Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 05/12/2017) 05/04/2018, n. 8410

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10600-2016 proposto da:

C.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE MARRA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 1602/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/02/2016 r.g.n. 4493/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MICHELE MARDEGAN per delega verbale Avvocato MICHELE MARRA;

udito l’Avvocato PAOLA DE NUNTIS.

Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Napoli ha respinto il reclamo proposto da C.A. avverso la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Santa Maria C.V. che, respingendo l’opposizione L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, aveva confermato l’ordinanza di rigetto del ricorso avente ad oggetto il licenziamento intimato al C. dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in esito a procedimento disciplinare.

2. La Corte territoriale ha osservato, in sintesi, quanto segue:

– contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il primo giudice non si era limitato a recepire l’accertamento di colpevolezza contenuto nella sentenza penale di condanna, ma aveva valutato in piena autonomia le risultanze del procedimento penale, acquisite nel contraddittorio delle parti, pur in mancanza di dibattimento, che nella specie non si era tenuto a causa della scelta del rito abbreviato da parte del C.;

– gli elementi acquisiti al processo penale avevano evidenziato che il dipendente si era reso responsabile del reato di concussione continuata in quanto, in qualità di assistente amministrativo presso l’Ispettorato del lavoro, abusando dei propri poteri e della propria qualità, si era fatto consegnare somme di denaro dai gestori di due esercizi commerciali prospettando loro la possibilità di evitare i controlli riguardanti la regolarità della posizione lavorativa del personale dipendente; tali risultanze probatorie non risultavano validamente contraddette dalle generiche difese svolte dall’imputato, non suffragate da alcun riscontro;

– la mancata ammissione delle prove testimoniali in primo grado era del tutto condivisibile, stante la genericità delle circostanze dedotte e l’indicazione, quali testi, delle parti offese, che avevano già riferito i fatti in maniera estremamente circostanziata, mentre le giustificazioni relative a presunte difficoltà familiari non avrebbero potuto sminuire la gravità della condotta, riferibile a fatti di rilevanza penale;

– non ricorreva una situazione di complessità dei fatti che giustificasse la necessità di attendere il passaggio in giudicato la sentenza penale prima di irrogare il licenziamento;

– era infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, atteso che tale norma sancisce l’autonomia dell’illecito disciplinare da quello penale e prevede la possibilità della sospensione del procedimento disciplinare nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente.

3. Per la cassazione di tale sentenza il C. propone ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la cui costituzione ha sanato la nullità della notifica del ricorso eseguita presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato anzichè presso l’Avvocatura Generale.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter per non avere l’Amministrazione datrice di lavoro sospeso il procedimento disciplinare in attesa dell’esito di quello penale, in presenza di una situazione ancora non definitivamente accertata con sentenza passata in giudicato, e per avere la Corte territoriale omesso di considerare, a tal fine, la L. n. 97 del 2001, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis e il CCNL di comparto del 12 giugno 2003.

2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte di appello richiamato, a fondamento del decisum, la denuncia delle parti lese, che non aveva mai fatto parte del fascicolo civile, ma era stata menzionata solo nella sentenza penale, la quale costituiva l’unica fonte di prova.

3. Il ricorso è infondato.

4. Il primo motivo sostanzialmente verte su un presunto obbligo della Pubblica Amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare in attesa dell’esito definitivo di quello penale. Tale tesi non trova alcun riscontro nella disciplina che regola la fattispecie in esame. Il procedimento disciplinare, avviato il 10 marzo 2011, è regolato dall’art. 55-ter D.Lgs., introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta); tale è la norma applicabile, che – com’è noto – ha inciso sul sistema delle fonti che regolano il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, operando la riaffermazione del primato della fonte legislativa rispetto al ruolo prima prevalente della contrattazione collettiva. Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 1, u.p. prevede infatti che “nelle materie relative alle sanzioni disciplinari,…la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”; inoltre, l’art. 55, comma 1 medesimo D.Lgs. attribuisce carattere di “norme imperative” alle “disposizioni del presente articolo di quelli seguenti”, con sostituzione automatica delle clausole contrattuali difformi rispetto, e previsioni legislative, in base agli artt. 1339 e 1419 c.c. testualmente richiamati.

4.1. Tanto premesso, l’art. 55-ter introdotto dalla riforma del 2009, nel testo allora vigente (ora oggetto del D.Lgs. n. 25 maggio 2017, n. 75, art. 14), dispone, al primo comma, che “Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all’art. 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all’art. 55-bis, comma 1, secondo periodo, l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente”.

5. La regola generale così introdotta è quella della autonomia dei due procedimenti (quello disciplinare e quello penale); la norma contempla la possibilità della sospensione (dunque facoltativa e non obbligatoria) come eccezione, nei casi di maggiore gravità (ossia per fatti sanzionabili con misure superiori alla sospensione fino a 10 gg.) e nei limiti in cui ricorrano casi di particolare complessità e qualora l’istruttoria disciplinare non abbia consentito di acquisire elementi sufficienti alla contestazione.

5.1. La sentenza impugnata muove, dunque, da una corretta interpretazione della normativa che regola la fattispecie, atteso che non è rinvenibile nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, che disciplina i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, alcun obbligo di sospensione del primo in attesa della definizione del secondo.

6. Neppure esiste una disposizione che imponga alla Pubblica Amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare. La Pubblica Amministrazione è, infatti, libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente e ben può avvalersi dei medesimi atti, in sede d’impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti (Cass. n.5284 del 2017, Cass. n.19183 del 2016).

7. Quanto all’apprezzamento delle prove acquisite in sede penale, va premesso che tali risultanze, pure ove il relativo procedimento si sia concluso con sentenza di patteggiamento o in sede di giudizio abbreviato, sono validamente utilizzabili dal giudice civile che, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. n. 2168 del 2013; v. pure Cass. n. 5317 del 2017, n. 8603 del 2017).

8. Il ricorrente sembra dolersi altresì del mero recepimento, da parte del giudice civile, delle risultanze istruttorie acquisite nel diverso procedimento, in quanto mediate dalla sentenza penale.

8.1. Anche in relazione a tale censura il ricorso è infondato, in quanto la Corte di appello, nel condividere e confermare le valutazioni già espresse dal primo giudice, ha dato conto del fatto che queste erano state espresse sulla base di un vaglio critico delle prove penali, sulle quali giudice civile ha così espresso un proprio autonomo apprezzamento.

8.2. A ciò va poi aggiunto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. tra le più recenti, Cass. n. 11985 del 2016), la motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, dovendosi giudicare la sua completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell’atto al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante dell’atto rinviante (Cass. n. 979/2009). Così è stata ritenuta ammissibile la motivazione per relationem della sentenza emessa in materia disciplinare attraverso il rinvio ad altri provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, purchè la fonte richiamata sia identificabile ed accessibile alle parti (Cass. S.U. 16277 del 2010), come pure è stato ritenuto che non incorre nella violazione dell’art. 111 Cost., artt. 113 e 132 c.p.c. la motivazione della sentenza che, rinviando a principi di diritto sanciti dalla Corte di cassazione, rende detti principi parte integrante dell’atto rinviante, consentendo, in tal modo, il controllo di completezza e logicità della motivazione (Cass. n. 23223 del 2010).

9. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo.

10. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2018


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 08/03/2018) 04/04/2018, n. 8293

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – rel. Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28389-2012 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA GERMANICO 12, presso lo studio dell’avvocato FIAMMETTA FIAMMERI, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

DIREZIONE PROVINCIALE DI ROMA III AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 648/2011 della COMM.TRIB.REG. di ROMA, depositata il 19/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2018 dal Consigliere Dott. LIANA MARIA TERESA ZOSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione, in subordine rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIAMMERI che si riporta agli atti.

Svolgimento del processo
1. F.G. impugnava la cartella di pagamento notificata il 2 aprile 2009 relativa ad Invim per l’anno 1998 e diritti camerali per l’anno 2005 derivante da avviso di liquidazione resosi definitivo per mancata impugnazione. Il contribuente sosteneva che mancava la notifica dell’avviso di accertamento prodromico e che l’Ufficio era incorso in decadenza.

La commissione tributaria provinciale di Roma rigettava il ricorso con sentenza che era confermata dalla commissione tributaria regionale del Lazio sul rilievo che il giudice di primo grado aveva verificato che il prodromico avviso di accertamento era stato notificato al portiere dello stabile sicchè l’atto si era reso definitivo per mancata impugnazione e la cartella avrebbe potuto essere impugnata solo per vizi propri. L’ufficio, poi, non era incorso in decadenza in quanto, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, i crediti dell’amministrazione finanziaria si prescrivono in 10 anni.

2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione il contribuente formulando tre motivi. L’agenzia delle entrate si è costituita in giudizio al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c..

3. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 1, e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene che nel giudizio di primo grado l’agenzia delle entrate ha depositato tardivamente il documento da cui si evinceva la notifica dell’avviso di accertamento. Ciò in quanto l’udienza davanti alla commissione tributaria provinciale era fissata per il 21 giugno 2010 e l’Ufficio si è costituito l’11 giugno 2010, per il che vi era stata violazione della norma di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32 che prevede che le parti possono depositare documenti fino a 20 giorni prima della data di trattazione.

4. Con il secondo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 139 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene che la CTR ha omesso di accertare se il notificatore, prima di consegnare il plico al portiere avesse attestato la mancanza del destinatario ovvero di una persona di famiglia addetta alla casa. Ciò in quanto la notifica effettuata a mani del portiere dello stabile, quando la relazione dell’ufficiale postale non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale, è nulla.

5. Con il terzo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 139 c.p.c. e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la CTR ha omesso di accertare se il notificatore avesse informato il destinatario dell’avvenuta consegna a mani del portiere a mezzo di invio di lettera raccomandata, posto che dal mancato invio di tale raccomandata deriva la nullità della notifica.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato D.Lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio) che adempie (Cass. n. 655 del 15/01/2014). Tuttavia, tale norma va interpretata in combinato disposto con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, che prevede, la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in appello che, tuttavia, può essere esercitata anche al di fuori degli stretti limiti fissati dall’art. 345 c.p.c., ma pur sempre, atteso il richiamo operato dal D.Lgs. n. 546, art. 61 alle norme del giudizio tributario di primo grado, entro il termine perentorio sancito dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto (Cass. n. 20109 del 16/11/2012). Pertanto i documenti tardivamente depositati nel giudizio di primo grado vanno esaminati nel giudizio di appello, ove acquisiti al fascicolo processuale, dovendosi ritenere comunque prodotti in grado di appello ed esaminabili da tale giudice in quanto prodotti entro il termine perentorio sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 1, applicabile anche al giudizio di appello (Cass. n. 3661 del 24/02/2015).

2. Il secondo ed il terzo motivo debbono essere esaminati congiuntamente in quanto attengono a questioni strettamente connesse. L’art. 139 c.p.c. prevede, ai suoi commi 3 e 4, che “in mancanza delle persone indicate nel comma precedente” – e cioè del destinatario di persona, oppure di una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (purchè non minore di quattordici anni o non palesemente incapace) -, “la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda…”: nel qual caso, “il portiere… deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”.

La Corte di legittimità ha più volte affermato che, in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto; ed il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 c.p.c., comma 2, secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. Ne discende che deve ritenersi nulla la notificazione nelle mani del portiere, allorquando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga – come nel caso di specie – l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma succitata (Cass. Sez. U, n. 8214 del 20/04/2005; Cass. n. 4627 del 16/12/2013 dep. il 26/02/2014 2014; Cass. n. 22151 del 27/09/2013). La Corte di legittimità ha, poi, affermato che l’omissione dell’avviso a mezzo di invio di lettera raccomandata non è una mera irregolarità ma è causa di nullità della notificazione per vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario notificante, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale stesso, secondo un principio esteso pure alla notifica a mezzo posta. Ciò attesa la funzione dell’avviso nella struttura complessiva di una notificazione che si perfeziona a persona non legata da quei particolari vincoli evidenziati nell’art. 139 c.p.c., comma 2, ma pur sempre da altri di peculiare intensità: l’atto entra a far parte della sfera di effettiva conoscibilità del destinatario, ma in una sua porzione connotata da un grado minore di possibilità di prendere immediata conoscenza dell’atto, rispetto a quelle altre fattispecie indicate dal secondo comma per la natura assai stretta del vincolo che lega al destinatario il consegnatario dell’atto; ed un tale minor grado di conoscibilità, se non la degrada al punto di rendere necessario lo spostamento ulteriore del momento di perfezionamento della notifica come accade appunto per l’ipotesi contemplata dall’art. 140 c.p.c., esige però almeno di essere colmato con quel quid pluris costituito dalla spedizione dell’ulteriore avviso, sia pure ex post e appunto non incidente sul precedente tempo in cui l’attività notificatoria si è svolta e compiuta (Cass., Sez. U, n. 18992 del 31/07/2017Cass. n. 1366 del 25/01/2010; Cass. n. 19366 del 21/08/2013).

Infine la Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di atti impositivi, deve ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento, effettuata mediante consegna al portiere dello stabile, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, senza che nella relazione di notificazione vi sia l’attestazione del tentativo di consegna alle altre persone preferenzialmente indicate, qualora sia provata la ricezione della raccomandata contenente la notizia dell’avvenuta notificazione, la quale non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazioni a mezzo posta, ma solo al regolamento postale, sicchè, ai fini della sua validità, è sufficiente che il plico sia consegnato al domicilio del destinatario e che il relativo avviso di ricevimento sia sottoscritto dalla persona rinvenuta dall’ufficiale postale, non essendo necessario che da esso risulti anche la qualità del consegnatario o la sua relazione con il destinatario (Cass. n. 19795 del 09/08/2017).

Diverse considerazioni si impongono nel caso in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982, con la conseguenza che, in caso di notifica al portiere, essa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento da quest’ultimo sottoscritto, senza che si renda necessario l’invio di raccomandata (Cass. n. 12083 del 2016; n.17598/2010; n.911/2012; n. 14146/2014; n.19771/2013; n. 16949/2014) Dalla sentenza impugnata non è dato evincere se la notifica sia avvenuta a mezzo di ufficiale giudiziario o con invio diretto a mezzo posta. Ne primo caso, il riscontro della regolarità della notifica dell’avviso di accertamento dovrebbe avere ad oggetto anche l’invio della raccomandata poichè, se essa fosse stata inviata, ciò sanerebbe la nullità derivante dalla mancata menzione nella relata delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto. Diversamente, in caso di mancato invio della raccomandata, la notifica dell’avviso di accertamento, prodromico all’emissione della cartella impugnata, sarebbe nulla.

Nel secondo caso la notifica si sarebbe perfezionata con la ricezione della raccomandata da parte del portiere.

3. L’impugnata decisione va, dunque, cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio in diversa composizione che, adeguandosi ai principi esposti, procederà alle necessarie verifiche e deciderà nel merito oltre che sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa l’impugnata decisione e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 marzo 2018

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2018


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 21-09-2017) 04-04-2018, n. 8174

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7554/2016 proposto da:

H.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 36-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO PETROCCHI;

– ricorrente –

COMUNE di FIRENZE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA SANSONI, DEBORA PACINI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 3241/2015 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata l’01/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Giudice di pace di Firenze accoglieva l’opposizione L. n. 689 del 1981, ex art. 22, proposta da H.A., cittadino tedesco residente in (OMISSIS), avverso un verbale di contravvenzione al C.d.S., deducendo tra l’altro l’inesistenza della notifica del suddetto atto effettuata a mezzo posta e non con le modalità previste dalle convenzioni internazionali per le notifiche all’estero.

Successivamente il Tribunale di Firenze, con la sentenza n. 3241/2015, accoglieva l’appello proposto dal Comune di Firenze, ed, in riforma dell’appellata sentenza del Giudice di Pace, rigettava l’opposizione formulata dall’appellato H..

A sostegno della decisione il Tribunale rilevava, per quanto qui di interesse, che in generale per la notifica in (OMISSIS) degli atti amministrativi, qual era il verbale di contravvenzione al C.D.S. emesso dalla polizia municipale, dovesse trovare applicazione la disciplina contenuta nella Convenzione di Strasburgo del 24.11.1977. Tuttavia nel caso di specie l’art. 201 C.d.S., consentiva “…la notifica a mezzo del servizio postale come alternativa paritaria rispetto a quella effettuata secondo il codice di rito e che l’art. 201 C.d.S., trovava applicazione preferenziale rispetto all’art. 142 c.p.c., ratione temporis”. In ogni caso quand’anche si fosse voluto affermare che la notifica a mezzo del servizio postale non poteva essere effettuata, ciò non avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di inesistenza della notifica, ma solo a nullità della stessa, sanata ai sensi dell’art. 156 c.p.c., avendo raggiunto il suo scopo.

Inoltre il Tribunale con riguardo alla censura relativa al fatto che il verbale di contravvenzione fosse stato notificato in lingua tedesca, perfettamente comprensibile all’appellante, riteneva che si trattasse di un mero vizio formale, che non impediva al destinatario di svolgere il suo atto di opposizione, per cui non era ravvisabile alcuna nullità.

Avverso la suddetta decisione H.A. propone ricorso per cassazione, formulando tre distinti motivi. Resiste il Comune di Firenze con apposito controricorso, contenente anche ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Ritenuto che il ricorso principale potesse essere rigettato, assorbito l’incidentale condizionato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato anche memoria illustrativa.

Atteso che:

con il primo motivo di ricorso l’ H. denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 10 Cost., art. 142 c.p.c., art. 201 C.d.S., commi 1 e 3, lamentando che il giudice di appello, pur individuando correttamente la disciplina applicabile per la notifica in (OMISSIS), ossia quella prevista dalla Convenzione di Strasburgo del 24.11.1977, ha poi inopinatamente ritenuto che l’art. 201 C.d.S., consentisse di effettuare, in deroga a quanto previsto dalla Convenzione citata, la notifica a mezzo posta direttamente al destinatario residente in (OMISSIS);

con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3: in particolare, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della norma citata, giacche quand’anche si fosse voluto affermare che la notifica a mezzo del servizio postale non poteva essere effettuata, il giudice del gravame ha ritenuto che il vizio non dava luogo ad un’ipotesi di inesistenza della stessa, ma solo a nullità della notifica a H., sanata ai sensi dell’art. 156 c.p.c., avendo essa raggiunto il suo scopo, in palese violazione del divieto posto dall’ordinamento tedesco;

con il terzo mezzo, con cui è denunciata ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione del R.D.L. n. 1796 del 1925, art. 1, nonché dell’art. 7 della Convenzione di Strasburgo del 24/11/1977, per essere stato il verbale di contestazione notificato solo nella sua traduzione in lingua tedesca;

con l’unico motivo del ricorso incidentale il Comune di Firenze lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’inesistenza della procura speciale alle liti rilasciata su foglio a parte in primo grado da H.A., deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c. e l’omessa pronuncia su un punto decisivo per il giudizio da parte del giudice di appello;

ragioni di ordine logico giuridico impongono di esaminare in primo luogo l’unico motivo del ricorso incidentale, essendo evidente che l’eventuale giudizio positivo circa la validità della procura alle liti sarebbe assorbente rispetto alle altre doglianze. Essa è fondata.

Il Tribunale pur dando atto che il Comune di Firenze aveva eccepito, in via pregiudiziale, l’inammissibilità dell’appello per nullità/inesistenza della procura alle liti rilasciata da H., non offre però alcuna motivazione in ordine a tale eccezione.

Occorre muovere dalla considerazione che, in base al disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12, a tenore del quale il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana, la procura alle liti utilizzata in un giudizio celebrato nel nostro Stato, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci. A tal fine occorre però che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, quanto alla scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cass. Sez. Un. 13 febbraio 2008 n. 3410; Cass. 14 novembre 2008 n. 27282).

Sotto altro, concorrente profilo, va poi osservato che, benchè l’art. 122 c.p.c., comma 1, prescrivendo l’uso della lingua italiana, si riferisce ai soli atti endoprocessuali e non anche agli atti prodromici al processo, come la procura, per questi ultimi vige pur sempre il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (cfr. Cass. Sez. Un. 2 dicembre 2013 n. 26937; Cass. 29 dicembre 2011 n. 30035; Cass. 14 novembre 2008 n. 27282). Venendo al caso di specie, la procura, rilasciata da H., in (OMISSIS), era esente, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ratificata dall’Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253, nonchè alla Convenzione bilaterale tra l’Italia e la (OMISSIS) conclusa in Roma il 7 giugno 1969, sia dalla legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, sia dalla c.d. apostille, e cioè dal rilascio, da parte dell’organo designato dallo Stato di formazione dell’atto, di un attestato idoneo a che l’atto venga riconosciuto ed accettato come autentico.

Tanto non esclude, tuttavia, che andava allegata non solo la traduzione della procura speciale, ma anche quella dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma era stata apposta in sua presenza, da persona di cui egli aveva accertato l’identità. Il mancato espletamento di tale adempimento comporta la nullità della procura (v. in termini, Cass. 29 maggio 2015 n. 11165).

Il Collegio rileva, altresì, che ai sensi dell’art. 182 c.p.c., comma 2 (nel testo applicabile “ratione temporis”, successivo alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009, trattandosi di procura rilasciata in data 21 febbraio 2011), il giudice ogni qualvolta rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione “può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretato nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti “ex tunc”, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali.

Non può dubitarsi dell’applicabilità di tale principio anche al vizio inerente alla procura alle liti, come affermato di recente, sia pure con riferimento alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009, all’art. 182 c.p.c., dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. 22 dicembre 2011 n. 28337).

L’accoglimento del ricorso incidentale nei termini testè precisati, assorbiti i motivi del ricorso principale, comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Firenze, in persona di diverso magistrato, che applicherà il principio sopra indicato, provvedendo, altresì, il merito al regolamento delle spese processuali inerenti al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale, assorbito quello principale;

cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Firenze, in persona di diverso magistrato, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 21 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2018


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 12-09-2017) 21-03-2018, n. 7066

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5702/2016 proposto da:

COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE MARZIO 3, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE IZZO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANTONELLA FRASCHINI, PAOLA MARIA CECCOLI, ANTONELLO MANDARANO;

– ricorrente –

contro

L.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 82, presso lo studio dell’avvocato VITTORIO SUSTER, rappresentato e difeso dall’avvocato MARINA ALBERTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 12578/2015 del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 10/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/09/2017 dal Consigliere Dott. Elisa Picaroni.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che il Tribunale di Milano, con sentenza depositata il 10 novembre 2015, ha rigettato l’appello proposto dal Comune di Milano avverso la sentenza del Giudice di pace di Milano n. 1612 del 2015, e nei confronti di L.E., e per l’effetto ha confermato l’annullamento del verbale di accertamento della violazione dell’art. 142 C.d.S., comma 8;

che la violazione era stata registrata dal sistema di rilevamento automatico in data 25 maggio 2014, e il verbale di accertamento è stato notificato in data 1 dicembre 2014;

che il Tribunale ha condiviso il rilievo del Giudice di pace, che aveva accolto l’eccezione di tardività della notifica del verbale di accertamento;

che per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Comune di Milano, sulla base di un motivo anche illustrato da memoria;

che resiste con controricorso L.E.;

che il relatore ha formulato proposta di decisione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., di manifesta infondatezza del ricorso;

che con l’unico motivo il Comune di Milano denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 201 C.d.S., e contesta che, nel caso di rilevamento automatico dell’infrazione, l’accertamento dell’illecito avviene necessariamente in un momento successivo e richiede un’attività istruttoria complessa – a mezzo dell’esame dei fotogrammi e l’incrocio dei dati – finalizzata a riscontrare il nesso tra il veicolo di cui è stato registrato il transito e la proprietà dello stesso;

che, pertanto, il momento dal quale decorre il termine per la notifica del verbale non può che coincidere con quello dell’effettivo accertamento dell’infrazione, che nel caso in esame avvenuto entro il termine di novanta giorni;

che, in ogni caso, doveva ritenersi congruo il termine intercorso tra il rilevamento automatico dell’infrazione e la notifica del verbale di accertamento, in quanto proporzionato alla quantità di violazioni commesse nei luoghi nei quali il Comune ha predisposto il sistema di rilevamento automatico della velocità dei veicoli in transito;

che la doglianza è manifestamente infondata;

che il Tribunale ha escluso la congruità del periodo di cinque mesi che l’Amministrazione comunale ha impiegato per verificare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi della violazione e notificare il verbale al trasgressore;

che l’affermazione, argomentata sul rilievo della relativa semplicità del riscontro dei dati (dalla targa dell’autovettura memorizzata dall’apparecchiatura di rilevamento automatico, all’identificazione del titolare), e dall’assenza di allegazioni circa la particolare difficoltà dell’accertamento, risulta immune da vizi;

che, in tema di sanzioni amministrative derivanti da infrazione del codice della strada, questa Corte regolatrice ha già chiarito che, qualora sia impossibile procedere alla contestazione immediata, il verbale deve essere notificato al trasgressore entro il termine fissato dall’art. 201 C.d.S., (novanta giorni, a seguito della modifica apportata con la L. n. 120 del 2010, art. 36, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’ultima parte del citato art. 201, e cioè che non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile (per tutte, Cass. 25/03/2011, n. 6971; Cass. Sez. U. 09/12/2010, n. 24851);

che la ratio che sorregge l’ipotesi residuale, e giustifica la decorrenza del termine dal momento in cui l’Amministrazione sia posta in condizione di identificare il trasgressore o il suo luogo di residenza, è invocabile soltanto in presenza di situazioni di difficoltà di accertamento addebitabili al trasgressore (tardiva trascrizione trasferimento della proprietà del veicolo; omissione di comunicazione del mutamento di residenza), ma non quando, come nella specie, la difficoltà è connessa all’attività dell’Amministrazione, chiamata a gestire un numero elevato di violazioni registrate dai rilevatori di velocità, posto che l’effettività dell’azione dell’Amministrazione non può mai realizzarsi attraverso la compressione del diritto di difesa del trasgressore;

che la questione attiene al bilanciamento tra le esigenze dell’Amministrazione e il diritto di difesa del trasgressore, ed è stata oggetto a più riprese di interventi della Corte costituzionale;

che già con la sentenza n. 255 del 1994 il Giudice delle leggi osservò che il termine di notificazione, all’epoca di centocinquanta giorni, doveva ritenersi “contenuto in limiti tollerabili nel bilanciamento delle contrapposte esigenze, anche se ciò non può significare in futuro una illimitata libertà del legislatore. Questi non potrebbe non tener conto dei profili prospettati nell’ordinanza di rinvio, che avverte le difficoltà cui va certamente incontro il destinatario della contestazione, ai fini della predisposizione della propria difesa, quanto più remota è la data in cui si è svolto il fatto rispetto alla contestazione stessa. Un ulteriore prolungamento del termine non potrebbe, perciò, non porre dubbi di costituzionalità in termini di ragionevolezza”;

che, nella stessa pronuncia, si rilevava che “ad eventuali difficoltà di ordine organizzativo, cui finora si è ritenuto di far fronte con il prolungamento dei termini, ben potrebbe ovviarsi con misure tali da assicurare un più equo contemperamento fra le contrapposte esigenze, realizzando cioè, in armonia con l’art. 97 della Costituzione, una migliore efficienza degli uffici amministrativi che oggi è più facile ottenere con l’ausilio dei mezzi offerti dalla più avanzata tecnologia, certamente in grado di soddisfare le esigenze dell’amministrazione, senza creare ulteriori difficoltà ai soggetti destinatari della contestazione”;

che successivamente, con la sentenza n. 198 del 1996, la Corte costituzionale, muovendo nel solco dei principi enunciati dal precedente dictum, ha dichiarato l’illegittimità, per violazione dell’art. 24 Cost., del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 201, comma 1, (Nuovo codice della strada), “nella parte in cui, nell’ipotesi di identificazione dell’effettivo trasgressore o degli altri responsabili avvenuta successivamente alla commissione della violazione, fa decorrere il termine di centocinquanta giorni per la notifica della contestazione dalla data dell’avvenuta identificazione, anzichè dalla data in cui risultino dai pubblici registri l’intestazione o le altre qualifiche dei soggetti responsabili o comunque dalla data in cui la pubblica amministrazione è posta in grado di provvedere alla loro identificazione”;

che, sulla scorta dei principi richiamati, tenuto conto della evoluzione dei sistemi di rilevamento dei dati utilizzabili ai fini della identificazione del trasgressore e del luogo utile per la notifica, il legislatore del 2010 ha ridotto il termine da centocinquanta a novanta giorni, così attuando un ragionevole bilanciamento tra opposte esigenze di rango costituzionale (artt. 97 e 24 Cost.), e la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta all’interpretazione dell’art. 201 C.d.S., già i richiamata, a cui va dato seguito;

che il ricorso è rigettato e il ricorrente è condannato alle spese, nella misura liquidata in dispositivo;

che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 2 Civile, il 12 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2018


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 24-01-2018) 09-03-2018, n. 5747

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24031-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente – contro

B.M., B.F., B.R., elettivamente domiciliate in ROMA V.LE BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI LAZZARA, che le rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

C.D., C.A., C.C., C.R.F.;

– intimati – avverso la decisione n. 4441/2011 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE di ROMA, depositata il 21/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2018 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI.

Svolgimento del processo

che la controversia promossa da F., C., A. e C.D., nonchè F., R. e B.M., quali eredi di B.B., nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di liquidazione per INVIM e Registro, relativamente all’atto a rogito del notaio mandato, registrato il 16/10/1986, in seguito ad avviso di accertamento di valore non impugnato, è stata definita con la sentenza in epigrafe, recante il rigetto dell’appello erariale e, per l’effetto, la conferma della decisione della Commissione tributaria di secondo grado di Latina, la quale aveva dichiarato nulla la notifica del prodromico avviso di accertamento irritualmente eseguita, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 140 c.p.c., nei confronti di persona deceduta;

che la C.T.C. di Roma ha rilevato che l’avviso di accertamento, intestato alla de cuius dei contribuenti, è stato notificato dal messo notificatore, appresa la notizia del decesso della B. e non avendo reperito nel domicilio della destinataria persone idonee a ricevere l’atto, mediante deposito dell’atto medesimo presso la casa comunale e dandone notizia mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento spedita nel domicilio della de cuius, impersonalmente agli eredi, e che questi ultimi avevano fondatamente impugnato l’avviso di liquidazione successivamente notificato, assumendo di non aver avuto tempestiva cognizione dell’atto presupposto;

che l’Agenzia delle Entrate ricorre per ottenere la cassazione della sentenza con un motivo, cui le intimate F., R. e B.M., resistono con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

che con il motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, u.c., art. 140 c.p.c., D.P.R. n. 634 del 1972, art. 49, D.P.R. n. 643 del 1972, art. 20 giacché la CTC ha dichiarato la nullità dell’impugnato avviso di liquidazione delle imposte, in quanto atto consequenziale ad avviso di accertamento irritualmente notificato agli eredi di B.B., senza considerare che il richiamato art. 65 non riguarda l’ipotesi in cui l’Ufficio non abbia alcuna conoscenza della morte del soggetto passivo di imposta, e quindi dell’esistenza di eredi, cui indirizzare o notificare atti, cosicchè legittimamente la notifica dell’atto impositivo è eseguita al contribuente defunto nel domicilio fiscale dello stesso;

che la censura è infondata per le ragioni di seguito riportate;

che, ai fini della corretta soluzione della questione sottoposta all’esame del Collegio, va ricordato che l’obbligo di comunicazione previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, è volto a consentire agli uffici finanziari di azionare direttamente nei confronti degli eredi le obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del contribuente e, pertanto, se la comunicazione viene effettuata, l’avviso di accertamento va notificato personalmente e nominativamente agli eredi nel domicilio fiscale da loro indicato, mentre, se essa non viene effettuata, gli uffici possono intestare l’atto al dante causa e notificarlo presso l’ultimo domicilio dello stesso, nei confronti degli eredi collettivamente ed impersonalmente, sempre che “l’Amministrazione abbia comunque acquisito la notizia della morte del contribuente, non sussistendo altrimenti la giuridica possibilità di procedere alla notifica impersonale prevista dalla legge” (Cass. n. 12886/2007);

che il richiamato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, , non considera invece l’ipotesi in cui l’ufficio non abbia alcuna conoscenza della morte del soggetto passivo di imposta, ed a maggior ragione nemmeno dell’esistenza di eredi, per cui non potrebbe indirizzare loro alcun atto, nè notificazione di atti eventualmente destinati ad altri soggetti, nel caso di specie, la dante causa delle odierne intimate;

che nel caso di specie manca la comunicazione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, la quale non ha equipollenti (Cass. n. 23416/2015, n. 27284/2014), e neppure v’è prova che l’Agenzia delle Entrate fosse in possesso delle necessarie informazioni circa il decesso, in data (OMISSIS), di B.B., con conseguente inapplicabilità della disposizione;

che, pertanto, vale il principio secondo cui gli atti intestati ad un soggetto che, per quanto è a conoscenza dell’Ufficio, sia ancora in vita, deve essere non solo a lui destinato, ma a lui notificato nel suo domicilio fiscale o nel luogo da lui indicato nell’atto avente per oggetto il bene immobile sottoposto ad INVIM (Cass. n. 13504/2003);

che, tuttavia, come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, “Nel caso in cui il destinatario di un avviso di accertamento tributario sia deceduto, e gli eredi non abbiano provveduto alla comunicazione prescritta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2 e u.c., è nulla la notificazione nei confronti del defunto eseguita ai sensi dell’art. 140 c. p. c. “perchè sconosciuto all’indirizzo”, previo tentativo di consegna dell’atto presso il suo domicilio, non essendo la morte del destinatario equiparabile alla sua irreperibilità o al rifiuto di ricevere copia dell’atto.”;

che, infatti, un tentativo di notifica nei confronti di persona che risulti deceduta è, in realtà, un tentativo non riuscito e costituisce una ipotesi che non può essere equiparata a quella, contemplata dall’art. 140 c.p.c., d’irreperibilità del destinatario o di rifiuto di ricevere la copia, con la conseguenza che, ove il destinatario risulti deceduto, e non siano reperite nel suo ex domicilio persone idonee e disponibili a ricevere l’atto notificando, il notificatore non può procedere col rito degli irreperibili, nel senso indicato dalla norma suddetta, ma deve restituire l’atto con l’indicazione del motivo per cui la notificazione non ha potuto aver luogo, consentendo all’Ufficio, venuto così a conoscenza del decesso del contribuente, di disporre che l’atto sia notificato nei modi indicati dal citato art. 65;

che il messo notificatore, dopo aver appreso del decesso della B., e non avendo reperito nel domicilio della destinataria dell’atto persone idonee a riceverlo, non poteva validamente procedere alla notificazione secondo le modalità di cui all’art. 140 c.p.c. mancandone i relativi presupposti, come anche evidenziato dalle intimate nella memoria difensiva;

che le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della soccombente e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.000,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/02/2018) 28/02/2018, n. 4616

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. DI GERONIMO Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28564/2011 proposto da:

COMUNE DI GATTATICO, elettivamente domiciliano in ROMA VIA F. DENZA 20, presso lo studio dell’avvocato LORENZO DEL FEDERICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHRISTIAN CALIFANO;

– ricorrente –

contro

FRANTOIO BERTOZZI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO LEONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 83/2010 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA, depositata il 13/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/02/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO DI GERONIMO.

Svolgimento del processo
che:

1. Il Frantoio Bertozzi s.r.l. impugnava gli avvisi di accertamento con i quali il Comune di Gattatico procedeva al recupero dell’ICI dovuta per le annualità 2003-2007;

2. la CTR per l’Emilia Romagna, confermando la sentenza di primo grado, recepiva la tesi del contribuente, secondo cui i terreni di sua proprietà non erano assoggettabili ad ICI in quanto non edificabili;

3. il Comune di Gattatico propone ricorso per cassazione affidato ad un motivo, la società contribuente resiste eccependo l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza della CTR e, comunque, l’infondatezza del ricorso.

Motivi della decisione
che:

1. La preliminare eccezione di tardività del ricorso per cassazione è fondata. Sostiene la controricorrente che è decorso il termine breve per impugnare la sentenza della CTR, assumendo l’esistenza di una valida notifica della sentenza di secondo grado, secondo i modi previsti dal D.Lgs. n. 542 del 1992, novellato art. 38, in base al quale nel caso di specie la parte controricorrente ha documentato di avere proceduto alla notifica mediante consegna diretta della sentenza della CTR (depositata il 13/10/2010) al Comune di Gattatico in data 3/12/2010, sicchè il termine di 60 giorni per proporre ricorso in cassazione scadeva in data 3/2/2011, mentre il ricorso risulta notificato solo il 25/11/2011.

1.2 a fronte di tale deduzione, il Comune ricorrente ha eccepito che la consegna a mani della sentenza non integra una forma di notifica idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, richiamando a supporto l’orientamento di questa Corte secondo cui la conoscenza della sentenza da parte del soccombente non determina di per sè la decorrenza del termine breve. Pur condividendosi tale orientamento, deve rilevarsi la non applicabilità nell’ambito del processo tributario, stante la specialità della disciplina prevista per tale giudizio;

1.4 il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2, è stato modificato dal D.L. n. 40 del 2010, art. 3 (conv. L. n. 73 del 2010), essendosi previsto che “al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 38, comma 2, le parole: “a norma degli artt. 137 c.p.c. e segg.” sono sostituite dalle seguenti: “a norma dell’art. 16” e, dopo le parole: “dell’originale notificato”, sono inserite le seguenti: “ovvero copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata mezzo del servizio postale unitamente all’avviso di ricevimento”. La modifica normativa appena ricordata ha consentito alle parti private di procedere alla notificazione della sentenza con consegna diretta ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, in base al quale le notificazioni all’ufficio del Ministero delle finanze ed all’ente locale, possono essere effettuate “mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia”;

1.5. non è dubitabile che la peculiarità del regime della notifica valida in ambito tributario è sicuramente applicabile anche in relazione alla notifica della sentenza, come implicitamente riconosciuto da questa Corte, allorchè si è affermato il principio secondo cui in tema di contenzioso tributario, ai fini del decorso del termine “breve” per impugnare le sentenze, fissato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, la modifica dell’art. 38 dello stesso D.Lgs. per effetto del D.L. n. 40 del 2010, art. 3, comma 1, lett. a), conv., con modif., dalla L. n. 73 del 2010 – opera solo a partire dall’entrata in vigore della disposizione novellatrice, sicchè, per l’epoca precedente, la notifica della sentenza deve effettuarsi ai sensi degli artt. 137 e ss. c.p.c. e non già del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 16 (Cass. n. 9108 del 2017, rv. 643952);

1.6. occorre, altresì, precisare che questa Corte si è già espressa in merito alla validità della notifica nelle forme previste dal D.Lgs. n. 542 del 1992, art. 38, sia pur con riferimento alla diversa fattispecie della notifica mediante raccomandata A/R, affermando che nel processo tributario, ai fini del decorso del termine breve d’impugnazione la sentenza può essere notificata anche mediante servizio postale, in plico raccomandato, senza busta e con avviso di ricevimento, nel rispetto delle formalità previste dallo stesso art. 38 (Cass., ord. n. 26449 del 2017, rv. 646165);

1.7. analogo principi può, quindi, essere affermato anche nel caso in esame, dovendosi ritenere che nel processo tributario, la notifica della sentenza effettuata a mani della parte soccombente, è idonea a determinare il decorso del termine breve per proporre il ricorso per cassazione (in senso conforme, si veda Cass. n. 4222 del 2015, non massimata);

1.8. sulla base di tali principi, il ricorso per cassazione proposto dal Comune di Gattatico va dichiarato inammissibile, stante l’intervenuto decorso del termine per impugnare;

2. le spese di giudizio vanno compensate, atteso che la decisione si fonda su un orientamento giurisprudenziale successivo rispetto alla proposizione del ricorso.

P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese di giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2018


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 28-09-2017) 16-02-2018, n. 3805

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29404/2016 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.A.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 68, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PUOTI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1450/2016 della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA, depositata il 18/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/09/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ENZA LA TORRE.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza della C.T.R. della Campania, n. 1450/44/16 dep. 18.2.2016, emessa su riassunzione del giudizio originato dal silenzio rifiuto sull’istanza di rimborso proposto da D.A.M., ex dirigente Enel, di cui alla sentenza della Cassazione n. 241/2014, che aveva accolto il ricorso del contribuente demandando alla C.T.R. di “quantificare la somma corrispondente al rendimento netto derivante dalla gestione sul mercato finanziario del capitale accantonato” su cui applicare l’aliquota del 12,50%.

La C.T.R., sulla base della certificazione rilasciata dall’Enel, su cui è stata applicata l’aliquota TFR del 32,46%, ha ritenuto applicabile l’aliquota del 12,50% sul rendimento certificato dall’Enel, disponendone il rimborso.

D.A.M. si costituisce con controricorso e deposita successiva memoria.

L’Agenzia delle entrate deposita memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione proposta dal controricorrente per carenza della prescritta sottoscrizione digitale del ricorso e della relata di notifica.

1.1.Va premesso che la notificazione telematica degli atti è disciplinata: dalla L. 21 gennaio 1994, n. 53, artt. 1, 3 bis, 6, 9 e 11; dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 septies, conv. L. n. 221 del 2012; dal D.M. n. 44 del 2011, art. 18; dagli artt. 13 e 19 bis del Provvedimento del Responsabile S.I.A. del 16 aprile 2014, oltre che dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 (Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma della L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 27) e dal D.P.C.M. 2 novembre 2005 (Regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata). In particolare la L. n. 53 del 1994, nel disciplinare le modalità di notifica tramite PEC, rimanda all’art. 19 bis cit. (Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati – art. 18 del regolamento), emanate in attuazione del codice dell’amministrazione digitale, che al comma 1, e al comma 2, prevede solo che l’atto sia in formato PDF; ciò anche nell’ipotesi di notifica tramite PEC da eseguirsi in un procedimento dinanzi alla Corte di cassazione.

1.2.Ciò premesso l’Avvocatura di stato ha regolarmente depositato l’attestazione di conformità – del ricorso, delle relazioni di notifica e di tutta la documentazione – all’originale informatico dell’atto, sottoscritto con firma digitale e notificato come allegato ai messaggi di posta elettronica certificata, ai sensi della L. n. 53 del 1994, artt. 6 e 9, e del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23. Non è quindi esatto quanto afferma il controricorrente, sia con riferimento alla mancanza della firma digitale nel ricorso notificato via PEC, data la presenza di attestato di conformità all’originale informatico, sia circa la successiva modificabilità del documento sottoscritto con firma digitale PAdES (PDF Advanced Electronic Signatures), poichè questa può essere verificata aprendo il file con l’idoneo programma (Acrobat Reader) opportunamente impostato, che non consente di inficiare la validità del documento firmato originariamente.

1.3.Peraltro le Sezioni Unite (con sentenza n. 7665 del 18 aprile 2016) hanno stabilito che anche alle notifiche PEC deve applicarsi il principio, sancito in via generale dall’art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato; principio che vale anche per le notificazioni, per le quali la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario, statuendo altresì, riguardo alla modalità con la quale l’eccezione di nullità viene sollevata, 11nammissibilità dell’”eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, “senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte”.

1.4.Quanto alla ulteriore deduzione di inammissibilità del ricorso per mancanza della firma nella relata di notifica, è anch’essa infondata, in applicazione della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di notificazione del ricorso per cassazione a mezzo posta elettronica certificata (PEC), la mancanza, nella relata, della firma digitale dell’avvocato notificante non è causa d’inesistenza dell’atto, potendo la stessa essere riscontrata attraverso altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore menzionato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e, dunque, lo scopo legale della notifica (Cass. n. 6518 del 2017).

2. Col primo motivo del ricorso si deduce violazione di legge (art. 383, 392 e 393 c.p.c., nonchè artt. 16 e 17, art. 41 comma 1, lett. g) quater, e art. 42, comma 4 del TUIR, in relazione al D.L. n. 669 del 1996, art. 1 comma 5, conv. in L. n. 30 del 1997; al D.Lgs. 124 del 1993, art. 13, comma 9; alla L. n. 335 del 1995, art. 11, comma 3), per avere la C.T.R. erroneamente calcolato il rendimento come semplice differenza fra il capitale versato e il capitale liquidato, senza tener conto delle modalità contrattuali con le quali questo capitale veniva impiegato, alla luce del contratto che regola il Fondo.

3. Col secondo motivo si deduce error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 111 Cost., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e artt. 112 e 132 c.p.c., per nullità della sentenza, che si è limitata a rinviare ai conteggi provenienti dall’Enel e dal contribuente, con ciò mancando di motivazione.

4. Col terzo motivo del ricorso si deduce violazione di legge, D.Lgs. 124 del 1993, art. 13, comma 9; D.L. n. 669 del 1996, art. 1 comma 5, conv. in L. n. 30 del 1996; artt. 16, 17, 42 TUIR. 5. Col quarto motivo si lamenta violazione di legge art. 2697 c.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1.

6. Col quinto motivo si censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo, inerente alla natura giuridica del rendimento sulla base della disamina dei meccanismi di funzionamento del fondo Fondenel/Pia, e omesso esame dell’impiego sui mercati dal capitale affluito nel Fondo PIA. 7. Il ricorso va accolto nei termini di cui in prosieguo.

7.1. Sulla questione si sono pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte (n. 13642 del 2011), che hanno affermato il seguente principio: “In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17, solo per quanto riguarda la “sorte capitale” corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17″.

7.2.Alla stregua di tali principi, il meccanismo impositivo di cui alla L. n. 482 del 1985, art. 6, (aliquota del 12,5% sulla differenza tra l’ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2% per ogni anno successivo al decimo) si applica agli iscritti al fondo di previdenza complementare aziendale (FONDENEL/P.I.A. da epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993), sulle somme percepite a titolo di liquidazione in capitale del trattamento di previdenza integrativa aziendale, solo limitatamente agli importi maturati entro il 31.12.2000 che provengano dalla liquidazione del rendimento del capitale.

7.3. Tali principi, non sono risultati però, di fatto, interamente risolutivi delle controversie pendenti, essendo emerse tra le parti in lite – nella presente come in altre controversie, come anche nei giudizi di rinvio dalla cassazione – contrapposte interpretazioni circa il concetto di “rendimento netto”, cui applicare la detta ritenuta del 12,5%.

7.4.Di recente questa Corte ha avuto modo di precisare ulteriormente i principi espressi dalla citata sentenza delle S.U., affermando il seguente principio di diritto, che si intende qui ribadire: “in tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17, (nel testo vigente ratione temporis); b) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, invece, la prestazione è assoggettata a detto regime di tassazione separata solo per quanto riguarda la sorte capitale, costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore e corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6, alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento. Sono tali le somme derivanti dall’effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato – non necessariamente finanziario – non anche quelle calcolate attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate” (Cass. 26/04/2017, n. 10285 e Cass. n. 12267 del 17/05/2017).

8. In tali termini il ricorso merita pertanto accoglimento e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per nuovo esame, alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 30/11/2017) 07/02/2018, n. 2877

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20224/2016 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO D’AYALA VALVA, rappresentato e difeso dall’avvocato TIZIANO LUCCHESE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 661/6/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO, depositata il 04/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 30/11/2017 dal Consigliere Relatore Dott. ROBERTO GIOVANNI CONTI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La CTR Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della pronunzia di primo grado, ha ritenuto la legittimità della cartella di pagamento impugnata da B.S. ritenendo ben notificati, con le forme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), gli atti prodromici, tenuto conto dell’irreperibilità assoluta del contribuente acclarata dal messo notificatore attraverso le notizie acquisite dal custode dello stabile ove era ubicato il di lui domicilio fiscale e pure confermata dalla documentazione prodotta nel corso del giudizio dall’Ufficio.

Il B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, al quale l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

Il procedimento può essere definito con motivazione semplificata.

Con l’unico motivo proposto il ricorrente prospetta la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e).

La CTR avrebbe dovuto rilevare l’assenza dei presupposti per ritenere l’irreperibilità assoluta dal contribuente, non avendo il messo notificatore compiuto alcuna ricerca circa l’esistenza di un ufficio o azienda del contribuente. Ricerche che, ove compiute, avrebbe agevolmente consentito all’amministrazione di individuare il luogo di lavoro in Milano ed in mancanza delle quali non poteva dirsi regolare il compimento della notifica con le modalità di cui all’art. 60, lett. e) cit.

Il ricorso è fondato.

E’ noto, in linea generale, che secondo questa Corte la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.c., solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), quando il notificatore non reperisca il contribuente perchè trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale – cfr. Cass. n. 6788/2017.

Orbene, la questione assume particolare rilievo in relazione alla circostanza che per le ipotesi di c.d. irreperibilità relativa correlata al trasferimento nell’ambito dello stesso Comune disciplinate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e) – la notifica si perfeziona con il compimento delle attività stabilite dall’art. 140 c.p.c., richiamato dalla disposizione appena citata, occorrendo oltre al deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve eseguirsi, all’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione o ufficio o azienda del destinatario anche la comunicazione con raccomandata A.R. dell’avvenuto deposito nella casa comunale dell’atto e il ricevimento della raccomandata informativa – ovvero il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione della detta raccomandata -.

Per converso, alle ipotesi di c.d. irreperibilità assoluta – agganciata al trasferimento del contribuente in diverso comune da quello in cui il contribuente aveva il domicilio fiscale la medesima disposizione sopra ricordata richiede, accanto al deposito dell’atto nella casa comunale, l’affissione dell’avviso nell’albo e il decorso del termine di otto giorni dalla data di affissione.

Ciò posto, questa Corte, affrontando il tema delle modalità che il messo notificatore o ufficiale giudiziario devono seguire per attivare in modo rituale il meccanismo notificatorio di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in caso di irreperibilità assoluta, ha ritenuto che il messo notificatore, prima di procedere alla notifica, deve effettuare nel Comune del domicilio fiscale del contribuente le ricerche volte a verificare la sussistenza dei presupposti per operare la scelta, tra le due citate possibili opzioni, del procedimento notificatorio onde accertare che il mancato rinvenimento del destinatario dell’atto sia dovuto ad irreperibilità relativa ovvero ad irreperibilità assoluta in quanto nel Comune, già sede del domicilio fiscale, il contribuente non ha più nè abitazione, nè ufficio o azienda e, quindi, mancano dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto – Cass. n. 6911/2017, Cass. n. 4502/2017-.

Questa Corte (Cass. n. 12509/2016) ha perciò ritenuto che il messo deve pervenire all’accertamento del trasferimento del destinatario in luogo sconosciuto dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov’è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune; con riferimento proprio alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento delle ricerche, va evidenziato che “nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute nè con quali espressioni verbali ed in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purchè emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame” – conf. Cass. n. 2884/2017-.

Orbene, a tali principi non si è attenuto il giudice di merito ritenendo sufficiente le attività di ricerca del contribuente eseguite presso il custode, la genericità delle quali, peraltro, proprio in relazione alla loro vaghezza, avrebbe reso vieppiù necessaria un’ulteriore attività di verifica volta ad acclarare se il trasferimento del contribuente fosse avvenuto all’interno del comune o presso altro comune, attraverso la verifiche delle risultanze anagrafiche.

Non pare decisivo, per ritenere il contrario, evocare, come invece ha fatto la CTR, altro precedente di questa Corte – Cass. n. 12526/2014 – in tema di notificazione compiuta alla stregua dell’art. 143, allorchè si è ritenuto che “…l’ordinaria diligenza, alla quale il notificante è tenuto a conformare la propria condotta, per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando, al fine del legittimo ricorso alle modalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c., va valutata in relazione a parametri di normalità e buona fede secondo la regola generale dell’art. 1147 c.c. e non può tradursi nel dovere di compiere ogni indagine che possa in astratto dimostrarsi idonea all’acquisizione delle notizie necessarie per eseguire la notifica a norma dell’art. 139 c.p.c., anche sopportando spese non lievi ed attese di non breve durata. Ne consegue l’adeguatezza delle ricerche svolte in quelle direzioni (uffici anagrafici, portiere della casa in cui il notificando risulti aver avuto la sua ultima residenza conosciuta) in cui è ragionevole ritenere, secondo una presunzione fondata sulle ordinarie manifestazioni della cura che ciascuno ha dei propri affari ed interessi, siano reperibili informazioni lasciate dallo stesso soggetto interessato, per consentire ai terzi di conoscere l’attuale suo domicilio (residenza o dimora)”.

Ed infatti, è evidente la specialità del sistema notificatorio previsto dal ricordato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, rispetto alla disciplina codicistica oggetto del precedente di questa Corte da ultimo ricordato che, per l’un verso, non consente l’estensione dei principi giurisprudenziali evocati dalla CTR e, per altro verso, rende dovuta da parte del messo notificatore un’attività di verifica volta a stabilire se il mancato rinvenimento del destinatario della notifica fosse stato riconducibile ad un trasferimento all’interno dello stesso comune ove risulta essere domiciliato ovvero al di fuori di esso.

Ne consegue che proprio rispetto al caso di specie, la verifica operata dal messo in ordine al fatto che il contribuente, in relazione alle generiche notizie fornite dal custode, risultava trasferito in località “non nota”, avrebbe dovuto indurre l’ufficiale notificante a compiere le verifiche necessarie al fine di acclarare se il trasferimento fosse avvenuto nel comune ovvero al di fuori del comune di domicilio. Verifiche che avrebbero ineludibilmente richiesto l’esame dei registri anagrafici che, per converso, il messo notificante non ha minimamente compulsato.

Nè a sopperire tale mancanza può risultare utile la verifica “ex post” che la CTR inteso valorizzare tenendo in considerazione elementi acquisiti aliunde, essendo sul punto sufficiente rammentare che secondo questa Corte (Cass. n. 24260/2014) deve escludersi che l’attestazione circa l’irreperibilità o il trasferimento in altro comune possa essere fornita dalla parte, nel corso del giudizio, laddove il messo notificatore abbia attestato la sola irreperibilità, senza ulteriore attestazione in ordine alle ricerche compiute “per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune”.

Orbene, a tali principi non si è conformato il giudice di appello, considerando idonee a giustificare il ricorso alla notifica di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), unicamente le informazioni raccolte dal custode dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale del contribuente circa il di lui trasferimento in località non nota.

Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della CTR Lombardia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR Lombardia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Motivazione semplificata.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2018


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 09/05/2017) 24/01/2018, n. 1785

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24010/2015 proposto da:

AZIENDA U.S.L. N. (OMISSIS) DI LIVORNO, in persona del Commissario pro tempore, GESTIONE STRALCIO DELLA EX U.S.L. N. (OMISSIS) DI LIVORNO, in persona del Commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE MARIANI;

– ricorrenti –

C.T., elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati MARIA PIA LESSI e ANDREA BAVA;

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 99, presso lo studio dell’avvocato VALENTINA PETRI, rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO CARROZZA;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

AZIENDA U.S.L. N. (OMISSIS) DI LIVORNO, in persona del Commissario pro tempore, GESTIONE STRALCIO DELLA EX U.S.L. N. (OMISSIS) DI LIVORNO, in persona del Commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE MARIANI;

– controricorrenti all’incidentale –

e contro

REGIONE TOSCANA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 638/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/04/2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

uditi gli avvocati Roberto Romei per delega orale, Andrea Bava e Giovanni Battista Conte per delega dell’avvocato Paolo Carrozza.

Svolgimento del processo
1. L’Azienda U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno (d’ora in avanti AUSL n. 6) e la Gestione Stralcio della ex U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno hanno proposto ricorso per cassazione contro C.T. e B.F., nonchè nei confronti della Regione Toscana, avverso la sentenza dell’8 aprile 2015, con la quale la Corte di Appello di Firenze ha riformato in grado di appello la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Livorno nel giugno del 2008.

2. La controversia di cui è processo ha tratto origine dal ricorso presentato nel luglio del 2000 dalla C. – medico dipendente della U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno e già della cessata (nel 1995) U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno, con inquadramento sin dal gennaio del 1989 come dirigente medico presso l’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia – davanti al Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, contro l’U.S.L. n. (OMISSIS), in persona del commissario liquidatore, e per essa la Regione Toscana, nonchè contro l’AUSL n. (OMISSIS) di Livorno.

Nel ricorso la C. prospettava che l’allora primario di reparto, professor B.F., aveva iniziato ad arrecarle molestie sessuali per le quali era stato rinviato a giudizio nell’aprile del 1996, per i delitti di cui agli artt. 519 e 521 c.p., in relazione all’art. 56 stesso codice e art. 323 c.p., in relazione all’art. 81 stesso codice, con successiva pronuncia del Tribunale di Livorno, di applicazione, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., della pena di anni uno e mesi quattro di reclusione – e, vedendole respinte, aveva dato corso ad una cosciente e sistematica opera di distruzione della sua professionalità, venendo supportato dalla dirigenza dell’allora U.S.L. n. (OMISSIS), tramite ripetute conferme dei suoi atti.

In particolare, nel periodo dal luglio 1993 al luglio 1999, allorquando era stata reintegrata in servizio, detta opera si era concretata nella sottoposizione a quattro procedimenti disciplinari, conclusisi senza sanzione, a quattro provvedimenti di allontanamento dal reparto, ad un provvedimento di apertura di verifica delle sue capacità professionali e ad un provvedimento di affiancamento di un collega più anziano per la supervisione della correttezza del suo operato e servizio.

3. Sulla base di tale prospettazione la C. chiedeva:

a) da un lato, accertarsi la responsabilità contrattuale dell’AUSL n. 6 ai sensi dell’art. 2087 c.c. e, per il periodo successivo al 30 giugno 1998 (avendo per il periodo anteriore promosso un giudizio davanti al Tar Toscana, in ragione del criterio di riparto di giurisdizione collegato a quella data), farsi luogo alla sua condanna al risarcimento dei danni sofferti, a titolo di c.d. danno morale, di danno da lesione della propria dignità personale, di danno all’immagine professionale e di danno da mancata percezione dell’indennità di turnazione;

b) dall’altro lato, accertarsi, per l’intero periodo dal 1993 alla data di proposizione del ricorso, la responsabilità sia dell’U.S.L. n. (OMISSIS) che dell’AUSL n. (OMISSIS), a titolo extracontrattuale, per danno morale, lesione delle dignità professionale, dequalificazione e lesione dell’immagine professionale, con condanna dell’U.S.L., del Commissario Liquidatore, e della Regione Toscana, sia in proprio che in qualità di successore dell’U.S.L., al relativo risarcimento.

4. Nel relativo giudizio l’U.S.L. n. (OMISSIS), costituendosi in persona del liquidatore, e l’AUSL n. (OMISSIS), oltre a contestare il fondamento delle avverso domande, chiamavano in garanzia il B..

Costui, costituendosi a sua volta e adducendo di avere cessato di prestare servizio presso l’Unita Operativa il 26 aprile 1996, contestava sia la domanda principale sia quella di manleva, eccependo il difetto di giurisdizione su quest’ultima, per essere sussistente la giurisdizione della Corte di Conti, ed il difetto di giurisdizione sulla domanda della C., per essere essa riconducibile alla giurisdizione del giudice amministrativo, poichè la C. aveva proposto cinque ricorsi davanti al Tar Toscana, impugnando gli atti dell’AUSL n. (OMISSIS) sui quali si fondava la pretesa risarcitoria.

5. Lo stesso B., in data 31 luglio 2003, proponeva ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione.

Il Giudice del Lavoro adito, nelle more della decisione del regolamento, non ravvisava ragioni per sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 367 c.p.c., ma, con ordinanza del 12 ottobre 2005, reputava l’inerenza alla propria competenza speciale soltanto della domanda di responsabilità contrattuale e ne tratteneva la cognizione, mentre, previa separazione, rimetteva gli atti al Presidente del Tribunale quanto alla domanda di responsabilità extracontrattuale, ritenendo che la sua trattazione dovesse avvenire secondo il rito ordinario.

Il Presidente del Tribunale assegnava la controversia in parte qua a magistrato addetto ai procedimenti ordinari e, a seguito della sua iscrizione a ruolo con un numero diverso da quello originario, il relativo giudizio veniva questa volta sospeso in attesa della definizione del regolamento preventivo.

6. La controversia rimasta davanti al giudice del lavoro veniva decisa con sentenza n. 84 del 21 aprile 2006, poi confermata in appello e passata in cosa giudicata. Con tale sentenza veniva accolta la domanda risarcitoria nei confronti dell’AUSL n. (OMISSIS) riguardo ai soli danni alla dignità ed all’immagine professionale ed all’indennità di turnazione, mentre veniva dichiarato il difetto di giurisdizione dell’a.g.o. quanto alla domanda di rivalsa dell’AUSL contro il B..

7. Successivamente alla lettura del dispositivo della citata sentenza livornese, avvenuta l’8 febbraio 2006, le Sezioni Unite di questa Corte, decidendo sul regolamento preventivo di giurisdizione con ordinanza n. 7986 del 6 aprile 2006, così statuivano:

aa) quanto alla domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno contrattuale prodotto dopo il 30 giugno 1998 dichiaravano la giurisdizione ordinaria ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1 e 2, nonchè del successivo art. 69, comma 7;

bb) quanto alla domanda relativa al danno extracontrattuale, dichiaravano la giurisdizione ordinaria “con riferimento a tutti i periodi, trattandosi di domanda fondata sul diritto civile comune ossia estranea al rapporto di pubblico impiego”;

cc) inoltre, dichiaravano “priva di ogni fondamento la tesi, sostenuta dalla controricorrente, secondo cui la controversia apparteneva alla giurisdizione della Corte dei Conti, trattandosi di azione di rivalsa esercitata dalla pubblica amministrazione contro un dipendente per danno risarcito ad un privato”, osservando, in particolare, che “nella specie l’amministrazione sanitaria non esercita(va) alcuna azione di rivalsa contro il dipendente ma gli chiede(va) solo di essere garantita contro la pretesa del privato”.

8. A seguito di riassunzione operata dalla C., il giudizio di cognizione ordinaria rimasto pendente dinanzi al Tribunale di Livorno in sede ordinaria veniva deciso con sentenza n. 834 del 26 giugno 2008, la quale rigettava le domande della C..

9. Viceversa, con la sentenza qui impugnata la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza del primo giudice, dopo avere respinto una serie di eccezioni: 1a) ha condannato la Gestione Liquidatoria della cessata U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno e la Regione Toscana al pagamento a favore della C., a titolo risarcitorio, della somma di Euro 243.960,27 oltre interessi legali dalla pubblicazione al saldo; 1b) ha condannato l’AUSL n. (OMISSIS) di Livorno a pagamento di Euro 165.456,00 oltre interessi con la stessa decorrenza; 1c) ha condannato il B. a tenere indenne in rivalsa la detta Gestione totalmente e l’AUSL n. (OMISSIS) nella misura di Euro 72.589,45 sempre con interessi dalla pubblicazione; 1d) nel resto ha confermato la sentenza di primo grado.

10. Al ricorso per cassazione della Gestione Liquidatoria e dell’AUSL n. (OMISSIS), che si fonda su sei motivi, hanno resistito: a1) la C., con controricorso nel quale ha svolto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo; b1) il B., con controricorso nel quale ha svolto ricorso incidentale affidato a nove motivi, dei quali i primi due pongono questioni inerenti alla giurisdizione.

11. Le ricorrenti principali hanno notificato congiuntamente un controricorso per resistere al ricorso incidentale della C. e sempre congiuntamente altro ricorso per resistere al ricorso incidentale del B.. La C., a sua volta ha resistito con controricorso al ricorso incidentale del B.. Il B. ha resistito con controricorso al ricorso della C..

12. Tutte le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso principale l’impugnata sentenza della corte d’appello è censurata per avere confermato l’ordinanza con la quale il giudice del lavoro in primo grado aveva modificato il rito per la trattazione della (ritenuta) domanda extracontrattuale. Secondo la ricorrente sarebbe invece occorsa una pronuncia di mutamento di rito da parte del giudice d’appello il quale, qualificata la causa come causa di responsabilità contrattuale, avrebbe dovuto dichiarare la giurisdizione amministrativa essendo gli episodi asseritamente lesivi tutti precedenti al 30 giugno 1998 (data di spartiacque del riparto di giurisdizione, secondo la disciplina transitoria dettata del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7).

1.1. Il motivo non è accoglibile, benchè la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta perchè il giudice d’appello si è pronunciato in manifesta violazione dell’esistenza di un giudicato interno formatosi per effetto della decisione del primo giudice.

Infatti la qualificazione come extracontrattuale della responsabilità per le vicende anteriori al 30 giugno 1998 era stata ritenuta dal Tribunale di Firenze in funzione di giudice del lavoro nell’ordinanza di cambiamento del rito processuale quanto alla relativa domanda, ed il Tribunale di Firenze in sede ordinaria, a seguito del mutamento del rito, ha trattato espressamente la causa sulla base della qualificazione data dal giudice del lavoro senza porla in discussione.

In presenza dell’adozione esplicita da parte della sentenza di primo grado di una qualificazione della domanda come imperniata su una responsabilità extracontrattuale, il decisum, là dove venne reso sulla base di essa, sebbene con un rigetto della domanda, sarebbe stato ridiscutibile dalla parte rimasta vittoriosa in senso pratico nell’esito finale della lite, soltanto con la proposizione di un appello incidentale condizionato in seno all’appello principale della controparte. Appello incidentale condizionato diretto a far valere la soccombenza c.d. virtuale sulla questione di qualificazione (si veda, in argomento, Sez. un. n. 11799 del 2017).

Viceversa, le attuali ricorrenti, resistendo all’appello principale, si limitarono a prospettare la questione in via di eccezione, cioè per il tramite dell’istituto della c.d. riproposizione, di cui all’art. 346 c.p.c..

Ne segue che la corte territoriale avrebbe dovuto rilevare che la riproposizione come eccezione della questione di qualificazione era mezzo inidoneo a consentirne il riesame e considerare che, in mancanza di appello incidentale condizionato, su quella questione si era formata la cosa giudicata interna a norma dell’art. 329 c.p.c., comma 2, indipendentemente dal fatto che la questione di qualificazione della domanda è esaminabile d’ufficio dal giudice e non solo su rilievo di parte. Sicchè, è per tale ragione che l’eccezione (rectius: la questione) si sarebbe dovuta disattendere nel senso della sua inammissibilità per essersi formata cosa giudicata interna, piuttosto che con la motivazione resa dalla corte fiorentina.

Quest’ultima deve perciò esser corretta su questo punto (essendo condivisibile il principio di diritto, già affermato da Cass. n. 15810 del 2006 e, quindi, da altre decisioni delle Sezioni Semplici), tenuto conto che deve ritenersi configurabile il potere della Corte di Cassazione di correzione della motivazione della sentenza impugnata anche in relazione ad un error in procedendo, fermi restando anche in tal caso come nella specie – i limiti della non necessità di indagini di fatto (ulteriori rispetto a quelle che la Corte di Cassazione può compiere sul fascicolo, come di norma, nell’esame di detto “error”) e del rispetto del principio dispositivo (dovendosi trattare di fatti ed eccezioni rilevati dalle parti o rilevabili d’ufficio).

1.2. Si deve aggiungere altresì che la questione di giurisdizione sollevata in via consequenziale nel motivo di ricorso, se non stata fosse decisiva la disposta correzione della motivazione, sarebbe risultata comunque ormai preclusa dall’ordinanza emessa da queste Sezioni unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, già menzionata nella parte espositiva della presente sentenza. In particolare, un ipotetico appello incidentale condizionato si sarebbe dovuto rigettare comunque per tale ragione.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 28 Cost. e art. 2049 c.c.. E’ censurata l’estensione alle aziende ricorrenti della responsabilità per i comportamenti illeciti tenuti dal proprio dipendente B.. In realtà la critica investe la sentenza impugnata solo là dove si è occupata della condotta del B. di natura sessuale e non dell’altra di abuso di ufficio.

2.1. In una prima parte la censura è imperniata sull’assunto della qualificazione contrattuale della responsabilità delle qui ricorrenti, che si sostiene avrebbe dovuto essere discussa ai sensi dell’art. 2087 c.c., cioè in termini di c.d. condotte protettive e non ai sensi dell’art. 2049 c.c.. Tuttavia, non solo si omette di specificare dove e come i giudici della sentenza impugnata fossero stati investiti di una siffatta prospettazione, ma si fa riferimento ad una serie di circostanze fattuali e ad un atto (il ricorso al t.a.r.) sui quali essa si fonda senza rispettare l’onere di indicazione specifica di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6. Inoltre, la censura denuncia l’omessa considerazione di fatti al cui esame la corte territoriale non avrebbe dovuto procedere a giusta ragione, tenuto conto di quanto osservato a proposito del primo motivo a proposito della mancata proposizione dell’appello incidentale condizionato diretto a censurare la qualificazione extracontrattuale della responsabilità.

2.2. In una seconda parte dell’illustrazione del motivo, che inizia con il punto 2. della pagina 11 del ricorso, si dichiara di porsi nella logica della responsabilità delle ricorrenti ai sensi dell’art. 2049 c.c. e art. 28 Cost. e si imputa alla corte territoriale di avere erroneamente inteso il nesso di occasionalità necessaria, che deve essere escluso quando il dipendente “non abbia perseguito finalità coerenti con le mansioni che gli furono affidate, ma finalità proprie, alle quali il committente non sia neppure immediatamente interessato o compartecipe”. Essendo pacifica, nel caso di specie, l’inesistenza di un qualche interesse anche mediato, dell’Usl odierna ricorrente, nelle molestie sessuali inflitte, in ipotesi, dal Prof. B. alla Dott.ssa C., se ne deduce che il nesso di c.d. occasionalità necessaria non avrebbe potuto essere ravvisato.

2.2.1. La censura è inammissibile, in quanto non presenta una struttura idonea a consentire l’esame della proposta quaestio iuris in tema di occasionalità necessaria in relazione all’ipotesi di responsabilità di cui all’art. 2049 c.c..

Infatti, i ricorrenti hanno omesso di individuare la motivazione della sentenza impugnata in cui si anniderebbe l’error iuris in punto di occasionalità necessaria tra il contesto e la condotta illecita esplicata dal primario e le mansioni ed i poteri affidatigli dalla p.a., “grazie ai quali il B. aveva ottenuto di potersi appartare con l’attrice in luogo soggetto per l’accesso altrui al suo consenso, per poi insidiare la sottoposta”. Si deve, infatti considerare che l’unico passo motivazionale della sentenza impugnata evocato dall’illustrazione del motivo e, quindi, da intendersi oggetto di critica è quello in cui essa afferma la sussistenza dell’occasionalità necessaria, “a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, peraltro senza minimamente soffermarsi sul contenuto delle condotte concrete”. Ebbene, tale affermazione sottende la conclusione di un ragionamento che la corte fiorentina ha svolto precedentemente e del quale nell’illustrazione del motivo si omette del tutto l’individuazione, con conseguente difetto di specificità (Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017) e chiarezza (Cass., Sez. Un. n. 8077 del 2012) del motivo.

Si deve rilevare che prima del passo riportato, la corte fiorentina ha effettivamente esposto considerazioni che si sono articolate dalle ultime otto righe della pagina 9 sino alle prime undici della pagina 12. Si ha, quindi, conferma che il passo motivazione riportato dal motivo è stato preceduto da un articolato ragionamento, del quale le ricorrenti avrebbero dovuto farsi carico evocandolo e criticandolo specificamente.

In realtà il motivo di ricorso accumula rilievi in diritto a considerazioni che attengono all’accertamento ed alla valutazione dei fatti: il che, per un verso, priva le doglianze in diritto di sufficiente specificità e, per altro verso, sembra non tener conto della natura stessa del giudizio di legittimità, quasi fosse un terzo grado di merito.

Si deve anzi rilevare che, benchè verbalmente riferita alla violazione dell’art. 2049 c.c., la dedotta censura non consente di individuare un error iuris in punto di applicazione del concetto di occasionalità necessaria ma si sostanzia in una serie di considerazioni che, al più, varrebbero a mettere in dubbio la adeguatezza della motivazione con cui, in punto di fatto, la corte di merito ha ravvisato l’esistenza di un tal nesso di necessaria occasionalità tra i comportamenti posti in essere dal dipendente e la funzione da lui esercitata nell’ambito dell’ufficio. Ma, in questi termini, la doglianza, piuttosto che connotarsi come censura di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2049 c.c., almeno sotto il profilo del c.d. vizio di sussunzione, finisce per rivelarsi come censura relativa alla ricostruzione della quaestio facti e così apprezzata fuoriesce anche dall’ambito applicativo del novellato art. 360 c.p.c., n. 5. Ed inoltre non considera il profilo, appunto inerente le valutazioni relative alla ricostruzione del fatto, dell’esistenza eventuale di comportamenti degli organi delle ricorrenti di omissione di interventi pur nella consapevolezza dell’utilizzo da parte del B. del contesto lavorativo per i fatti delittuosi a sfondo sessuale.

3. Con il terzo motivo si sostiene – deducendo violazione dell’art. 445 c.p.p., comma 1-bis – che le molestie sessuali lamentate dalla C. ed imputate al B. non avrebbero potuto ritenersi provate sulla base della sola sentenza di patteggiamento emessa nei confronti di quest’ultimo.

3.1. Orbene, la sentenza impugnata si è effettivamente soffermata a discutere della questione, ma erroneamente, perchè la possibilità di discutere del valore della sentenza di patteggiamento non le era stata ritualmente devoluta.

Infatti, l’avviso espresso dal Tribunale in ordine alla ascrivibilità al B. delle condotte oggetto di sentenza di patteggiamento avrebbe potuto essere riesaminato solo se le ricorrenti, vittoriose quanto all’esito finale della lite, ma soccombenti in ordine a quella ascrivibilità, avessero proposto un appello incidentale condizionato.

Invero, la lettura della sentenza di primo grado, presente nel fascicolo di ufficio, evidenzia che il Tribunale – dopo avere ricordato le imputazioni subite dal B. e la conclusione del procedimento penale con la sentenza di patteggiamento del 21 marzo 1997 – si era espressa, a pagina 9, in questi termini: “al riguardo, occorre premettere che, anche a prescindere dall’esistenza del principio secondo cui il giudice può utilizzare, per la formazione del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un diverso processo, una volta che la relativa documentazione sia stata prodotta, la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi della 444 c.p.p. (cosiddetto patteggiamento) costituisce indiscutibilmente elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di una statuizione assistita dal giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile (vedi Cass. civ., Sez. 1, 22/12/2004, n. 23771. Ritenuta pertanto la valenza probatoria nell’odierno giudizio del riconoscimento della responsabilità del B. in relazione ai reati contestatigli….”.

Stante il tenore della sentenza di primo grado, le qui ricorrenti, vittoriose in senso pratico, ma soccombenti in senso virtuale sull’affermazione di esistenza della prova della responsabilità penale in forza della ritenuta efficacia probatoria della sentenza di patteggiamento, avrebbero avuto l’onere di proporre appello incidentale condizionato, questa essendo condizione necessaria perchè il giudice d’appello potesse riesaminare la questione. Invece, esse si limitarono alla c.d. mera riproposizione, mezzo del tutto inidoneo.

La questione posta con il motivo in esame evidenzia allora e nuovamente una situazione nella quale la motivazione della sentenza impugnata dev’essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

4. Con il quarto motivo si fa valere, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2043 e dell’art. 2727 c.c. e si intende discutere la responsabilità affermata dalla sentenza impugnata per le voci di danno richieste dalla C. in relazione ad atti e comportamenti adottati dall’azienda sanitaria, la maggior parte a firma del Dottor B..

4.1. Il motivo non risulta nei vari punti con i quali si commentano gli atti ed i documenti evocati, articolato in modo idoneo ad evidenziare il vizio di violazione dell’art. 2727 c.c..

La deduzione della violazione dell’art. 2727 cod. civ. è fatta manifestamente con riferimento al modo in cui la sentenza impugnata ha utilizzato c.d. presunzioni semplici e, quindi, a quelle cui allude l’art. 2729 c.c., ancorchè tale norma non venga formalmente evocata.

Ora, la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente, Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius:fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).

La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.

La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

4.1.1. In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.

4.1.2. Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).

In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

4.1.3. Ebbene, la lunga illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729, comma nei termini su indicati, ma si risolve talora solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti dei vari documenti dell’elenco iniziale sopra ricordato.

Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1 e nemmeno, pur riconvertito alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013, quelle di un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

5. Il quinto motivo deduce “violazione degli artt. 2043 e 1227 c.c.”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

L’esordio del motivo dichiara che in esso si vuole argomentare “che in questa causa manca la prova e prima ancora l’allegazione, dei danni il cui risarcimento è stato chiesto ex adverso, come esattamente aveva rilevato il Tribunale”, così rivelando di voler porre una censura di mancanza di prova e non in iure.

In effetti la censura, dopo aver riepilogato in via del tutto generale lo stato della giurisprudenza in proposito, si addentra in considerazioni attinenti al governo che la corte di merito ha fatto delle risultanze di causa, risolvendosi nell’assunto secondo cui la parte avversaria non avrebbe allegato e provato alcuno dei danni richiesti. In tal modo si finisce però per richiedere un riesame delle risultanze probatorie in questa sede non consentito.

Le critiche rivolte a questo proposito alla motivazione dell’impugnata sentenza neppure possono, d’altronde, essere qui prese in considerazione, non solo e non tanto perchè l’intestazione del motivo di ricorso fa riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non n. 5), quanto perchè non individuano un omesso esame di fatti decisivi e quindi non corrispondono al modello legale del citato art. 360, n. 5.

Tanto si osserva non senza doversi pure rilevare che in più punti della lunga esposizione del motivo si fa riferimento alla motivazione o non correlandosi alla sua effettività, o in modo assolutamente generico o senza individuare la parte di essa che determinerebbe il vizio denunciato (Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017), mentre in altri non si rispetta l’art. 366 c.p.c., n. 6.

6. Con un ultimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1226 c.c. e, poichè ci si limita ad una mera affermazione (“Trattandosi di danno non patrimoniale, la liquidazione è giocoforza avvenuta in via equitativa, da parte della Corte territoriale; sennonchè, ciò non l’avrebbe esentata dal manifestare i criteri della suddetta liquidazione, così da renderla verificabile. Ciò non è avvenuto, donde questo ulteriore motivo di ricorso”), è inammissibile per la sua assoluta genericità argomentativa e per l’assenza di individuazione della motivazione della sentenza impugnata che determinerebbe il vizio.

7. Il ricorso principale è, conclusivamente, rigettato.

8. Con l’unico motivo del suo ricorso incidentale la C. deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, “omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le arti e abbia carattere decisivo”.

Il motivo concerne la negazione fatta dalla sentenza impugnata del riconoscimento alla C. di un danno quanto all’immagine pubblica al di fuori dell’ambiente di lavoro.

Il motivo non individua la motivazione della sentenza impugnata sul punto, ma, dopo una prima affermazione, che risulta incomprensibile, dato che vi si parla di considerazione pubblica nell’ambito ospedaliero, fa un generico riferimento a non meglio identificati giornali ed a quelli che definisce i loro “titoloni”, ma omette di fornire riguardo a tali risultanze l’indicazione specifica di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6. Si limita, poi, a riprodurre un passo dell’atto di appello evocativo della pubblicazione di un articolo di giornale.

La prospettazione è del tutto generica e, se si confronta con la pur breve motivazione della sentenza impugnata, non appare nemmeno ad essa pertinente. La sentenza ha, infatti, affermato a pag. 35: “Non risulta invece la prova di danni all’immagine al di fuori dell’ambiente di lavoro; gli unici articoli di giornale prodotti concernono soltanto condanne penali per errori medici del primario e di colleghi oltre che la notizia della sentenza ex art. 444 c.p.p. a carico di B.”. Quindi ha ritenuto le produzioni documentali non pertinenti ed occorreva, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dimostrare il contrario.

A quanto osservato v’è da aggiungere che la prospettazione non denuncia in alcun l’omesso esame di fatti, dato che tali non sono certamente le deduzioni argomentative della conclusionale.

8.1. Il ricorso incidentale è, pertanto, rigettato.

9. Con il primo motivo del suo ricorso incidentale il B. censura la sentenza impugnata là dove ha ritenuto inammissibile la sua eccezione di sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti sulla domanda di manleva esercitata dalle ricorrenti principali.

9.1. La decisione impugnata è corretta attesa l’efficacia di statuizione sulla giurisdizione dell’a.g.o. certamente da riconoscesi alla pronuncia di queste Sezioni Unite, la quale, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata e come questa Corte può verificare trattandosi di propria decisione, aveva – al contrario di quanto afferma il B. – statuito anche sull’esclusione della giurisdizione contabile, in particolare osservando che: “è priva di ogni fondamento la tesi, sostenuta dalla controricorrente, secondo cui la controversia apparterebbe alla giurisdizione della Corte dei Conti, trattandosi di azione di rivalsa esercitata dalla pubblica amministrazione contro un dipendente per danno risarcito ad un privato: nella specie l’amministrazione sanitaria non esercita alcuna azione di rivalsa contro il dipendente ma gli chiede solo di essere garantita contro la pretesa del privato”.

Tale statuizione, ancorchè fatta a seguito di una questione posta con il controricorso avverso il ricorso del B., che aveva chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo, ha individuato, con l’efficacia definitiva propria delle statuizioni rese dalle Sezioni Unite in sede di regolamento, la giurisdizione su tutta la controversia in quella ordinaria e ciò anche quanto alla domanda di garanzia.

Del resto, le Sezioni Unite, anche a prescindere dalla sollecitazione rivolta dalla C., avrebbero ugualmente dovuto statuire anche sulla domanda di rivalsa.

Il motivo è, pertanto, rigettato.

10. Con il secondo motivo il B.: a) sostiene anzitutto la sussistenza della giurisdizione amministrativa con riferimento all’azione risarcitoria in relazione ai fatti anteriori al 30 giugno 1998; b) quindi, con una seconda lapidaria prospettazione, adombra che si fosse formato, per effetto delle decisioni del giudice amministrativo, un giudicato sulla giurisdizione di quel giudice.

10.1. La censura nuovamente si risolve in una inammissibile pretesa di porre in discussione la giurisdizione del giudice ordinario nonostante su di essa queste Sezioni Unite abbiano statuito con l’ord. n. 7986 del 2006.

Per ciò solo è manifestamente priva di fondamento.

Tanto si rileva non senza doversi rimarcare che, avendo il giudice di primo grado espressamente e doverosamente preso atto (nell’esordio della sua motivazione) che la giurisdizione era stata sancita da quell’ordinanza, ogni possibilità di discutere al riguardo supponeva da parte del B. (chiamato in causa in garanzia e, quindi, abilitato a contestare il modo di essere del rapporto giuridico principale fra la C. e le aziende sanitarie) la proposizione di un appello incidentale condizionato (destinato comunque a cattiva sorte, stante l’efficacia della citata ordinanza), dato il rigetto della domanda principale, dei cui effetti beneficiava quale chiamato in garanzia.

Risulta allora così anche pienamente comprensibile perchè la sentenza impugnata nulla abbia detto sulla questione di cui alla censura.

10.2. Un’ulteriore censura viene argomentata, questa volta con riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, là dove essa ha escluso si configurasse una c.d. pregiudiziale amministrativa: tale censura è inammissibile, perchè non si fa carico di criticare la motivazione della sentenza impugnata (Cass. Sez. Un. n. 7074 del 2017). Infatti, pure avendola evocata all’inizio della illustrazione dell’intero motivo, là dove essa si è espressamente richiamata all’insegnamento di Cass. sez. un. n. 500 del 1999, lo svolgimento della censura ignora completamente questo riferimento alla sentenza n. 500 del 1999, giusto o sbagliato che sia stato. Ci si limita, infatti, ad evocare decisioni del giudice amministrativo e di un giudice ordinario di merito senza fare alcun riferimento alla suddetta sentenza e senza spiegare come e perchè sarebbero pertinenti rispetto ai principi da essa affermati.

D’altro canto, la valutazione della pregiudiziale avrebbe supposto una precisa individuazione dei fatti riguardo alla quale si sarebbe configurata, che, quindi, avrebbero dovuto essere individuati in modo puntuale e nella loro correlazione con i provvedimenti delle amministrazioni sanitarie. Invece a questa Corte non è stata offerta alcuna precisazione al riguardo, essendovi stata, nell’illustrazione della precedente censura, l’individuazione di giudizi impugnatori davanti al t.a.r. e fra l’altro senza la localizzazione dei relativi riferimenti.

11. Con il terzo motivo si denuncia “l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio” e si insiste nel sostenere l’estraneità del B. ai fatti di molestia sessuale addebitatigli.

Il motivo risulta inammissibile già in base alla sua intestazione, in quanto deduce il vecchio paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e non quello introdotto dalla riforma del 2012. Inoltre, là dove afferma che su alcuni punti l’impugnata sentenza sarebbe priva di motivazione, si astiene dall’indicare, con riferimenti all’amplissima parte della motivazione riprodotta, quali sarebbero questi punti.

11.1. Tanto implica che il motivo sia strutturalmente inidoneo ad assumere la funzione di critica alla sentenza impugnata e ciò a(di là della sua caratterizzazione come critica non ispirata a quanto è consentito dal paradigma del n. 5 vigente.

Là dove poi il ricorrente si duole che il primo giudice non avrebbe accertato le condotte di reato limitandosi a fare riferimento alla sentenza di patteggiamento, è sufficiente richiamare quanto già detto esaminando il ricorso principale.

Ed infatti il motivo sotto tale profilo indugia su una questione sulla quale la statuizione del giudice di primo grado avrebbe dovuto essere impugnata anche dal B. con appello incidentale condizionato, tanto che, come s’è detto, la corte territoriale avrebbe dovuto omettere di farsi carico delle contestazioni proposte al riguardo con la c.d. mera riproposizione.

12. Con il quarto motivo viene di nuovo prospettata “un’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, con riferimento all’illiceità delle condotte contestate diverse da quelle esaminate dalla sentenza ex art. 444 c.p.p., in mancanza del previo annullamento degli atti amministrativi presupposti dinanzi al Giudice amministrativo.

12.1. Anche per tale motivo vale quanto sopra osservato in ordine al mutato paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè in ordine alla mancata specifica individuazione del preteso fatto di cui si sarebbe omesso l’esame.

Ne discende che tali censure sarebbero per ciò solo inammissibili.

12.2. Si evoca altresì nuovamente il problema della pregiudiziale e, dunque, una quaestio iuris, ma anche in questo caso senza che si faccia constare, in modo rispettoso dell’art. 366 c.p.c., n. 6, quali erano i comportamenti per cui era stata proposta l’azione risarcitoria dalla C., riguardo ai quali avrebbe assunto rilievo pregiudicante l’impugnazione di provvedimenti amministrativi. Infatti, si fa generico riferimento alle sentenze del t.a.r. Toscana che dichiararono improcedibili giudizi instaurati dalla C. e accolsero parzialmente uno di essi. Di modo che l’apprezzamento della questione di c.d. pregiudizialità dovrebbe farsi senza una precisa e chiara individuazione degli oggetti rispetto ai quali procedere al relativo apprezzamento.

12.3. In ogni caso, quando pure fosse superabile l’esposto rilievo, l’inammissibilità della seconda censura del secondo motivo renderebbe comunque ulteriormente inammissibile la doglianza.

13. Considerazioni analoghe valgono per il quinto ed il sesto motivo, che nuovamente denunciano vizi di motivazione dell’impugnata sentenza (in punto di accertamento e di quantificazione del danno) in termini meramente assertori e generici e senza tener conto della vigente formulazione del più volte citato art. 360, n. 5.

I motivi, di contenuto assertivo, sono, pertanto, inammissibili.

14. Con un settimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., ma, poichè l’attività illustrativa si riduce all’affermazione che “nel caso di specie, trattandosi di danni non patrimoniali, la liquidazione è stata fatta in via equitativa dalla Corte d’Appello, che però avrebbe dovuto esplicitare i criteri di liquidazione, al fine di rendere verificabili e comprensibili gli importi”, nonchè a quella ulteriore “ma così non è stato con la conseguenza che la sentenza è viziata anche sotto questo ulteriore profilo”, anche in questo caso valgono i rilievi di inammissibilità appena svolti a proposito dei precedenti motivi.

15. L’ottavo motivo è articolato in più censure (sei submotivi), tra loro non ben coordinate e che nuovamente sovrappongono profili di diritto e considerazioni di merito non prospettabili in questa sede.

L’illustrazione sostiene i primo luogo che la pronuncia sarebbe viziata nella parte in cui afferma quanto poi viene fatto constare con la riproduzione, dall’ottavo rigo della pagina 54 sino al sesto della pagina 56, di una parte della motivazione della sentenza.

Segue l’affermazione che “l’assunto, come palesemente risulta dalle deduzioni sin qui svolte in riferimento agli (altri) motivi, appare infondato. Quanto si qui esposto risulta assorbente ed idoneo a definire il giudizio sotto il profilo della chiamata in causa del prof. B.”.

Successivamente, contraddicendo tale assunto, si prosegue, però, fino alla pagina 62 con cinque paragrafi, che, pur senza che lo si dica, dovrebbero argomentare gli indicati submotivi.

15.1. Con una prima censura che appare correlata al secondo submotivo (e non all’intestato primo submotivo) si lamenta che la corte territoriale, pur dando atto che in primo grado, in sede di precisazione delle conclusioni, la difesa dell’USSL-AUSL si era limitata a chiedere il “rigetto delle domande attoree” senza nulla dire sulla domanda di garanzia contro il B., abbia escluso che queste domanda fosse stata abbandonata. L’erroneità della motivazione viene sostenuta invocando Cass. n. 16840 del 2013 e Cass. n. 2093 del 2013.

15.2. La motivazione oggetto di critica – enunciata dalla Corte territoriale, dopo avere rilevato che nel verbale di udienza di precisazione delle conclusioni effettivamente la difesa dell’AUS e dell’USL aveva semplicemente chiesto il rigetto delle domande attoree e che tuttavia la domanda di manleva verso il B. era stata insistita nei successivi scritti ai sensi dell’art. 190 c.p.c. – ha avuto il seguente tenore: “Ora, secondo costante giurisprudenza di legittimità, affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata dalla parte non è sufficiente che essa non venga riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, dovendosi, invece, necessariamente accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa (in termini recentemente Cass. n. 15860/2014. Nella fattispecie la difesa USL-AUSL aveva appositamente chiamato in giudizio B.F. per manleva e non aveva mai, nel corso del primo grado, espresso dubbi sul mantenimento della propria volontà di essere garantita. L’istruttoria era stata documentale e nulla di diverso sulla posizione di B.F. nella vicenda risulta emergere dai documenti acquisiti dopo gli atti introduttivi. Si è già detto infine che la chiamante ha nuovamente insistito nella manleva. Dal complesso della condotta processuale di USL-AUSL, inserita nel contesto descritto, si trae univocamente la dimostrazione che la detta omissione all’udienza di p.c. è stata una mera svista, non manifestante alcuna implicita volontà di abbandono della domanda di garanzia”.

Si tratta di una motivazione sostanzialmente corretta, là dove invoca il principio di diritto di cui a Cass. n. 15860 del 2014, il quale, peraltro, trova riscontro in un non recente precedente delle Sezioni Unite: Cass., Sez. Un. n. 6033 del 1984, secondo cui “L’omessa riproposizione, in Sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata, non è di per sè sufficiente a farne presumere la rinuncia o l’abbandono, dovendosi ciò escludere qualora la complessiva condotta della parte evidenzi l’intento di mantenere ferma la domanda medesima, nonostante detta materiale omissione”.

Questo precedente è stato enunciato in un’epoca in cui il regime processuale del processo di cognizione ordinario non era imperniato come invece, quello introdotto dalla L. n. 353 del 1990, che è applicabile al processo – sulla previsione del maturare di una serie di preclusioni e nel quale l’udienza di precisazione delle conclusioni, di cui all’allora art. 184 c.p.c., consentiva di precisare e modificare le conclusioni. In quel regime, un atteggiamento di mancata indicazione in sede di precisazione delle conclusioni di una conclusione in precedenza formulata, poteva assumere di per sè il significato di sintomo tendenziale di abbandono, cioè di riconoscimento tacito della infondatezza della domanda oggetto della conclusione non riproposta, tenuto conto proprio dell’ampia possibilità di ius variandi. Tuttavia, in ossequio alla buona fede processuale, rimaneva salva la verifica da farsi in relazione alla complessiva condotta della parte anteriormente a quel momento.

Nel vigore dell’attuale art. 189 c.p.c., che dopo la riforma della L. n. 353 del 1990 e successive modifiche, regola l’udienza di precisazione delle conclusioni, poichè la norma dice che le conclusioni debbono essere formulate nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o ai sensi dell’art. 183 c.p.c., il contenuto di conclusioni precisate in essa in modo più limitato di quelle di cui a dette sedi, con la mancata riformulazione di una domanda che lì era presente, potrebbe apparentemente considerarsi come significativo di un tacito abbandono di essa, perchè la norma avalla la possibilità di limitare le conclusioni pregresse. Ma potrebbe anche suggerire l’idea opposta, perchè potrebbe ex adverso opporsi che l’udienza di precisazione delle conclusioni esiga una specifica attività di riduzione dei petita.

Anche nel sistema vigente l’attribuzione effettiva di un significato di abbandono alla mancata riproposizione, proprio per questa incertezza evidenzia allora che è corretto il criterio di esegesi della mancata riproposizione che esige la sua necessaria considerazione al lume di altri elementi della condotta processuale della parte.

Il punto è che tanto nel vecchio regime quanto nel nuovo occorre aver chiaro che la condotta processuale della parte, rilevante per l’interpretazione delle conclusioni in cui sia stata omessa quella relativa ad una domanda, può e deve essere solo quella antecedente alla precisazione delle conclusioni e non anche quella successiva, espressa nelle conclusionali. E ciò per il caso che si debba ritenere mantenuta la domanda (infatti, se nella conclusionale si sostenesse che si è inteso abbandonare la domanda, poichè l’esito dell’abbandono sarebbe il suo rigetto, equivalendo essa a riconoscimento della sua infondatezza, nemmeno vi sarebbe problema di esegesi). La ragione è che la situazione inerente all’oggetto su cui le conclusioni si debbono intendere precisate interessa, a garanzia del contraddittorio, l’altra parte ed essa non può che vedere regolata la propria condotta da quello che può percepire, secondo un criterio di affidamento processuale, fino al momento in cui sono state precisate le conclusioni. Ne segue che, al contrario di quanto ha ulteriormente opinato nella sua motivazione la sentenza impugnata, il riferimento alla conclusionale risulta errato.

Avuto riguardo al caso di specie, tuttavia, si deve considerare che, allorquando la parte convenuta con la domanda principale abbia chiamato in garanzia un terzo per essere manlevata delle conseguenze della sua soccombenza sulla domanda principale, la circostanza che in sede di precisazione delle conclusioni essa si sia limitata a chiedere il rigetto di quest’ultima deve essere letta considerando che implica necessariamente la consapevolezza che il giudice potrebbe non accoglierla e che, dunque, la garanzia potrebbe venire in rilievo.

Sicchè, l’assenza di conclusioni sulla domanda di garanzia non può di per sè apparire significativa di un suo abbandono, ma anzi implica che quella domanda, per quell’eventualità, la si sia voluta mantenere. Siffatta interpretazione della conclusione di solo rigetto della domanda principale potrebbe essere messa in crisi solo se si vertesse in una situazione in cui il terzo chiamato, costituendosi, avesse contestato la stessa esistenza del rapporto di garanzia e il convenuto in via riconvenzionale, avesse chiesto l’accertamento dell’esistenza di tale rapporto con efficacia di giudicato e non solo in funzione della garanzia quanto alla soccombenza sul rapporto principale. In questo caso, poichè è lo stesso convenuto che alla chiamata in causa ha aggiunto detta richiesta e, quindi, una reconventio reconventionis, parrebbe ragionevole tendenzialmente escludere, di fronte ad una conclusione di solo rigetto della domanda principale, che la pretesa di garanzia si sia intesa mantenere.

Il secondo submotivo è, dunque, in definitiva rigettato, previa parziale correzione della motivazione quanto al riferimento alla conclusionale.

15.3. Sempre nel medesimo motivo il ricorrente incidentale sostiene che riguardo agli atti e ai fatti oggetto della responsabilità delle strutture sanitarie fino al momento della sua cessazione dal servizio del B., egli sarebbe stato estraneo alla loro adozione e al loro compimento.

L’assunto, al di là del suo carattere assertorio e della pretesa di dimostralo semplicemente facendo un generico riferimento a documenti riguardo ai quali non si ottempera all’art. 366 c.p.c., n. 6, si risolve nella sollecitazione alla Corte a controllare, tra l’altro senza un preciso riferimento alla motivazione della sentenza, la ricostruzione della quaestio facti. Le dedotte censure si collocano del tutto al di fuori dei contenuti assegnati da Cass. Sez. Un. nn. 8053 e 8054 del 2011 dell’art. 360, nuovo n. 5.

15.4. Considerazioni simili meritano i rilievi svolti nei paragrafi indicati con numerazione da 8.2 a 8.6 del ricorso e particolarmente sia per l’affermazione del ricorrente secondo cui la domanda della C. sarebbe risultata sfornita di prova quanto all’an ed al quantum, sia per quanto dedotto in ordine al collegamento tra i fatti di cui al patteggiamento e le vicende del rapporto di lavoro e circa la prova della responsabilità del B.: deduzioni che risultano assolutamente generiche ed assertive e come tali appaiono inammissibili, oltre a non essere formulate secondo i limiti indicati dalle Sezioni Unite per dell’art. 360, nuovo n. 5.

16. Il nono motivo afferisce al regime delle spese di lite, ma, in realtà si risolve nel semplice auspicio di quanto dovrebbe scaturire dall’applicazione dell’art. 336 c.p.c., comma 1, per il caso di cassazione della sentenza in accoglimento di alcuno dei motivi precedenti.

19. Il ricorso incidentale del B. è, conclusivamente, rigettato.

20. Tutti i ricorsi sono dunque rigettati.

21. Riguardo alle spese giudiziali, sia nel rapporto fra le ricorrenti principali e la C. sia nel rapporto fra il ricorrente incidentale B. e la C., esse seguono la soccombenza di detti soggetti a favore della C., ma nei limiti dei tre quarti del loro complessivo ammontare, così compensato il quarto residuo, stante la soccombenza della C. sul suo ricorso incidentale. Le spese si liquidano ai sensi del D.M. n. 55 del 2014. Nel rapporto processuale fra le ricorrenti principale ed il B. la soccombenza è riferibile a quest’ultimo, data la sua posizione di garante ed a maggior ragione per il rigetto del suo ricorso incidentale quanto all’ottavo motivo, con cui si tendeva a rigettare le conseguenze della manleva. Ritiene, tuttavia, il Collegio di far luogo in tale rapporto processuale alla compensazione per giusti motivi, attesa la complessità delle problematiche che nell’annosa controversie hanno riguardato il rapporto di manleva in relazione all’altrettale complessità della pretesa della C. rispetto alle garantite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia delle ricorrenti principali, sia di ognuno delle parti ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
La Corte rigetta tutti i ricorsi. Condanna le ricorrenti principali e il ricorrente incidentale B. alla rifusione alla C., previa compensazione di un quarto, dei tre quarti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate a carico delle ricorrenti principali in euro settemiladuecento, oltre duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge, ed a carico del ricorrente incidentale B. nello stesso importo. Compensa le spese nel rapporto processuale fra le ricorrenti principali ed il B.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia delle ricorrenti principali, sia di entrambi i ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14-06-2017) 19-12-2017, n. 30417

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22688-2015 proposto da:

SETA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. DEPRETIS 86, presso lo studio dell’Avvocato PIETRO CAVASOLA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIGLIOLA IOTTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato STEFANO DI MEO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PARIDE CASINI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 514/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 07/05/2015 R.G.N. 823/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/06/2017 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo e assorbimento del 2 motivo del ricorso;

udito l’Avvocato PIETRO CAVASOLA;

udito l’Avvocato Di Meo Stefano.

Svolgimento del processo
1)In primo grado il Tribunale di Modena aveva respinto la domanda di M.S. diretta a far accertate l’illegittimità della destituzione intimatagli dalla datrice di lavoro, l’azienda di trasporto urbano Seta spa, ai sensi del R.D. n. 148 del 1931, a seguito di contestazione disciplinare con cui si addebitava al dipendente di aver ripetutamente svolto attività lavorativa nella cartoleria tabaccheria della moglie per alcune giornate del settembre e dell’ottobre 2009, precisando che tale condotta configurava inadempienza ai doveri generali di correttezza e di buona fede e che tale attività esterna faceva presumere l’inesistenza della malattia e quindi il compimento di un artificio per procurarsi indebiti vantaggi, configurandosi la fattispecie prevista dal R.D. n. 148 citato, art. 45, punto 2 del regolamento A).

2) Il Tribunale aveva ritenuto che, ferma la legittimità di tutta la procedura disciplinare prevista dal R.D. all’art. 53, il fatto contestato, riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 45 del R.D., fosse stato provato, in quanto la patologia descritta dai certificati medici di sindrome ansioso depressiva, diagnosticata nei primi giorni del mese di settembre 2009, soltanto in base alle dichiarazioni del paziente, alla ripresa del lavoro a seguito di un’aspettativa di un anno, non aveva impedito al M. di recarsi a lavorare presso la tabaccheria, sebbene soltanto in orari diversi da quelli previsti dalle fasce orarie per le visite di controllo medico. La sola circostanza che egli potesse uscire, secondo prescrizione medica non giustificava in alcun modo che egli potesse dedicarsi in modo sistematico e in orari precisi all’attività commerciale della moglie.

3)La corte d’appello di Bologna, ritenuti non fondati i motivi di appello relativi alla sostenuta non regolarità della procedura di contestazione disciplinare prevista dal R.D. n. 148, art. 53 e confermando la sentenza anche con riferimento alla tempestività della contestazione in presenza di accertamenti di natura complessa, ha ritenuto invece fondato il motivo relativo alla lamentata mancata sussistenza della fattispecie contestata di cui all’art. 45, n. 2 citato.

4)In particolare pur osservando che la simulazione della malattia ben può configurare la causale soggettiva di legge e che l’attendibilità delle certificazioni mediche ben possono essere liberamente valutate e sindacate dal giudice, la Corte territoriale ha poi ritenuto che, nel caso in esame “l’attività discontinua limitata temporalmente nell’ambito della tabaccheria gestita dai familiari, che emergeva dalla relazione investigativa, alla luce della patologia di “disturbo dell’adattamento con sindrome mista” non consentiva di ricavare anche solo una presunzione qualificata di simulazione, attesa la relativa marcata eterogeneità rispetto alla capacità di lavoro specifica dedotta in contratto, di autista di pullman”.

5)Avverso la sentenza propone ricorso la società con due motivi, poi illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.; resiste M. con controricorso.

Motivi della decisione
6)Con il primo motivo di ricorso la società lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione relativa a questione controversa e decisiva ai sensi dell’art. 360, comma 5. Secondo la società ricorrente la sentenza sarebbe contraddittoria perchè nonostante ritenga legittima in astratto una destituzione del dipendente di azienda municipalizzata che ha esercitato in proprio attività lavorativa e nonostante abbia ritenuto possibile che le certificazioni di malattia possano essere sindacabili in giudizio, non ha poi tenuto conto che l’Azienda ha contestato i referti medici prodotti in causa perchè redatti sulla scorta delle mere dichiarazioni del paziente M.. In sostanza la Corte non avrebbe dato modo di comprendere se, pur ammessa tale sindacabilità, sia stato valutato il valore probatorio dei certificati in atti e con quale esito di valutazione in giudizio.

7)Secondo l’appellante una diagnosi di disturbo dell’adattamento, malattia diagnosticata al M., dovrebbe essere valutata alla stregua dei criteri clinici e ciò non è avvenuto, non avendo la corte considerato che colui che è affetto in modo apprezzabile dal disturbo dell’adattamento non può lavorare e non ci riesce, trattandosi comunque di una reazione individuale ad un evento ritenuto stressante che compromette tout court la capacità lavorativa, sia che si lavori in un esercizio commerciale, sia che si svolga un’attività di autista di pullman. Comunque alcuna verifica è contenuta nella sentenza che, pur ritenendo sindacabili i certificati medici, finisce poi per non sviluppare nessun sindacato sugli stessi, mancando qualunque motivazione sul valore da attribuire alla certificazione: di qui l’illogicità delle deduzioni tratte dalla certificazione. Infine, secondo la ricorrente, la corte non ha tenuto conto che in nessuno dei due documenti prodotti in giudizio e trascritti si afferma che il M. dovesse astenersi dalla prestazione lavorativa in ATCM. 8) Il motivo è inammissibile. Deve infatti preliminarmente rilevarsi che nel caso in esame si applica ratione temporis la normativa processuale di cui al D.L. n. 83 del 20012, art. 54 convertito in L. n. 43 del 2012 e pertanto il vizio motivazionale lamentato dalla ricorrente non può che esaminarsi alla luce della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e che deve consistere in un ” omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

9) Le SSUU di questa corte hanno chiarito la riformulazione di tale fattispecie statuendo che può denunciarsi soltanto quell’anomalia motivazionale che attiene all’esistenza della motivazione in sè, indipendentemente dal confronto con le risultanze processuali, quando diventa una motivazione del tutto apparente, o nel “contrasto irriducibile tra affermazioni tra se inconciliabili”, così scomparendo il controllo della motivazione con riferimento al parametro della sufficienza e restando il controllo della esistenza e della coerenza (così Cass. n.8053/2014).

10) Ancora questa Corte ha precisato che il controllo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 deve concernere l’omesso esame di un fatto storico,principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza – rilevanza del dato testuale – o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo – vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia – (cosi Cass. SSUU n.19881/2014).

10) Nel caso in esame sebbene la corte di merito abbia adottato una motivazione non particolarmente esaustiva e indubbiamente poco argomentata quantomeno rispetto alla valutazione della connessione tra la patologia depressiva indicata nella certificazione medica e la sfera lavorativa, non può tuttavia ritenersi che la stessa sia assente o meramente apparente, neanche dirsi che le argomentazioni adottate per giungere all’apprezzamento fattuale siano del tutto illogiche o contraddittorie, come sostenuto dalla ricorrente.

11) Ed infatti la corte bolognese non ha omesso di esaminare il fatto storico decisivo per il giudizio,che è stato oggetto di discussione tra le parti, ossia la patologia indicata quale “disturbo dell’adattamento con sindrome mista”, come certificata da referto medico dell’Unità Operativa di salute mentale di Pavullo, che tuttavia non ha ritenuto potesse essere in contrasto con lo svolgimento anche discontinuo e limitato temporalmente di attività presso la tabaccheria di proprietà familiare, diversamente ritenendo invece con riferimento alla capacità di lavoro specifica connessa alla sua prestazione lavorativa di conducente di pullmann di linea, così che ha escluso che da ciò si potesse ricavare anche solo una qualificata presunzione di simulazione della malattia. Tale argomentazione, per quanto prima osservato, non è suscettibile di censura in base alla nuova formulazione del vizio lamentato.

12)Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo la società ricorrente la condanna alle spese sarebbe stata adottata in contrasto con la norma di cui all’art. 92 perchè non vi sarebbe stata una totale soccombenza della società, ma solo con riferimento alla domanda di reintegrazione, essendo stata accolta soltanto la domanda sulla illegittimità della destituzione, mentre la domanda risarcitoria era stata abbandonata dal M. e, in relazione all’altra, la sentenza di primo grado aveva trovato conferma in appello.

13) il motivo è infondato. Premesso che in tema di regolamento delle spese il sindacato della cassazione è limitato ad accertare soltanto che non risulti violato il principio della soccombenza, va rilevato che, come questa Corte ha più volte affermato, il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, dovendo il corrispondente onere essere attribuito e ripartito in ragione dell’esito complessivo della lite, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione (cfr per tutte Cass. 23226/2013 Cass. n.1775/2017).

14) Nel caso in esame la Corte, riformando la sentenza di primo grado ha provveduto ad una nuova liquidazione delle spese e tenendo conto dell’esito complessivo della lite che vedeva la parte appellante vincitrice in relazione alla domanda di illegittimità del licenziamento e di reintegrazione, ha ritenuto di porre a carico della società le spese, senza operare alcuna compensazione parziale. Non essendo stato violato il principio di soccombenza, la società ricorrente non può fondatamente dolersi della mancata compensazione.

15) Deve infine ritenersi inammissibile e comunque infondata la richiesta di condanna del controricorrente M. al risarcimento del danno di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1. Come già più volte osservato da questa Corte la domanda di risarcimento da responsabilità processuale aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1, pur recando in sè una necessaria indeterminatezza quanto agli effetti lesivi immediatamente discendenti dall’improvvida iniziativa giudiziale,comunque impone una sia pur generica allegazione della “direzione” dei supposti danni (Cass. 7620/2013); inoltre tale istanza, proponibile anche nel giudizio di legittimità per il risarcimento dei danni causati dal ricorso per cassazione, deve essere formulata nel controricorso con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l’accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all’esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza (così Cass. n.21805/2013). Nel caso in esame non ricorrono tali presupposti.

Il ricorso deve quindi essere rigettato, con condanna della società soccombente alla rifusione delle spese del presente grado, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente società al pagamento delle spese di lite di giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2017


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 30-10-2017) 14-12-2017, n. 30139

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28270/2016 proposto da:

ASSIMOCO SPA, in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 77, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO BOCHICCHIO, rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO MARTUCCI SCHISA;

– ricorrente –

contro

D.F.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. TORNIELLI 46, presso lo studio PROTA, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA PORZIO, ANTONIO MALAFRONTE;

– controricorrente –

e contro

L.M.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1527/2016 del TRIBUNALE di TORRE ANNUNZIATA, depositata il 24/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 30/10/2017 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, con ricorso affidato ad un unico motivo, la Assimoco S.p.A. ha impugnato la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, in data 24 maggio 2016, che, in accoglimento del gravame interposto da D.F.V. avverso la sentenza del 12 marzo 2015 del Giudice di pace di Torre Annunziata, ne accoglieva la domanda di risarcimento dei danni subiti a seguito di sinistro stradale, del quale veniva dichiarata responsabile L.M.S., proprietaria di autoveicolo assicurato presso l’anzidetta Assimoco;

che resiste con controricorso D.F.V., mentre non ha svolto attività difensiva l’intimata L.M.S.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata comunicata ai difensori delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale il controricorrente ha depositato memoria;

che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Considerato che, con l’unico motivo è denunciata violazione e/o falsa applicazione del D.L. 25 giugno 2014, n. 90, art. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, in riferimento alla L. n. 183 del 2011, art. 25, e all’art. 141 c.p.c., per aver il Tribunale erroneamente ritenuto valida la notificazione dell’atto di appello ad essa Assimoco, avvenuta ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, presso la cancelleria del Giudice di pace di Torre Annunziata per essere il relativo difensore domiciliatario patrocinante extra districtum, e non presso l’indirizzo PEC di detto difensore o quello della stessa società, risultanti, rispettivamente, dal ReGIndE e dall’INI PEC, come imposto in forza del citato art. 52;

che il motivo è manifestamente fondato;

che a tal fine occorre osservare che l’art. 16 sexies (rubricato “Domicilio digitale”) del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, come introdotto dal D.L. 25 giugno 2014, n. 90, art. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”;

che tale norma, dunque, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, (codice dell’amministrazione digitale) ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. n. 44 del 2011, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo PEC, per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione;

che, in tal senso, la prescrizione dell’art. 16 sexies, prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo PEC del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE;

che, pertanto, la norma in esame non solo depotenzia la portata dell’elezione di domicilio fisico, la cui eventuale inefficacia (ad es., per mutamento di indirizzo non comunicato) non consentirà, pertanto, la notificazione dell’atto in cancelleria, ma pur sempre e necessariamente alla PEC del difensore domiciliatario (salvo l’impossibilità per causa al medesimo imputabile), ma, al contempo, svuota di efficacia prescrittiva anche il R.D. n. 37 del 1934, art. 82, posto che, stante l’obbligo di notificazione tramite PEC presso gli elenchi/registri normativamente indicati, potrà avere un rilievo unicamente in caso, per l’appunto, di mancata notificazione via PEC per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria;

che a siffatta interpretazione non ostano i precedenti richiamati dal controricorrente (Cass. n. 14969/2015 e Cass. n. 22892/2015, al quale va aggiunto il più recente Cass. n. 15147/2017, indicato, unitamente a Cass. n. 25215/2014, con la memoria, le cui argomentazioni, pertanto, non colgono nel segno), che, in tutti i casi considerati (peraltro, Cass. n. 14969/2015 riguarda soltanto il giudizio di cassazione), non fanno applicazione dell’art. 16 sexies, citato, ma dell’assetto normativo antecedente alla sua introduzione, là dove, poi, Cass. n. 15147/2017 ha cura di precisare proprio l’inapplicabilità al proprio giudizio della norma introdotta nel 2014;

che, del resto, l’impianto argomentativo anzidetto è a conferma del principio recentemente enunciato da Cass. n. 17048/2017, secondo cui: “In materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”;

che, dunque, essendo il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012, come introdotto dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 114 del 2014, entrato in vigore il 19 agosto 2014 e trovando esso immediata efficacia nei giudizi in corso per gli atti compiuti successivamente alla sua vigenza, in applicazione del principio (non derogato dalla stessa legge n. 114 del 2014 attraverso l’indicazione di una diversa specifica decorrenza della citata norma processuale) del tempus regit actum (tra le tante, Cass. n. 17570/2013, Cass. n. 5925/2016, Cass. n. 1635/2017), la notificazione dell’appello alla Assimoco S.p.A., costituitasi nel giudizio di primo grado, proposto da D.F.V. avverso la sentenza del Giudice di pace di Torre Annunziata del 12 marzo 2015, avrebbe dovuto essere effettuata presso l’indirizzo PEC del difensore della stessa Assimoco risultante dagli elenchi/registri indicati dallo art. 16 sexies e, soltanto ove impossibile per causa imputabile a detto difensore, allora presso la cancelleria del Giudice pace adito;

che ne consegue che la notificazione dell’appello effettuata direttamente (ed esclusivamente) presso la cancelleria del Giudice di pace di Torre Annunziata è affetta da nullità, ma non già da inesistenza, essendo quest’ultima configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale, tra cui, in particolare, i vizi relativi all’individuazione del luogo di esecuzione, nella categoria della nullità (cfr. Cass., S.U., n. 14916/2016 e Cass. n. 21865/2016);

che il ricorso va, dunque, accolto e la sentenza impugnata cassata con rinvio della causa al Tribunale di Torre Annunziata, quale giudice di appello, perchè, in applicazione dei principi innanzi enunciati, provveda alla rinnovazione della notificazione del gravame nei confronti della Assimoco S.p.A. e di L.M.S., litisconsorte necessario in quanto proprietario dell’autovettura assicurata presso la stessa compagnia Assimoco (e, dunque, responsabile civile anche ai sensi del vigente art. 144 cod. ass.: tra le altre, Cass. n. 9112/2014, Cass. n. 25421/2014 e Cass. n. 23706/2016), oltre che alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Torre Annunziata, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 3 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2017


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14-06-2017) 08-11-2017, n. 26479

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3545-2016 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRISTOFORO COLOMBO 177 C/0 CASA MILILLO, rappresentato e difeso dall’Avvocato CARMINE RUGGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MATERA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato EDOARDO GHERA, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO GAROFALO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale – e contro

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRISTOFORO COLOMBO 177 C/0 CASA MILILLO, rappresentato e difeso dall’Avvocato CARMINE RUGGI, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale – avverso la sentenza n. 216/2015 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 04/08/2015 R.G.N. 509/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/06/2017 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per inammissibilità del ricorso principale, rigetto dell’incidentale;

udito l’Avvocato CARMINE RUGGI;

udito l’Avvocato PATRIZIA SCAPPATURA per delega Avvocato DOMENICO GAROFALO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento disciplinare intimato a P.F. dal Comune di Matera in data 6.11.2012 e, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, ha condannato il Comune a pagare al P. l’indennità risarcitoria, commisurandola a nove mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che: il termine di 120 giorni previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis era stato violato perchè la proroga del termine per la difesa del lavoratore aveva efficacia sospensiva solo in relazione al periodo compreso tra il 14.4.2012 (data di richiesta del lavoratore di rinvio della audizione disposta per il giorno 17.4.2012) ed il 25.6.2012 e non anche in relazione al periodo successivo al 25.6.2012 (data della richiesta del lavoratore di anticipazione della nuova data fissata per la sua audizione fissata per il giorno 17.10.2012). Premessa l’applicabilità della disciplina contenuta nella L. n. 92 del 2012 ai licenziamenti intimati ai pubblici dipendenti la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati, nei termini risultati accertati in giudizio, integravano la giusta causa di licenziamento in quanto irreparabilmente lesivi del vincolo fiduciario. Ha, poi, affermato che alla violazione del termine di 120 giorni, previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis conseguiva, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, l’applicazione della tutela indennitaria (indennità risarcitoria compresa tra 6 e 12 mensilità). In considerazione della durata del rapporto di lavoro la Corte territoriale ha commisurato l’indennità risarcitoria a nove mensilità dell’ultima retribuzione di fatto.

3. Avverso detta sentenza P.F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

4. Il Comune di Matera ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, al quale ha resistito con controricorso il P..

5. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Sintesi dei motivi del ricorso principale.

6. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1 e art. 55 bis, comma 4 della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 1 e 4 come novellato dalla L. n. 92 del 2012, e dell’art. 1418 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto inefficace il licenziamento intimato in violazione del termine previsto per la conclusione del procedimento disciplinare e per avere, conseguentemente, applicato la sola tutela indennitaria. Asserisce che la violazione dei termini previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 2 e art. 4, u.c. comporta la nullità del licenziamento in quanto adottato in violazione di norme imperative con conseguente operatività della tutela reintegratoria “piena”. Invoca i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 24157 del 2015.

7. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 6, della L. n. 604 del 1966, art. 5 dell’art. 2119 c.c. e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su un fatto decisivo. Lamenta che la Corte territoriale ha effettuato una valutazione sommaria e complessiva dei fatti contestati in sede disciplinare omettendo di accertare la effettiva sussistenza di ciascuna delle plurime condotte contestate e asserisce che, in caso di plurime contestazioni, ove anche uno solo degli episodi contestati non sussista l’atto di recesso deve essere considerato illegittimo. Il ricorrente sostiene, inoltre, che non era emersa la prova che i comportamenti contestati in sede disciplinare fossero stati posti in essere. Si duole che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare, con riferimento alla contestazione disciplinare sub b. (reato di cui agli artt. 81, 110, 56 e 317 c.p.) che il Tribunale di Matera aveva pronunciato sentenza di non luogo a procedere, quanto alla contestazione sub c. (reato di cui all’art. 317 c.p.) che era risultato provato che esso ricorrente aveva versato la quota integrale al (OMISSIS) e non aveva pronunciato alcuna frase offensiva o minacciosa, con riguardo alla contestazione sub d. (controlli mirati presso il (OMISSIS)) che dalle prove era rimasto escluso che i controlli fossero stati ispirati da intenti minacciosi, e, quanto alla contestata concussione perpetrata nei confronti dell’Assessore B., deduce che il Tribunale del riesame di Potenza aveva dichiarato l’insussistenza del fatto. Assume che non vi era stata alcuna coartazione della condotta degli addetti ai controlli, i quali avevano accertato le inadempienze del (OMISSIS) e che era stato provato che lo spostamento del dipendente C. presso l’impianto di compostaggio non aveva pregiudicato l’attività sindacale da questi svolta.

Sintesi del motivo del ricorso incidentale. 8. Con l’unico motivo il ricorrente incidentale denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 2. Sostiene che la proroga del termine per la conclusione del procedimento disciplinare opera in misura corrispondente alla intera durata del differimento e non invece alla durata dell’impedimento del lavoratore.

9. In via preliminare deve essere affrontata la questione relativa alla applicabilità delle regole procedurali di cui alla L. n. 92 del 2012 ai rapporti dell’impiego pubblico contrattualizzato, tra i quali rientra quello dedotto in giudizio, in quanto il controricorrente ha eccepito la inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 1 c. 62 della L. n. 92 del 2012, sul rilievo della tardività della sua notifica.

10. La questione va risolta in senso affermativo in adesione ai principi affermati da questa Corte nella decisione n. Cass. 11868/2016, alla quale il Collegio ritiene di aderire, condividendone le argomentazioni motivazionali, da intendersi qui richiamate ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. 11. Affermata, per quanto innanzi osservato, l’applicabilità delle regole procedurali contenute nella L. n. 92 del 2012 al giudizio in esame, deve essere esaminata la questione dell’ammissibilità del ricorso per cassazione.

12. Il controricorrente, come innanzi accennato, ha, infatti, eccepito che la sentenza n. 216 del 2015, corredata della motivazione, è stata depositata nella cancelleria della Corte di Appello di Potenza il giorno 4.8.2005 e che in pari data è stata comunicata in forma integrale dalla stessa cancelleria a mezzo di posta elettronica certificata al difensore del P.. Il controricorrente, muovendo da siffatto rilievo deduce che tale comunicazione è idonea a far decorrere il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62 ed evidenzia che siffatto termine era ormai scaduto alla data della notifica del ricorso (1.2.2016).

13. Il Collegio ritiene di dare continuità, condividendolo, all’orientamento giurisprudenziale di questa Corte (Cass. 19177/2016, 16216/2016) secondo cui il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62, decorre dalla semplice comunicazione del provvedimento, trattandosi di previsione speciale, che in via derogatoria comporta la decorrenza del termine da detto incombente, su cui non incide la modifica dell’art. 133 c.p.c., comma 2, nella parte in cui stabilisce che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.”, norma attinente al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria. E’ stato osservato, nelle innanzi richiamate decisioni, che il disposto si pone come norma speciale rispetto alla disciplina generale del cosiddetto termine breve di impugnazione, dettata dagli artt. 325 e 326 c.p.c., poichè fa decorrere il termine perentorio dalla comunicazione della sentenza o dalla notificazione, ma solo se anteriore alla prima, e consente l’applicazione del termine stabilito dall’art. 327 c.p.c. unicamente nel caso in cui risultino omesse sia la notificazione che la comunicazione della decisione. Ed è stato precisato che, affinchè possa decorrere il termine breve, non è sufficiente il mero avviso del deposito della sentenza, essendo, invece, necessario che la comunicazione si riferisca al contenuto integrale della decisione, di modo che la parte sia posta, dal momento della comunicazione, in grado di conoscere le ragioni sulle quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza.

14. Le decisioni già richiamate hanno anche osservato che a dette conclusioni conduce innanzitutto il tenore letterale del richiamato comma 62 che, diversamente da quanto disposto, ad esempio, dall’art. 420 bis c.p.c., comma 2 fa riferimento, appunto, alla comunicazione della sentenza e non “dell’avviso di deposito” della stessa. Inoltre la disposizione, sebbene di carattere speciale, nulla specifica in merito alla forma della comunicazione, sicchè vale al riguardo la disciplina dettata dal codice di rito che, all’art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c., come modificato dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, stabilisce che “il biglietto contiene in ogni caso il testo integrale del provvedimento comunicato”. La necessità della comunicazione del testo integrale è stata ribadita dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, che ha modificato l’art. 133 c.p.c., inapplicabile alla fattispecie in giudizio, solo nella parte in cui, diversamente da quanto previsto per il rito speciale, esclude che la comunicazione possa fare decorrere il termine breve di impugnazione.

15. A sostegno dell’eccezione di tardività il controricorrente ha depositato “ATTESTAZIONE TELEMATICA” della cancelleria, che reca “Attestazione relativa ai dati desunti dal registro di cancelleria riferiti alla comunicazione/notificazione di cancelleria” eseguita in data 04 agosto 2015 alle ore 14,21 da ” R.S.” nei confronti di “VENETO GAETANO” (difensore costituto del ricorrente nel giudizio di appello) all’indirizzo di posta elettronica certificato “veneto.gaetano-avvocatidibari.legalmail.it”.

16. Dalla attestazione si evince che il “testo inviato con la PEC” ebbe ad oggetto “DEPOSITO SENTENZA – PUBBLICAZIONE (DISPOSITIVO LETTO IN UDIENZA) e reca la dicitura “Descrizione: “DEPOSITATA (PUBBLICATA) SENTENZA (DISPOSITIVO N. 216/2015 LETTO IN UDIENZA). Essa è riferita al Registro Numero di Ruolo Generale 509 del 2014, relativa alle parti P.F. (indicato come “Ricorr., principale”) e Comune di Matera (indicato come Resist. principale”); vi risulta indicato il nome del “Giudice” S.A. (che risulta essere il Consigliere relatore).

17. Dalla richiamata attestazione telematica “redatta automaticamente dal registro di cancelleria in data 27 gennaio 2016 alle ore 11,:07 dall’operatore ” L.G.N.” si ricava in maniera inequivoca che la comunicazione conteneva l’intero testo della sentenza oggi impugnata, che fu inviata dalla cancelleria della Corte di Appello di Potenza al difensore del P., costituito nel giudizio di appello, il giorno 4 agosto 2015 alle ore 14,21, che detta comunicazione fu accettata dal sistema in pari data ed ora e che venne consegnata al destinatario il giorno 4 agosto 2015 alle ore 14.22.

18. La circostanza che oggetto della comunicazione sia stato l’intero provvedimento oggi impugnato e non solo il dispositivo si evince anche dalla attestazione rilasciata al difensore del Comune controricorrente in data 17 febbraio 2016 (allegata al controricorso), all’esito della consultazione del programma ministeriale SICID, nella quale risulta precisato che la comunicazione è stata effettuata “come da D.L. n. 90 del 2014, art. 45, lett. b”, disposizione questa, che come sopra evidenziato, ha modificato l’art. 133 c.p.c., comma 2, sostituendo le parole: “il dispositivo” dalle seguenti: “il testo integrale della sentenza”.

19. Parte ricorrente, nella memoria ex art. 378 c.p.c., non nega che la comunicazione della sentenza sia avvenuta in forma integrale ma sostiene che la sentenza oggetto della comunicazione telematica sarebbe inidonea a far decorrere il termine, breve, per la sua impugnazione in quanto il cancelliere non avrebbe apposto, all’atto dell’inserimento nel fascicolo informatico, la firma digitale sulla copia digitalizzata dell’originale formato cartaceo della sentenza. Allega a tal fine l’attestazione rilasciata in data 1.2.2016 dal Cancelliere di Potenza nella quale si dà atto che “la sentenza allegata (alla comunicazione telematica) è stata scansionata e non firmata digitalmente poichè il funzionario che ha apposto il depositato per la pubblicazione è privo di firma digitale”.

20. La tesi è priva di giuridico fondamento, in quanto il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 convertito con modificazioni nella L. n. 221 del 2012, nel testo vigente “ratione temporis” (la comunicazione della sentenza impugnata è stata effettuata, come sopra evidenziato, il 4.8.2015) dispone che “Le copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonché dei provvedimenti di quest’ultimo, presenti nei fascicoli informatici dei procedimenti indicati nel presente articolo, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale del cancelliere. Il difensore, il consulente tecnico, il professionista delegato, il curatore ed il commissario giudiziale possono estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti di cui al periodo precedente ed attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico. Le copie analogiche ed informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico e munite dell’attestazione di conformità a norma del presente comma, equivalgono all’originale. Il duplicato informatico di un documento informatico deve essere prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano agli atti processuali che contengono provvedimenti giudiziali che autorizzano il prelievo di somme di denaro vincolate all’ordine del giudice”. La norma precisa dunque, innovando rispetto alla precedente disciplina (D.M. n. 44 del 2011, art. 15) e prendendo atto del fatto che nella realtà fattuale non sempre la copia inserita nel fascicolo informatico conteneva la sottoscrizione del cancelliere, che la copia informatica contenuta nel fascicolo informatico equivale all’originale ancorchè priva della sottoscrizione del cancelliere.

21. il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 bis convertito con modificazioni nella L. n. 221 del 2012, nel testo vigente “ratione temporis deve ritenersi applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio perchè non prevede alcuna espressa delimitazione di carattere temporale ma pone, invece, l’accento sul contenuto del “fascicolo informatico”, tanto da chiarire nell’”incipit” che le copie informatiche presenti nei fascicoli informatici dei “procedimenti indicati nel presente articolo” equivalgono all’originale. Va osservato che la disposizione non avrebbe alcun ragione di essere ove fosse riferita ai soli atti per i quali, a decorrere dal 30.6.2014 è obbligatorio il Processo Civile Telematico perchè si tratterebbe all’evidenza di “atti nativi digitali”. In realtà è proprio l’apertura della norma che attesta la volontà del legislatore di estendere l’ambito di applicazione della disposizione in esame oltre l’area della obbligatorietà e addirittura della facoltatività del deposito telematico, disponendone l’applicazione a tutti gli atti “digitalizzati” in conformità al P.C.T. (quindi proprio alle copie informatiche presenti nei fascicoli informatici).

22. Sulla scorta delle considerazioni svolte in ordine alla idoneità della comunicazione telematica della sentenza impugnata in data 4.8.2005 a far decorrere il termine di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 92 il ricorso principale va dichiarato inammissibile perchè è stato notificato solo il 1.2.2016, oltre il termine indicato.

23. L’inammissibilità del ricorso incidentale determina l’inefficacia del ricorso incidentale in quanto anch’esso proposto, incontestatamente, oltre il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, avvenuta nei confronti del procuratore costituito del Comune il 4.8.2015 (Cass. 6077 /2015, 8105/2006)).

24. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate in ragione della reciproca soccombenza.

25. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte Dichiara l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale.

Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2017


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 18/07/2017) 22/09/2017, n. 22086

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente di Sez. –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11570/2015 proposto da:

M.T.L. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTON GIULIO BARRILI 49, presso il Dott. DANIEL DE VITO, rappresentata e difesa dall’avvocato VALERIO FREDA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 3919/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 03/10/2014.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/07/2017 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale;

uditi gli avvocati Valerio Freda per la parte ricorrente e Fabio Tortora per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Svolgimento del processo
La M.T.L. s.r.l. proponeva opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione n. 74983, notificata il 9.2.2010, con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze le aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 20.759,00 per avere effettuato con la Cassa Arianese di Mutualità a r.l. transazioni finanziarie in contanti, senza il tramite di intermediari abilitati, in violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, convertito in L. n. 197 del 1991.

Resistendo il Ministero, il Tribunale di Ariano Irpino con sentenza n. 558/10 accoglieva l’opposizione, ritenendo estinta la sanzione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, per l’omessa notifica del verbale d’accertamento e di contestazione dell’illecito e la conseguente prescrizione ex art. 28 stessa legge.

L’appello principale del Ministero dell’Economia e delle Finanze era accolto dalla Corte distrettuale di Napoli, con sentenza n. 3919 del 3.10.2014.

I giudici del gravame escludevano, tra l’altro, la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, ritenendo provato documentalmente che il verbale di contestazione del 25 gennaio 2005 – che identificava come responsabili della violazione la società ed il suo rappresentante Ludovico Miele fosse stato notificato l’8 febbraio 2005 nei confronti della società MTL e, per essa, del suo legale rappresentante Miele. La Corte distrettuale riteneva pure infondata l’eccezione di prescrizione dell’azione e la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 6 (essendosi proceduto nei confronti della società, coobbligata in solido con l’autore materiale dell’infrazione, pur non essendosi, in realtà, irrogata sanzione a quest’ultimo per intervenuta decadenza).

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso M.T.L. di M.L. e T. s.n.c., sulla base di otto motivi.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale articolato in due motivi.

La causa, rimessa con ordinanza della seconda sezione civile al primo Presidente per il contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte in ordine all’interpretazione della L. n. 689 del 1981, art. 6 e 14, uc., è stata assegnata a queste S.U..

Il ministero ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo di ricorso principale denuncia l’omesso esame d’un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello, nell’escludere la decadenza del Ministero ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, per essere stata notificata la contestazione dell’illecito l’8 febbraio 2005 nei confronti della società MTL e, per essa, del suo legale rappresentante M.L., non avrebbe tenuto conto di tre fatti decisivi. E cioè che la notifica è avvenuta presso l’abitazione di M.L. e non presso la sede legale; che la relata indicava essere avvenuta la notificazione a quest’ultimo previa sua identificazione; e che la nullità di tale notificazione alla MTL sarebbe stata ammessa dallo stesso Ministero nel proprio atto d’appello. Fatti da cui, sostiene parte ricorrente, deriverebbe che la notificazione sarebbe avvenuta non alla società ma al suo legale rappresentante in proprio, quale autore materiale della violazione amministrativa.

2. – Il motivo è manifestamente infondato.

Premessa l’applicabilità alla fattispecie, ratione temporis, del testo dell’art. 145 c.p.c., comma 2, anteriore alla modifica apportatavi dalla L. n. 263 del 2005, è sufficiente osservare che in tema di notifiche a società prive di personalità giuridica, qualora non sia stata tentata la notificazione nella sede indicata nell’art. 19 c.p.c., secondo il disposto dell’art. 145, comma 2, la notificazione stessa non può essere eseguita secondo la forma sussidiaria di cui del citato art. 145, u.c. (cioè secondo le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.), ancorchè risulti indicata nell’atto la persona fisica del rappresentante della società, ma può ritualmente avvenire soltanto mediante consegna nelle mani dello stesso rappresentante, ovunque reperito, e non anche nelle mani di persona di famiglia dello stesso (Cass. nn. 1856/84, 8402/00 e 20104/06). E nella specie la notificazione è avvenuta, appunto, a mani proprio del legale rappresentante della MTL. Esclusa la nullità di tale notificazione è esclusa in partenza anche l’astratta proponibilità del ragionamento sillogistico avanzato da parte ricorrente, che da tale – insussistente invalidità intenderebbe dedurre che la contestazione sarebbe riferibile non alla società ma al suo legale rappresentante, quale autore del fatto illecito, il tutto attraverso la commistione concettuale tra l’atto, espressamente indirizzato alla società, e la relativa sua notifica.

3. – Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2943 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte territoriale erroneamente attribuito efficacia interruttiva del decorso della prescrizione quinquennale alla lettera di convocazione del 22 settembre 2009 indirizzata a tale M.A. e non alla MTL. 4. – Il motivo è infondato sotto due profili.

Quanto al primo, va osservato che l’accertamento della decorrenza, interruzione, sospensione della prescrizione costituisce indagine di fatto demandata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata e congrua motivazione e non inficiata da errori logici o di diritto (Cass. nn. 23821/10, 17157/02, 9016/02, 1710/68 e 2839/66).

Nella specie, la Corte territoriale ha fornito ampia – e dunque non sindacabile – giustificazione delle ragioni in virtù delle quali la lettera di convocazione del 22.9.2009 doveva ritenersi riferita anche alla posizione della MTL, società che insieme con altre era assistita dall’avv. Freda, estensore, a sua volta, di deduzioni difensive anche nell’interesse di M.A.. Sebbene non indirizzata alla MTL, tale missiva, ha osservato la Corte, faceva esplicito riferimento alla convocazione dei titolari di altre posizioni, tutte rappresentate dal medesimo legale, tra cui anche quella il cui identificativo numerico era riferibile alla MTL. Ne deriva che le repliche proposte al riguardo dalla parte ricorrente introducono e pretendono un accertamento di natura puramente fattuale, del tutto incompatibile con i limiti che l’ordinamento assegna al giudizio di legittimità.

Quanto al secondo profilo, si rileva che in base alla costante giurisprudenza di questa Corte il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132/05, 26048/05, 20145/05, 1108/06, 10043/06, 20100/06, 21245/06, 14752/07, 3010/12 e 16038/13).

E nella specie il ricorso non contiene alcuna dimostrazione della presenza, nella sentenza impugnata, di affermazioni che espressamente o implicitamente contrastino con la corretta interpretazione dell’art. 2943 c.c., quale si desume dalla giurisprudenza di questa S.C. 5. – Il terzo mezzo d’impugnazione allega la violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 6, 7 e 14, per avere la Corte d’appello escluso che la società odierna ricorrente, coobbligata in via solidale, potesse beneficiare dell’estinzione per l’intervenuta decadenza ex art. 14, u.c., Legge cit., riconosciuta, in favore dell’autrice materiale dell’illecito amministrativo, nel medesimo provvedimento ingiuntivo opposto. Richiama a sostegno Cass. nn. 23871/11 e 3879/12, in base alle quali la responsabilità solidale della società per gli illeciti amministrativi posti in essere dai suoi legali rappresentanti o dipendenti è prevista esclusivamente in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall’autore dell’infrazione.

6. – Tale motivo solleva la questione rimessa a queste S.U., che sono chiamate a dirimere il contrasto di giurisprudenza formatosi sull’interpretazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, uc..

6.1. – L’interpretazione di tale norma, la quale dispone che l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui confronti è stata omessa la notificazione nel termine prescritto, ha dato luogo alla formazione di due distinti indirizzi sulla sorte dell’obbligazione gravante sull’obbligato solidale, allorchè si sia estinta quella a carico del trasgressore (è pacifico, invece, che l’estinzione dell’obbligazione di un responsabile in solido non produca pari effetti estintivi dell’obbligazione gravante sugli altri responsabili solidali: cfr. sentenze nn. 9830/00 e 9557/92).

Secondo un primo orientamento, espresso dalle sentenze nn. 23871/11 e 26387/08, dall’estinzione dell’obbligazione di colui che ha, in concreto, commesso la violazione amministrativa, deriva anche l’estinzione dell’obbligazione a carico del condebitore solidale, dovendosi riconoscere carattere principale all’obbligo incombente sul primo dei due soggetti. Ciò in virtù del rapporto di accessorietà e dipendenza della posizione dell’obbligato solidale rispetto a quella dell’autore materiale e principale della violazione, nei cui confronti il primo non avrebbe potuto esercitare il diritto di regresso previsto dallo stesso art. 6, al comma 4, una volta estintasi nei confronti di lui l’obbligazione sanzionatoria per mancata notificazione.

Ad esito opposto è pervenuta, invece, la sentenza n. 4342/13 (non massimata), secondo cui l’effetto estintivo della pretesa sanzionatoria è limitato, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., al soggetto nei cui confronti non sia stata eseguita la notifica. “In altre parole”, soggiunge tale pronuncia, “l’obbligato solidale per la sanzione amministrativa non equivale a un obbligato solidale nell’ipotesi d’insolvibilità del condannato. Deve dunque riconoscersi l’autonomia della posizione dei due obbligati, in relazione alla quale non esiste un legame necessario tra le due obbligazioni per cui l’una può sussistere anche se l’altra fosse estinta (Cass. S.U. 29.1.1994 n. 890)”.

A sua volta, la questione in esame incrocia il costante orientamento di questa Corte in base al quale il disposto della L. n. 689 del 1981, art. 7 (“l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi”) e quello dell’art. 6, u.c. (per cui l’obbligato solidale che ha pagato “ha diritto di regresso per l’intero nei confronti dell’autore della violazione”) sono espressione del principio di personalità che governa la responsabilità nell’illecito amministrativo, per cui la morte dell’autore della violazione determina non solo l’intrasmissibilità agli eredi di lui dell’obbligo di pagare la somma dovuta per la sanzione, ma anche l’estinzione dell’obbligazione a carico dell’obbligato solidale. A tale ultimo riguardo, infatti, si afferma che ai sensi dell’art. 6 cit. questi non è un obbligato sussidiario per le ipotesi di insolvibilità del condannato o di pratica difficoltà di identificare l’autore della violazione – in quanto si tratta di obbligazione solidale nell’interesse esclusivo di uno solo degli obbligati, senza alcun riparto nei rapporti interni, a norma dell’art. 1298 c.c. – e neppure si può configurare, a suo carico, una responsabilità diretta per culpa in eligendo o in vigilando. Nell’affrontare l’obiezione che fa leva sulla L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., detta giurisprudenza rileva la profonda distinzione tra la causa estintiva prevista dall’art. 7 e quella indicata nell’art. 14. Mentre, nella prima, la morte incide sull’illecito, facendolo venir meno a causa del carattere personale della responsabilità amministrativa disciplinata dalla L. n. 689 del 1981, nella seconda l’illecito permane, venendo meno soltanto la possibilità per la P.A. di applicare la sanzione, a causa di un ostacolo procedimentale di essenziale rilievo (perchè attinente all’esercizio del diritto di difesa) (così, in particolare, la sentenza n. 2064/94, la quale tuttavia non coglie la contraddizione tra la propria precedente affermazione, per cui l’obbligazione solidale sarebbe di tipo dipendente ex art. 1298 c.c., e la successiva conclusione raggiunta interpretando l’art. 14, u.c., nel senso della permanenza della responsabilità del coobbligato solidale nonostante si sia estinta l’obbligazione del trasgressore; in senso conforme, v. le sentenze nn. 5717/11, 1193/08, 2501/00 e 3245/97).

La conseguenza (sempre secondo Cass. n. 2064/94) è che, a differenza del caso di morte del trasgressore, nell’ipotesi contemplata dell’art. 14 cit., u.c., l’obbligato solidale che ha pagato la sanzione ha diritto di regresso per l’intero contro l’autore della violazione, il quale, ovviamente, potrà, nel relativo giudizio, sostenere la propria assenza di responsabilità in ordine alla violazione, determinando un accertamento giudiziale incidenter tamtum sul punto e con effetti solo nei rapporti interni (e non anche rispetto all’Amministrazione).

6.2. – Queste Sezioni Unite si sono occupate della solidarietà passiva nell’ambito dell’illecito amministrativo con la sentenza n. 890/94 (preceduta dalla n. 4405/91 della prima sezione civile), allorchè hanno affermato che l’identificazione del trasgressore non è un requisito di legittimità dell’ordinanza ingiunzione emessa nei confronti dell’obbligato solidale, ancorchè necessaria per esperire l’azione di regresso della L. n. 689 del 1981, ex art. 6, ovvero ai fini della prova della violazione nel giudizio di opposizione o della valutazione della motivazione del provvedimento sanzionatorio o, infine, della contestazione dei presupposti della solidarietà, in relazione ai rapporti fra il trasgressore ed il coobbligato.

In tale occasione le S.U., riprendendo le motivazioni del parere del Consiglio di Stato n. 1523 del 1987, hanno precisato: a) che l’assoggettamento a sanzione dell’obbligato solidale (sia esso una persona fisica come l’imprenditore individuale o un soggetto collettivo) non presuppone necessariamente l’identificazione dell’autore della violazione alla quale la sanzione stessa si riferisce; b) che l’autonomia delle posizioni dei due obbligati si desume chiaramente dalla L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c.; c) che dunque non vi è un legame necessario tra le due obbligazioni, l’una potendo sussistere anche se l’altra si è estinta; d) che, pertanto, l’identificazione dell’autore del fatto può assumere eventualmente carattere di necessità solo per finalità di ordine probatorio; e) che la previsione dell’azione di regresso di cui della L. n. 689 del 1991, art. 6, u.c., è autonoma rispetto alla responsabilità per la sanzione amministrativa e l’eventualità che ne Sia impossibile l’esercizio non può far venire meno l’obbligazione del debitore solidale.

Granitica, ne è scaturita la giurisprudenza successiva, la quale ha riaffermato che l’identificazione e l’indicazione dell’autore materiale della violazione non costituiscono requisito di legittimità dell’ordinanza ingiunzione emessa nei confronti dell’obbligato solidale, in quanto la ratio della responsabilità di quest’ultimo non è quella di far fronte a situazioni d’insolvenza del trasgressore, bensì quella di evitare che l’illecito resti impunito quando sia impossibile identificare tale ultimo soggetto e sia, invece, facilmente identificabile l’obbligato solidale a norma della L. n. 689 del 1981, art. 6, comma 1 (v. sentenze nn. 145/15, 11643/10, 24573/06, 2780/04, 4725/04, 18389/03, 7909/02, 357/00, 19861988/97, 1979-1982/97, 1969-1977/97, 1960/97, 1402/97, 1114/97, 590-606/97, 558-573/97 e 172/97).

6.3. – Ne risulta – occasionato dalle diverse e interagenti questioni sul tappeto – un quadro giurisprudenziale composito nelle premesse d’ordine sistematico e nelle soluzioni fornite, che trova riscontro nelle discordanti opinioni di dottrina sulla L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c..

Secondo alcuni autori, infatti, detta norma si riferirebbe soltanto all’ipotesi di responsabilità correale o di mancata notificazione nei confronti del responsabile in solido; con la conseguenza che l’omessa contestazione o notificazione nei confronti dell’obbligato in via principale precluderebbe l’accertamento dell’illecito amministrativo anche nei confronti dell’obbligato solidale.

Altri motiva la soluzione opposta in considerazione del fatto che, diversamente, resterebbero non sanzionabili le violazioni commesse da un autore rimasto ignoto; e che l’obbligazione del responsabile solidale dipende non dalle sorti dell’obbligazione principale, ma dalla stessa commissione del fatto illecito.

In ogni caso, entrambe le posizioni avvertono come imprescindibile il coordinamento dell’art. 14, u.c., con la L. n. 689 del 1981, art. 6, u.c.. Ipotizzata la sopravvivenza dell’obbligazione del responsabile in solido, nonostante l’estinzione di quella gravante sull’autore dell’illecito per mancata contestazione e tardiva od omessa notificazione, l’azione di regresso è ritenuta autonoma, fondata su di un normale rapporto di diritto privato e, dunque, esperibile nonostante il trasgressore resti liberato verso la P.A. Viceversa, nell’ambito della tesi che considera di natura dipendente l’obbligazione del responsabile solidale, assunta l’impossibilità del regresso per effetto dell’estinzione dell’obbligazione principale, se ne trae argomento per concludere che anche il responsabile in solido debba restare esentato dal pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione.

6.4. – Regresso per l’intero ed estinzione dell’obbligazione del responsabile non destinatario di tempestiva notificazione – scilicet, della L. n. 689 del 1981, art. 6, u.c. e art. 14, u.c. – costituiscono, pertanto, le due polarità (come tali dotate di cariche opposte) entro cui operano le alternative ricostruzioni sistematiche.

La prima muove dall’inquadramento del regresso, in quanto previsto per l’intero, nell’ambito della previsione dell’inciso finale dell’art. 1298 c.c., comma 1, che istituisce il nesso tra le due obbligazioni, principaliter e in via solidale, in chiave di accessorietà-dipendenza. Così allineata, la solidarietà di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 6, al di là della ratio sottesa all’individuazione normativa delle categorie dei responsabili solidali, esprime soltanto il rafforzamento del credito dell’amministrazione sanzionante in un’ottica di pura garanzia. Benchè innestata in un ambito pubblicistico mirato alla sanzione, e dunque a finalità di tipo afflittivo, la solidarietà nell’illecito amministrativo opera, secondo tale impostazione, in senso dichiaratamente e interamente privatistico attraverso il diritto di regresso. Ne deriva di necessità la perdita di tale garanzia ove l’obbligazione del responsabile dell’illecito si sia estinta ai sensi dell’art. 14, u.c., detta legge, essendo quella del responsabile solidale ex art. 6 un’obbligazione dipendente, benchè non assistita nè da clausola di sussidiarietà nè da beneficio di escussione. Ulteriore corollario, la possibilità per l’obbligato principaliter evocato in regresso di far valere contro il solvens responsabile in solido l’eccezione di estinzione della propria obbligazione, in base alla piana applicazione dell’art. 1203 c.c., n. 3 (sul regresso ex art. 1299 c.c., quale fattispecie di surrogazione legale, con la conseguenza che al condebitore che ha pagato il debito comune sono opponibili non solo le eccezioni relative al rapporto interno di solidarietà, ma anche quelle opponibili al creditore, relativamente a limitazioni, decadenze e prescrizioni inerenti al diritto che ha formato oggetto di surrogazione, cfr. Cass. nn. 7217/09, 4507/01, 1818/81, 1744/72 e 1952/71).

La seconda opzione procede in senso inverso. L’espressa limitazione dell’effetto estintivo dell’obbligazione al solo soggetto nei cui confronti sia mancata la notifica tempestiva, è indice di una duplicità e dunque di un’autonomia di livelli: pubblicistico nel rapporto tra obbligato principaliter, obbligato in via solidale e P.A.; privatistico in quello intercedente tra i primi due nel caso di avvenuto pagamento da parte dell’obbligato solidale. Nel quale ultimo rapporto interno permane, intatto, il diritto di regresso per l’intero del solvens, a nulla rilevando, proprio in virtù di detta autonomia, la circostanza che l’obbligato in via principale sia esente da responsabilità verso l’Amministrazione. L’estinzione dell’obbligazione di quest’ultimo resta così vanificata quoad effectum, ma solo dal punto di vista economico e in linea eventuale, sempre che il regresso stesso non sia obbligatorio per legge.

6.4.1. – Meno sostenibile (e in effetti non riscontrata nè in dottrina nè nella giurisprudenza di questa Corte) l’ipotesi terza e mediana, in base alla quale pur restando in vita l’obbligazione verso la P.A. del responsabile solidale nonostante l’estinzione dell’obbligazione gravante sull’autore dell’illecito amministrativo, il primo perderebbe l’azione di regresso verso il secondo.

Vi si oppongono diverse considerazioni. In linea generale, rispetto alla solidarietà passiva il regresso costituisce (secondo la migliore e più recente dottrina) un profilo fondante e non già un accessorio della disciplina, e dunque non pare possibile prescinderne.

Intuitive ragioni di equità interpretativa, poi, escludono che il diritto di agire in regresso possa venir meno per un mero accidente – la mancata o intempestiva notificazione al trasgressore – per di più ascrivibile alla condotta della stessa P.A. creditrice. Nè ipotizzare un regime di eccezione per il caso di colpa di quest’ultima o almeno una più limitata exceptio doli generalis varrebbe a ricomporre il sistema. Dipendendo da tali (pur ragionevoli) correttivi pretori, questo ne risulterebbe eccessivamente in debito per potersi imporre quale soluzione auto-verificabile. Non senza osservare che il meccanismo di accertamento della responsabilità del coobbligato solidale ne risulterebbe appesantito, aprendosi alla possibilità di defatiganti questioni preliminari sull’adeguatezza del comportamento degli uffici pubblici.

Ancora, una cosa è la concreta efficacia del regresso, omogenea alla solidarietà quale tecnica di deviazione del rischio d’insolvenza, altra ne è l’esclusione de iure per fatto non imputabile all’obbligato solidale. Allocategli le conseguenze dell’illecito amministrativo senza possibilità di rivalsa interna, questi verrebbe ad essere parificato all’obbligato in via principale; ma a differenza di lui non avrebbe la possibilità di provare l’assenza di (una propria) colpa, restando tenuto alle più gravose condizioni di cui ai primi tre commi della L. n. 689 del 1981, art. 6. Il che esporrebbe una siffatta ricostruzione a fondati dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo dell’art. 3 Cost..

Nè varrebbe replicare che anche l’obbligato in solido può confutare l’esistenza dell’illecito sotto ogni profilo, oggettivo e soggettivo. Non altrimenti bilanciata sul piano sostanziale mediante l’attribuzione del regresso per l’intero, la minore vicinanza alla prova del responsabile in solido rispetto all’autore dell’illecito segnalerebbe una recessione di difesa, anch’essa di dubbia legittimità in base all’art. 24 Cost..

Inoltre, il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 12, comma 1 (codice delle assicurazioni private), vietando le assicurazioni che abbiano ad oggetto il trasferimento del rischio di pagamento delle sanzioni amministrative, suggerisce che neppure all’Amministrazione sia dato dirottarne irretrattabilmente e in maniera potestativa il peso economico.

Infine, nessuna delle (pur diverse) premesse sistemiche delle tesi sopra richiamate sarebbe compatibile con soluzioni terze, che ammettessero come possibile la responsabilità in solido deprivata della valvola del regresso. Infatti, l’obbligazione solidale dipendente presuppone, inalienabile, il regresso per l’intero; e per contro, l’autonomia dei due livelli di rapporto sterilizza la propagazione effettuale dell’uno (P.A./responsabile in via principale) all’altro (responsabile solidale/autore dell’illecito), e dunque l’estinzione del primo rapporto, operante a livello pubblicistico, non sarebbe argomento spendibile per dimostrare l’estinzione (anche) del secondo, rilevante a livello privatistico.

7. – Questi essendo i termini essenziali del contrasto, la conferma dell’indirizzo seguito dalle S.U. del 1994 procede attraverso alcune puntualizzazioni in chiave sistematica.

In quell’occasione le S.U., chiamate a risolvere la questione della permanenza o non della responsabilità solidale nel caso in cui l’autore dell’illecito amministrativo fosse rimasto ignoto, istituirono un nesso tra l’autonomia delle due obbligazioni (in via principale e in via solidale) e la conclusione affermativa. Nesso che, però, a ben vedere è tutt’altro che coessenziale alla soluzione raggiunta, ove si consideri che anche nell’illecito di diritto civile la solidarietà non richiede affatto che tutti gli obbligati siano noti (cfr. in motivazione Cass. n. 3630/04). Conclusione, questa, del tutto pacifica che a sua volta non richiede di aderire alla tesi per cui l’obbligazione solidale consta di una pluralità di rapporti obbligatori individuali. Il che suggerisce di non postulare, ma di verificare ed eventualmente fondare altrimenti la ridetta autonomia.

L’affermazione più durevole di S.U. n. 890/94, da allora in poi riprodotta costantemente nella giurisprudenza delle sezioni semplici, è che la ratio della responsabilità solidale L. n. 689 del 1981, ex art. 6, non è quella di far fronte a situazioni d’insolvenza dell’autore della trasgressione, bensì di evitare che l’illecito resti impunito. Detta asserzione, la quale attrae la responsabilità in solido L. n. 689 del 1981, ex art. 6, verso un orizzonte di tipo punitivo-repressivo che fa premio sulla pura esigenza di garanzia, è in sè esatta perchè segna la distanza con le omologhe previsioni degli artt. 196 e 197 c.p. (o della L. n. 4 del 1929, artt. 9 e 10), che contemplano un’obbligazione sostitutiva solo “in caso di insolvibilità del condannato”; ma la sua enunciazione, o meglio quanto ordinariamente se ne è dedotto, si presta ad un possibile equivoco.

Dall’art. 1293 c.c., in base al quale la solidarietà passiva non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse, si desume anche l’ovvia proposizione reciproca per cui l’assenza di modalità distinte, a sua volta, non esclude la solidarietà. E allora affermare che la previsione dell’art. 6 cit. non mira a rimediare all’insolvenza del responsabile principale, non vuol dire ancora nulla sulla possibilità di declinare al singolare o al plurale il rapporto obbligatorio dei vari soggetti responsabili, e di trarre conclusioni sul tema in oggetto.

Piuttosto, è vero che la solidarietà ex art. 6 cit. opera per facilitare la riscossione a prescindere dall’effettiva insolvenza dell’obbligato principale, e che la P.A. ha il potere di rivolgersi direttamente ed esclusivamente al terzo obbligato in solido, ove lo ritenga maggiormente e più facilmente solvibile, e di sanzionare lui soltanto a sua insindacabile scelta. Ragion per cui deve escludersi che la L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 2, imponga di irrogare la sanzione congiuntamente al trasgressore e ai coobbligati solidali.

Detto principio è ben espresso da Cass. nn. 4342/13, 4688/09, 23783/04 e 1144/98, in base alle quali il vincolo intercorrente tra l’autore materiale della violazione e la persona giuridica di cui è prevista la responsabilità solidale consente all’autorità amministrativa competente di agire contro ambedue gli obbligati oppure contro uno o l’altro, ferma restando la necessità che il soggetto in concreto chiamato a rispondere si sia visto contestare o notificare la violazione, così da essere in grado di far pervenire alla P.A. ogni possibile deduzione difensiva.

Coerente a ciò è quanto chiarito da Cass. nn. 7884/11, 16661/07 e 10798/98, secondo cui il vincolo che intercede, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 6, comma 3, tra l’autore materiale della violazione e la persona giuridica di cui è prevista la responsabilità solidale, assume rilevanza nel solo caso in cui l’Amministrazione se ne avvalga in concreto (irrogando la sanzione anche al corresponsabile in solido), e non quando la contestazione risulti mossa nei confronti del solo autore materiale. A quest’ultimo, pertanto, non è riconosciuto alcun interesse a rappresentare, in sede di opposizione all’ordinanza ingiunzione, la mancata contestazione (anche) al coobbligato solidale. Infatti, l’effetto estintivo della pretesa sanzionatoria è limitato al soggetto nei cui confronti non è stata eseguita la notifica (L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c.).

Altrettanto consequenziale e del tutto pacifico è che legittimato ad opporsi all’ordinanza d’ingiunzione sia il solo soggetto contro cui è emesso il provvedimento. Così, è stato affermato che il conducente del veicolo col quale sia stata commessa l’infrazione al codice della strada non è legittimato ad opporsi all’ingiunzione emessa soltanto a carico del proprietario del mezzo, responsabile in solido della violazione, trovando, in questo caso, la legittimazione a ricorrere fondamento nell’esistenza di un interesse giuridico alla rimozione di un atto del quale il ricorrente sia destinatario, mentre il fatto di essere esposto ad una eventuale azione di regresso integra un semplice interesse di fatto (Cass. nn. 18474/05 e 6549/93; in senso analogo, in materia di sanzione irrogata dall’allora Ministero del Tesoro su proposta della Consob, Cass. nn. 5139/07 e 23783/04; v. ancora, in altre materie, Cass. nn. 17617/11, 14098/06, 10681/06, 19284/05, 11763/04, 13283/03, 12240/03, 15830/02, 16154/01, 14635/01, 13588/01, 3543/98, 2816/98, 1910/98, 12515/97, 7718/97, 5833/97, 6573/96 e 1318/92).

Ma – il punto è da precisare – l’autonomia delle posizioni dei soggetti a vario titolo responsabili non vuol dire che la stessa P.A. non debba procedere nei confronti di tutti, come si desume inequivocabilmente dai primi due commi dello stesso art. 14 sulla contestazione immediata o sulla notificazione, che devono avvenire nei confronti dei trasgressori e dei coobbligati solidali; il che conferma il generale principio di obbligatorietà dell’azione contro tutti i responsabili (direttamente desumibile, a sua volta, dai principi costituzionali di uguaglianza, buon andamento della pubblica amministrazione e doverosità della funzione pubblica).

Se dunque la P.A. deve procedere congiuntamente entro il termine di decadenza di cui all’art. 14, comma 2, contro tutti i soggetti obbligati che le siano noti, ma poi può sanzionare isolatamente entro il termine di prescrizione fissato dall’art. 28 solo alcuni di loro a sua libera scelta, vuol dire che il rapporto sanzionatorio non è unitario (nel senso di inscindibile), ma è declinabile al plurale come in ogni caso di solidarietà (e in tal senso depongono, del resto, i precedenti di S.U. n. 20935/09 e nn. 18075/04, 5833/97, 6573/96 e 1318/92, che escludono ogni ipotesi di litisconsorzio necessario; contra la sola n. 415/98).

8. – Sebbene coessenziale al funzionamento di tale responsabilità in solido, il regresso per l’intero previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 6, u.c., non appare elemento sufficiente a inclinare verso una ricostruzione dell’obbligo, gravante sui responsabili solidali, in chiave di accessorietà-dipendenza rispetto all’obbligazione del trasgressore.

La responsabilità solidale in tema di illecito amministrativo è tutt’altro che nuova nell’ordinamento. Quella della persona rivestita di autorità o incaricata della direzione o della vigilanza nonchè delle persone giuridiche private per le violazioni commesse dal rappresentante, dall’amministratore o dal dipendente era già contemplata della L. n. 4 del 1929, art. 12 (sulla repressione delle violazioni finanziarie) e della L. n. 706 del 1975, art. 3, comma 2 (sul sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili con l’ammenda); così la responsabilità del proprietario del veicolo era prevista sia della L. n. 317 del 1967, art. 3, comma 1 (recante modificazioni al sistema sanzionatorio delle norme in tema di circolazione stradale e delle norme dei regolamenti locali), sia della L. n. 706 del 1975 (riferendosi, quest’ultima, al più generico concetto di “cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione”). Ed ulteriori ipotesi di solidarietà erano e sono previste, poi, in materia tributaria e dal codice della strada.

Ciò che in passato restava non disciplinato era il regresso per l’intero, su cui tali precedenti, pur senza minimamente escluderlo, nulla disponevano.

La non parziarietà dell’obbligazione nel rapporto interno fra il trasgressore e il corresponsabile solidale, rapporto che sorge se ed in quanto quest’ultimo abbia pagato la somma dovuta a titolo di sanzione, non basta a ricondurre la fattispecie all’inciso finale dell’art. 1298 c.c., comma 1 e ad innescare la relativa deduzione sillogistica sulla natura dipendente di tale solidarietà. Infatti, l’obbligazione ex art. 6 non è contratta nell’interesse dell’autore della violazione o di qualsivoglia altro consorte (come avviene nelle ipotesi di garanzia fideiussoria, generalmente richiamata nel commentare l’ultimo inciso dell’art. 1298 c.c., comma 1, garanzia che sebbene negoziata con il creditore è pur sempre funzionale all’interesse del debitore principale, che diversamente non potrebbe accedere al credito). Tale obbligazione, invece, è prevista ex lege nel solo ed esclusivo interesse della P.A. creditrice, al duplice scopo di agevolare la riscossione della somma dovuta e di evitare che l’illecito resti impunito (interessi, questi ultimi, che evidentemente non sono riferibili al trasgressore).

Il regresso per l’intero, dunque, nell’assolvere la sua funzione di allocare definitivamente il peso economico della sanzione sull’autore del fatto illecito, e di definire così gli effetti delle due responsabilità, quella in via principale e quella in via solidale, nulla predica sulla natura, dipendente o autonoma, dell’obbligazione solidale nel rapporto esterno con l’Amministrazione.

Pressochè nullo, poi, è l’apporto derivante dai casi di obbligatorietà del regresso.

Già previsto nel settore bancario e in quello dell’intermediazione finanziaria, rispettivamente, dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, comma 10 e D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 195, comma 9, l’obbligatorietà del regresso è stata abrogata dal D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 1, comma 53, lett. n). Essa permane, tuttavia, in base dello stesso D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 196, comma 4, per le violazioni commesse dai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede; sicchè, in definitiva, si è in presenza di una disciplina troppo discontinua, disorganica e dipendente dall’interferenza di altri fattori (la tutela dei soci o dei risparmiatori) per offrirsi a considerazioni di carattere generale.

Se ne deve concludere che, quantunque stabilito per l’intero e coessenziale alla tenuta stessa del sistema, il regresso operi ad un livello esclusivamente privatistico di riequilibrio interno, che non comunicando con quello di rilevanza pubblicistica concernente il rapporto obbligatorio tra l’Amministrazione e tutti i suoi debitori per effetto della violazione commessa, non autorizza illazioni sulla natura dipendente o autonoma della solidarietà di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 6.

Non senza osservare, benchè l’argomento non possa certo accreditarsi come decisivo, che la L. n. 689 del 1981 (così come la L. n. 317 del 1967 e L. n. 706 del 1975) non qualifica l’obbligazione di pagamento della sanzione come obbligazione di “carattere civile”, al contrario di quanto invece stabilivano della L. n. 4 del 1929, art. 3, cpv. e art. 5, comma 3. E dunque almeno ciò è lecito chiosare – nulla si frappone alla possibilità di valorizzare all’interno del rapporto obbligatorio con l’Amministrazione aspetti propriamente pubblicistici.

8.1 – A differenza di quanto si è appena visto per la L. n. 689 del 1981, art. 6, u.c., l’art. 14, u.c., stessa legge trova perfetta corrispondenza testuale nei precedenti della L. n. 317 del 1967, art. 7, comma 3 e della L. n. 706 del 1975, art. 6, comma 3. Applicando il criterio interpretativo c.d. del legislatore consapevole (id est, la clausola generale esclusiva), la lettera di tale (iterata) disposizione dovrebbe intendersi nel senso di escludere l’effetto estintivo per tutti i soggetti coobbligati, in via principale o solidale, nei cui confronti la notificazione sia invece avvenuta nel termine di legge.

Vi sarebbe, a ben vedere, un’isolata previsione legislativa di pari significato nel D.Lgs. n. 231 del 2007, in materia di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio, di recente modificato dal D.Lgs. n. 90 del 2017. L’art. 65, comma 10, come appena sostituito, stabilisce che, in relazione alle sanzioni amministrative pecuniarie previste dagli artt. 58 e 63 del medesimo decreto, la responsabilità solidale di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 6, sussiste anche quando l’autore della violazione non è univocamente identificabile, ovvero quando lo stesso non è più perseguibile ai sensi della legge medesima. Tuttavia tale disposizione non vale per le sanzioni previste per i restanti illeciti contemplati dallo stesso D.Lgs., per cui appare arduo attribuirvi una portata generale e un’efficacia risolutiva. Salvo osservare che l’ipotesi di un’interpretazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., nel senso della permanenza dell’obbligazione di garanzia, trova, se non una conferma, almeno una sponda legislativa.

8.1.1. – Inappagante il solo dato letterale delle norme in materia, è dunque ancor più necessario ricercare l’orizzonte di senso entro cui opera il sistema.

Una prima, pur ovvia considerazione, è che l’individuazione delle categorie di soggetti responsabili in solido non è neutra, ma esprime un giudizio legislativo di disvalore operato nell’area intermedia tra correalità ed estraneità al fatto. Similmente a quanto avviene nell’ambito della responsabilità civile c.d. aggravata, anche in quella in esame è la relazione con la res adoperata o col soggetto danneggiante a fondare l’attribuzione della responsabilità solidale. Assistita dal regresso per l’intero, quest’ultima assicura, ad un tempo, che la repressione sia agevolata e che i relativi effetti economici ricadano in via definitiva sull’autore del fatto.

Eppure è innegabile che lo strumento dell’obbligazione solidale, per quanto di risalente e consolidata applicazione in materia, appaia prima facie spurio all’interno di un sistema sanzionatorio basato sul principio di personalità. Sistema che comunque opera in maniera dissonante rispetto alle regole civilistiche degli artt. 1292 e segg. e art. 2055 c.c. sulla solidarietà passiva, sol che si consideri che tra più autori del medesimo illecito amministrativo non vi è neppure rapporto interno, sia perchè ciascun concorrente soggiace all’intera sanzione, sia perchè il pagamento da parte di uno non estingue l’obbligazione degli altri (cfr. Cass. nn. 2088/00 e 18365/06).

La previsione di soggetti obbligati in solido ma non in via succedanea costituisce una scelta intermedia tra correalità e mera garanzia. Tant’è che – è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte – conseguenze precipuamente sanzionatorie, come il fermo amministrativo e la confisca, permangono a carico definitivo non del trasgressore, ma dell’obbligato solidale proprietario della res servita o destinata a commettere la violazione (cfr. per un caso di confisca a danno dell’obbligato solidale la sentenza n. 17398/08; v. anche la n. 7666/97, che pure afferma espressamente che destinatari delle sanzioni amministrative accessorie sono anche i soggetti obbligati in solido a norma della L. n. 689 del 1981, art. 6). Segno che anche l’obbligato in solido può soggiacere ad una propria, ancorchè accessoria, sanzione, pur essendo altri l’autore dell’illecito amministrativo. Un’ottica, quest’ultima, che sia pure in larga approssimazione potrebbe definirsi “plurisanzionatoria”.

Inoltre, in tutte le ipotesi previste dai primi tre commi della L. n. 689 del 1981, art. 6, fra il trasgressore e la persona fisica o giuridica con lui obbligata in solido intercorre un nesso che può essere più o meno stretto, coinvolgere rapporti di lavoro o assetti societari ed essere tale, comunque, da rendere il momento sanzionatorio parimenti (anche se non ugualmente) afflittivo per tutti i coobbligati a prescindere dall’an e dal quo modo del regresso. Che per plurime ed ottime ragioni può anche mancare del tutto (salvo le ipotesi residuali di regresso obbligatorio).

L’effettiva collocazione finale del peso economico della sanzione dipende da variabili che l’ordinamento non può nè ha interesse di regola a controllare nel concreto. Ciò che, invece, esso ha interesse a mantenere ferma è la possibilità del regresso, senza la quale lo strumento della solidarietà risulterebbe insanabilmente alterato nei suoi stessi presupposti.

Oltre e più che rafforzare il credito in funzione recuperatoria della somma dovuta dall’autore del fatto, il meccanismo della solidarietà, dunque, mostra oggettivamente di irrobustire la capacità reattiva e afflittiva del sistema sanzionatorio, sì da amplificarne l’efficacia deterrente (cfr. le sentenze nn. 3879/12 e 12264/07, le quali, pur affermando che la responsabilità solidale per gli illeciti commessi dai legali rappresentanti o dipendenti delle società è prevista esclusivamente in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall’autore della violazione, ammettono che essa risponda anche alla finalità “di sollecitare la vigilanza delle persone e degli enti chiamati a rispondere del fatto altrui).

Attraverso forme estese di responsabilità aggravata (fino al limite estremo della responsabilità oggettiva prevista dell’art. 6, comma 3), il sistema mira a dissuadere quelle condotte (in vigilando o in eligendo) che possano agevolare la violazione delle norme amministrative. Il principio di personalità non ne risulta nè contraddetto nè attenuato, ma certamente ricondotto alla sua reale e naturale funzione garantistica, che non esclude la visione dell’illecito come fatto di rilevanza sociale piuttosto che quale mero episodio della vita del singolo.

Conclusione, quest’ultima, che appare coerente alle linee evolutive del più generale settore della responsabilità, che ormai ammette forme di incidenza diretta anche sugli enti collettivi (si pensi alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001).

Se dunque all’interno del sistema dell’illecito amministrativo la solidarietà non si limita ad assolvere una funzione di sola garanzia, ma persegue anche e soprattutto uno scopo pubblicistico di deterrenza generale nei confronti di quanti, persone fisiche o enti, abbiano interagito con il trasgressore rendendo possibile la violazione, l’obbligazione del corresponsabile solidale possiede una propria indubbia autonomia; e non dipendendo da quella principale, non si estingue con questa.

Ne deriva un’interpretazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., del tutto coerente alla sua lettera, che limita l’effetto estintivo alla sola obbligazione del soggetto nei cui confronti sia stata omessa la notificazione tempestiva. E si conferma la tesi che distingue tra loro, rendendoli non comunicanti, i due livelli di operatività del rapporto, quello pubblicistico necessario tra l’Amministrazione e tutti i soggetti oblati, e quello privatistico eventuale, nel quale attraverso l’azione di regresso si trasferisce l’aggravio economico della sanzione principale sul trasgressore. Con la conseguenza che il regresso a favore del solvens già obbligato solidalmente, non inquadrandosi nello schema della surrogazione legale ex art. 1203 c.c., n. 3, ma derivando da un’espressa norma coessenziale alla tenuta del sistema della responsabilità amministrativa, opera al riparo dall’eccezione di estinzione per mancata notifica nel termine di legge, rilevante solo nel primo dei suddetti rapporti.

9. – Tale soluzione, che esclude l’ipotesi d’una solidarietà di tipo dipendente e lascia in vita il regresso nonostante l’estinzione dell’obbligazione del responsabile in via principale, non costituisce una dissimmetria rispetto all’indirizzo costante seguito da questa Corte per il caso, solo apparentemente simile, della morte del trasgressore avvenuta prima del pagamento della sanzione.

Nel nostro ordinamento l’illecito amministrativo nasce e si struttura nella sua autonomia mediante successive leggi di depenalizzazione di omologhe fattispecie di reato. La norma della L. n. 689 del 1981, art. 7, in base alla quale l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi, era presente tal quale nei rispettivi della L. n. 317 del 1967, art. 4 e L. n. 706 del 1975, e si coordina oggi con il principio della natura personale della responsabilità amministrativa (L. n. 689 del 1981, art. 3, comma 1), al pari e a somiglianza di quella penale (art. 27 Cost., comma 1). Ed è stata poi richiamata nei rispettivi del D.P.R. n. 454 del 1987, art. 23, comma 1 e D.P.R. n. 148 del 1988, in materia valutaria.

Da ciò la giurisprudenza di questa Corte ha tratto che tale principio si rende applicabile a tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale, e trova la sua ragione giustificativa nel carattere afflittivo di tali sanzioni che le riconduce all’ambito del diritto punitivo, accentuandone quindi – la stretta inerenza alla persona del trasgressore (così la sentenza n. 10823/96; conformi, le nn. 7515/96 e 12853/97).

Dunque, la morte dell’autore della violazione determina, in base ad una libera e risalente scelta di politica legislativa, il venir meno in radice dell’interesse dello Stato ad accertare la responsabilità stessa e ad applicare il relativo trattamento sanzionatorio. Ciò che in tal caso si estingue è lo stesso illecito, al pari dell’estinzione del reato prevista dall’art. 150 c.p., nell’ipotesi di morte del reo prima della condanna. Di riflesso, viene meno l’intero apparato “plurisanzionatorio” di cui si è appena detto, ormai privo della sua primigenia e fondativa giustificazione.

Ma al di là del distinguo appena proposto tra estinzione dell’illecito ed estinzione del relativo trattamento sanzionatorio (che pure potrebbe legittimamente criticarsi per il fatto che sia l’art. 7, sia la L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., parlano solo e allo stesso modo della “obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione”), il venir meno anche della responsabilità solidale nel caso di morte del trasgressore deriva ineluttabilmente dalla circostanza che, comunque, il regresso non potrebbe più essere esercitato. Ammetterne la conservazione verso gli eredi contraddirebbe l’esplicita esclusione dell’obbligazione di pagamento dal fenomeno successorio, non ipotizzabile a corrente alternata e a seconda della persona del creditore (e tenuto ulteriormente conto del fatto che il regresso, come si è innanzi detto, riguarda l’aspetto privatistico della sequenza obbligatoria generata dalla commissione dell’illecito).

Ben diverso, invece, è il caso in cui la morte dell’autore del fatto non preceda ma segua temporalmente il pagamento della sanzione da parte del coobbligato solidale. In tal caso, al momento dell’apertura della successione si è già estinta l’obbligazione verso la P.A., con il che la stessa applicabilità della L. n. 689 del 1981, art. 7, non è più revocabile in ipotesi; ed è già entrata a far parte del patrimonio ereditario del trasgressore la soggezione di lui al potere di regresso del solvens. E dunque più nulla si frappone al fenomeno successorio.

10. – Sulla base di quanto fin qui considerato si enuncia il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1: “all’interno del sistema dell’illecito amministrativo la solidarietà prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 6, non si limita ad assolvere una funzione di sola garanzia, ma persegue anche uno scopo pubblicistico di deterrenza generale nei confronti di quanti, persone fisiche o enti, abbiano interagito con il trasgressore rendendo possibile la violazione. Pertanto, l’obbligazione del corresponsabile solidale è autonoma rispetto a quella dell’obbligato in via principale, per cui, non dipendendone, essa non viene meno nell’ipotesi in cui quest’ultima, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c. si estingua per mancata tempestiva notificazione; con l’ulteriore conseguenza che l’obbligato solidale che abbia pagato la sanzione conserva l’azione di regresso per l’intero, ai sensi del citato art. 6, u.c., verso l’autore della violazione, il quale non può eccepire, all’interno di tale ultimo rapporto che è invece di sola rilevanza privatistica l’estinzione del suo obbligo verso l’Amministrazione”.

11. – Il quarto motivo denuncia l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra la parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, relativamente alla prova delle violazioni, non avendo la Corte territoriale considerato che non sono stati acquisiti agli atti i libri sociali e i registri informatici, e che la prima nota di cassa, su cui si fonda il verbale della polizia tributaria, non costituisce scrittura obbligatoria e non contiene la prova della violazione contestata.

12. – Il motivo è infondato.

Ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, costituisce motivo di ricorso per cassazione l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Tale riformulazione della norma, com’è noto, è stata interpretata da queste S.U. nel senso: a) che l’omesso esame deve avere ad oggetto un “fatto storico”, non un punto o una questione; e b) che il sindacato di legittimità sulla motivazione è ridotto al “minimo costituzionale”, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v. sentenza n. 8053/14).

Sempre queste S.U. hanno poi ulteriormente precisato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (così, in motivazione, la sentenza n. 19881/14).

Ne consegue che in sede di legittimità non è data ora (come del resto non era altrimenti data allora, vigente il testo precedente dell’art. 360 c.p.c., n. 5) la possibilità di censurare che la prova di un dato fatto sia stata tratta o negata dall’apprezzamento o dalla obliterazione di un determinato elemento istruttorio, atteso che una tale critica ha ad oggetto non già un “fatto storico”, ma la stessa attività di valutazione del corredo probatorio, che solo al giudice di merito compete.

12.1. – Nello specifico, costituisce una mera torsione verbale qualificare come “fatto storico”, il cui esame sarebbe stato omesso, la mancata considerazione di ciò, che le operazioni contestate non integrerebbero un trasferimento di denaro contante, non potendo la relativa prova trarsi delle “prime note cassa”, che non costituiscono scritture contabili obbligatorie. Si tratta, ad evidenza, di una critica mossa proprio e solo alla valutazione della prova del fatto storico, decisivo e discusso, dell’avvenuto trasferimento di denaro contante tramite la Cassa Arianese di Mutualità; sicchè non è stato omesso alcun esame del fatto, ma quest’ultimo è stato semplicemente apprezzato in maniera opposta alle aspettative della parte odierna ricorrente.

13. – Il quinto motivo espone la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, art. 4, commi 1 e 2 e art. 6, commi 1 e 4-bis, in relazione al disposto di cui all’art. 106 Testo Unico Bancario. Si sostiene che la Cassa Arianese di Mutualità rientrava tra i soggetti potenzialmente abilitati ad effettuare le operazioni oggetto di contestazione, in quanto (1) svolgente in prevalenza attività di concessione di finanziamenti e (2) iscritta nell’apposito elenco tenuto dal(l’allora) Ministero del Tesoro ai sensi dell’art. 6, comma 1, di detta legge.

14. – Anche tale motivo non ha pregio.

Ai sensi del D.L. n. 143 del 1991, convertito in L. n. 197 del 1991, applicabile alla fattispecie ratione temporis, le operazioni di trasferimento di denaro contante possono essere effettuate unicamente dai soggetti abilitati ex lege ai sensi dell’art. 4, comma 1 stesso D.L., ovvero per effetto di un apposito provvedimento amministrativo dell'(allora) Ministro del Tesoro, ricorrendo, in quest’ultimo caso i requisiti indicati nel comma 2 di detto articolo.

Il fatto che l’art. 6, comma 1, detto D.L. preveda che l’esercizio in via prevalente di una o più delle attività di cui all’art. 4, comma 2, sia riservato agli intermediari iscritti in apposito elenco tenuto dal Ministro del tesoro, che si avvale dell’Ufficio italiano dei cambi, il quale dà comunicazione dell’iscrizione alla Banca d’Italia e alla CONSOB; e che il comma 4-bis dello stesso art. 6 consenta agli intermediari di cui ai commi 2 e 2-bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del decreto di continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, non elide, contrariamente a quanto opina parte ricorrente, la necessità del provvedimento di abilitazione. Al contrario, l’inserzione del soggetto nell’elenco degli intermediari finanziari tenuto dall’Ufficio italiano dei cambi è condizione necessaria per l’abilitazione alle operazione di trasferimento di denaro contante, come del resto dimostra la lettera dell’art. 6, comma 1, che tale attività riserva, e non già attribuisce, agli intermediari iscritti nel ridetto elenco.

15. – Il sesto motivo espone l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, in relazione al mancato riconoscimento della carenza dell’elemento soggettivo ovvero della sussistenza di un errore scusabile, per l’oggettiva difficoltà d’interpretazione delle disposizioni anzidette. Parte ricorrente lamenta, in particolare, che la Corte distrettuale abbia inquadrato la corrispondente censura d’appello nell’ambito dell’esimente della L. n. 689 del 1981, art. 3 cpv., mentre la società ricorrente aveva evidenziato che l’errore incolpevole investiva non già il divieto, ma il fatto storico che la Cassa Arianese di Mutualità possedesse la qualifica di soggetto intermediario abilitato.

16. – Strettamente connesso il settimo mezzo, che ripropone la medesima doglianza sotto il profilo della nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per motivazione apparente.

17. – Entrambi i suddetti motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

In primo luogo va rilevato che l’errore sul divieto rientra nella L. n. 689 del 1981, art. 3, comma 1, ed è di regola irrilevante, mentre l’errore sul fatto è disciplinato dal comma 2 del medesimo articolo, ed ha efficacia scriminante se non dipende da colpa. Pertanto, la censura, lì dove lamenta che la Corte distrettuale avrebbe erroneamente attratto sotto l’art. 3, cpv. legge cit. l’errore riguardante “il fatto storico del possesso da parte della CAM della qualifica di intermediario abilitato” (v. pag. 26 del ricorso), mostra di essere formulata in maniera non giuridicamente consequenziale.

Ciò a parte, è decisivo osservare che la sentenza impugnata, pur richiamando espressamente solo dell’art. 3, comma 1 Legge cit., ha in realtà esaminato diffusamente anche l’asserito errore sul fatto, escludendolo sulla base di molteplici considerazioni (v. pagg. 17-18 della sentenza impugnata), tutt’altro che apparenti (la società ingiunta non si era neppure posta il problema di verificare se la CAM fosse in possesso dell’abilitazione per le operazioni di trasferimento di denaro contante, perchè più semplicemente ne ignorava l’illiceità; era poco probabile che detta società conoscesse la nota dell’Ufficio italiano cambi, peraltro giudicata non rilevante a tal fine, da cui la stessa società aveva infondatamente dedotto la sussistenza dell’abilitazione; le indagini penali e il successivo decreto di archiviazione avevano riguardato altro, ossia il reato di attività bancaria abusiva; non vi era stata una vera e propria prassi della CAM tale da ingenerare l’errore, che ad ogni modo non era nè incolpevole nè inevitabile per la sola asserita usualità della condotta vietata; del pari dubbio che la società sapesse di una precedente ispezione della Banca d’Italia presso la CAM e del suo esito, e in ogni caso tale ispezione era del tutto irrilevante perchè anteriore di circa sette anni rispetto a quella da cui erano scaturite le contestazioni oggetto di causa).

Per il resto, sui generali limiti del controllo di legittimità ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si ripropongono valide e intatte le osservazioni svolte supra al paragrafo 12.

18. – Con l’ottavo motivo si censura, infine, in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, la statuizione di rigetto del motivo d’appello incidentale con cui l’odierna ricorrente aveva chiesto ridursi la sanzione irrogata. Ciò in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la sanzione irrogata corrisponde al 5% dell’importo complessivo delle operazioni contestate.

19. – La censura è manifestamente infondata, atteso che la Corte territoriale ha espressamente esaminato il suddetto motivo d’impugnazione incidentale e l’ha respinto proprio osservando che, a fronte di una sanzione edittale massima pari al 40% del valore della transazione, la percentuale del 5% applicata in concreto era proporzionale ed equa, tenuto conto anche della gravità soggettiva della violazione.

20. – Il rigetto del secondo motivo del ricorso principale assorbe l’esame del primo motivo del ricorso incidentale (violazione o falsa applicazione dell’art. 2943 c.c.) espressamente condizionato all’ipotesi di accoglimento della ridetta censura dell’impugnazione principale.

21. – Il secondo motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la Corte d’appello, in altre precedenti cause d’opposizione ad ingiunzioni emesse a carico della Cassa Arianese di Mutualità e dei suoi soci, aveva disposto la condanna alle spese della parte opponente. Pertanto, in costanza delle medesime questioni processuali e sostanziali, la soccombenza della parte privata avrebbe dovuto condurre alla condanna di quest’ultima alle spese.

22. – Il motivo è infondato.

Lo stare decisis non è una regola ma una direttiva di tendenza, immanente nell’ordinamento, in relazione alla quale non è consentito discostarsi da un’interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomifilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative: cfr. Cass. S.U. n. 13620/12); e dunque esso non è argomento idoneo a vincolare il giudice di merito alle proprie precedenti decisioni.

Inoltre, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (v. ex multis, Cass. nn. 8421/17, 15317/13 e 5386/03).

E nella specie la Corte distrettuale ha compensato le spese facendo correttamente leva sull’esistenza di contrasti giurisprudenziali, in sede di legittimità, sull’interpretazione delle più volte citate norme della L. n. 689 del 1981.

23. – In conclusione, entrambi i ricorsi vanno respinti.

24. – Applicato ratione temporis (il giudizio è iniziato nel 2010) il testo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 132 del 2014, convertito in L. n. 162 del 2014, ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, derivanti dal contrasto di giurisprudenza sull’interpretazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., per compensare integralmente fra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

25. – Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono le condizioni per il raddoppio del: contributo unificato a carico della sola parte ricorrente principale (per quanto concerne il Ministero ricorrente incidentale, il medesimo obbligo non può trovare applicazione, poichè le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo: v. Cass. nn. 1778/16 e 5955/14).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale e compensa integralmente le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 18 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2017


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 23/05/2017) 22/09/2017, n. 22080

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19192-2014 proposto da:

I.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. CAMOZZI 1, presso lo studio dell’avvocato DELFO MARIA SAMBATARO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21 presso l’Avvocatura Comunale, rappresentata e difesa dall’avvocato RODOLFO MURRA;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4735/2014 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 27/02/2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

uditi gli avvocati Delfo Maria Sambataro e Rodolfo Murra.

Svolgimento del processo
1. I.F. ha agito in giudizio nei confronti di Roma Capitale e di Equitalia Sud S.p.A. – Agente della Riscossione dei Tributi per la Provincia di Roma, proponendo opposizione all’esecuzione contro una cartella di pagamento notificatagli per sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada.

L’opponente ha dedotto di non avere ricevuto la notificazione del verbale di accertamento posto a base della cartella di pagamento impugnata.

Il Giudice di Pace di Roma ha dichiarato inammissibile la domanda.

Il Tribunale di Roma ha rigettato l’appello ed ha confermato la decisione del primo giudice, con condanna dell’appellante I. al pagamento delle spese del grado in favore di entrambi gli appellati.

2. Per la cassazione di tale sentenza I.F. ha proposto ricorso con un motivo.

Roma Capitale ha resistito con controricorso.

Equitalia Sud S.p.A. non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso è stato assegnato alla terza sezione civile e fissato per la trattazione all’udienza del 21 settembre 2016.

All’esito di questa udienza, il Collegio, con ordinanza interlocutoria n. 21957 depositata il 28 ottobre 2016, ha disposto la trasmissione degli atti al primo presidente per la rimessione alle Sezioni Unite.

Fissata l’udienza dinanzi a queste ultime, Roma Capitale ha depositato memoria difensiva.

Entrambi i procuratori hanno partecipato alla discussione orale.

Motivi della decisione
1.Con l’unico motivo il ricorrente denunzia falsa applicazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 23 e segg. e “ingiusta disapplicazione” dell’art. 615 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3.

Evidenzia di avere proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., dinanzi al Giudice di Pace di Roma, avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS), notificata in data 17 febbraio 2012, relativa a contravvenzioni per violazioni del codice della strada, per l’importo complessivo di Euro 133,00, deducendo l’omessa notificazione del verbale di accertamento e quindi, tra l’altro, la mancata formazione del titolo esecutivo e l’estinzione del diritto di credito per le sanzioni amministrative.

Censura, quindi, la sentenza impugnata che, confermando quella di primo grado, ha reputato inammissibile l’opposizione, in quanto tardiva ai sensi della L. n. 689 del 1981, artt. 23 e segg., ed ha escluso la proponibilità dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ..

Il ricorrente sostiene che l’opposizione all’esecuzione, ai sensi della norma appena citata, è rimedio esperibile in via autonoma e senza limiti di tempo quando si contesti la legittimità dell’iscrizione a ruolo per difetto del titolo esecutivo, in alternativa all’opposizione da proporsi ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 23 (peraltro abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 7).

Vengono richiamate diverse pronunce di legittimità favorevoli all’assunto del ricorrente.

1.1.Roma Capitale ribadisce la soluzione dei giudici di merito, assumendo che, nell’ipotesi in esame, l’unica opposizione proponibile sia quella c.d. recuperatoria, che va avanzata nel termine di sessanta o di trenta giorni (a seconda della disciplina applicabile ratione temporis) decorrente dalla notificazione della cartella di pagamento.

Anche la controricorrente cita, a conforto, diverse pronunce di legittimità.

2.L’ordinanza interlocutoria n. 21957 del 28 ottobre 2016 ha chiesto la rimessione a queste Sezioni Unite, dando atto della difformità di orientamenti nella giurisprudenza della Corte, riassunta nei seguenti termini:

– in base ad alcune pronunzie (soprattutto della seconda sezione civile, nell’ambito della quale l’indirizzo appare consolidato), l’opposizione proposta avverso la cartella di pagamento notificata dall’agente della riscossione sulla base di verbali di accertamento di infrazioni al codice della strada, e volta a contestare che detti verbali non siano stati notificati affatto, o non lo siano stati nel termine previsto dall’art. 201 C.d.S., comma 1, costituisce contestazione dell’inesistenza del titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione esattoriale, e quindi va qualificata come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., in quanto diretta a negare l’esistenza del titolo esecutivo, e pertanto non è soggetta a termini. Si citano, in questo senso, tra le altre, sez. 2, ord. n. 4814 del 25 febbraio 2008; sez. 2, sent. n. 29696 del 29 dicembre 2011; tra le più recenti: sez. 6 – 2, ord. n. 19579 del 30 settembre 2015; sez. 2, sent. n. 3751 del 25 febbraio 2016; sez. 2, sent. n. 14125 dell’11 luglio 2016;

– per altre pronunzie, invece (soprattutto della terza sezione civile, nell’ambito della quale tale indirizzo pare ormai consolidato), la contestazione dell’omessa o tardiva notificazione del verbale di accertamento dell’infrazione nel termine di cui all’art. 201 C.d.S., comma 1, anche se introdotta come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., va comunque (ri)qualificata come opposizione “recuperatoria” ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22, e quindi è soggetta al relativo termine, in quanto le contestazioni basate su fatti impeditivi della formazione del titolo esecutivo, debbono essere fatte valere con il mezzo predisposto dall’ordinamento per impedire questa formazione, al cui utilizzo l’interessato -che non abbia avuto conoscenza del procedimento- è ammesso allorquando riceva quella conoscenza, imponendosi una sua automatica rimessione in termini; con la conseguenza che, se la parte ha conoscenza del (preteso) titolo esecutivo soltanto con la cartella di pagamento o con l’intimazione di pagamento, deve proporre l’opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 (o dell’art. 204 bis C.d.S.), e non l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., comma 1, con cui non si possono dedurre fatti inerenti la formazione del titolo esecutivo. Si citano, in questo senso, tra le più recenti: sez. 3, n. 1985 del 29 gennaio 2014; sez. 3, n. 12412 del 16 giugno 2016; sez. 3, n. 15120 del 22 luglio 2016; sez. 3, n. 16282 del 4 agosto 2016.

L’ordinanza interlocutoria evidenzia come alla base del contrasto giurisprudenziale stanno diverse questioni, con implicazioni di sistema idonee ad influenzare la decisione in un senso o nell’altro, quali l’individuazione dell’oggetto delle opposizioni ad ordinanze-ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative e dell’oggetto e dei limiti dell’opposizione all’esecuzione, nonchè i rapporti tra i due rimedi oppositivi ed i limiti in cui gli stessi possano eventualmente sovrapporsi o debbano vicendevolmente escludersi; ed ancora, i limiti del relativo potere del giudice di qualificazione dell’opposizione, tenuto conto anche del fatto che “in pratica, nella stragrande maggioranza dei casi, vengono proposte opposizioni fondate cumulativamente su plurimi e diversi motivi di distinta natura (talvolta anche incompatibili, o avanzati in via gradata tra loro) in genere senza adeguata qualificazione”.

Il Collegio della terza sezione civile ha quindi trasmesso gli atti al primo presidente per la rimessione alle Sezioni Unite al fine di dirimere il descritto contrasto giurisprudenziale ed anche al fine di affermare il principio di diritto da seguire nel risolvere la corrispondente questione di massima di particolare importanza, così ritenuta per la frequenza statistica della tipologia del contenzioso e per le implicazioni sistematiche della soluzione da adottare.

3. Malgrado queste innegabili implicazioni sistematiche, va premesso che oggetto della presente pronuncia è esclusivamente la questione posta dal ricorso, concernente la qualificazione dell’azione da esercitarsi da parte del destinatario di una cartella di pagamento notificata dall’agente della riscossione per il pagamento di sanzioni amministrative relative a violazioni del codice della strada, quando l’interessato intenda dedurre che il verbale di accertamento dell’infrazione non gli sia stato notificato o sia stato notificato invalidamento ovvero oltre il termine di legge.

Ne consegue l’altra premessa, concernente la normativa di riferimento. Questa è costituita dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, artt. 201, 203 e 204 bis (Codice della Strada) e succ. mod. e dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 7.

Il meccanismo disciplinato da queste norme per sanzionare gli illeciti previsti dal codice della strada è parzialmente diverso da quello disciplinato dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 per gli altri illeciti amministrativi e l’applicazione delle relative sanzioni; di tali differenze occorre tenere conto nell’individuare la soluzione della questione posta a queste Sezioni Unite.

3.1. Sia nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 285 del 1992 che in quello che risulta dopo l’intervento di semplificazione del D.Lgs. n. 150 del 2011 le differenze vengono meno soltanto se l’interessato fa ricorso al prefetto avverso la contestazione, ai sensi dell’art. 203 C.d.S., ed il prefetto emette l’ordinanza-ingiunzione ai sensi del successivo art. 204; contro l’ordinanza ingiunzione può essere proposto ricorso al giudice e, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011, si applica l’art. 6, che disciplina l’opposizione alle ordinanze-ingiunzione emesse anche ai sensi della L. n. 689 del 1981 (analogamente a quanto accadeva nel vigore dell’art. 205 C.d.S., il cui terzo comma rinviava per il giudizio di opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione del prefetto alla L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23).

In alternativa al ricorso al prefetto, l’interessato si può avvalere del ricorso al giudice di pace ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, impugnando direttamente il verbale di accertamento di violazione del codice della strada, così come previsto dal testo attuale dell’art. 204 bis C.d.S., sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 34, che ha diversamente disciplinato l’analogo rimedio comunque già contemplato dal testo previgente dell’art. 204 bis (prima inserito dal D.L. 27 giugno 2003, n. 151, art. 4, come modificato dall’allegato alla L. 1 agosto 2003, n. 214 con decorrenza dal 13.08.2004, poi modificato dalla L. 29 luglio 2010, n. 120, art. 39 con decorrenza dal 13.08.2010).

Se il destinatario della contestazione non si avvale nè del ricorso al prefetto nè del ricorso al giudice di pace il verbale di accertamento diviene definitivo.

3.2. Rispetto al sistema delineato dalla L. n. 689 del 1981, la peculiarità rilevante ai fini della decisione è data dall’efficacia di titolo esecutivo che il verbale di accertamento acquista, in deroga alla L. n. 689 del 1981, art. 17, come previsto dall’art. 203 C.d.S., u.c., per l’ipotesi in cui l’interessato non si avvalga del ricorso al prefetto nè effettui il pagamento in misura ridotta.

Per risolvere il contrasto evidenziato dall’ordinanza di rimessione occorre occuparsi del(la modalità di formazione del) titolo esecutivo costituito dal verbale di accertamento di violazione del codice della strada, dei suoi rapporti con la pretesa sanzionatoria dell’ente impositore e dei rimedi concessi al privato per reagire a questa pretesa.

4. Quanto alla formazione del titolo esecutivo costituito dal verbale di accertamento, va premesso che si tratta di un “titolo esecutivo” del tutto peculiare; esso consente all’ente che irroga la sanzione di avviare la riscossione coattiva, iscrivendo al ruolo esattoriale le somme pretese per la sanzione amministrativa e gli accessori.

Questa idoneità del verbale di accertamento viene meno, ai sensi dello stesso art. 203 C.d.S., in caso di ricorso al prefetto (a cui può eventualmente seguire la formazione dell’ordinanza-ingiunzione, che è titolo esecutivo stragiudiziale, di provenienza e contenuto differenti) ovvero in caso di pagamento in misura ridotta (che chiude la vicenda in sede amministrativa). Coerentemente con la disciplina dettata dall’art. 203 C.d.S., il ricorso al giudice di pace ai sensi dell’art. 204 bis C.d.S. (ed, oggi, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7) contro il verbale di accertamento non impedisce che questo acquisti efficacia esecutiva, tanto è vero che è possibile soltanto la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato rimessa al giudice dell’opposizione, ai sensi dell’art. 204 bis C.d.S. previgente, comma 3 ter (oggi ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 5, richiamato dall’art. 7, comma 6). Questa efficacia -in mancanza di sospensione- consente all’ente impositore di procedere all’iscrizione a ruolo, anche in pendenza di giudizio di opposizione. Peraltro, nel caso di rigetto dell’opposizione, la sentenza, sostituendosi al verbale come titolo esecutivo sulla base del quale iniziare (o proseguire) la riscossione coattiva, determina l’importo della sanzione in una misura compresa tra il minimo ed il massimo edittale stabilito dalla legge per la violazione accertata.

Il meccanismo è differente da quello che si mette in atto quando sia impugnata l’ordinanza-ingiunzione, la quale, in caso di rigetto dell’opposizione, rimane l’unico titolo esecutivo idoneo a fondare la riscossione coattiva.

Le differenze emergono dalle previsioni della L. n. 689 del 1981, art. 23 (oggi, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 12) e art. 204 bis C.d.S., comma 5, (oggi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 11).

La disciplina differente si spiega perchè il verbale di accertamento di violazione del codice della strada acquista l’efficacia esecutiva con una modalità di formazione semplificata rispetto a quella prevista per l’ordinanza – ingiunzione.

Quest’ultima costituisce titolo esecutivo -come sancito dalla L. n. 689 del 1981, art. 18, u.c., primo inciso, – solo dopo che il funzionario o l’agente che ha accertato la violazione abbia presentato il rapporto ai sensi del citato art. 17 della stessa legge e l’autorità competente abbia provveduto ai sensi del successivo art. 18, determinando la somma dovuta per la violazione ed ingiungendone il pagamento.

Il verbale di accertamento non contiene un’ingiunzione di pagamento. Esso ha portata ricognitiva dell’obbligo di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, che nasce autonomamente dalla commissione dell’infrazione al codice della strada. Per effetto dell’accertamento ed in caso di mancato pagamento in misura ridotta, è la legge a fissare la somma da pagare, come determinata dall’art. 203 C.d.S., u.c., ed a consentirne la riscossione mediante ruolo esattoriale, anche ai sensi del sopravvenuto D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 17, oltre che della L. n. 689 del 1981, art. 27.

Stando al testo dell’art. 203 C.d.S., nonchè al testo dell’art. 204 bis C.d.S. (ed, oggi, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7), perchè il verbale di accertamento costituisca “titolo esecutivo” è sufficiente l’omesso ricorso alla tutela amministrativa e l’omesso pagamento in misura ridotta da parte del trasgressore, poichè la somma da iscrivere a ruolo è predeterminata per legge.

Il verbale di accertamento -definito dal codice della strada come “titolo esecutivo” – è provvedimento dell’amministrazione che, dotato di efficacia esecutiva, consente la formazione del ruolo esattoriale, il quale, a sua volta, “costituisce titolo esecutivo” per l’espropriazione forzata (arg. D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 49), sia in caso di opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria sia in caso di mancata opposizione del verbale di accertamento.

4.1. Gli articoli del codice della strada da ultimo citati non si occupano direttamente della notificazione del verbale di accertamento nè degli effetti della mancata notificazione.

Questi ultimi sono previsti dall’art. 201 C.d.S., comma 5, che -con disposizione analoga a quella contenuta nella L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c., – sancisce che “l’obbligo di pagare la somma dovuta per la violazione, a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, si estingue nei confronti del soggetto a cui la notificazione non sia stata effettuata nel termine prescritto”.

La norma, letteralmente interpretata, delinea un fatto estintivo di quell’obbligo che, come si è detto, sorge a carico del trasgressore per effetto della commissione dell’illecito amministrativo. La regola in esame ha portata sostanziale. In sintesi, la notificazione del verbale di accertamento, per come delineata dal legislatore nella norma apposita, non è presupposto di esistenza del titolo esecutivo. Piuttosto, è fatto costitutivo del (mantenimento del) diritto dell’amministrazione ad ottenere il pagamento della sanzione, in quanto l’omessa notificazione estingue questo diritto.

Si tratta di un fatto estintivo del diritto di credito per sanzione amministrativa che, pur operando sul piano sostanziale, non attiene al rapporto, ma all’agire dell’amministrazione, impedendo non tanto la formazione del titolo esecutivo stragiudiziale quanto il completamento della fattispecie sostanziale che dà luogo alla pretesa sanzionatoria e che consente la riscossione coattiva.

4.2. D’altronde, non vi è nel codice della strada altra norma che affermi che la notificazione del verbale di accertamento costituisca presupposto per la venuta ad esistenza del corrispondente titolo esecutivo stragiudiziale.

Piuttosto, al menzionato art. 201, comma 5, va correlato l’incipit dell’art. 203 C.d.S., u.c. nei termini che seguono.

Alla disposizione che individua la fattispecie complessa dal punto di vista sostanziale, al maturarsi della quale si determina l’effetto favorevole per l’amministrazione, si collega una modalità procedimentale di formazione di un “titolo esecutivo” del tutto peculiare. Questa modalità prevede un atto di accertamento proveniente dall’amministrazione alla quale appartiene l’organo accertatore, cui non segua una manifestazione di volontà contraria del destinatario della sanzione, nella forma del ricorso al prefetto o all’autorità giudiziaria ordinaria.

4.3. Nel sistema che ne risulta la notificazione tempestiva del verbale di accertamento attiene quindi alla modalità di formazione del titolo esecutivo, ma la violazione dell’obbligo di notificazione tempestiva che incombe sull’amministrazione non impedisce la venuta ad esistenza del “titolo esecutivo”, piuttosto dà luogo ad un titolo esecutivo viziato formalmente, perchè è stato invalido od irregolare il suo procedimento di formazione.

Se si guarda alla (tempestiva) notificazione del verbale di accertamento dal punto di vista procedurale -prescindendo per il momento dalle conseguenze dell’art. 201 C.d.S., comma 5, di cui sopra e su cui si tornerà- essa si configura come requisito di validità del titolo esecutivo che, pur esistente e dotato di efficacia esecutiva, se non notificato, resta tuttavia contestabile, malgrado l’iscrizione al ruolo esattoriale che ne è seguita, perchè colui che avrebbe dovuto contestarlo non è stato messo in condizione di conoscere l’accertamento. Il verbale è provvedimento (ed anche titolo) esecutivo pur non essendo definitivo l’accertamento in esso contenuto.

Che la notificazione tempestiva non sia un requisito di esistenza, ma soltanto di validità nei termini appena esposti, è reso più evidente dalla considerazione dell’ipotesi della notificazione del verbale di accertamento effettuata oltre il termine di legge. In questa situazione, non essendo stata impedita la conoscenza della contestazione da parte del destinatario della sanzione, la mancata proposizione del ricorso al prefetto ed il mancato pagamento in misura ridotta non potrebbero non dare luogo all’esecutività del provvedimento sanzionatorio, non solo esistente ma anche notificato; laddove l’eventuale ricorso al giudice di pace per fare valere la tardività della notificazione non impedirebbe, di per sè, come detto sopra, l’efficacia esecutiva del titolo stragiudiziale, pur invalidamente formato.

Analoga è la situazione determinata dalla nullità della notificazione del verbale di accertamento.

Orbene, nel sistema delineato dal codice della strada (ed, oggi, dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7) il rimedio tipico per fare valere i vizi del titolo esecutivo costituito dal verbale di accertamento va individuato nell’opposizione a questo verbale, senza alcuna distinzione tra diversi vizi di forma (non essendovi un apparato normativo che -pur tenendo conto delle debite differenze- consenta di distinguere tra inesistenza, da un lato, e nullità o tardività della notificazione dall’altro, come è per il decreto ingiuntivo, secondo giurisprudenza oramai consolidata). In particolare, la violazione delle regole di formazione del titolo stragiudiziale deve essere fatta valere col rimedio tipico, sia che si tratti di violazioni che abbiano impedito del tutto la conoscenza della contestazione sia che si tratti di violazioni che questa conoscenza abbiano consentito, ma abbiano comunque viziato il titolo, irregolarmente formato.

4.4. Non osta alla conclusione raggiunta l’obiezione, di ordine sistematico, fatta propria dai sostenitori del contrario orientamento, secondo cui, seguendo il ragionamento che la sorregge, si finisce per trattare il titolo stragiudiziale de quo alla stregua di un titolo giudiziale, quanto ai rimedi oppositivi disponibili in capo all’interessato, che venga attinto dalla minaccia dell’esecuzione coattiva (id est, della riscossione coattiva delle somme iscritte a ruolo), dal momento che -dalla ricostruzione di cui sopra- consegue che con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. può fare valere soltanto i fatti estintivi od impeditivi sopravvenuti, non tanto (o non solo) alla formazione del titolo, quanto alla sua definitività.

Il titolo stragiudiziale di che trattasi, oltre ad essere connotato dalle peculiarità su evidenziate, non è affatto equiparabile a quelli contemplati dai nn. 2 e 3 dell’art. 474 cod. proc. civ.. Non vi è dubbio che la legge n. 689 del 1981 ed, ancor di più, il codice della strada pongano l’ente impositore in una posizione differenziata e privilegiata, che si giustifica in quanto la formazione del titolo esecutivo e l’iscrizione al ruolo esattoriale non trovano causa in rapporti di diritto privato, ma nella commissione di illeciti amministrativi.

Il modello di riferimento è costituito dall’accertamento tributario. L’avviso di accertamento o di liquidazione del tributo va notificato, così come va notificato il provvedimento che irroga le sanzioni, ma la notificazione omessa od invalida non impedisce l’iscrizione al ruolo di tributo e sanzioni, cioè la formazione, sia pur invalida, di un titolo esecutivo (fatta salva la possibilità di impugnare l’atto adottato precedentemente unitamente all’atto successivo notificato, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, u.c.).

La tutela del privato non è più compressa rispetto a quella assicurata per reagire alla formazione degli altri titoli esecutivi di natura stragiudiziale aventi causa in rapporti di diritto privato.

Non va perso di vista il dato normativo per il quale, per contrastare il titolo stragiudiziale di che trattasi, l’ordinamento mette a disposizione dell’interessato un rimedio “speciale”, appositamente destinato ad evitare che divenga definitivo l’accertamento consacrato nel verbale di contestazione della violazione del codice della strada.

L’opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23 e art. 204 bis C.d.S. (ed oggi di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 6 e 7) è rimedio omnicomprensivo e idoneo alla delibazione da parte del giudice ordinario di qualsivoglia vizio dell’atto sanzionatorio, compresi i vizi che attengono al procedimento seguito per la sua formazione.

5. Una volta escluso che l’omessa (o la tardiva o l’invalida) notificazione del verbale di accertamento impedisca la formazione del titolo esecutivo, influenzando piuttosto la regolarità formale dell’azione della p.a., va esclusa la possibilità di esperire l’opposizione all’esecuzione, ove fondata sulla causa petendi della (asserita) mancanza di titolo esecutivo.

Resta tuttavia da verificare la praticabilità del rimedio dell’art. 615 cod. proc. civ. per dedurre il fatto contemplato dall’art. 201 C.d.S., comma 5, considerato di per sè, quale fatto estintivo del diritto di credito ovvero quale fatto impeditivo del diritto ad agire esecutivamente in capo alla p.a..

6. Prima di affrontare quest’ultima verifica, pare opportuno dare conto degli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza di legittimità nel ricostruire i rapporti tra l’opposizione di cui all’art. 615 cod. proc. civ. e l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione (o, più specificamente, al verbale di accertamento delle violazioni del codice della strada).

Nella giurisprudenza meno recente costituisce ius receptum l’affermazione per la quale avverso l’iscrizione a ruolo e la notificazione della cartella esattoriale per la riscossione di una sanzione amministrativa va esperita l’opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23 in caso di mancata preventiva notificazione del provvedimento sanzionatorio (così, tra le altre, Cass. S.U. 10 gennaio 1992, n. 190; Cass. S.U. 23 novembre 1995, n. 12107; Cass. 26 agosto 1996, n. 7830; 2 settembre 1997, n. 8380; 11 dicembre 1998, n. 12487; 11 febbraio 1999, n. 1149; 15 febbraio 199, n. 1227; 14 giugno 1999, n. 5852; 30 agosto 1999, n. 9138; 29 ottobre 1999, n. 12192; 27 novembre 1999, n. 13242; 25 gennaio 2000, n. 799).

L’orientamento è dato per consolidato anche dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 489 del 13 luglio 2000, la quale, per come è fatto palese dalla relativa motivazione, non lo smentisce affatto, ma anzi, dandone atto (mediante i richiami della giurisprudenza delle stesse Sezioni Unite, in particolare di Cass. S.U. n. 190/1992 cit.), lo conferma per l’ipotesi qui in esame dell’omessa od irregolare notificazione del provvedimento sanzionatorio (o del verbale di accertamento della violazione al codice della strada). Perciò, finisce per contrapporre, al rimedio tipico, il rimedio dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. come esperibile qualora l’interessato voglia far valere fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (che le stesse Sezioni Unite individuano in “morte del soggetto passivo, pagamento, prescrizione”).

Nello stesso senso si esprime, per un lungo periodo, la giurisprudenza successiva (sia delle Sezioni Unite, con le sentenze del 13 luglio 2000, n. 491 e del 18 agosto 2000, n. 562, sia delle sezioni ordinarie, tra le altre, con le sentenze del 9 marzo 2001, n. 3449 e del Cass. 27 settembre 2001, n. 12098).

Lungo le medesime linee direttrici si muovono, oltre a Cass. 7 maggio 2004, n. 8695 e Cass. 15 febbraio 2005, n. 3035, le sentenze del 18 luglio 2005, n. 15149 e del 20 aprile 2006, n. 9180, impropriamente citate a sostegno dell’orientamento favorevole alla proponibilità dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. per dedurre il vizio di omessa od invalida notificazione del verbale di accertamento della contravvenzione al codice della strada.

Ed invero, sia l’una che l’altra -sintetizzando il percorso, del tutto univoco, svolto dalla giurisprudenza di legittimità su richiamata-ribadiscono che il rimedio praticabile quando sia mancata la notificazione dell’ordinanza ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione del codice della strada è l’opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, mentre l’opposizione all’esecuzione è il rimedio da praticare quando si contestino fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo.

Le motivazioni svolgono argomentazioni coerenti con questa conclusione. Le massime ufficiali tratte dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo possono tuttavia indurre perplessità laddove inseriscono, tra le ipotesi che legittimano l’esperimento dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., la contestazione della “legittimità dell’iscrizione al ruolo per mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione stessa” (massima di Cass. n. 15149/05 cit., sub b) ovvero la contestazione della “legittimità dell’iscrizione a ruolo per omessa notifica della stessa cartella, e quindi per la mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo” (massima di Cass. n. 9180/06 cit., sub b). Tuttavia, nessuna delle due sentenze confuta l’elaborazione giurisprudenziale precedente, che viene da entrambe espressamente confermata; in particolare, nessuna delle due sentenze inserisce tra i casi di “mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione” al ruolo esattoriale quello della mancanza o della tardività o dell’invalidità della notificazione del verbale di accertamento di violazione al codice della strada; con l’espressione in parola entrambe le decisioni si riferiscono a fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, che, operando sul piano del rapporto (e non dell’atto), abbiano estinto il diritto di credito dell’ente impositore (quale è la prescrizione, considerata da Cass. n.15149/05) ovvero -si può aggiungere, malgrado il concetto non sia esplicitato nelle motivazioni delle sentenze in esame- fatti che abbiano estinto il diritto di agire esecutivamente, ma sempre in epoca successiva alla formazione del titolo esecutivo.

Giova precisare, infatti, che a quest’ultima eventualità è riferito il precedente di cui a Cass. 12 aprile 2002, n. 5279. Questa decisione distingue tra vizi che attengono alla formazione del titolo, sulla base del quale il ruolo è stato formato (da dedurre con l’opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981), e fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo, che però hanno reso illegittima l’iscrizione a ruolo (da dedurre con l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ.). Nel caso posto all’attenzione della Corte un fatto estintivo sopravvenuto di tale secondo tipo è stato individuato nella “intervenuta decadenza dell’amministrazione dalla pretesa creditoria per non aver tempestivamente provveduto alla formazione del ruolo ed all’invio dello stesso all’Intendenza di finanza competente”. E’ evidente che quest’ultimo vizio non possa essere dedotto altrimenti che con l’opposizione all’esecuzione, in quanto prescinde del tutto dalla notificazione del provvedimento sanzionatorio, che anzi presuppone, così come presuppone un fatto che si è verificato tra questa notificazione e la formazione del ruolo esattoriale (al quale il destinatario può reagire solo dopo che il ruolo gli sia stato reso noto mediante la notificazione della cartella di pagamento).

La giurisprudenza successiva ripete la massima tratta da Cass. n. 15149/05 e ne fa coerente applicazione (cfr., tra le altre, Cass. 13 marzo 2007, n. 5871).

6.1. Piuttosto, con riferimento all’opposizione al verbale di accertamento delle violazioni del codice della strada, proposta, per dedurne l’omessa o la tardiva od invalida notificazione, dopo la notificazione della cartella esattoriale, emerge un contrasto giurisprudenziale relativo a questione diversa da quella del rapporto tra questa opposizione e l’opposizione all’esecuzione.

Questo contrasto ha riguardato la durata del termine per la proposizione dell’opposizione c.d. recuperatoria (espressione, sulla quale si tornerà), individuato in trenta ovvero in sessanta giorni (decorrenti dalla notificazione della cartella di pagamento), a seconda che si ritenesse applicabile il regime generale della L. n. 689 del 1981, art. 22 ovvero quello speciale dell’art. 204 bis C.d.S., ma sempre nel presupposto che fosse esclusa l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. (cfr., tra le prime, Cass. 7 agosto 2007, n. 17312, cui sono seguite numerose altre). La questione ha perso di attualità dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011, avendo gli artt. 6 e 7 fissato lo stesso termine di decadenza di trenta giorni per proporre opposizione.

6.2. Il rimedio dell’opposizione all’esecuzione è invece individuato come praticabile contro la cartella esattoriale, per dedurre il vizio di notificazione del verbale di accertamento, a far data dal precedente costituito da Cass. ord. 25 febbraio 2008, n. 4814 (non massimata), al quale è seguita la sentenza di cui a Cass. 29 dicembre 2011, n. 29696 (non massimata): la prima distingue tra nullità della notificazione del verbale (che ritiene vizio deducibile col rimedio tipico dell’opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981) ed inesistenza di detta notificazione (che ritiene vizio impeditivo della formazione del titolo esecutivo, da dedurre con opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ.); la seconda non distingue le due fattispecie, argomentando piuttosto in base al disposto dell’art. 201 C.d.S., comma 5, reputato norma che individua un fatto estintivo sopravvenuto alla formazione del titolo, quindi da fare valere ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. (secondo quanto si assume affermato dal precedente costituito da Cass. n. 9180/06, citata in motivazione).

Ancora, mentre la successiva Cass. 25 febbraio 2016, n. 12412 torna sull’argomento dell’inesistenza del titolo esecutivo per ritenere esperibile l’opposizione all’esecuzione quando sia mancata la notificazione del verbale di accertamento, la più recente Cass. 11 luglio 2016, n. 14125 ribadisce la tesi della sopravvenuta estinzione del titolo (e/o del diritto), accomunando in questo effetto sia l’ipotesi dell’omessa che quella della tardiva od invalida notificazione del verbale di accertamento, cui perciò ritiene possibile reagire con opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ..

7. Queste Sezioni Unite ritengono che vada disatteso quest’ultimo orientamento, vada ribadito il principio di diritto già espresso dal precedente, pure a Sezioni Unite, del 10 gennaio 1992, n. 190 e vada confermato l’orientamento successivamente precisato dalle stesse Sezioni Unite con le sentenze 13 luglio 2000, n. 489 e n. 491 e con la sentenza 10 agosto 2000, n. 562 ed, infine, riassunto nella massima tratta da Cass. sez. 1, 18 luglio 2005, n. 15149, confermata da diverse alte decisioni successive, tra cui, da ultimo, quelle indicate nell’ordinanza interlocutoria (n. 1985 del 29 gennaio 2014 e n. 12412 del 16 giugno 2016; nonchè, sia pure con argomentazioni in parte differenti, n. 15120 del 22 luglio 2016 e n. 16282 del 4 agosto 2016).

Le ragioni per le quali questo orientamento è valido anche in presenza delle norme dell’art. 201 C.d.S., comma 5, e art. 203 C.d.S., u.c., si evincono da quanto detto sopra a proposito del fatto estintivo contemplato dalla prima e della modalità di formazione del titolo esecutivo stragiudiziale contemplate dalla seconda.

S’impongono al riguardo le seguenti precisazioni.

7.1. La prima precisazione attiene al modo di operare del fatto estintivo dell’obbligo di pagare la somma dovuta per la violazione, a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, previsto dall’art. 201 C.d.S., comma 5, e costituito dalla omessa od intempestiva notificazione del verbale.

Si è già detto che si tratta di un fatto estintivo dell’obbligo di pagamento (obbligo, che sorge per legge al momento della commissione dell’illecito) e che non attiene direttamente alle vicende del credito che ne è oggetto, bensì all’agire amministrazione nella formazione dell’atto sanzionatorio.

La notificazione tempestiva si viene perciò a configurare come elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria.

La sua mancanza, quindi, non è equiparabile agli altri fatti estintivi dell’obbligazione di pagamento di diritto comune, come la prescrizione, la morte dell’obbligato ed il pagamento.

Il fatto estintivo non è successivo al sorgere della pretesa sanzionatoria della p.a. ed, a maggior ragione, non è successivo alla formazione del titolo esecutivo, ma contestuale all’una ed all’altro.

Sciogliendo quindi la riserva sopra formulata a proposito della deducibilità di questo fatto estintivo con opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., va affermato che esso non rientra tra i fatti successivi alla formazione del titolo esecutivo che, estinguendo il diritto di credito consacrato in questo titolo (di natura giudiziale o stragiudiziale), fanno venire meno il diritto di agire esecutivamente.

Una volta divenuto definitivo l’accertamento contenuto nel verbale non opposto è preclusa la verifica della sussistenza dei fatti costitutivi/impeditivi della pretesa sanzionatoria in esso consacrata, tra cui anche la notifica/omessa notifica del verbale.

7.2. La seconda precisazione attiene all’ambito oggettivo di operatività del giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada.

Sebbene sia con riferimento a quest’ultimo che, più in generale, con riferimento all’oggetto del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa si discuta se esso riguardi soltanto (la legittimità del)l’atto od anche il rapporto di credito (e le sue vicende), non è qui necessario approfondire i termini del dibattito, malgrado le sollecitazioni dell’ordinanza di rimessione.

Non vi è dubbio che, attenendo la notificazione tempestiva al fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria, questa rientri nell’oggetto del giudizio di opposizione al verbale di accertamento.

L’azione diretta all’autorità giudiziaria ordinaria per dedurre il fatto estintivo/impeditivo costituito dalla omessa, tardiva od invalida notificazione del verbale di accertamento allora è quella attualmente disciplinata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7.

Se l’interessato non è stato posto in condizioni di fruire di questa azione, la stessa dovrà essere esercitata nel termine di trenta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, non potendo operare la decadenza se non a seguito della conoscenza dell’atto sanzionatorio da impugnare (cfr. Cass. 4 agosto 2016, n. 16282). Peraltro, ove questo atto sia stato conosciuto dall’interessato a seguito di notificazione valida, ma intervenuta oltre il termine dell’art. 201 C.d.S., l’azione dovrà essere esercitata nel termine di trenta giorni decorrente dalla notificazione (tardiva) del verbale di accertamento, non essendovi ragioni di tutela del destinatario della sanzione che impongano di attendere la notificazione della cartella di pagamento.

E’ vero che l’opposizione tipica si deve estrinsecare nella proposizione di un motivo di opposizione tendente ad inficiare la sussistenza delle condizioni di legge per emettere il provvedimento sanzionatorio, ma queste non attengono soltanto al merito della sanzione ma anche al procedimento di formazione del titolo che consente la riscossione esattoriale una volta divenuto definitivo (cfr. già Cass. S.U. 10 gennaio 1992, n. 190). Se il procedimento è viziato per omessa, invalida o tardiva notificazione del verbale di accertamento, il rimedio sarà appunto quello dell’opposizione a questo verbale ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7.

Se proposta come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., la stessa azione va diversamente qualificata dal giudice adito, essendo a questi riservata l’attività di qualificazione della domanda, tenuto conto della causa petendi e del petitum esposti dalla parte.

7.3. S’impone tuttavia un’ulteriore precisazione, che serve a chiarire un punto non affrontato nei precedenti giurisprudenziali su citati come espressione dell’orientamento qui preferito, e che involge anche una questione terminologica.

L’azione esercitata dopo la notificazione della cartella di pagamento per dedurre il vizio di notificazione del verbale di accertamento, come sopra delineata, non è un’azione “recuperatoria” in senso proprio.

Tale, infatti, si configura l’azione che venga esperita contro l’ordinanza-ingiunzione non notificata, oggi ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, recuperando, appunto, dopo la notificazione della cartella di pagamento, il mezzo di tutela del quale la parte non si è potuta tempestivamente avvalere per l’omessa od invalida notificazione dell’ordinanza-ingiunzione.

In questa eventualità, il destinatario dell’ingiunzione (e della cartella) può “recuperare” tutte le difese che avrebbe potuto svolgere avverso l’ordinanza-ingiunzione, sia sul piano formale (riguardanti perciò il procedimento di formazione del titolo) sia sul piano sostanziale (riguardanti perciò la pretesa sanzionatoria).

Viceversa, quando viene “recuperata”, dopo la notificazione della cartella di pagamento, l’azione oggi disciplinata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7 per dedurre l’omessa od invalida notificazione del verbale di accertamento, non vi è spazio per lo svolgimento di difese diverse da questa, specificamente per difese nel merito della pretesa sanzionatoria. Infatti, se l’amministrazione -che è onerata della relativa prova, in ragione della natura di fatto costitutivo riconosciuto alla notificazione tempestiva- non dimostra di avere eseguito tempestivamente e validamente la notificazione del verbale di accertamento, la pretesa sanzionatoria è estinta. In sintesi, ciò che viene “recuperato” è la possibilità per il destinatario della pretesa di dedurre il fatto estintivo/impeditivo dell’omessa od invalida notificazione. Questa considerazione consente di superare la perplessità, fatta propria dall’ordinanza di rimessione, dell’idoneità della notificazione della cartella di pagamento, che si fondi su un verbale di accertamento di infrazione al codice della strada, a consentire la contestazione nel merito di quest’ultimo. E’ sufficiente al “recupero” di che trattasi il richiamo del verbale di accertamento nei suoi termini identificativi. Infatti, se, per contro, l’amministrazione dimostri di avere ottemperato validamente alla notificazione, l’opposizione non potrà che essere dichiarata inammissibile: ogni difesa, anche di merito, è preclusa poichè si sarebbe dovuta svolgere nel termine di trenta giorni decorrente da quella notificazione.

In conclusione va affermato il seguente principio di diritto: “L’opposizione alla cartella di pagamento, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria comminata per violazione del codice della strada, va proposta ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 7 e non nelle forme della opposizione alla esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., qualora la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione del codice della strada. Il termine per la proponibilità del ricorso, a pena di inammissibilità, è quello di trenta giorni decorrente dalla data di notificazione della cartella di pagamento”.

8. Pare opportuno infine svolgere, a chiarimento di questioni poste sia dall’ordinanza di rimessione che dai sostenitori dell’orientamento contrario a quello qui preferito, le seguenti notazioni conclusive.

Il destinatario della cartella di pagamento che non abbia ricevuto la notificazione del verbale di accertamento non è affatto privato di tutela nei confronti dell’amministrazione, soltanto che questa va esercitata entro un termine di decadenza di durata pari a quello del quale si sarebbe potuto avvalere ove, ricevendo la notificazione, avesse inteso contestare la conformità a diritto dell’irrogazione della sanzione.

Nè è da discutere del venir meno della possibilità di “recupero” del pagamento in misura ridotta, perchè, per quanto detto sopra, con riferimento alle infrazioni al codice della strada, non è data possibilità alternativa tra l’estinzione della pretesa sanzionatoria e l’inammissibilità dell’opposizione tardiva.

8.1. Restano ovviamente esperibili anche dal destinatario della cartella di pagamento basata su verbali di accertamento di violazione del codice della strada o soggetto passivo della riscossione coattiva i rimedi oppositivi ordinari degli artt. 615 e 617 cod. proc. civ..

Così, col primo, come detto, potranno essere dedotti tutti i fatti estintivi sopravvenuti alla definitività del verbale di accertamento, tra cui evidentemente la prescrizione ai sensi dell’art. 209 C.d.S. e della L. n. 689 del 1981, art. 28 richiamato (quando la cartella di pagamento sia stata notificata oltre i cinque anni dalla violazione). In tale eventualità, la deduzione dell’omessa od invalida notificazione del verbale di accertamento non è fatta come motivo di opposizione a sè stante (riferito cioè al fatto estintivo contemplato dall’art. 201, comma 5, che va fatto valere nel termine di trenta giorni secondo quanto sopra), ma riguarda l’idoneità dell’atto notificato ad interrompere la prescrizione. Evidente è allora la deducibilità della mancanza di questo (e di altri) atti interruttivi, senza limiti di tempo, in applicazione appunto dell’art. 615 cod. proc. civ..

Parimenti, saranno contestabili con quest’ultimo rimedio tutte le pretese di pagamento dell’amministrazione e dell’agente della riscossione che trovino ragione in fatti precedenti l’iscrizione a ruolo ma successivi all’emissione del verbale di accertamento, in quanto la relativa deduzione non ne sarebbe stata possibile anche se la notificazione di questo fosse stata regolarmente eseguita.

8.2. Ancora, non si può escludere che, come già affermato da questa Corte a Sezioni Unite in riferimento all’analogo sistema degli accertamenti e delle impugnazioni tributarie (cfr. Cass. S.U. 4 marzo 2008, n. 5791), l’omessa notificazione dell’atto presupposto venga dedotta come ragione di invalidità (derivata) dell’atto esecutivo successivo. Tuttavia, nel sistema delle opposizioni esecutive secondo il regime ordinario, l’irregolarità della sequenza procedimentale dà luogo ad un vizio deducibile ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ., quindi nel termine di venti giorni decorrente dal primo atto del quale l’interessato abbia avuto conoscenza legale.

8.3. Infine, pur non essendo la questione rilevante per la decisione sul ricorso, va osservato che non è senza conseguenze la circostanza che l’azione venga esperita dall’interessato a seguito della ricezione di una cartella di pagamento (ovvero di un altro atto successivo esecutivo), che si assuma aver costituito il primo atto per il cui tramite sia stata acquisita la conoscenza della sanzione amministrativa.

La doglianza di regola va rivolta contro i legittimati passivi individuati, oggi, dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 5.

Tuttavia, la considerazione che, nell’eventualità dell’accoglimento, venga meno anche l’atto dell’agente della riscossione e che comunque questo sia stato causa immediata dell’opposizione legittima passivamente quest’ultimo, senza peraltro dare luogo ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario (cfr. Cass. S.U. 25 luglio 2007, n. 16412) e ne consente, in caso di soccombenza, anche la condanna alle spese in favore dell’opponente (cfr. Cass. ord. 6 febbraio 2017, n. 3101).

9. Venendo a trattare del ricorso, il motivo, formulato ed illustrato nei termini sopra esposti, è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Esso è infondato nella parte in cui assume la possibilità di esperire il rimedio dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. per dedurre l’omessa notificazione del verbale di accertamento della violazione del codice della strada quale fatto estintivo della pretesa sanzionatoria, dovendosi fare applicazione del principio di diritto sopra enunciato.

Poichè il tribunale ha accertato la proposizione dell’opposizione oltre il termine di legge, senza che sul punto la sentenza sia censurata, è corretta in diritto la conferma dell’inammissibilità già dichiarata dal giudice di pace.

Soltanto, a parziale correzione della motivazione della sentenza impugnata, va escluso il riferimento all’opposizione L. n. 689 del 1981, ex artt. 23 e segg. e va sostituito con il riferimento all’opposizione D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 7, in quanto la cartella di pagamento è stata notificata all’ I. ed il giudizio è stato da questi iniziato dopo l’entrata in vigore di quest’ultima norma (cfr. Cass. 16 giugno 2016, n. 12412).

9.1. Il motivo è inammissibile per la parte in cui assume che l’azione proposta in primo grado dall’ I. ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. fosse volta anche a far valere la prescrizione della sanzione e la non debenza delle maggiorazioni ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 27.

Su entrambe le questioni il ricorso è redatto in violazione dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 4 e n. 6 poichè non riporta adeguatamente il contenuto degli atti introduttivi dei due gradi di merito nè indica con completezza e pertinenza le norme di diritto su cui le dette doglianze si fondano.

In particolare, non sono note le ragioni poste a fondamento della asserita eccezione di prescrizione (i cui termini temporali, quanto alla data di commissione dell’illecito ed alla decorrenza del termine quinquennale fino alla notificazione della cartella di pagamento, non risultano da alcun punto del ricorso), non è fatto alcun cenno alle norme che prevedono il regime prescrizionale applicabile e mancano del tutto le indicazioni circa il contenuto dell’atto di appello e le relative conclusioni su questa specifica questione.

Analogamente è a dirsi quanto all’asserita deduzione di ingiusta applicazione della maggiorazione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 27 (sulla cui debenza anche in caso di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, peraltro, questa Corte si è espressa di recente con le sentenze 1 febbraio 2016, n. 1884 e 20 ottobre 2016, n. 21259).

Ancora, va evidenziato che il giudice non si è pronunciato nè sull’una nè sull’altra questione, senza che il ricorrente abbia avanzato la censura di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. e art. 360 cod. proc. civ., n. 4.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Il contrasto giurisprudenziale giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.
La Corte, decidendo a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2017


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 09-05-2017) 19-09-2017, n. 21667

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10318-2015 proposto da:

CALABRA MACERI & SERVIZI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO CRISCUOLO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENZO DA CERI 195, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO PUGLIESE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 1709/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 05/02/2015 R.G.N. 1819/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2017 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato RACCUGLIA TOMMASO per delega Avvocato CRISCUOLO FABRIZIO;

udito l’Avvocato OLIVA MARGHERITA per delega Avvocato PUGLIESE ALBERTO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1709 del 2014, accogliendo l’appello proposto da F.A. nei confronti della società Calabria Maceri e Servizi spa, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Cosenza tra le parti, rigettava la domanda proposta in primo grado da quest’ultima.

2. Il Tribunale in accoglimento della domanda proposta dalla suddetta società aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 25 luglio 2008 al F., dipendente della stessa, con qualifica e mansioni di autotrenista, il quale, durante un periodo di assenza dal lavoro per malattia, aveva svolto attività lavorativa incompatibile con la infermità riportata a seguito dell’infortunio sul lavoro del (OMISSIS) (contusione a spalla e polso sinistro, con infermità dichiarata dall’INAIL fino all'(OMISSIS)).

3. Secondo il Tribunale dalle risultanze dell’attività investigativa disposta dalla datrice di lavoro era emerso che il F. aveva svolto, durante il periodo di malattia, attività lavorativa presso l’esercizio commerciale “(OMISSIS)” del figlio, dove si recava con la propria autovettura, si occupava dell’apertura e chiusura del negozio, spostava carichi pesanti e vasi con piante.

Ciò era emerso, in particolare, dall’escussione del teste Fi., che aveva svolto le indagini, dal fascicolo fotografico versato in atti, dalle stesse deposizioni testimoniali dei soggetti sentiti su richiesta del lavoratore.

4. La Corte d’Appello, ritenuta la conformità dell’appello all’art. 434 c.p.c., e rigettata l’istanza di declaratoria di inammissibilità ex art. 436-bis e 348-bis c.p.c., accoglieva l’impugnazione del lavoratore.

Nella contestazione si diceva che nei giorni indicati, dopo le 15,00, il F. aveva svolto attività contrastanti con l’infortunio denunciato (“nei giorni (OMISSIS), dalle ore 15 in poi, Ella ha commesso il seguente fatto: nei giorni indicati, nonostante Lei fosse assente per infortunio, come da certificazione medica, svolgeva comunque attività contrastanti, con l’infortunio da Lei accusato, presso l’attività commerciale “(OMISSIS)””, pag. 7 sentenza di appello), senza indicare tuttavia in cosa si sarebbe concretizzata tale attività.

Ciò, senza poter dare luogo ad inefficacia del licenziamento per genericità dei motivi, perchè la censura contenuta nella memoria di costituzione in primo grado, non veniva reiterata in appello, si riverberava sul campo di indagine dei fatti posti a fondamento del recesso datoriale che, in base al principio di immutabilità dei motivi del licenziamento disciplinare, non può estendersi oltre alla verifica delle circostanza che le attività svolte dal F. nei giorni, e negli orari, indicati nella contestazione di addebito, fossero espressione, di per sè, di fraudolenta simulazione di malattia.

Su questa premessa, la Corte d’Appello rilevava che dalla documentazione in atti e dalle prove testimoniali assunte in primo grado, non poteva pervenirsi alla conclusione che l’attività svolta dal lavoratore, oggetto della contestazione, fosse indicativa di simulazione della malattia diagnosticata dall’INAIL (contusione spalla e polso sinistro).

Dal fascicolo fotografico elaborato dalla società di investigazioni private, su cui deponeva il teste fi., risultavano come comportamenti suscettibili di assumere astrattamente rilievo ai fini della presente indagine: il F. alla guida di un auto, o che teneva in mano un sacchetto con la scritta “(OMISSIS)” riempita solo per 1/5 di materiale di natura sconosciuta, o intento a spostare qualche piccola piantina, o intento nell’abbassare la saracinesca dell’esercizio commerciale funzionante con dispositivo elettronico mediante l’inserimento di una chiave.

In ragione della diagnosi, tali condotte non potevano ritenersi espressione di simulazione di malattia, mentre lo svolgimento dell’attività lavorativa del F., consistente nel guidare camion con l’obbligo di scarico delle merci da questo trasportate, era incompatibile con lo stato contusivo diagnosticato.

Le asserzioni del teste Fi., secondo cui il F. sarebbe stato visto spostare carichi pesanti e vasi con piante presso l’esercizio commerciale del figlio, oltre che contrastare con le fotografie, non trovavano conferma nelle deposizioni degli altri testi.

5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre la società datrice di lavoro, prospettando tre motivi di ricorso.

6. Resiste con controricorso F.A..

7. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente prospetta il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., nonchè dell’art. 437 c.p.c., comma 2, e conseguente applicazione dell’art. 348-bis c.p.c., in ordine all’inammissibilità dell’appello (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4).

2. La società censura la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello per la mancanza di specificità dei motivi e dell’indicazione delle modifiche che venivano richieste rispetto alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado.

Il giudice di secondo grado rilevava che il lavoratore appellante non si era limitato al mero richiamo delle tesi sostenute in primo grado, ma aveva censurato in modo espresso la sentenza con specifico riferimento al giudizio di disvalore, incidenza sui doveri di correttezza e lealtà, gravità del comportamento contestato al lavoratore dalla datrice di lavoro, espresso dal giudicante, indicando gli elementi da cui si deve desumere la prova dell’illogicità dello stesso e chiedendo, in ragione di ciò, il rigetto della declaratoria di legittimità del licenziamento spiegato con il ricorso introduttivo.

La Corte d’Appello riteneva che da ciò discendeva non solo la conformità del gravame allo schema dell’art. 434 c.p.c., ma anche il rigetto della domanda di declaratoria di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 436-bis c.p.c..

Assume la ricorrente che tale statuizione contrasta con le disposizioni invocate, come interpretate dalla giurisprudenza di legittimità, atteso che nel ricorso in appello veniva indicato un solo generico motivo di contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, senza nessuna specificazione sui capi della sentenza in contestazione, sulle modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla ricostruzione del fatto, sul perchè della contraddittorietà, sul rapporto di causa ed effetto fra violazione dedotta ed esito della lite.

L’appellante non aveva riportato neppure in modo succinto l’argomentazione di primo grado e quali parti si potevano ritenere gravate da vizi tali da chiederne la riforma. Il lavoratore, con l’atto d’appello, si limitava a riportare all’interno del ricorso in appello una sola frase della sentenza di primo grado individuandola in “pag. 6 riga 10 e seg.” 3. Il motivo di ricorso è inammissibile.

3.1. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (Cass., n. 2143 del 2015).

Peraltro (Cass., n. 2814 del 2016), ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purchè ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.

3.2. Tuttavia, occorre ricordare che questa Corte, allorquando sia denunciato un “error in procedendo”, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; ma, non essendo il predetto vizio rilevabile “ex officio”, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (ex multis, Cass., n. 2771 del 2017).

Allorchè – come nella specie – si censuri la statuizione del giudice di secondo grado di rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità, nonchè la mancata adozione di ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. e dunque la esclusione della ragionevole probabilità di non accoglimento dell’impugnazione, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi dell’appello di cui si assume la mancanza di specificità o la riferibilità a una valutazione prognostica di non fondatezza (cfr., Cass., n. 20405 del 2006, n. 11738 del 2016).

L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone, infatti, comunque l’ammissibilità del motivo.

3.3. La ricorrente limitandosi a dedurre ciò che non sarebbe stato indicato nell’atto di appello (cfr., pag. 11 del ricorso per cassazione), e la mancanza di riferimenti nell’appello alla sentenza di primo grado se non per una frase (cfr. pag. 13 del ricorso per cassazione), non prospetta le censure in modo conforme ai principi sopra richiamati.

Nè tale onere può essere supplito dalla riproduzione nel controricorso dell’appello, atteso che spetta al ricorrente la riproduzione, insieme ad una critica ragionata, dei passi dell’appello di cui si assume l’inammissibilità in ragione delle disposizioni invocate.

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto error in procedendo.

Vizio di ultrapetizione in violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere il giudice di appello pronunciato oltre il limite delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti.

Deduce la ricorrente che il lavoratore nel primo grado di giudizio, ma soprattutto nel secondo, non aveva censurato la motivazione contenuta nella contestazione degli addebiti, essendo così incorso il giudice di appello nella violazione dell’art. 112 c.p.c., laddove ha affermato che la stringata contestazione di addebiti non risponde al canone di completezza della descrizione del comportamento che dava luogo al licenziamento.

La Corte d’Appello, affermava che si esponeva che nei quattro giorni indicati (recte: (OMISSIS)) dopo le 15, il sig. F. aveva svolto attività contrastanti con l’infortunio denunciato, senza tuttavia indicare in cosa si sarebbero concretizzate tali attività.

Il vizio denunciato trovava conferma nel fatto che il Tribunale aveva affermato che la contestazione dell’addebito, di cui vi era copia in atti, appariva essere sufficientemente specifica, poichè nella stessa erano stati indicati con chiarezza i fatti addebitati, ovvero l’avvenuto svolgimento, durante il periodo di tempo specificamente indicato ovvero nei giorni (OMISSIS), di attività in contrasto con l’infortunio denunciato presso l’esercizio commerciale “(OMISSIS)”, con conseguente piena garanzia del diritto di difesa del lavoratore.

Tale statuizione non aveva costituito oggetto di impugnazione in appello, venendo così acclarata la specificità e sufficienza dei contenuti della contestazione disciplinare, con la conseguente violazione da parte della Corte d’Appello del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c..

5. Il motivo non è fondato La statuizione della Corte d’Appello censurata dalla ricorrente (e cioè che la stringata contestazione non rispondeva al canone di completezza della descrizione del comportamento che dava luogo alla sanzione espulsiva) è seguita dalla seguente affermazione “Tale rilievo – sebbene non possa condurre a pronuncia di inefficacia del licenziamento per genericità dei motivi, perchè la censura, contenuta nella memoria di costituzione in primo grado, rigettata dal giudicante, non è stata riproposta con l’atto di appello – riverbera i propri effetti sul campo di indagine dei fatti posti a fondamento del recesso datoriale che, in base al principio di immutabilità dei motivi di licenziamento disciplinare, che risponde alla medesima garanzia del diritto di difesa del lavoratore, non può estendersi oltre alla verifica della circostanza che le attività svolte dal sig. F. nei cinque giorni, e negli orari, indicati nella contestazione di addebito siano espressione, di per sè, di fraudolenta simulazione di malattia”.

Detta statuizione, dunque, posta in continuità logica giuridica con quella censurata, pone in evidenza che la Corte d’Appello ha dato rilievo alla contestazione non per rilevarne la mancanza di completezza, ma al fine di operare la valutazione degli elementi fattuali per verificare la sussistenza della giusta causa, nei limiti della stessa, senza, dunque, incorrere nei vizi dedotti.

La Corte d’Appello, quindi, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità sul rilievo disciplinare dello svolgimento dell’attività lavorativa durante la malattia, ha vagliato le attività svolte dal lavoratore “comunque contrastanti con l’infortunio da lei accusato, presso l’attività commerciale (OMISSIS)” (secondo la contestazione), risultanti dagli atti di causa, escludendo che potessero integrare giusta causa di licenziamento.

6. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione di norme di diritto, degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla statuizione “in presenza peraltro di uno stato di malattia accertato dall’INAIL che, in quanto cristallizzato in certificati che costituiscono atti pubblici, non poteva essere revocato in dubbio senza previo accertamento della falsità ideologica”.

La Corte d’Appello avrebbe confuso la questione di “falsità ideologica” del certificato medico attestante lo stato di malattia, con la condotta contestata e sanzionata, che invece rientrava nella violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi specifici contrattuali di diligenza e fedeltà, come emergeva dalla esaustiva e specifica contestazione disciplinare di aver svolto altra attività “pregiudicante” lo stato di infortunio e non anche “attività lavorativa” con conseguente legittimità del licenziamento irrogato.

La società datrice di lavoro ribadisce la esaustività e specificità della contestazione disciplinare, di aver svolto altra attività pregiudicante lo stato di infortunio e non anche attività lavorativa, come acclarato dalla sentenza di primo grado, con conseguente legittimità del licenziamento.

Dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia, la datrice di lavoro deduce che la mansione svolta costituiva il collegamento tra l’infortunio denunciato e il rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede, nonchè degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, posto che nel caso in esame, svolgendo il F. le mansioni di autista e non contestando la condotta di avere guidato l’auto con il braccio infortunato, trasportando pesi e carichi di grossa entità, il lavoratore aveva violato le citate norme.

L’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore, infatti, ha un contenuto più ampio di quello di cui all’art. 2105 c.c., dovendo integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro.

7. Il motivo non è fondato.

Come già osservato nella sentenza Cass., n. 24812 del 2016, nel puntualizzare i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, è ricorrente nella casistica giudiziaria la fattispecie del licenziamento per svolgimento di attività lavorativa in costanza di malattia.

7.1. Che nella specie le attività di cui si asseriva il contrasto con l’infortunio fossero state ricondotte dalla datrice di lavoro ad attività lavorativa, come qualificata la domanda dal Tribunale, si rileva dal dedotto (nella contestazione) svolgimento delle stesse presso l’attività commerciale “(OMISSIS)”.

Occorre, altresì, precisare che si evince dalla sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro (cfr., pag. 2 della sentenza di secondo grado), dal ricorso per cassazione (cfr., pag. 3 del ricorso, in cui si riporta il contenuto della sentenza del Tribunale), dal controricorso (cfr., pag. 2 del controricorso del lavoratore), e dalla memoria della società ricorrente (pag. 4, in cui si richiama la sentenza n. 24671 del 2016)” laddove è stata confermata la legittimità del licenziamento irrogato ad un lavoratore che assente da un’azienda in stato di malattia aveva lavorato in una pizzeria svolgendo attività inerente l’ordinazione dei pasti, il servizio, la stesura e la riscossione del conto. Insomma, un caso esattamente analogo a quello in esame, atteso che il controricorrente non contesta lo svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di infortunio e, comunque, provata dalla documentazione fotografica dell’investigatore privato”, che la sentenza di primo grado nel dichiarare la legittimità del licenziamento irrogato per giusta causa in ragione dello svolgimento di attività lavorativa durante la malattia, così qualificava la contestazione. Nè tale qualificazione risulta dal presente ricorso essere stata censurata dalla società, in via di eccezione, nel giudizio di secondo grado, che ha validato, sia pure pervenendo ad un diverso esito del giudizio, la medesima.

Ed infatti, la società, pur affermando che la contestazione disciplinare avrebbe riguardato lo svolgimento di altra attività pregiudicante lo stato di infortunio e non anche attività lavorativa (pag. 19 ricorso), non deduce, di avere contestato in appello la suddetta qualificazione della domanda fatta dal giudice di merito, riportando la eventuale relativa eccezione, per cui per tale profilo il motivo è inammissibile in ragione della novità della questione.

7.2. Tanto premesso, si osserva che nel caso di specie i principi che informano la valutazione, cui la Corte territoriale si è attenuta, sono consolidati: lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (v. ex plurimis Cass. n. 17625 del 2014, citata Cass., n. 24812 del 2016).

Inoltre, l’espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente (v. Cass., n. 16465 del 2015), con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il comportamento viene realizzato (citata Cass., n. 24812 del 2016).

7.3. La soluzione concreta delle singole controversie è però in effetti e di necessità condizionata dall’accertamento compiuto dai giudici di merito, a loro spettando sia la ricostruzione delle risultanze fattuali, sia la valutazione dell’incidenza dell’attività sulla malattia nei termini sopra indicati dalla giurisprudenza di legittimità richiamata, valutazione che, se congruamente motivata, è incensurabile in questa sede.

7.4. Nel caso in esame, la Corte d’Appello, con adeguata valutazione delle risultanze fattuali, in considerazione della quale il vaglio di legittimità si arresta, ha escluso una necessaria rilevanza disciplinare dello svolgimento di attività lavorativa durante la malattia e, passando ad esaminare le attività (“contrastanti con l’infortunio denunciato”, come affermato nella contestazione), svolte dal lavoratore nei giorni (OMISSIS), in ragione delle risultanze processuali, ha ritenuto che le stesse non fossero indicative di simulazione della malattia diagnosticata dai sanitari dell’INAIL (contusione a spalla e polso destro), e non integravano violazione di buona fede e correttezza e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, atteso che non evidenziano simulazione della malattia nè ne ritardavano la guarigione.

Nel fascicolo fotografico elaborato su domanda della Calabra Maceri e Servizi spa, dalla SE.FY. investigazioni private, su cui deponeva il teste Fi., risultavano come comportamenti suscettibili di assumere astrattamente rilievo ai fini della presente indagine: il F. alla guida di un auto, o che teneva in mano un sacchetto con la scritta “(OMISSIS)” riempita solo per 1/5 di materiale di natura sconosciuta, o intento a spostare qualche piccola piantina, o intento nell’abbassare la saracinesca dell’esercizio commerciale funzionante con dispositivo elettronico mediante l’inserimento di una chiave.

In ragione della diagnosi, tali condotte – la guida dell’automobile e il compimento di attività non particolarmente faticose come sopra indicate – non potevano ritenersi espressione di simulazione di malattia (peraltro non essendovi stata la prescrizione di particolari dispositivi o cure quali uso di tutori o immobilismo), mentre lo svolgimento dell’attività lavorativa del F., consistente nel guidare camion con l’obbligo di scarico delle merci da questo trasportate, era incompatibile con lo stato contusivo diagnosticato.

Le asserzioni del teste Fi., secondo cui il F. sarebbe stato visto spostare carichi pesanti e vasi con piante presso l’esercizio commerciale del figlio, oltre che contrastare con le fotografie, non avevano trovato conferma nelle deposizioni degli altri testi i quali si erano limitati a riferire della presenza del lavoratore presso il negozio, dove al più trattava con i clienti o semplicemente li accoglieva.

7.5. Pertanto, rilevava la Corte d’Appello non vi era incompatibilità tra le suddette attività e il recupero delle energie lavorative, che peraltro, non veniva contestata dalla datrice di lavoro con la missiva di avvio del procedimento disciplinare.

8. Il ricorso deve essere rigettato.

9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

10. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2017