenziale rispetto dei principi del processo civile ordinario previsto dalla legge-delega del 1991; (d) con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 CEDU, riguardo all’irrazionale e discriminante ostacolo all’accesso alla giurisdizione (con riferimento ai processi riguardanti sanzioni tributarie aventi copertura convenzionale); (e) con l’art. 6 TUE sempre in relazione all’art. 6 CEDU (con riferimento al contenzioso sui tributi armonizzati).

3.14 Non resta, quindi, che affermare il seguente principio di diritto: “Nel processo tributario, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente e dell’appellante, che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario (o dall’evento che la legge considera equipollente alla ricezione)”.

4. Il secondo interrogativo rimesso alle sezioni unite riguarda la rilevanza o meno, ai fini della ritualità della costituzione del ricorrente nel processo tributario, dell’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione postale diretta del ricorso quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico raccomandato.

4.1. Secondo un primo indirizzo – in cui si annoverano le pronunce della quinta sezione nn. 24182 del 2006, 1025 del 2008, 7373-866410312 del 2011, 20787 del 2013, 23234 del 2014, oltre a quelle dell’omologa articolazione della sesta sezione nn. 12932 e 18121 del 2015 – la rituale costituzione in giudizio del ricorrente richiede il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita, dell’originale del ricorso notificato o di copia dello stesso spedito per posta, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale. In difetto il ricorso sarebbe inammissibile nè esso sarebbe sanabile per via della costituzione del convenuto. Tale orientamento è seguito da numerose decisioni della quinta sezione (es. sent. nn. 24182 del 2006; 1025 del 2008; 7373-8664-10312 del 2011; 20787 del 2013; 23234 del 2014) e dell’omologa articolazione della sesta sezione (es. ord. nn. 1293218121 del 2015). Tanto veniva richiamato anche nella pronunzia n. 12932 del 2015, che a sua volta richiamava la decisione n. 20786 del 2014.

Nell’indirizzo in esame viene, talvolta, in rilievo la considerazione che la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere effettuata la notifica senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non dalla L. 20 novembre 1982, n. 890 regolante le notificazioni degli atti giudiziari a mezzo del servizio postale. Pertanto sarebbe priva di alcun valore probatorio la data di spedizione della raccomandata risultante dall’avviso di ricevimento in quanto priva di fede privilegiata e non accompagnata da alcuna attestazione da parte dell’ufficiale postale, in quanto l’apposizione di alcune indicazioni non sarebbe riconducibile all’agente postale, visto che la disciplina settoriale prescrive che gli avvisi di ricevimento siano predisposti dagli interessati.

4.2 Secondo un altro indirizzo il deposito, all’atto della costituzione, della ricevuta di spedizione è surrogabile mediante il deposito, sempre all’atto della costituzione, della ricevuta di ritorno, atteso che anche l’avviso di ricevimento del plico raccomandato riporta la data della spedizione, per cui il relativo deposito deve ritenersi perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria che la norma assegna all’incombente. Si osserva, inoltre, che l’avviso di ricevimento del plico costituisce, pur sempre, atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 cod. civ.. Pertanto le indicazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario. Ne deriva che la presenza o meno in atti della ricevuta di spedizione postale del ricorso è processualmente ininfluente ove sia comunque prodotto tempestivamente l’avviso di ricevimento del plico. Tale orientamento ribadito dalle recentissime decisioni n. 19138 e n. 27286 del 2016 è seguito da numerose decisioni della quinta sezione (es. sent. nn. 4615 del 2008; 27991 del 2011; 23593 del 2012; 7645 del 2014; 5376 del 2015) e dell’omologa articolazione della sesta sezione.

5. Sul piano normativo, va premesso che il D.P.R. 12 gennaio 2007, n. 18 dà piena ed intera esecuzione alla novellata Convenzione postale universale che, all’art. 13, prevede il “servizio di raccomandata” e quello supplementare di “avviso di ricevimento per gli invii della posta-lettere raccomandati o a consegna attestata”.

Indi il D.Lgs. 22 luglio 1999, n.261 chiarisce che s’intende per “invio raccomandato (il) servizio che consiste nel garantire forfettariamente contro i rischi di smarrimento, furto o danneggiamento e che fornisce al mittente una prova dell’avvenuto deposito dell’invio postale e, a sua richiesta, della consegna al destinatario” (art. 1). Precisa che “le persone addette ai servizi postali (…) sono considerate incaricate di pubblico servizio in conformità all’articolo 358 del codice penale” (art. 18). Stabilisce al fornitore del servizio universale sono riservati “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie” (art. 4).

Il Codice postale (D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156), all’art. 37 prevede: “I mittenti di oggetti raccomandati (…) possono ottenere un avviso di ricevimento mediante il pagamento della relativa tassa”. Indi all’art. 12 (nel testo vigente dal 16 settembre 2003) fissa la regola che “le persone addette ai servizi postali (…) sono considerate pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità degli artt. 357 e 358 cod. pen.”.

Il Regolamento postale (D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655), all’art. 6 stabilisce: “Gli avvisi di ricevimento, di cui all’art. 37 del codice postale, sono forniti gratuitamente dagli uffici postali e sono predisposti dagli interessati”. Inoltre, all’art. 7, precisa: “L’avviso di ricevimento è avviato insieme con l’oggetto cui si riferisce”. Infine, all’art. 8, prescrive: “L’agente postale che consegna un oggetto con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario; se il destinatario rifiuta di firmare, è sufficiente, ai fini della prova dell’avvenuta consegna, che l’agente postale apponga sull’avviso stesso la relativa dichiarazione”.

5.1 Le Condizioni generali del servizio postale di cui al D.M. 9 aprile 2001, all’art. 14, affermano che “posta raccomandata è il servizio che fornisce al mittente una ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare il percorso dell’invio”. Inoltre, all’art. 17, stabiliscono che “Il mittente di invii di posta raccomandata o assicurata può chiedere che gli venga inviata conferma dell’avvenuto recapito, con avviso di ricevimento ordinario o prioritario o altro strumento, anche telematico, dietro pagamento della tariffa corrispondente allo strumento prescelto”. Infine, all’art. 33 prescrivono che “il destinatario di un invio a firma con avviso di ricevimento deve sottoscrivere anche l’avviso” e che “se la sottoscrizione è rifiutata, la prova della consegna è fornita dall’operatore postale, quale incaricato di pubblico servizio”.

Successivamente, le Condizioni generali del servizio postale di cui al D.M. n. 33894 del 2008, all’art. 2, definiscono “la posta raccomandata come servizio per la spedizione di invii di corrispondenza verso qualsiasi località del territorio nazionale ed estero che fornisce al mittente la ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare lo stato di lavorazione e la percorrenza, anche in corso, dell’invio”; indi precisano che “Su richiesta del mittente Poste Italiane fornisce i servizi accessori di cui all’art. 5”. Tra questi v’è l’avviso di ricevimento, cioè “la ricevuta che, compilata dal mittente all’atto della spedizione e firmata dal destinatario all’atto della consegna, viene recapitata al mittente ai fini della conferma dell’avvenuta consegna”.

All’art. 10 le stesse Condizioni generali indicano nel dettaglio: “Ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario, e precisamente: nome e cognome, via, piazza o altro; numero civico (scala ove necessario per l’individuazione del punto di recapito); località e codice di avviamento postale esatto. Qualora l’indirizzo non sia completo ed esatto, Poste Italiane non garantisce la corretta esecuzione del recapito. Il mittente confeziona gli invii postali con modalità idonee in rapporto al peso e al contenuto e comunque in modo da evitare qualunque rischio di danni a persone o cose. Le modalità di confezionamento degli invii postali sono opportunamente pubblicizzate da Poste Italiane. Per alcuni servizi è previsto l’utilizzo di specifici moduli di accettazione”.

Poi all’art. 20, per invii a firma ivi compresi gli invii raccomandati, le medesime Condizioni generali stabiliscono: “Il recapito è effettuato tramite consegna al destinatario o ad altra persona individuata ai sensi degli artt. 26, 27, 28, e 29, previa firma per ricevuta. In caso di impedimento alla firma da parte del destinatario, l’attestazione dell’avvenuta consegna è fornita dall’addetto al recapito in qualità di incaricato di pubblico servizio. Il destinatario di un invio a firma con avviso di ricevimento deve sottoscrivere anche l’avviso. Se la sottoscrizione è rifiutata, la prova della consegna è fornita dall’addetto al recapito, quale incaricato di pubblico servizio. Analogamente, la prova della consegna è fornita dall’addetto al recapito nel caso di invii multipli diretti allo stesso destinatario, per i quali la sottoscrizione di ciascun avviso di ricevimento contestualmente alla consegna risulti eccessivamente onerosa”.

5.2. Da ultimo, giusta delibera dell’AGCOM n. 385/13/CONS del 20 giugno 2013 (G.U. n. 165 del 16 luglio 2013), sono entrate in vigore le più recenti Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste Italiane. L’art. 2 stabilisce la posta raccomandata è il servizio per la spedizione di invii di corrispondenza verso qualsiasi località del territorio nazionale ed estero che fornisce al mittente la ricevuta come prova dell’avvenuta spedizione e consente di verificare lo stato di lavorazione e la percorrenza, anche in corso, dell’invio. Aggiunge che, su richiesta del mittente, Poste Italiane fornisce i servizi accessori di cui all’art. 5. Tra questi è contemplato l’avviso di ricevimento, ovverosia “la ricevuta che, compilata dal mittente all’atto della spedizione e firmata dal destinatario all’atto della consegna, viene recapitata al mittente ai fini della conferma dell’avvenuta consegna”. L’art. 10 precisa: “Ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario, e precisamente: nome e cognome, via, piazza o altro; numero civico (scala ove necessario per l’individuazione del punto di recapito); località e codice di avviamento postale esatto”. L’art. 16 stabilisce che l’accettazione può avvenire “senza materiale affrancatura mediante apposizione di codice identificativo dello specifico rapporto contrattuale”.

5.3 Le disposizioni normative e le varie condizioni generali che disciplinano la posta raccomandata non indicano espressamente da chi e come debba essere compilata quella parte dell’avviso di ricevimento contenente il numero, il giorno e l’ufficio di spedizione del plico, dati che, invece, nel modulo per l’accettazione della raccomandata sono inequivocabilmente riservati all’ufficio postale di partenza.

Però l’art. 10 delle Condizioni generali, nelle ultime versioni, afferma che “ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale è necessario che il mittente indichi in modo chiaro e completo l’indirizzo del destinatario”. Ciò costituisce un indubbio indice rivelatore del fatto che, laddove l’art. 5 delle stesse Condizioni parla di “ricevuta (…) compilata dal mittente all’atto della spedizione”, non si può che riferire alle indicazioni d’indirizzo necessarie “ai fini dell’accettazione degli invii postali presso i punti di accesso alla rete postale”, in disparte l’apposizione di codice identificativo dello specifico rapporto contrattuale a mente dell’art. 16. Il che trova concreto e obiettivo riscontro nella prassi operativa del fornitore del servizio postale universale (Poste Italiane) che individua sul retro dell’avviso di ricevimento (mod. 23-I/O, ed. 2015) e con la dicitura “compilazione a cura del mittente” i campi rimessi all’iniziativa di quest’ultimo, cioè i servizi richiesti e l’indirizzo del destinatario, e non – come del resto è fin troppo ovvio – i campi relativi a numero, data e ufficio di spedizione.

Ne deriva che l’agente postale addetto al recapito non si limita a certificare la consegna al destinatario di un plico qualsiasi ma proprio di quel plico che reca lo stesso numero e la stessa data di spedizione indicati nell’avviso di ricevimento e questo, in tanto risponde al servizio supplementare previsto dalla Convenzione postale universale per gli invii raccomandati o a consegna attestata, in quanto vi sia garanzia di conformità tra gli estremi che identificano la spedizione nella ricevuta postale e nell’avviso di ricevimento.

5.4 La giurisprudenza in materia di formalità postali è nel senso che bollettini di spedizione e registri di raccomandate e pacchi in contrassegno costituiscono atti pubblici poichè attestano l’attività svolta dall’impiegato postale (Cass. pen., 29.11.1983-21.3.1984, n.2572, Vicinanza, Rv. 163258), il quale riveste compiti pubblicistici. In particolare, il bollettino di spedizione della raccomandata è ritenuto atto pubblico anche per la parte riservata all’utente del servizio, giacchè ha efficacia documentale in ordine alla relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi e il destinatario del plico, nonchè riguardo all’attività compiuta dal pubblico ufficiale accettante nell’esercizio della sua funzione (Cass. pen., 25.5-3.7.1976, n.7563, Cantarella, Rv.136929; conf. 9.2-3.7.1989, n.9076, Simoncini, Rv. 181710; v. sulla ricevuta postale quale atto pubblico Cass. n. 359 del 2002). Pure il registro della corrispondenza raccomandata in arrivo è considerato atto pubblico, essendo destinato a provare la consegna dei plichi ai destinatari nonchè l’apposizione delle firme da parte loro in presenza del pubblico ufficiale (Cass. pen., 2-27.4.1981, n.3866, Annarumi, Rv. 148563), al pari dell’avviso di ricevimento (Cass. pen., 23.1-7.2.2003, n.6274, PM in proc. Chianese, Rv. 223567).

5.5 Nonostante la trasformazione in società per azioni dell’Ente Poste, permane tuttora in capo all’agente postale l’esercizio di poteri certificativi propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione della connotazione pubblicistica della disciplina normativa che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse finalità pubbliche. Infatti prevale, ai fini della qualifica di pubblico ufficiale in capo all’agente, il criterio oggettivo-funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. in riferimento alla natura del servizio postale esercitato (Cass. pen., 27.3.2003, n. 25509, Rapanà, Rv. 224982; conf. Cass. pen., 14.12.1999, n. 3282, Ferrara).

5.6 Sul versante del contenzioso fiscale, l’art. 16, comma 3, proc. trib. – laddove prevede che le notificazioni possano essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale, mediante spedizione dell’atto in plico (senza busta) raccomandato con avviso di ricevimento – abilita il notificante alla notificazione in via diretta, cioè senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ma pur sempre con quella dell’ufficiale postale), e, quindi, con modalità semplificate di notificazione, che, data anche la spiccata specificità del processo tributario (cfr. Corte cost., sent. n. 18 del 2000), non violano gli artt. 3 e 24 Cost.. Nella notificazione diretta a mezzo del servizio postale universale l’avviso di ricevimento del plico costituisce di norma atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 cod. civ.; pertanto le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario (Cass. n. 17723 del 2006; conf. n. 20135 del 2014, in motivazione). Ne consegue che, al fine di contestare la veridicità delle attestazioni contenute negli avvisi di ricevimento, vale di norma lo strumento della querela di falso (cfr. Cass. n. 4919 del 1981) e le relative attestazioni possono godere, in tesi generale, di fede privilegiata (Cass. nn. 3065 e 11452 del 2003; 8032 del 2004; 8500 del 2005). Il che, tuttavia, richiede non poche precisazioni ai fini che qui interessano.

5.7 E’ pacifico che il bollettino di spedizione della raccomandata (ora mod. 22-R), oltre alla parte riservata all’utente del servizio (indirizzi del mittente e del destinatario; servizi richiesti), reca un’altra parte riservata all’ufficio postale di partenza contenente il timbro, la data e la firma dell’ufficiale postale all’epoca della lavorazione manuale della corrispondenza e più di recente reca il numero della raccomandata con il codice a barre e la stampigliatura meccanografica dei dati essenziali delle spedizione con giorno, ora, ufficio di partenza, etc.. Questi dati sono attualmente riportati con stampa meccanografica anche sull’avviso di ricevimento (ora mod. 23-I/O), precompilato dal mittente solo con l’indirizzo proprio e con quello del destinatario.

5.8 La stampigliatura con macchina numeratrice e datatrice non fa perdere ai documenti postali in generale la natura di atti pubblici, ancorchè privi della sottoscrizione del pubblico ufficiale che ha presieduto alle operazioni, pur sempre identificabile al pari dell’ufficio emittente (Cass. pen., 19.2-29.4.1985, n.4073, Santin, Rv.18923), poichè sin dai primi anni ‘80 la normativa postale (es. D.P.R. 28 aprile 1981, n. 336, art. 1; R.D. 30 maggio 1940, n. 775, art. 102-bis) si è orientata nel non richiedere più la convalida con bollo e firma per i propri atti automatizzati nei rapporti con l’utenza (Cass. pen., 24.220.4.1988, n.4799, Toffalini, Rv.178183).

Ne deriva che il tracciamento automatizzato con le macchine operatrici assicura la relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi ed il destinatario del plico, garantendo l’identità dei dati relativi a giorno e modi di spedizione tanto sul modulo per l’accettazione della raccomandata quanto sull’avviso di ricevimento, entrambi sempre generati dal sistema operativo di Poste Italiane.

5.9 In epoca più risalente e, comunque, laddove non vi sia, per qualsivoglia ragione, l’inserimento automatico e meccanografico dei dati di spedizione sull’avviso di ricevimento, resta compito tipico dell’agente postale – per osservare quelle ineludibili esigenze di certezza legale connaturate alla posta raccomandata secondo la normativa nazionale, internazionale e contrattuale – l’annotazione a propria cura o comunque il controllo del numero della raccomandata e della sua data di spedizione. Infatti solo la conformità e la circolarità dei rispettivi dati identificativi consente di collegare tra loro il modulo per l’accettazione della raccomandata, il plico postale e l’avviso di ricevimento. Dunque, ove su quest’ultimo sia apposto dall’agente postale almeno il timbro a secco dell’ufficio accettante, la data ivi stampigliata attesta il giorno di spedizione perchè la timbratura eseguita in un pubblico ufficio postale equivale ad attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui la timbratura è stata eseguita (Cass. n.17335 del 2015; conf. n.8438 del 2012).

La giurisprudenza chiarisce, sul punto, che la veridicità dell’apposizione della data mediante il timbro postale a calendario è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, poichè si riferisce all’attestazione di attività compiute dal pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni in relazioni alla ricezione (Cass. pen., 14.4.1994 – Cass. pen. 1996, 93, s.m.). Infatti, riguardo al timbro postale mancante di firma si ritiene che si ha atto pubblico in senso tecnico giuridico pur in difetto di sottoscrizione dell’atto stesso, esistendo la possibilità d’identificarne la provenienza e non richiedendone la legge la sottoscrizione ad substantiam (Cass. pen., 10.1. 1989 – Cass. pen. 1991, I, 418, s.m.; conf. 1.3.1985 – Cass. pen. 1986, 1083, s.m.; 27.5.1982 – Cass. pen. 1983, 1980, s.m.; v. sull’accettazione del plico Cass. pen., 27.1.1987 – Cass. pen. 1988, 826, s.m.).

5.10 Si è pure ritenuto che, ai fini del processo tributario, la data di presentazione delle raccomandate, consegnate all’ufficio postale, risultante dalla copia dell’elenco delle raccomandate consegnate per la spedizione alle poste italiane, che annovera il codice a barre identificativo e che reca il timbro postale, è certa e validamente attestata, risultando da atto equipollente a quelli pure contenenti lo stesso timbro, sia che questo sia stato apposto sul piego postale, sia che lo sia stato sulla busta della raccomandata, secondo una prassi adottata dagli uffici postali, di notoria conoscenza, e riconducibile ad una nozione costituzionalmente adeguata delle dette disposizioni, anche in rispondenza della nozione ristretta delle inammissibilità processuali, posta a cardine interpretativo del contenzioso fiscale dalla Corte costituzionale (Cass. n.24568 del 2014; conf. n.7312 del 2006).

5.11 In conclusione, ove sull’avviso di ricevimento manchino in tutto in parte – ovvero siano d’incerta paternità – i dati alfanumerici sulla data e l’ufficio postale di accettazione, essi sono surrogati, con efficacia di atto pubblico anche in difetto di sottoscrizione, dal timbro datario dell’ufficio postale di partenza che attesti l’avvenuta consegna per l’inoltro in forme e modi equipollenti a quelli della ricevuta di spedizione.

5.12 Diverso e più complesso è il caso in cui numero, data e ufficio postale di accettazione non siano riportati con stampigliatura meccanografica dall’ufficio postale ovvero i dati alfanumerici sulla data e l’ufficio di accettazione non siano asseverati da timbro postale ma siano semplicemente manoscritti o comunemente dattiloscritti.

Come si è visto, il numero della raccomandata non può che essere verificato e/o attribuito dall’agente postale al momento della accettazione del plico, dovendosi documentare con certezza legale la relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi ed il destinatario del plico, nonchè l’attività compiuta dall’impiegato accettante nell’esercizio della sua funzione in giorno e ufficio ben definiti. Il che, inserendosi in una precisa sequenza procedimentale diretta a documentare le attività compiute in relazione alla accettazione del plico da spedire, assume sì le connotazioni dell’atto pubblico in senso tecnico giuridico pur in difetto di sottoscrizione (cfr. in gen. Cass. pen., 7.6-14.8.2001, n. 31696, Sevi A., Rv. 220027), però solo laddove esista la concreta possibilità d’identificare sull’avviso di ricevimento la certa provenienza delle attestazioni su giorno e numero della raccomandata (oltre che sull’ufficio postale accettante).

5.13 E’ vero che, secondo il Regolamento postale, l’avviso di ricevimento è avviato insieme all’oggetto cui si riferisce (art. 7) e che l’agente che consegna un plico con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario (art. 8, comma 1), provvedendo a rispedire subito all’interessato la ricevuta così completata (art. 8, comma 2). Però ciò comporta unicamente che, in mancanza di tracciamento meccanografico automatizzato e/o di timbratura di asseveramento, le indicazioni su data, ufficio e numero di spedizione che siano manoscritte o comunemente dattiloscritte sull’avviso potrebbero essere valutate sul piano indiziario.

Ma un riscontro di tal genere non è sufficiente riguardo alle notifiche processuali che, incidendo su interessi di rango costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.), necessitano di quella certezza pubblica che è propria degli atti fidefacenti e non altrimenti surrogabili (Cass. n. 25285 del 2014, n. 19387 del 2012). A maggior ragione ciò vale allorquando l’avviso di ricevimento sia chiamato a supplire la mancanza in atti della prescritta ricevuta postale di spedizione dell’atto introduttivo dei vari gradi del processo tributario di merito, ferma restando, però, la c.d. “prova di resistenza” se la data di ricezione del ricorso, essendo asseverata dall’agente postale addetto al recapito in giorno anteriore alla scadenza del termine per impugnare l’atto o appellare la sentenza, dia obiettiva certezza pubblica della tempestiva consegna del plico all’ufficio postale da parte del notificante per l’inoltro al destinatario.

5.14 Tirando le fila del discorso sin qui condotto può essere enunciato il seguente principio di diritto:

“Nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso o dell’appello, che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente o l’appellante, al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purchè nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario; solo in tal caso l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione, laddove, in mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso o dell’appello, unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto o della sentenza”.

6. Riguardo alla specifica fattispecie in esame e in applicazione dei principi di diritto enunciati sub p. 3.14 e p. 5.14, si devono trarre le seguenti conclusioni finali:

a) La costituzione della parte appellante, in data 24 maggio 2011, è sicuramente tempestiva perchè il relativo termine di trenta giorni decorre dalla ricezione in data 26 aprile 2011 delle raccomandate contenenti gli appelli poi riuniti;

b) Gli avvisi di ricevimento, recanti data di spedizione (22 aprile 2011) semplicemente manoscritta e non asseverata dall’ufficio postale, sarebbero di per se stessi non idonei ad assolvere la medesima funzione probatoria, ai fini del riscontro della tempestività degli appelli, che la legge assegna alle ricevute di spedizione non prodotte dal fisco;

c) La tempestività degli appelli riuniti, tuttavia, non può venire in discussione attesa la evidente e documentata ricezione delle raccomandate il 26 giugno 2011, ovverosia entro il termine lungo del novellato art. 327 cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis trattandosi giudizio introdotto dopo il 4 luglio 2009), a decorrere dalle sentenze di primo grado del 13 gennaio 2011.

d) Il ricorso per cassazione contro la sentenza d’inammissibilità degli appelli riuniti deve, pertanto, essere accolto con consequenziale rilevazione officiosa del difetto di litisconsorzio tributario nei confronti del socio accomandatario S.E.;

e) La sentenza d’appello deve, quindi, essere cassata anche con declaratoria di nullità dei giudizi di primo grado e rinvio dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Cosenza cui è demandata anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza d’appello; dichiara la nullità dei giudizi di primo grado; rinvia alla commissione tributaria provinciale di Cosenza in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2017


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 22-02-2017) 02-05-2017, n. 10647

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21821-2015 proposto da:

P.B. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, rappresentato e difeso dall’avvocato PIERGIOVANNI ALLEVA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TRENITALIA S.P.A. SOCIETA’ CON SOCIO UNICO, SOGGETTA ALL’ATTIVITA’ DI DIREZIONE E COORDINAMENTO DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5837/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/09/2014 r.g.n 10279/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/02/2017 dal Consigliere Dott. CINQUE GUGLIELMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine rigetto;

udito l’Avvocato GIORGIO ANTONINI per delega verbale Avvocato PIERGIOVANNI ALLEVA;

udito l’Avvocato GAETANO GIANNI’ per delega verbale Avvocato ENZO MORRICO.

Svolgimento del processo
1. Con la sentenza n. 5837/2014 la Corte di appello di Roma ha confermato la pronuncia depositata il 21.11.2009 dal Tribunale di Roma con la quale era stata respinta la domanda, proposta da P.B., volta ad ottenere l’annullamento del licenziamento disciplinare per giusta causa, intimatogli con lettera dell’11.12.2007, per avere, in seguito all’infortunio sul lavoro patito in data (OMISSIS), ove aveva riportato una distorsione della caviglia destra, partecipato a due partite calcistiche del “campionato Amatori” della Provincia di Torino il 22.10.2007 ed il 30.10.2007, pregiudicato con tale comportamento la guarigione.

2. A fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che: a) con la lettera di giustificazione nell’ambito del procedimento, il lavoratore implicitamente aveva ammesso la partecipazione ad entrambe le partite; b) si trattava di una confessione stragiudiziale per cui correttamente erano state respinte le richieste istruttorie tendenti a dimostrare la partecipazione solo alla gara del 30.10.2007; c) la circostanza circa il suggerimento, da parte di un sindacalista della CISL, della dichiarazione del 30.11.2007 era una allegazione nuova e, pertanto, inammissibile; d) analogamente non era ammissibile nè rilevante la produzione delle copie dei verbali del procedimento penale stante l’autonomia, più volte affermata in giurisprudenza, tra i due giudizi; e) la partecipazione a due gare calcistiche, anche ove fosse stata dimostrata la limitatezza della presenza in campo, durante la malattia per distorsione della caviglia era tale da comportare il pericolo, secondo una prognosi ex ante, di aggravamento dei postumi della malattia in considerazione dello sport praticato (calcio); f) era, quindi, ravvisabile una condotta gravemente lesiva del legame fiduciario con l’azienda.

3. Per la cassazione propone ricorso P.B. affidato a tre motivi.

4. Resiste con controricorso la Trenitalia spa.

5. Sono state depositate le memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c. ed error in procedendo in ordine al mancato esperimento della prova richiesta sulla non partecipazione alla partita di calcio del 22.10.2007.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione della normativa contrattuale collettiva (art. 55 CCNL) riguardante le sanzioni massime applicabili per simulazione dello stato di malattia o di inidoneità fisica al lavoro. Si sostiene che l’art. 55, lett. b, del CCNL del 16.4.2003 prevedeva la sanzione del licenziamento per la simulazione originaria della malattia, quando si trattava non della prima infrazione; tale sanzione non poteva essere irrogata anche nella ipotesi minore della simulazione sopravvenuta dello stato di malattia in cui rientrava la fattispecie contestata.

3. Con il terzo motivo P.B. si duole del mancato esame di un punto decisivo della controversia consistente nella effettività, giudicata ex ante, dell’eventuale messa in pericolo dello stato di salute del lavoratore in vista della ripresa lavorativa obiettando che alcuna conseguenza negativa era discesa dalla partecipazione per un limitato tempo alla partita del 30.10.2007 e che la sua partecipazione, a detta partita, era stata autorizzata da due medici specializzati della medicina sportiva previa sottoposizione ad un bendaggio rigido di protezione dal pericolo di ricadute.

4. Il primo motivo non è fondato.

5. Il mancato esercizio dei poteri istruttori del giudice (previsti nel rito del lavoro dagli artt. 421 e 437 c.p.c.) anche in difetto di espressa motivazione sul punto non è sindacabile in sede di legittimità se non si traduce in un vizio di logicità della sentenza (cfr. tra le altre Cass. 16.5.2002 n. 7119).

6. Tale illogicità non è ravvisabile nella gravata sentenza perchè, in relazione alla partecipazione di P.B. alla partita di calcio del 22.10.2007, non vi erano risultanze processuali da integrare in quanto gli elementi acquisiti (giustificazioni del dipendente rese nel corso del procedimento disciplinare ove si ammetteva la partecipazione alla gara nonchè l’articolo del giornale (OMISSIS), che confermava il P. tra coloro che erano scesi in campo con la squadra Veterani Chivasso nella partita del 22.10.2007) erano tali da rendere certo il quadro probatorio senza necessità di un ulteriore approfondimento istruttorio.

7. Il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

8. E’ inammissibile, per violazione del principio di specificità (art. 366, comma 1, n. 6) perchè, non avendo riportato nel ricorso la trascrizione della parte dell’art. 55 CCNL richiamato nella censura, si costringe, in pratica, il giudice di legittimità ad una ulteriore attività di esame degli atti processuali che non può essere supplita per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte del giudice stesso nell’individuazione delle parti della disposizione che siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura.

9. E’ infondato perchè la contestazione disciplinare non riguardava la simulazione dello stato di malattia, bensì lo svolgimento di attività in contrasto con lo stato di infortunio: e tale attività, con motivazione congrua, logica e corretta giuridicamente, è stata ritenuta, dai giudici di secondo grado, una condotta in grado di minare alle fondamenta il rapporto fiduciario tra datrice e lavoratore e tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro.

10. La valutazione disciplinare è stata, pertanto, effettuata sulla base della nozione legale della giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., e non sulla base delle ipotesi elencate nella contrattazione collettiva, non pertinenti al caso concreto, e conseguentemente l’esame di adeguatezza della sanzione espulsiva irrogata è stata realizzata rispetto a quanto contestato (in termini Cass. 22.12.2006 n. 27464; Cass. 14.2.2005 n. 2906).

11. Nè del resto il giudice deve limitarsi a ricondurre quanto addebitato alle singole fattispecie previste dalla contrattazione collettiva ma deve valutare i fatti nel loro insieme onde verificare se siano tali da minare la fiducia del datore di lavoro (in questi sensi cfr. Cass. 23.3.2006 n. 6454).

12. Il terzo motivo è inammissibile risolvendosi la doglianza in un riesame dei fatti e non nel mancato esame di essi perchè, nella fattispecie concreta, la Corte territoriale ha motivato sull’accertamento in fatto relativo all’aggravamento dei postumi della distorsione della caviglia in ragione della condotta tenuta dal P. durante il periodo di assenza dal servizio.

13. Giova specificare che, nel caso di specie, è applicabile il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (sentenza depositata il 5.9.2014) che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti, mentre, come detto, il fatto denunziato è stato comunque valutato dai giudici di secondo grado.

14. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

15. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2017


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 12-01-2017) 03-04-2017, n. 8638

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20448/2015 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA PIO XI 13, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CROCI, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBIRTO TRUSSARDI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

Contro

GIANFRAMA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PETRETTI che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BONOMI, PAOLO GIUDICI, giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 614/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA del 13/05/2015, depositata il 18/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/01/2017 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO DELL’UTRI.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza resa in data 18/5/2015, la Corte d’appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato inammissibile l’opposizione tardiva proposta da B.G. avverso un decreto ingiuntivo ottenuto nei relativi confronti dalla società Gia.Fra.Ma. s.r.l..

A sostegno della decisione assunta, la corte d’appello ha rilevato la ritualità dell’originaria notificazione del decreto ingiuntivo operata ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dalla società creditrice, avendo ritenuto che l’ufficiale notificante avesse effettivamente eseguito due successivi tentativi di notificazione presso l’indirizzo della destinataria, rimasti infruttuosi; in particolare, essendo risultato, presso il citofono della residenza anagrafica della B., la sola dicitura “Famiglia S.” senza alcun riferimento alla stessa.

2. Avverso la sentenza d’appello, ha proposto ricorso per cassazione B.G., sulla base di due motivi di impugnazione.

3. Resiste con controricorso la Gia.Fra.Ma. s.r.l., che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero per il rigetto del ricorso.

4. A seguito della fissazione della camera di consiglio, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la ricorrente ha presentato memoria.

5. Con nota depositata in data 12/1/2017 il difensore della società intimata ha dichiarato di aver rinunciato al mandato difensivo.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 143 e 148 c.p.c., nonchè dell’art. 143 bis c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto la regolarità della notifica ex art. 143 c.p.c., essendo emerso il difetto della normale diligenza richiesta dall’art. 148 c.p.c., ai fini dell’esecuzione della notificazione, avendo l’ufficiale giudiziario trascurato di rilevare come la dicitura “Famiglia S.” sul citofono dell’indirizzo della B. corrispondesse effettivamente alla residenza di quest’ultima, essendo la stessa coniuge del defunto marito di cognome ” S.”.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo controverso (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.), avendo la corte territoriale omesso di esaminare la decisiva circostanza secondo cui la controparte era perfettamente a conoscenza che la signora B. fosse coniugata ” S.”, in ragione di una serie di processi che, da lungo tempo, avevano interessato le stesse due parti.

3. Il primo motivo è manifestamente fondato e suscettibile di assorbire la rilevanza del secondo.

Osserva il collegio – in dissenso rispetto alla proposta formulata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. – come, nel caso in cui l’ufficiale giudiziario non abbia rinvenuto il destinatario della notificazione nel luogo risultante dal certificato anagrafico in suo possesso, lo stesso è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca e indagine dandone conto nella relazione di notificazione, dovendo ritenersi, in difetto di notizie su dette ulteriori ricerche, che la notificazione sia nulla, con il conseguente obbligo per il giudice di disporne il rinnovo, con la fissazione di apposito termine perentorio, ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 2909 del 07/02/2008, Rv. 601331 – 01).

Nella specie, avendo l’ufficiale giudiziario completato la notificazione ai sensi dell’art. 143 c.p.c., limitandosi al riscontro dell’assenza del destinatario nel luogo risultante dal certificato anagrafico senza indicazione di alcuna ulteriore ricerca, dev’essere rilevata la nullità di detta notificazione, con la conseguente cassazione, sul punto, della sentenza impugnata e il rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Brescia, cui è altresì rimessa la regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso e, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia ad altra Sezione della Corte d’appello di Brescia, cui rimette per la regolazione delle spese anche del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 3 Civile, il 12 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2017


Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord., (data ud. 24/01/2017) 29/03/2017, n. 8150

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14947/2015 proposto da:

V.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAN TOMMASO D’AQUINO 116 presso lo studio dell’avvocato ANTONINO DIERNA che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

STUDIO GESTIONI IMMOBILIARI S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, P.I. (OMISSIS), in persona del liquidatore elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO DI NATALE che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 24276/2014 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/01/2017 dal Consigliere Relatore Dott. LINA RUBINO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
V.S. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 24276/2014, pronunciata ex art. 281 sexies all’udienza del 3 dicembre 2014, con la quale veniva rigettata la sua opposizione a precetto proposta nei confronti di Studio Gestione Immobili s.r.l. in liquidazione. Resiste Studio Gestione Immobili s.r.l. in liquidazione con controricorso illustrato da memoria.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c., su proposta del relatore, in quanto ritenuto manifestamente fondato.

Il Collegio, all’esito della camera di consiglio, esaminato anche il contenuto della memoria, ritiene di condividere la soluzione proposta dal relatore.

La sentenza impugnata si è consapevolmente discostata dai principi di diritto già affermati da questa Corte, con sentenza n. 1289 del 2012 e con ordinanza n. 23693/2011, non massimate, ai quali si ritiene invece debba essere data continuità. Denunciando violazione dell’art. 479 c.p.c., e art. 654 c.p.c., comma 2, nonchè vizi di motivazione, la ricorrente afferma che – qualora si voglia agire esecutivamente nei confronti di un singolo condomino in forza di decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del Condominio occorre che il titolo esecutivo sia notificato al condomino esecutato, essendo il principio di cui all’art. 654 cit.,secondo comma, secondo il quale ai fini dell’esecuzione non occorre una nuova notificazione del decreto ingiuntivo, applicabile solo nei confronti dell’ingiunto.

Il motivo è fondato.

Il Condominio è soggetto distinto da ognuno dei singoli condomini, ancorchè si tratti di soggetto non dotato di autonomia patrimoniale perfetta, e l’art. 654, comma 2, è da ritenere applicabile solo al soggetto nei confronti del quale il decreto ingiuntivo sia stato emesso ed al quale sia stato ritualmente notificato. Qualora il creditore intenda far valere la responsabilità patrimoniale di un soggetto diverso dall’ingiunto – pur se in ipotesi responsabile dei debiti di lui – a cui il titolo esecutivo non sia stato mai notificato, la norma dell’art. 654, comma 2, è da ritenere inapplicabile, dovendosi sempre riconoscere al soggetto passivo dell’esecuzione il diritto di avere notizia e piena cognizione della natura del titolo in forza del quale si procede nei suoi confronti. Erroneamente il Tribunale ha ritenuto che l’amministratore abbia la rappresentanza dei singoli condomini ed, in quanto tale, sia legittimato a ricevere la notificazione di atti con effetti immediatamente riconducibili ai condomini.

In caso di titolo esecutivo giudiziale, formatosi nei confronti dell’ente di gestione condominiale in persona dell’amministratore e azionato nei confronti del singolo condomino quale obbligato pro quota, la notifica del precetto al singolo condomino, ex art. 479 c.p.c., non può prescindere dalla notificazione, preventiva o contestuale, del titolo emesso nei confronti dell’ente di gestione.

Se infatti una nuova notificazione del titolo esecutivo non occorre per il destinatario diretto del decreto monitorio nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.c., comma 2, detta notificazione, invece, è necessaria qualora si intenda agire contro il singolo condomino, non indicato nell’ingiunzione ma responsabile pro quota della obbligazione a carico del condominio. Costui, invero, deve essere messo in grado non solo di conoscere qual è il titolo ex art. 474 c.p.c., in base al quale viene minacciata in suo danno l’esecuzione, ma anche di adempiere l’obbligazione da esso risultante entro il termine previsto dall’art. 480 c.p.c..

Il ricorso va pertanto accolto. La causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dichiarando la nullità del precetto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara la nullità del precetto. Liquida le spese del giudizio di merito in Euro 900,00 oltre 200,00 per esborsi, accessori e contributo spese generali e le spese del giudizio di cassazione in complessivi Euro 1.200,00, oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2017


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 20/12/2016) 09/03/2017, n. 6099

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16126-2015 proposto da:

D.F.V., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. DENZA, 3, presso lo studio dell’avvocato ANGELO MARTUCCI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati VITTORIO TORAZZI, GIOVANNI VILLANI, PATRIZIA SERASSO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA – A.S.L. TO (OMISSIS), C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TACITO presso lo studio dell’avvocato CINZIA DE MICHELI, rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTO CARAPELLE, DARIO TINO VLADIMIRO GAMBA, giusta delega in atti;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 354/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 17/04/2015 R.G.N. 21/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/12/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

uditi gli Avvocati GIOVANNI VILLANI e PATRIZIA SERASSO;

udito l’Avvocato DARIO TINO VLADIMIRO GAMBA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1 – La Corte di Appello di Torino, in sede di reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58 ha riformato la sentenza del Tribunale di Ivrea che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stata dichiarata dallo stesso Tribunale l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla azienda sanitaria ASL TO (OMISSIS) al dirigente medico D.F.V..

2 – La Corte territoriale ha premesso che il reclamato, titolare di incarico di direzione di struttura complessa, era stato autorizzato ad espletare attività libero professionale intramuraria in specifiche fasce orarie e per complessive 6,30 ore settimanali. In data 13 giugno 2013 la Azienda aveva contestato al dirigente la “sovrapposizione dell’attività svolta in orario di libera professione con l’orario dell’attività di servizio” nonchè il “mancato rispetto dell’orario autorizzato ” e, all’esito del procedimento disciplinare aveva intimato il licenziamento per “falsa attestazione della presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi di rilevamento o con altre modalità fraudolente”.

3 – Il giudice di appello, respinta l’eccezione di inammissibilità dei motivi di reclamo, ha ritenuto non violato il principio della immodificabilità della contestazione, poichè i fatti non erano stati modificati nella loro materialità e la modifica aveva riguardato solo la qualificazione giuridica e la indicazione delle norme rispetto alle quali si era verificato l’inadempimento. Ha, poi, escluso che la condotta descritta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a) richieda, come asserito dal Tribunale, un quid pluris rispetto alla falsa attestazione della presenza in servizio e, quindi, ha ritenuto integrata la fattispecie nel caso in cui il dipendente si allontani dal luogo di lavoro senza procedere alla timbratura della scheda magnetica. Ha evidenziato che la condotta del D.F. non poteva essere “scriminata” dall’invio alla stessa ASL della documentazione attestante la prenotazione delle visite da effettuare in regime di intra moenia nonchè della rendicontazione mensile dell’attività svolta, posto che detto invio aveva finalità contabile/amministrativa e all’epoca dei fatti, in mancanza di collegamento fra uffici, non incideva sui controlli riservati all’ufficio del personale, relativi alla verifica della presenza in servizio dei medici autorizzati all’esercizio della libera professione. Infine la Corte ha ritenuto che il comportamento fosse tale da ledere il vincolo fiduciario in quanto il D.F. si era sistematicamente allontanato dal servizio, in orari diversi da quelli indicati nella autorizzazione. Nessuna rilevanza poteva avere la circostanza che il dirigente avesse accumulato oltre 800 ore di surplus orario, perchè il “recupero” delle ore prestate in eccesso presuppone una corretta rilevazione delle presenze e, comunque, non può essere unilateralmente effettuato dal lavoratore.

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.F.V. sulla base di tre motivi. La Azienda Sanitaria TO (OMISSIS) ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1.1 – Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione degli artt. 101, 112, 132, 420, 434 e 437 c.p.c. nonchè dell’art. 111 Cost.. Premette che la Azienda nelle fasi del giudizio di primo grado ed in sede di reclamo aveva modificato “l’impostazione processuale prospettando argomenti nuovi”. Il reclamato aveva denunciato la violazione delle regole del contraddittorio e con l’istanza depositata all’esito della udienza di discussione dell’11 marzo 2015 aveva chiesto alla Corte di dichiarare la inammissibilità della “introduzione nel giudizio dei fatti nuovi e della nuova ricostruzione di cui alla discussione”. Su detta istanza il giudice di secondo grado non aveva provveduto ed aveva accolto il reclamo aderendo alla tesi della ASL, senza fare alcun cenno alle difese svolte dal dirigente, il quale aveva dimostrato come non vi potesse essere alcuna intenzionalità di eludere i sistemi di controllo della presenza in azienda.

1.2 – La seconda censura, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, denuncia la violazione di plurime disposizioni del codice di rito (artt. 101, 112, 115, 132 e 416 c.p.c.), dell’art. 2697 c.c., dell’art. 111 Cost. e della L. n. 300 del 1970, art. 7. Il ricorrente, oltre a richiamare le doglianze già oggetto del primo motivo, evidenzia che la Corte territoriale, per valutare la sussistenza della denunciata violazione del principio della immutabilità della contestazione, avrebbe dovuto comparare le due condotte e non “fare riferimento ad una equivalenza di funzione, equivalenza da trarre in base ad un procedimento interpretativo”. Aggiunge che la ASL, dopo avere contestato solo la sovrapposizione degli orari, aveva ritenuto di intimare il licenziamento in relazione all’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a) ma non aveva in alcun modo dimostrato la asserita alterazione dei sistemi di controllo. Anche al riguardo la Corte territoriale avrebbe dovuto motivare, trattandosi di un punto decisivo per la soluzione della controversia.

1.3 – Il terzo motivo lamenta “violazione e falsa applicazione della L. n. 165 del 2001, art. 55 quater (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5); violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Dopo avere ribadito che il diritto di difesa era stato leso dalla modifica della contestazione e, poi, delle circostanze dedotte in sede processuale, rileva il ricorrente che la condotta fraudolenta richiede che il fatto oggettivo sia dolosamente preordinato al raggiungimento di un fine illecito. Aggiunge che la giurisprudenza penale, richiamata dalla Corte territoriale, richiede anche che il soggetto agisca al fine di profitto mentre nel caso di specie detta finalità doveva essere sicuramente esclusa, così come doveva essere esclusa la induzione in errore, perchè il sistema di controllo della attività libero professionale prevedeva l’invio di atti il cui esame avrebbe agevolmente consentito di rilevare la sovrapposizione di orari poi contestata. Infine censura la sentenza impugnata per avere travisato le prove documentali offerte perchè l’ufficio libera professione condivideva le informazioni con l’ufficio del personale e con le strutture contabili che provvedevano al pagamento.

2 – Il primo motivo è inammissibile, nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 437 c.p.c., perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4.

Il ricorrente sostiene, in sintesi, che la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare la inammissibilità dei motivi di reclamo con i quali la ASL aveva prospettato nuovi argomenti a sostegno della asserita legittimità del licenziamento, ma non fornisce gli elementi necessari per verificare la fondatezza del rilievo.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte riporti, nel ricorso stesso, gli elementi e i riferimenti atti a individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (Cass. 8.6.2016 n. 11738 e Cass. 30.9.2015 n. 19410).

Pertanto, qualora venga denunciata la novità delle questioni prospettate solo in sede di impugnazione (nel rito disciplinato dalla L. n. 92 del 2012 in violazione dell’art. 1, comma 59 stessa legge e non dell’art. 437 c.p.c.) il ricorrente è tenuto a riportare nel ricorso il contenuto degli scritti difensivi della controparte e ad allegare gli stessi ex art. 369 c.p.c., n. 4 o, in alternativa, a fornire precise indicazioni che consentano alla Corte di rintracciare immediatamente gli atti nel fascicolo processuale.

Nel caso di specie l’esposizione dei fatti di causa risulta estremamente analitica quanto al contenuto degli atti formati dal D.F., ma non riporta le deduzioni della ASL nelle diverse fasi del giudizio (limitandosi a rinviare alla motivazione della sentenza impugnata) e, quindi, non fornisce alla Corte gli elementi necessari per valutare la denunciata inammissibilità dei motivi di reclamo.

2.1 – Palesemente infondato è il motivo nella parte in cui eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., perchè il giudice di appello ha dato ampio conto delle ragioni per le quali la condotta addebitata al D.F., valutata nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, doveva essere ritenuta di gravità tale da giustificare il licenziamento per giusta causa.

Occorre al riguardo evidenziare che la sentenza è stata pubblicata l’8 aprile 2015, sicchè è applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.”, sicchè quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perchè non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.

2.2 – Non sussiste, poi, la asserita violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte territoriale non aveva alcun obbligo di pronunciare su quanto dedotto nella “istanza fuori udienza”, irritualmente depositata dalla difesa del D.F.. Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 60, prevede che la corte d’appello, “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione”.

Così come per il rito disciplinato dagli artt. 433 c.p.c. e segg. la autorizzazione al deposito è rimessa alla facoltà discrezionale del giudice (Cass. 5.8.2013 n. 18627), sicchè, in mancanza di detta autorizzazione, tutte le difese delle parti devono essere illustrate oralmente.

3 – Il secondo motivo presenta profili di inammissibilità perchè denuncia ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 la violazione di plurime disposizioni di legge, senza individuare con chiarezza i vizi della sentenza impugnata e senza indicare in modo esplicito le ragioni per le quali le norme richiamate in rubrica sarebbero state erroneamente applicate dal giudice di appello.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che nel giudizio di cassazione il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato autonomamente, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità purchè la formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato (Cass. S.U. 6.5.2015 n. 9100).

E’ stato, inoltre, evidenziato che la violazione e falsa applicazione di norme di diritto deve essere dedotta non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a dimostrare motivatamente in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina; diversamente il motivo è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione (Cass. n. 328/2007; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 20957/2014; Cass. n. 635/2015).

Da ciò discende che l’esame verrà limitato alle censure adeguatamente illustrate nel motivo, con il quale il ricorrente, oltre a riproporre questioni già prospettate nella prima censura, addebita sostanzialmente alla sentenza impugnata la violazione del principio della immutabilità, a suo dire violato perchè l’addebito originario si riferiva alla sola sovrapposizione degli orari e non menzionava la falsa attestazione della presenza in servizio, fatto, questo, posto a fondamento del recesso per giusta causa.

La censura è infondata.

Nel procedimento disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, nè si ispira ad uno schema precostituito e a una regola assoluta e astratta, “ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa” (Cass. 30.12.2009 n.27842).

Dalla finalità che la contestazione realizza questa Corte ha tratto la conseguenza che non interferisce con il principio della immutabilità la diversa qualificazione giuridica del fatto addebitato, giacchè il diritto di difesa è leso solo qualora a fondamento dell’atto di recesso vengano poste circostanze diverse da quelle addebitate, in relazione alle quali il lavoratore non sia stato in grado di rappresentare la propria posizione.

L’indagine comparativa che il giudice del merito è chiamato ad effettuare non deve, pertanto, arrestarsi alla formulazione letterale dei due atti a confronto, ma deve riguardare gli aspetti sostanziali della condotta e deve considerare che una circostanza in tanto può essere ritenuta “nuova” in quanto la stessa esuli dall’originario atto di incolpazione. Ciò non si verifica allorquando il fatto in relazione al quale il licenziamento viene intimato può essere ricompreso nella contestazione, della quale costituisce specificazione, effettuata all’esito del procedimento disciplinare e delle difese svolte dall’incolpato.

Il ricorso, per sostenere la violazione del principio della immutabilità, fa leva solo sul tenore letterale dei due atti, lì dove, al contrario, la Corte territoriale ha correttamente valorizzato la funzione della contestazione, rilevando che all’esito della proceduta la ASL aveva individuato l’ipotesi normativa applicabile alla fattispecie, senza violare in alcun modo il diritto di difesa del D.F., che aveva interloquito su tutti gli aspetti della vicenda, e senza modificare la materialità del fatti, in quanto la “falsa attestazione della presenza in servizio” era sostanzialmente corrispondente alla sovrapposizione di orari originariamente contestata.

Le conclusioni alle quali il giudice di appello è pervenuto, incensurabili in sede di legittimità quanto al giudizio di fatto, risultano rispettose dei principi di diritto sopra enunciati, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso.

3 – Non sussiste la denunciata violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater giacchè la interpretazione data alla norma dalla sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio intende dare continuità (Cass. nn. 17637, 17259, 24574 del 2016).

E’ stato, infatti, affermato che la chiara formulazione della disposizione (nel testo applicabile ratione temporis alla vicenda dedotta in giudizio, realizzatasi prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1) e anche la sua ratio, evincibile dall’obiettivo, enunciato nel D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 67, comma 1 di “potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo”, inducono a ritenere che la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio.

La condotta che si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti, idonea oggettivamente a indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e costituisce, altresì, condotta penalmente rilevante ai sensi del D.Lgs n. 165 del 2001, art. 55, comma 1.

3.1 – Questa Corte ha anche evidenziato che utili elementi a conforto della esegesi accolta possono desumersi dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1. Tale norma ha introdotto nell’art. 55 quater il comma 1 bis che dispone “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.

E’ certo innegabile che l’intervento additivo, sicuramente non qualificabile come fonte di interpretazione autentica, non ha efficacia retroattiva; è nondimeno indiscutibile la potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l’interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell’ordinamento giuridico (Cass. SSUU n.18353/2014).

Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che nella fattispecie dedotta in giudizio ricorresse l’ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente, essendo “incontestato che il D.F., pur risultando continuativamente in servizio, di fatto si allontanava negli orari di visita presso la struttura convenzionata, senza procedere alla timbratura della scheda magnetica, così attestando falsamente la propria presenza sul luogo di lavoro”.

3.2 – Le deduzioni svolte in merito alla assenza di frode esulano dal perimetro del vizio di sussunzione, perchè attengono al giudizio di fatto e mirano ad ottenere una rivalutazione delle risultanze processuali, non consentita in sede di legittimità.

La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo precisato che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. 21.11.2016 n. 24029 e Cass. 17.5.2016 n. 10057 Cass. 10.7.2015 n. 14468).

Da detto principio generale è stata tratta la conseguenza, in tema di licenziamento per giusta causa, della possibilità di configurare un vizio di sussunzione solo qualora “la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5..” (Cass. 23.9.2016 n. 18715) e, quindi, per le sentenze pronunciate decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, sarà denunciabile unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Detto vizio non ricorre nella fattispecie perchè la Corte territoriale, dopo avere ritenuto provata la materialità della condotta, ha escluso la allegata buona fede del D.F., esaminando e ritenendo infondati gli argomenti difensivi da quest’ultimo allegati a sostegno della asserita illegittimità del recesso.

In particolare il giudice di appello ha ritenuto irrilevanti sia l’invio della documentazione attestante la attività libero professionale, sia le eccedenze di orario maturate dal dirigente e ha ampiamente motivato sulla gravità della condotta, anche valorizzando il ruolo apicale ricoperto dal D.F. il quale, in quanto preposto alla direzione della struttura complessa, era tenuto garantire il rispetto delle procedure imposte per la attestazione dell’orario di servizio e a segnalare eventuali abusi o omissioni nei riscontri documentali.

Ha, poi, evidenziato che la prestazione di attività libero professionale in orari diversi da quelli autorizzati era di per sè lesiva degli interessi dell’Azienda, posto che la autorizzazione medesima teneva evidentemente conto delle esigenze organizzative della struttura diretta.

Tanto basta per escludere la fondatezza del motivo.

4 – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura indicata in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15 % ed accessori legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2017