Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 13-09-2018) 12-12-2018, n. 32201

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19287-2017 proposto da:

G.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 7, presso lo studio dell’avvocato MARIO PERONE, rappresentato e difeso da se medesimo;

– ricorrente –

contro

M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato VENERANDA NAZZARO;

– controricorrente –

contro

R.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 163/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Svolgimento del processo
che:

l’avv. Pietro G. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli M.R. e R.G. chiedendo declaratoria di inefficacia di trasferimento immobiliare. I convenuti furono dichiarati contumaci. Il Tribunale adito accolse la domanda. Avverso detta sentenza propose appello M.R.. Con sentenza di data 19 gennaio 2017 la Corte d’appello di Napoli accolse l’appello, dichiarando nulla la sentenza di primo grado e rimettendo la causa innanzi al Tribunale.

Osservò la corte territoriale che la notifica dell’atto di citazione di primo grado ai sensi dell’art. 140 c.p.c. nei confronti di M.R. era nulla perchè “la cartolina attestante l’avvenuta ricezione dell’atto di citazione (ancorchè per compiuta giacenza) non si appalesa completata in ordine alle modalità della mancata consegna del plico a domicilio (non risulta barrata infatti alcuna delle caselle all’uopo predisposte nella cartolina) e comunque nemmeno sottoscritta dall’addetto della notificazione”.

Ha proposto ricorso per cassazione l’avv. G.P. sulla base di un motivo e resiste con controricorso M.R.. Il relatore ha ravvisato un’ipotesi di manifesta fondatezza del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito. E’ stata presentata memoria.

Motivi della decisione
che:

con il motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 149 c.p.c.., della L. n. 890 del 1982, art. 8, ai sensi dell’art. 360c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che gli adempimenti menzionati dalla decisione impugnata sarebbero stati esigibili nella diversa ipotesi di notifica a mezzo del servizio postale disciplinata dal combinato disposto dell’artt. 149 c.p.c., e della L. n. 890 del 1982, art. 8 (peraltro puntualmente eseguiti in sede di notifica a mezzo posta nei confronti dell’altro convenuto G.R.), ma non nella notifica nelle forme di cui all’art. 140, come avvenuto nel caso di specie, la quale è del tutto regolare.

Il motivo è manifestamente fondato. Nella notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso l’ufficio comunale, che va allegato all’atto notificato, risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né, che, in definitiva, detto avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 27 febbraio 2012, n. 2959). Nella notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, I ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26864).

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/05/2018) 11/09/2018, n. 22075

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18449-2017 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VAL TELLINA 87, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA MASSI, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO CARAMITTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA BUENOS AIRES 5, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO GALLO, rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE DE GRAZIA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 639/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 26/05/2017, R. G. N. 257/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/05/2018 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato MARIO CARAMITTI;

udito l’Avvocato ANDREA SCAFA per delega verbale DAVIDE DE GRAZIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Firenze ha accolto il reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, proposto dall’Università degli Studi di Firenze avverso la sentenza del locale Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stata dichiarata la nullità del licenziamento intimato il 16 aprile 2015 a C.C. e l’Università era stata condannata a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso le retribuzioni maturate dalla data del recesso.

2. La Corte territoriale, respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame, ha premesso che al C. era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro il 30 ottobre 2014, in assenza di autorizzazione e senza attestare l’uscita nel sistema di rilevamento delle presenze. La circostanza era emersa nel corso di altro procedimento disciplinare, avviato in relazione a comportamenti analoghi, ed era stata compiutamente appresa il 7 gennaio 2015, in occasione dell’audizione del dipendente R., il quale aveva confermato quanto già riferito dal responsabile del servizio ed aveva collocato temporalmente l’episodio, fornendo tutti i particolari della vicenda. Il procedimento disciplinare era stato avviato il 22 gennaio 2015, quando ancora non era stato definito l’altro procedimento, all’esito del quale, solo il 9 febbraio 2015, era stata inflitta la sanzione della sospensione dal servizio per mesi 6 con privazione della retribuzione.

3. Il giudice del reclamo ha ritenuto provato il fatto contestato sulla base delle dichiarazioni rese dal collega di lavoro, il quale aveva escluso che l’allontanamento fosse giustificato dalla frequenza di un corso di formazione professionale ed aveva dichiarato che il C. gli aveva riferito di doversi recare in altro quartiere della città di Firenze per ragioni personali.

3. In punto di diritto la Corte fiorentina ha evidenziato che l’illecito doveva essere sussunto nella fattispecie tipizzata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), che si consuma anche nell’ipotesi in cui venga omessa la registrazione dell’uscita dal luogo di lavoro, perchè ciò determina un’attestazione non veritiera della presenza in servizio. Ha aggiunto che le fattispecie di licenziamento previste dal legislatore sono aggiuntive rispetto a quelle della contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Ha ritenuto, infine, che la gravità della condotta, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, emergeva dalle plurime sanzioni inflitte per comportamenti analoghi nell’anno 2014, alle quali aveva fatto seguito l’ulteriore sanzione della sospensione per 6 mesi, irrogata il 9 febbraio 2015 e divenuta definitiva per mancata impugnazione da parte del reclamato dell’omessa pronuncia sull’asserita illegittimità della sanzione stessa.

4. Il giudice del reclamo ha anche escluso l’eccepita tardività della contestazione, ritenuta invece dal Tribunale, ed ha evidenziato che, trattandosi di illecito astrattamente idoneo a giustificare il licenziamento, il termine per la contestazione era quello previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, e non quello di 20 giorni fissato dal comma 2 della stessa norma. Ha aggiunto che il dies a quo non poteva essere collocato al 19/12/2014, perchè il responsabile del servizio dott. A. non era stato in grado di precisare quando l’episodio si era verificato e i particolari della vicenda erano stati appresi in occasione delle dichiarazioni rese dal R. il 7 gennaio 2015. Prima di questa data l’UPD non poteva dare avvio al procedimento, non essendo in possesso degli estremi di fatto indispensabili per la contestazione dell’addebito.

5. Infine la Corte ha escluso di potere pronunciare sulle ulteriori questioni riproposte nella memoria di costituzione, perchè il reclamato avrebbe dovuto proporre impugnazione incidentale per censurare il capo della sentenza impugnata che aveva rigettato l’eccezione relativa alla carenza di potere del direttore generale e l’omessa pronuncia sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione inflitta il 9 febbraio 2015.

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.C. sulla base di 13 motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., ai quali l’Università degli Studi di Firenze ha resistito con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 58 e art. 342 c.p.c.” e, premessa l’applicabilità al reclamo delle norme del codice di rito che disciplinano i requisiti formali dell’atto di appello, rileva che nella fattispecie il gravame doveva essere dichiarato inammissibile, in quanto l’Università non aveva prospettato alcuna diversa ricostruzione dei fatti ed inoltre non aveva precisato ” punto per punto la rilevanza nel giudizio ai fini della decisione di quanto lamentato”.

1.2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, commi 2 e 4, in quanto, ai fini dell’individuazione del termine entro il quale la contestazione deve essere effettuata, rileva solo la sanzione astrattamente prevista per il comportamento ritenuto di rilevanza disciplinare, sicchè ove quest’ultima sia pari o inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per non più di 10 giorni, il termine è quello indicato nel 20 comma del richiamato art. 55 bis.. Nel caso di specie, pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare che ai sensi dell’art. 46, comma 3, lett. b) del CCNL per il personale del comparto Università, ove non venga contestata la recidiva, l’allontanamento arbitrario dal servizio è sanzionato con la sospensione non superiore a 10 giorni.

1.3. Con la terza critica il ricorrente si duole, sotto altro profilo, della violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis e rileva che, avuta notizia dell’illecito disciplinare, il datore di lavoro non può ritardare l’avvio del procedimento per svolgere atti istruttori inaudita altera parte. La contestazione, pertanto, andava effettuata entro 20 giorni dalla data di audizione del responsabile del servizio (19 dicembre 2014), il quale aveva riferito l’ulteriore episodio di ingiustificato allontanamento dal luogo di lavoro.

1.4. La violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, è dedotta anche con il quarto motivo, con il quale si sostiene che “il termine di 40 giorni per gli atti del procedimento disciplinare non può che intendersi per la sola attività endoprocessuale e non anche per la proposizione a pena di decadenza dell’azione disciplinare”, che va comunque avviata nei 20 giorni dall’acquisizione della notizia. Aggiunge il ricorrente che la questione era stata riproposta con la memoria difensiva, non essendo necessario il ricorso incidentale in quanto il Tribunale aveva ritenuto la tardività della contestazione, sia pure sotto altro profilo.

1.5. Con la quinta critica è dedotta la violazione dell’art. 45 del CCNL per il comparto università nella parte in cui prescrive che “la contestazione deve effettuarsi tempestivamente e comunque non oltre 20 giorni da quando l’ufficio competente è venuto a conoscenza del fatto”. Si sostiene che in caso di contrasto fra norme di legge e norme della contrattazione collettiva deve essere data prevalenza a quella più favorevole per il lavoratore.

1.6. Il sesto motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione della L. 30 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, e dell’art. 46, comma 5 lett. a del C.C.N.L.”. Rileva il ricorrente che, in caso di allontanamento dal servizio, il contratto collettivo consente il licenziamento con preavviso solo nell’ipotesi di recidiva, che, in quanto elemento costitutivo dell’infrazione, deve essere espressamente contestata. Il giudice del reclamo, pertanto, non poteva fondare il giudizio di proporzionalità sui precedenti disciplinari non richiamati nell’atto di avvio del procedimento.

1.7. Anche la settima censura addebita alla sentenza impugnata di avere violato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis e l’art. 45 comma 2 del CCNL per il personale del comparto università nel ritenere la legittimità del licenziamento in assenza di previa contestazione della recidiva, dalla quale, invece, non si poteva prescindere sulla base della disciplina dettata dalle parti collettive. Aggiunge il ricorrente che dall’omessa contestazione era derivata una grave lesione del suo diritto di difesa, perchè egli non era stato posto in condizione di replicare sulla rilevanza dei precedenti procedimenti disciplinari.

1.8. Con l’ottavo motivo C.C. insiste nel sostenere che non poteva essere inflitta la sanzione del licenziamento disciplinare perchè la contrattazione collettiva, all’art. 46, comma 5, la prevede solo in caso di recidiva, non valutabile nella fattispecie in quanto non contestata.

1.9. La nona censura denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. perchè la Corte territoriale, nel valorizzare i precedenti disciplinari del dipendente licenziato, aveva finito per attribuire rilievo alla recidiva, sebbene a ciò l’Università avesse espressamente rinunciato, non proponendo reclamo anche sotto questo profilo.

1.10. Con il decimo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c. e rileva che erroneamente il giudice d’appello ha ritenuto che si fosse formato giudicato sulla legittimità della sospensione dal servizio inflitta con il provvedimento disciplinare del 9 febbraio 2015. Premette che, una volta disposta la riunione dei ricorsi e applicato il rito speciale, il Tribunale, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, non poteva pronunciare sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione conservativa, sicchè il reclamo incidentale, qualora proposto per far valere l’omessa pronuncia, avrebbe comportato necessariamente la dichiarazione di inammissibilità della domanda stessa. Per dette assorbenti ragioni il giudice del reclamo non poteva valorizzare la precedente sanzione e ritenere integrata la recidiva, posto che sull’illegittimità della sospensione il reclamato aveva insistito anche in sede di appello.

1.11. L’undicesima censura addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 2734 c.c. perchè le dichiarazioni, ritenute confessorie, che il C. aveva reso, dovevano essere valutate nella loro completezza e unitarietà e, quindi, non poteva essere valorizzata solo l’ammissione relativa all’allontanamento dal servizio, dovendo tenersi conto anche di quanto affermato in merito alle ragioni dell’allontanamento, in realtà giustificato dalla volontà di partecipare al medesimo corso di formazione frequentato dal collega R.. Aggiunge il ricorrente che l’assenza non era stata determinata da motivi personali nè tantomeno dalla volontà di recarsi presso il Tribunale di Firenze, in quanto la stessa Università aveva riconosciuto che il C. era stato avvertito del rinvio dell’udienza dal suo difensore.

1.12. Con il dodicesimo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente si duole dell’interpretazione data, in violazione dell’art. 12 disp. gen., alle circolari n. 73415 del 5.12.2007 e n. 86800 del 23.12.2008 con le quali l’Università avrebbe esteso anche ai dipendenti impegnati in attività formative l’obbligo di timbrare il cartellino marcatempo in entrata e in uscita. Si sostiene che dette circolari in realtà non prevedono l’obbligo di timbratura e si aggiunge che la partecipazione a corsi di formazione professionale va equiparata alla presenza in servizio, in quanto finalizzata ad accrescere il bagaglio di conoscenze del dipendente.

1.13. Infine con il tredicesimo motivo è denunciata la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1 bis e del D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3 comma 1 e si sostiene che la Corte territoriale ha applicato retroattivamente la normativa sopravvenuta in corso di causa, destinata a disciplinare i soli illeciti verificatisi dopo l’entrata in vigore del decreto delegato. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte per sostenere che, contrariamente a quanto asserito dal giudice di merito, doveva essere esclusa la possibilità di un’applicazione retroattiva e che, comunque, il fatto andava valutato quanto alla gravità in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Dovevano, quindi, essere apprezzate le ragioni per le quali si era verificato l’allontanamento dal posto di lavoro e occorreva anche tener conto del fatto che le modalità della condotta non erano compatibili con un intento fraudolento, in quanto il C. aveva risposto alla chiamata telefonica del responsabile del servizio, era rimasto assente per meno di 2 ore, aveva ammesso di essersi allontanato pur potendo sostenere, ad esempio, di “essersi sentito male in una delle innumerevoli stanze dell’ufficio”.

2. Il primo motivo è inammissibile perchè formulato senza il necessario rispetto dell’onere di specificazione, imposto dall’art. 366 c.p.c..

Occorre premettere che, anche qualora il ricorrente prospetti un error in procedendo, rispetto al quale la Corte di cassazione è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito presuppone l’ammissibilità della censura ex art. 366 c.p.c., sicchè la parte non è dispensata dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, di indicare in modo egualmente specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti (fra le più recenti Cass. nn. 22880/2017, 2771/2017, 11738/2016).

Dal principio di diritto discende che, qualora il ricorrente censuri di erroneità la sentenza impugnata per non avere dichiarato l’inammissibilità dell’appello, le condizioni richieste dall’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6 potranno dirsi sussistenti solo qualora il motivo riporti negli esatti termini il contenuto del gravame e della sentenza di primo grado, indichi con chiarezza le ragioni per le quali l’appello doveva essere ritenuto inammissibile, precisi ed evidenzi le parti dell’impugnazione ritenute non idonee a confutare le argomentazioni addotte dal primo giudice e, quindi, prive del necessario requisito della specificità.

Non è sufficiente, ai fini dell’ammissibilità della censura, che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28.9.2016 n. 19048).

3. Il secondo, il sesto, il settimo, l’ottavo, ed il nono motivo possono essere trattati congiuntamente, perchè si fondano tutti sull’asserita applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva (art. 46 del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università che riproduce il codice disciplinare già introdotto dall’art. 45 del CCNL 27.1.2005), che sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l’abbandono ingiustificato del servizio (art. 46, comma 3, lett. a), prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione stessa possa essere elevata sino a sei mesi (art. 46, comma 4, lett. a).

I motivi sono infondati alla luce dell’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, nel testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, non solo il caso dell’alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l’allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio.” (Cass. 14.12.2016 n. 25750 e negli stessi termini Cass. n. 17637/2016, Cass. n. 24574/2016).

Con le richiamate pronunce, alle quali il Collegio intende dare continuità, si è osservato che “la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita “.

E’ stato evidenziato che utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1, che introducendo nell’art. 55 quater il comma 1 bis, ha precisato che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.

La disposizione è stata evidentemente introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicchè deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa, posto che il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico (Cass. n. 24574/2016).

3.1. Dalla ritenuta riconducibilità alla fattispecie legale dell’addebito contestato al ricorrente discende l’infondatezza di tutti i motivi che fanno leva sulla disciplina contrattuale, giacchè, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, quest’ultima è stata sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., dalla normativa di legge, che sulla stessa prevale D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55, comma 1, , nel testo applicabile ratione temporis.

Questa Corte ha già evidenziato che il legislatore, nell’introdurre fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi, non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma inderogabile di legge (Cass. n. 24574/2016).

Detti principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte territoriale a fondamento della decisione e vanno qui ribaditi, perchè il ricorso non prospetta argomenti che possano indurre a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale il Collegio intende dare continuità.

4. Una volta esclusa l’applicabilità della disciplina contrattuale e, quindi, che la recidiva debba essere elemento costitutivo dell’illecito, diviene irrilevante l’esame del decimo motivo, giacchè l’error in procedendo denunciato, anche se in ipotesi sussistente, non sarebbe comunque idoneo a giustificare la cassazione della sentenza, avendo la Corte territoriale richiamato a fondamento del giudizio espresso sulla gravità della condotta una pluralità di precedenti disciplinari e non la sola sanzione inflitta con lettera del 9 febbraio 2015.

5. Infondati sono anche il terzo, il quarto ed il quinto motivo, con i quali il C. insiste nel sostenere che la contestazione doveva essere ritenuta tardiva, perchè la notizia era stata appresa dall’ufficio per i procedimenti disciplinari il 19 dicembre 2014 e da detta data doveva decorrere il termine di venti giorni previsto per la contestazione dell’addebito dall’art. 45 del CCNL per il personale del comparto Università e, secondo il ricorrente, anche dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis.

Il quarto motivo prospetta un’interpretazione della norma di legge che si pone in evidente contrasto con il tenore letterale del 4 comma, nella parte in cui precisa che l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari “contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quella di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti…”.

La norma è chiara nel riferire il raddoppio a tutti i termini indicati nel comma richiamato e, quindi, non solo a quello fissato per la conclusione del procedimento, ma anche a quello imposto al fine di garantire la tempestività dell’iniziativa disciplinare.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, nel testo antecedente alla modifica recentemente attuata dal D.Lgs. n. 75 del 2017, riserva alla competenza del responsabile della struttura le sole sanzioni disciplinari superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, e prevede che in detta ipotesi il procedimento debba essere avviato entro venti giorni dall’acquisizione della notizia e concluso nei sessanta giorni successivi alla contestazione.

Qualora, invece, il procedimento stesso sia di competenza dell’UPD, in considerazione della maggiore complessità degli accertamenti, solitamente connessa alla diversa gravità dell’addebito, entrambi detti termini vengono raddoppiati, sicchè l’ufficio dovrà procedere alla contestazione entro quaranta giorni dalla data di ricezione degli atti o comunque da quella di acquisizione della notizia, e concludere poi il procedimento entro centoventi giorni che, però, in questo caso decorrono, non dalla contestazione, bensì dalla “data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”.

La sentenza impugnata è, quindi, fondata su un’interpretazione della normativa corretta e condivisibile, giacchè la Corte territoriale dalla ritenuta riconducibilità della fattispecie all’ipotesi sanzionatoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater ha fatto discendere l’applicabilità dei termini stabiliti dal 4 comma dell’art. 55 bis.

5.1. Non può essere invocato il diverso termine previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL 16.10.2008, giacchè anche in relazione alla disciplina del procedimento valgono i principi enunciati al punto 3.1. La normativa inderogabile di legge prevale, infatti, su quella contrattuale, alla quale si sostituisce automaticamente ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., richiamati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1.

5.2. Il termine di quaranta giorni previsto per la contestazione risulta nella specie rispettato, sia se si assume quale dies a quo la data di audizione del responsabile del servizio dott. A. (19.12.2014), sia se lo si fa decorrere dal 7 gennaio 2015, ossia dal momento in cui il dipendenti R. aveva circostanziato l’episodio, indicando il giorno in cui si era verificato l’illegittimo abbandono del servizio.

A fini di completezza osserva il Collegio che correttamente la Corte territoriale ha escluso che il termine potesse decorrere dalla prima della seconda audizione, giacchè “ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione…” (Cass. n. 7134/2017 e negli stessi termini Cass. n. 25379/2017 e Cass. n. 6989/2018).

Il principio, sebbene affermato in relazione al termine per la conclusione del procedimento, è applicabile anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione, poichè quest’ultima può essere ritenuta tardiva solo qualora l’amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio. Il termine, invece, non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito.

6. L’undicesima e la tredicesima censura, pur denunciando la violazione di norme di legge (art. 2734 c.c., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1 bis), si risolvono per lo più in una critica all’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale e sono, quindi, inammissibili.

E’ utile rammentare al riguardo che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110).

Nel caso di specie il ricorrente con entrambi i motivi torna a prospettare la tesi difensiva, ritenuta non fondata dal giudice del reclamo, secondo la quale l’allontanamento non sarebbe stato ingiustificato ed arbitrario, perchè finalizzato a consentire la partecipazione ad un corso di formazione. Le giustificazioni fornite dal C. sono state valutate dalla Corte fiorentina, che le ha disattese attribuendo rilievo alla deposizione del teste R. (pag. 4 della motivazione), sicchè la censura si risolve in un’inammissibile sollecitazione di un diverso giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

6.1. Il tredicesimo motivo, poi, è infondato nella parte in cui addebita alla sentenza impugnata di avere applicato retroattivamente il D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1, poichè, come già evidenziato al punto 3, la disposizione non ha portata innovativa in quanto anche il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico.

6.2. Infine non risponde al vero che la Corte territoriale non abbia valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi.

Si deve qui ribadire che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perchè della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali. Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost. Cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).

E’ stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che ” la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.” (Cass. n. 18326/2016).

Nel caso di specie la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, la fondatezza delle giustificazioni fornite dal C., ha anche evidenziato che l’addebito contestato, per la sua gravità, era idoneo ad integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche perchè la condotta del lavoratore appariva “costellata negli anni di violazioni delle regole relative alla presenza in servizio e alla sua attestazione”.

La pronuncia risulta, pertanto, rispettosa del principio di diritto sopra enunciato.

7. Il dodicesimo motivo è inammissibile, innanzitutto perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4..

Il ricorrente si duole, infatti, dell’interpretazione data dalla Corte territoriale alle circolari n. 73415 del 5.12.2007 e n. 86800 del 23.12.2008, delle quali non riporta nel ricorso il contenuto ed in relazione alle quali non fornisce indicazione alcuna circa le modalità della produzione nel giudizio di merito.

Il motivo, poi, non indica i criteri di ermeneutica contrattuale che il giudice del merito avrebbe violato nel ritenere che con le anzidette circolari fosse stato imposto al dipendente di registrare l’uscita anche in caso di partecipazione ad attività formativa.

In merito occorre evidenziare che nell’impiego pubblico contrattualizzato le circolari con le quali il datore di lavoro disciplina unilateralmente aspetti del rapporto non hanno natura di atti normativi, sicchè la loro interpretazione va condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg., applicabili anche agli atti unilaterali ex art. 1324 c.c.. Detta interpretazione è censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei richiamati canoni legali ed a condizione che il ricorrente, oltre a fare esplicito riferimento alle regole ermeneutiche in ipotesi violate, precisi anche in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (cfr. fra le tante Cass. n. 27136/2017).

8. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per competenze professionali ed Euro200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 15-05-2018) 11-09-2018, n. 22000

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15938-2017 proposto da:

E.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO n.36/B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato PIERO PETROCCHI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FIRENZE, C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati DEBORA PACINI, e ANDREA SANSONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4340/2016 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 19/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/5/2018 dal Consigliere Dott. ALDO CARRATO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Giudice di pace di Firenze, con sentenza n. 3669/2012, dichiarava l’inammissibilità dell’opposizione – per sua ritenuta tardività – proposta ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 dal sig. E.P., cittadino tedesco residente in (OMISSIS), avverso un verbale di accertamento per la contestata violazione dell’art. 7 c.d.s. (transito in ZTL senza la necessaria autorizzazione).

Sull’appello formulato dal soccombente ricorrente in primo grado e nella costituzione dell’appellato Comune di Firenze, il Tribunale del capoluogo toscano, con sentenza n. 4340/2016, respingeva il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado.

A sostegno della adottata decisione il Tribunale fiorentino ravvisava l’infondatezza dell’appello sul presupposto che, nella fattispecie, l’eseguita notificazione del verbale di accertamento opposto non poteva qualificarsi come inesistente siccome compiuta nel rispetto del regolamento CE n. 1393/2007 ed effettuata ritualmente dal predetto Comune che si era avvalso della società EMO, la quale aveva agito per conto del servizio postale gestito da Poste Italiane al solo fine di curare l’attività di materiale consegna del verbale impugnato per la notifica a mezzo posta.

Avverso l’indicata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il predetto appellante soccombente, articolato in quattro complessi motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato Comune di Firenze.

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la supposta falsa applicazione del Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio e la mancata applicazione della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 (alla stregua della quale doveva essere notificato, nel caso di specie, l’opposto verbale di accertamento), la cui violazione, per la materia degli atti amministrativi all’estero, avrebbe dovuto comportare l’inesistenza della notificazione per come eseguita, nello specifico, dal Comune di Firenze.

Con il secondo motivo il ricorrente – sempre con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 15 dello stesso Regolamento CE n. 1393/2007, sul presupposto che – sensi delle citate disposizioni normative e pur nella denegata ipotesi di ravvisata applicabilità di tale Regolamento comunitario – solo gli Stati membri avrebbero potuto avvalersi del servizio postale per effettuare le notificazioni secondo le previste modalità e non anche i privati o gli enti pubblici periferici dotati di autonomia privata, come i Comuni.

Con il terzo motivo il ricorrente ha prospettato – sempre con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione e falsa applicazione dell’art. 201 C.d.S. 1992 e dell’art. 10 Cost., comma 1, asserendo che, nella fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale di Firenze, avrebbe dovuto trovare diretta applicazione l’art. 11 della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 per le notifiche all’estero in luogo della disposizione di cui al citato art. 201 C.d.S..

Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – l’omesso esame dell’attività notificatoria della Nivi Credit s.r.l. ed il conseguente mancato rilievo dell’illegittimità della stessa siccome non dotata di alcun potere di notifica, nemmeno ai sensi del suddetto Regolamento CE n. 1392/2007.

Si è costituito con controricorso il Comune di Firenze, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Su proposta del relatore, il quale rilevava che tutti i motivi formulati con il ricorso potesse essere ritenuti inammissibili o, in via subordinata, manifestamente infondati in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio, in prossimità della quale i difensori di entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Rileva il collegio che i primi tre motivi – esaminabili congiuntamente siccome tra loro strettamente connessi – sono infondati, nel mentre l’ultimo si prospetta inammissibile (e comunque, privo di fondamento). Come evincibile dal coacervo delle prime tre censure la difesa della parte ricorrente ha propriamente contestato che, nella fattispecie, ai fini della notificazione del verbale di accertamento originariamente opposto, sarebbe stato necessario – allo scopo di ravvisare la ritualità ed effettiva validità dell’inerente attività notificatoria – far luogo all’applicazione della disciplina (prevista specificamente per la materia degli atti amministrativi) di cui alla Convenzione di Strasburgo 24 novembre 1997 e non di quella contemplata dal Regolamento CE n. 1393/2007 (invece ritenuta legittimamente osservata dal giudice di appello), che – ove fosse stata ritenuta eventualmente applicabile -avrebbe dovuto riferirsi soltanto alle notificazioni di atti intercorrenti tra gli Stati membri, con conseguente inapplicabilità, in ogni caso, delle modalità stabilite dall’art. 201 C.d.S. 1992.

Orbene, confutando le ragioni dell’appello prospettate dall’attuale ricorrente, il Tribunale di Firenze ha – convincentemente e legittimamente escluso – sulla scorta dei pregressi arresti della giurisprudenza di questa Corte (dai quali non si ha motivo per discostarsi) – escluso la sussistenza delle dedotte violazioni, reiterate con i primi tre motivi del ricorso nella presente sede di legittimità.

Infatti, il giudice di appello ha correttamente ritenuto che, nel caso di specie, fosse stata validamente applicata la disciplina delle notificazioni così come prevista dal Regolamento CE n. 1393/2007.

A tal proposito si evidenzia che – come già rimarcato con la sentenza di questa Corte n. 11140/2015 – il Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di “notificazione o comunicazione degli atti”, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio, applicabile alla fattispecie, prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente. Va, poi, precisato che il successivo art. 16 prevede, altresì, che “gli atti extragiudiziali possono essere trasmessi ai fini della notificazione o della comunicazione in un altro Stato membro, a norma delle disposizioni del presente regolamento”: da qui – secondo la pregressa condivisa giurisprudenza di questa Corte – deriva la sostanziale estensione delle norme relative agli altri atti, oggetto delle precedenti previsioni, tra cui appunto l’art. 14.

E’ stato, poi, aggiunto che in virtù del criterio di semplificazione e, soprattutto, di quello di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli membri dell’Unione, che ispira ormai da tempo più che apprezzabile la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi “considerando” al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vinificazione: infatti, il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri. Almeno in quest’ambito, deve allora considerarsi sufficiente – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente – la cura con cui normalmente si esplica quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’efficace tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto.

Da tutto ciò consegue che non è allora possibile condizionare la validità della notifica o comunicazione a mezzo posta, collegata dalla nonna comunitaria alla semplice modalità della lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, ad un ulteriore requisito, quale l’applicazione, all’estero, di modalità previste da peculiari leggi nazionali in materia di notifiche a mezzo posta: tanto comporterebbe, in sostanza, un non consentito svuotamento della chiara ed univoca facoltà alternativa concessa dall’art. 14 del Regolamento. Andranno, ovviamente, osservate solo le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

Correttamente, pertanto, nella specie il Comune di Firenze – in applicazione del Regolamento CE n. 1393/2007 (che si estende sia agli atti giudiziari e che a quelli amministrativi) ha proceduto a notificare ritualmente, a mezzo posta, con le modalità previste dall’art. 201 C.d.S., il verbale di accertamento della violazione amministrativa elevato a carico del ricorrente (cfr. anche Cass. n. 10543/2015), con ciò rimanendo escluse le violazioni dallo stesso dedotte con i primi tre motivi (rimanendo inapplicabile, nella fattispecie, la precedente Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977).

A tal proposito deve aggiungersi che non può aver seguito – e, quindi, va ritenuta infondata – anche l’ulteriore deduzione specificamente prospettata con la seconda censura, per effetto della quale, tutt’al più (secondo la parte ricorrente), la disciplina notificatoria contemplata dal citato Regolamento CE n. 1393/2007 (agli artt. 14 e 15) andrebbe limitata, quanto al suo ambito di applicabilità, ai soli rapporti tra gli Stati membri firmatari.

Come altrettanto legittimamente rilevato dal Tribunale fiorentino siffatta interpretazione risulterebbe illogicamente riduttiva della portata del complesso disposto normativo in questione, essendo conforme alla condivisa dottrina assolutamente prevalente l’affermazione per cui, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00 che all’art. 14 Reg. CE 1393/07, deve ritenersi che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di… ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti e legittimati in ciascuno degli Stati membri ad eseguire le attività notificatorie (v. la già citata Cass. n. 10543/2015), che, nel caso di specie, sono state realizzate legittimamente ai sensi dell’art. 201 C.d.S., il cui comma 3 consente di provvedervi anche a mezzo posta secondo, appunto, le norme sulle notificazioni mediante il servizio postale.

Anche l’ultimo motivo denunciato nell’interesse della ricorrente è privo di pregio sul piano giuridico.

Infatti, il giudice di appello non solo non ha affatto omesso di esaminare la ragione del gravame circa la supposta illegittimità della notificazione compiuta a mezzo posta sull’asserito presupposto che fosse stata eseguita da un mero soggetto privato (la EMO), ma ha risolto correttamente la relativa questione giuridica.

Sul punto si è, invero, conformato alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 7177/2012 e Cass. n. 462/2017), ad avviso della quale, in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, la notifica del verbale di accertamento, ai sensi dell’art. 385, comma 3, del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada avviene mediante invio al destinatario di uno degli originali o di copia autenticata a cura del responsabile dell’ufficio o comando, o da un suo delegato, potendo, tuttavia, essere validamente affidate a soggetti terzi, anche privati, le attività intermedie di natura materiale, relative all’imbustamento ed alla consegna dei plichi al servizio postale. E sulla base di tale principio il Tribunale fiorentino ha accertato la legittimità della notificazione avvenuta a mezzo posta in relazione alla quale la EMO si era limitata a svolgere una mera attività ausiliaria materiale (esecutiva e di semplice postalizzazione), come tale non incidente sull’attività essenziale propriamente notificatoria.

Alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte il ricorso deve, dunque, essere integralmente rigettato, con conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 1, comma 17, della legge n. 228/2012, che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente Comune di Firenze, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidati in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-2 Sezione civile della Corte di cassazione, il 15 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 29/09/2017) 29/08/2018, n. 21290

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24625/2010 proposto da:

EQUITALIA ETR SPA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NOMENTANA 403 B/2, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA FIORINI, rappresentata e difesa dall’avvocato IVANA CARSO;

– ricorrente –

contro

ELEMENTI PREFABBRICATI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DEL VIGNOLA 5, presso lo studio dell’avvocato LIVIA RANUZZI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI QUERCIA;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 23/2010 della COMM. TRIB. REG. di BARI, depositata il 01/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/09/2017 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

Svolgimento del processo
che, con la sentenza n. 23/9/10, la Commissione Tributaria Regionale della Puglia ha confermato la pronuncia n. 46/15/2009 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari con cui era stato accolto il ricorso proposto dalla Società Elementi Prefabbricati srl avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS), notificata prima dell’1.6.2008, con la quale il Concessionario E. TR spa aveva intimato il pagamento di Euro 165.483,13, comprensiva di interessi e sanzioni, a titolo di recupero somme dovute a seguito di condono L. n. 289 del 2008, ex art. 9 (anno di imposta 2003), e a titolo di IRPEF, ritenute ed accessori su redditi di lavoro dipendente, IRAP e IVA, a seguito della liquidazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, delle dichiarazioni e modello unico anno 2005;

che, avverso tale decisione, ha proposto ricorso per cassazione l’Equitalia ETR spa affidato a cinque motivi;

che la Società Elementi Prefabbricati srl ha resistito con controricorso; che l’Agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva;

che il PG non ha formulato richieste.

Motivi della decisione
che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter, conv. in L. n. 31 del 2008 e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente la CTR ritenuto la sovrapponibilità dei vizi della mancata sottoscrizione della cartella con quello della omessa indicazione del nominativo del responsabile del procedimento, quando invece si trattava di due problematiche diverse risolte in modo differente dalla giurisprudenza di legittimità; 2) la violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2, lett. a), D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 e del D.M. 28 giugno 1999, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere erroneamente la CTR considerato necessaria la sottoscrizione della cartella quando, invece, il modello ministeriale non prevede la sottoscrizione dell’esattore, essendo sufficiente la intestazione per verificarne la provenienza e gli altri requisiti; 3) la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, convertito in L. n. 31 del 2008, L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè, diversamente da quanto affermato dai giudici di secondo grado, la mancata indicazione del responsabile del procedimento non integrava (secondo la disciplina previgente alla L. n. 31 del 2008, citato art. 36, comma 4 ter) un vizio invalidante della cartella perchè, in tale ipotesi, il responsabile andava individuato nel dirigente dell’unità organizzativa preposta al procedimento e, giammai, la omissione avrebbe determinato, sotto il profilo sanzionatorio, la comminatoria di annullamento; 4) la nullità della sentenza emessa in violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sull’eccezione proposta da Equitalia circa l’applicabilità del disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; 5) la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, D.M. 28 giugno 1999 e della L. n. 212 del 2000, art. 7. comma 2, lett. a), in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, cpc, per non essere stato ritenuto dalla CTR che la cartella di pagamento, redatta conformemente al modello approvato con D.M. 28 giugno 1999, in base all’art. 25 citato, non prevedeva nè la sottoscrizione, nè l’indicazione del responsabile del procedimento nè, infine, la sanzione di annullamento in ipotesi di omissione di detti requisiti;

che i motivi sono fondati;

che, effettivamente, in relazione alla cartella di pagamento opposta, notificata anteriormente al 1 giugno 2008, la CTR ha valutato in modo congiunto due questioni (quella relativa alla omessa sottoscrizione della cartella e quella concernente l’assenza di indicazione del responsabile del procedimento) la cui trattazione, invece, richiedeva un esame specifico dei relativi vizi;

che, quanto alla doglianza relativa alla omessa sottoscrizione della cartella (motivi 2 e 5), deve richiamarsi il principio di legittimità secondo cui, in tema di riscossione delle imposte, la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacchè l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge, mentre, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, la cartella va predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore ma solo la sua intestazione (cfr. Cass. 30.12.2015 n. 26053; Cass. 27.7.2012 n. 13461);

che, con riferimento alle censure concernenti la mancata indicazione del responsabile del procedimento (motivi 1 e 3), la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere che la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter (convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31) ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data, norma ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 58 del 28.1.2009 (Cass. 31.5.2013 n. 13747; Cass. 15.2.2013 n. 3754; Cass. 21.3.2012 n. 4516);

che la CTR, nel caso di specie, con la impugnata sentenza non si è attenuta ai suddetti principi, cui in questa sede si intende dare seguito, e ha omesso di pronunziarsi sulla eccezione sollevata da Equitalia ETR spa (motivo 4 del presente ricorso) in ordine alla applicabilità del disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies;

che, pertanto, la sentenza va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, che procederà a nuovo esame attenendosi ai principi sopra indicati e provvedendo, altresì, anche alla determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 29 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2018


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 17-05-2018) 27-07-2018, n. 19958

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25810/2011 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

C.P.E., rappresentata e difesa dagli avv. Emanuele Coglitore e Luigi Manzi, elettivamente domiciliata presso il secondo in Roma alla via Confalonieri n.5;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 76/36/10 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione 36, del 10/5/2010, depositata il 23/7/2010 e non notificata;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 maggio 2018 dal Consigliere Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
CHE:

1. l’Agenzia delle Entrate ricorre con due motivi contro C.P.E. per la cassazione della sentenza n. 76/36/10 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione 36, del 10/5/2010, depositata il 23/7/2010 e non notificata, che ha rigettato l’appello dell’Ufficio, in controversia concernente l’impugnativa della cartella di pagamento per IRPEF ed ILOR dell’anno 1995, oltre interessi e sanzioni;

2. con la sentenza impugnata, la C.T.R. della Lombardia confermava la sentenza di primo grado, ritenendo che la cartella di pagamento fosse nulla, perché emessa a seguito di avviso di accertamento che non risultava ritualmente notificato;

in ordine alla notifica dell’avviso di accertamento, quale atto prodromico rispetto alla cartella di pagamento, riteneva la C.T.R. che l’Ufficio avesse depositato “un atto recante una incompleta relata di notifica, dalla quale non risultano in alcun modo compiute le formalità imposte dalla legge processuale nel caso di notifica ex art. 140 c.p.c.”;

3. a seguito del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la contribuente si costituisce, resistendo con controricorso;

4. il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 17 maggio 2018, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Motivi della decisione
CHE:

1.1. preliminarmente va affrontata la questione relativa alla nullità dell’intero giudizio per la violazione del litisconsorzio necessario nei confronti del coniuge (non evocato in giudizio), eccepita dalla controricorrente per la prima volta in questa sede, ma rilevabile anche d’ufficio, ove sussistente;

in caso di dichiarazione congiunta dei coniugi si è detto che la “moglie codichiarante è legittimata ad impugnare autonomamente l’avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di quest’ultimo (anche per intervenuto giudicato), proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento, atteso che, pur non essendo necessario, affinché ne insorga la responsabilità, che le sia notificato l’avviso di accertamento, il suo diritto di difesa non può essere pregiudicato ed, in virtù della regola generale di cui all’art. 1306 c.c., il giudicato intervenuto tra l’Amministrazione finanziaria ed uno dei debitori solidali non ha effetto contro l’altro debitore solidale” (Cass. ord. n. 462/18; cfr. anche Sez. 5, Sentenza n. 23553 del 18/11/2015, Rv. 637429 – 01);

non vi è, quindi, ab origine una situazione di litisconsorzio necessario tra i coniugi, che, in quanto coobbligati solidali nei confronti del fisco, hanno singolarmente la legittimazione ad agire per la contestazione della pretesa tributaria;

inoltre, si è anche chiarito che il giudizio “si riferisce a soggetti diversi ed a rapporti tributari che, seppur distinti, e pertanto concettualmente non indissolubili, sono coinvolti in un titolo impositivo unico… Ne discende che, tra le cause concernenti i diversi contribuenti va riscontrato quel vincolo di collegamento determinato dalla dipendenza di comune fattore, che, in presenza di “simulaneus processus” nel pregresso grado del giudizio, comporta, in applicazione della previsione dell’art. 331 c.p.c., l’obbligo dell’integrazione del contraddittorio nel giudizio di impugnazione” (Cass. sent. n. 1225/07);

dai principi sopra richiamati, si evince che, nel caso di dichiarazione congiunta, si determina tra i coniugi una situazione di litisconsorzio processuale necessario nei giudizi di impugnazione, solo nel caso in cui l’atto impositivo sia stato impugnato congiuntamente da entrambi;

nel caso di specie, in cui la sig. C. ha proposto un’autonoma impugnativa avverso gli atti di accertamento tributario, non si ravvisa neanche una violazione del litisconsorzio processuale;

1.2. passando all’esame del primo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) e dell’art. 140 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ordine all’individuazione dei presupposti per il ricorso all’una o all’altra modalità di notifica;

secondo la ricorrente, il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere necessario il ricorso alla notifica nelle modalità di cui all’art. 140 c.p.c., previste in caso di temporanea assenza del destinatario, in quanto la notifica dell’atto impositivo era stata correttamente eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e);

con il secondo motivo, la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, perché il giudice di appello non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per le quali non ha tenuto conto degli accertamenti effettuati dal messo notificatore, come risultanti dalle attestazioni apposte sull’avviso di accertamento;

1.3. i motivi sono connessi e vanno esaminati congiuntamente, sono fondati e vanno accolti;

ed invero, “in tema di notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, la notificazione deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. solo quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) quando il messo notificatore non reperisca il contribuente, che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto. Con riferimento alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento delle ricerche, va evidenziato che nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute né con quali espressioni verbali ed in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purché emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame” (Cass. sent n. 20425/07);

secondo la Corte, quindi, la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e) quando il notificatore non reperisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale (cfr. Cass. n. 6788/2017);

la questione assume particolare rilievo in relazione alla circostanza che, per le ipotesi di c.d. irreperibilità relativa, la notifica si perfeziona con il compimento delle attività stabilite dall’art. 140 c.p.c., occorrendo, oltre al deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve eseguirsi ed all’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione o ufficio o azienda del destinatario, anche la comunicazione con raccomandata A.R. dell’avvenuto deposito nella casa comunale dell’atto e il ricevimento della raccomandata informativa, ovvero il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione della detta raccomandata;

per converso, alle ipotesi di c.d. irreperibilità assoluta, relative al trasferimento del contribuente in comune diverso da quello in cui il contribuente aveva il domicilio fiscale, la medesima disposizione sopra ricordata richiede, accanto al deposito dell’atto nella casa comunale, l’affissione dell’avviso nell’albo e il decorso del termine di otto giorni dalla data di affissione;

questa Corte, affrontando il tema delle modalità che il messo notificatore o ufficiale giudiziario devono seguire per attivare in modo rituale il meccanismo notificatorio di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) in caso di irreperibilità assoluta, ha ritenuto che il messo notificatore, prima di procedere alla notifica, deve effettuare nel Comune del domicilio fiscale del contribuente le ricerche volte a verificare la sussistenza dei presupposti per operare la scelta, tra le due citate possibili opzioni, del procedimento notificatorio, onde accertare che il mancato rinvenimento del destinatario dell’atto sia dovuto ad irreperibilità relativa ovvero ad irreperibilità assoluta in quanto nel Comune, già sede del domicilio fiscale, il contribuente non ha più né abitazione, né ufficio o azienda e, quindi, mancano dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto (Cass. n. 6911/2017, Cass. n. 4502/201);

con riferimento alla previa acquisizione di notizie, e/o al previo espletamento delle ricerche, va evidenziato che “nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute, né con quali espressioni verbali ed in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purché emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame (cfr. Cass. sent n. 20425/07 citata);

a tali principi non si è conformato il giudice di appello, che non ha adeguatamente spiegato le ragioni per le quali non ha tenuto conto degli accertamenti effettuati dal messo notificatore (le informazioni raccolte dal custode dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale del contribuente circa il trasferimento di quest’ultimo in una località non nota e le indagini anagrafiche, dalle quali non risultava il trasferimento in altro indirizzo del comune), al fine di verificare la correttezza del ricorso alla notifica di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e);

in particolare, le attestazioni del pubblico ufficiale apposte sull’avviso di accertamento, costituiscono atto pubblico ai sensi degli artt. 2699 c.c. e ss. e fanno piena prova (fino a querela di falso) della ricezione delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza;

tale prova non è inficiata dai certificati anagrafici che, attestando formalmente la persistente residenza in loco del destinatario della notifica, palesano solo la divergenza tra i formali dati anagrafici e quanto constato in loco ed in punto di fatto dal pubblico ufficiale;

1.4. sulla base di tali considerazioni, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, per l’esame delle ulteriori questioni di merito oggetto dell’impugnativa della contribuente ed anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 08-03-2018) 04-07-2018, n. 17514

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2754-2017 proposto da:

N.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’ avvocato MARIANO BRUNO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CLP SVILUPPO INDUSTRIALE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI N.13, presso lo studio dell’avvocato ALDO FERRARI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO MUTARELLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2213/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/07/2016 r.g.n. 201/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2018 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso il rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato FABRIZIO DE MARSI per delega Avvocato BRUNO MARIANO;

udito l’Avvocato MATTEO MARIA MUTARELLI, per delega Avvocato FRANCESCO MUTARELLI.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’11.7.2016 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede che ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato a N.G., dipendente della società CLP Sviluppo Industriale s.p.a. con mansioni di autista di pullman riservati al noleggio privato, per aver svolto altra attività di lavoro, nella specie direzione delle operazioni di parcheggio (con coordinamento del personale ivi addetto e riscossione dei pagamenti da parte dei clienti) nell’area privata di sosta (OMISSIS), durante i lunghi periodi di assenza per malattia (oltre 100 giorni nel periodo marzo-luglio 2013) e per infortunio in itinere (dal 7.8. al 14.10.2013), per giunta senza l’adozione delle prescrizioni imposte dal medico curante (collare cervicale) e per numerose ore consecutive.

2. La Corte territoriale, ritenuto pacifica l’adibizione del N. al settore del noleggio privato, ha preliminarmente ritenuto il procedimento di intimazione della sanzione rispettoso della procedura dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, non potendosi applicare il R.D. n. 148 del 1931 riservato al settore dei trasporti pubblici, e, nel merito, ha ritenuto sorretto da giusta causa il provvedimento espulsivo, proporzionato alla grave condotta di mala fede e di slealtà tenuta dal lavoratore che aveva adottato – durante il periodo di assenza per malattia e per infortunio – un comportamento incompatibile con lo stato morboso rivelatosi, di fatto, insussistente e, comunque, un comportamento tale da compromettere e ritardare (in considerazione delle circostanze soggettive ed oggettive in cui l’attività si era svolta) il recupero della forma fisica e delle energie necessarie.

3. Il N. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi. La società ha depositato controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931 e della L. n. 1054 del 1960, artt. 1 – 4, (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il R.D. n 148 del 1931, in quanto integrato e modificato dalla L. n. 1054 del 1960, si applica altresì al settore del noleggio privato con conseguente esclusione del potere di licenziare per casi di simulazione di malattia, necessità di preventiva istruttoria ed accesso agli atti nonchè deliberazione del Consiglio di disciplina al fine di irrogare validamente una sanzione. La circostanza, inoltre, dell’adibizione del N. al settore del noleggio privato era citata “velatamente” nel ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società e, pertanto, non poteva ritenersi allegazione specifica tale da richiedere una contestazione da parte del lavoratore.

2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c. nonchè error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5) non avendo, la Corte, adeguatamente valutato la scarsa gravità della condotta tenuta dal lavoratore che si è limitato a dirigere altri addetti ai lavori (di parcheggio delle autovetture) e ad omettere l’uso del collare cervicale, senza che sia stata acquisita prova medica ed inconfutabile del peggioramento dello stato di salute. La Corte territoriale non ha tenuto conto di tutte le circostanze nelle quali i fatti sono stati commessi e, soprattutto, ha erroneamente valutato il grado e l’intensità dell’elemento intenzionale nonchè la proporzionalità senza giungere ad un accertamento inequivocabile della reale lesione dell’elemento fiduciario.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, L. n. 300 del 1970, art. 7, R.D. n. 148 del 1931 nonchè error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5) non avendo, la Corte territoriale nonchè il Tribunale in primo grado, effettuato una compiuta analisi della condotta inadempiente con riguardo alle mansioni assegnate al lavoratore. Il N., addetto alla guida di mezzi privati e pubblici, aveva usufruito di giorni di malattia per un diagnosticato “trauma cranico e stato confusionale transitorio, cervicalgia da contraccolpo” riportati a seguito di un incidente stradale e in tali giorni non si è posto nuovamente alla guida di automezzi nè ha esercitato una vera e propria attività lavorativa, limitandosi semplicemente ad impartire direttive ai dipendenti di un parcheggio di auto appartenente all’azienda di famiglia, attività che non richiedeva alcun dispendio di energie nè arrecava repentaglio allo stato di salute (circostanza, in ogni caso, che doveva essere accertata tramite una consulenza medica).

4. Il primo motivo di ricorso è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.

Inammissibile ove, rilevando la generica allegazione – da parte della società – delle mansioni disimpegnate dal N., viola il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (o un estratto significativo) del ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società stessa, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726). La carenza si evince vieppiù chiaramente a fronte del tenore testuale della sentenza impugnata che ha rilevato come “nonostante l’eccezione formulata specificamente sul punto (adibizione del N. al settore del noleggio privato piuttosto che al servizio di trasporto pubblico) dalla CLP già in primo grado, nulla la difesa dell’appellante ha articolato o provato sul punto” (pag. 4 della sentenza).

Il ricorso è, inoltre, infondato posto che la L. 22 settembre 1960, n. 1054 – come tutte le altre novelle normative successive al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata – ha esteso la disciplina dettata dal R.D. n. 148 del 1931 al personale adibito a pubblici servizi di linea (esercitati direttamente da enti pubblici, ovvero dati in concessione), nel caso di specie di linea extraurbana, come si evince chiaramente dal tenore testuale e dalla lettura sistematica degli strumenti normativi in oggetto. La disciplina richiamata dal ricorrente si pone, anzi, nel segno contrario rispetto a quello prospettato dal ricorrente avendo previsto per le aziende di modeste dimensioni al di sotto dei 26 dipendenti, l’operatività, in materia disciplinare degli autoferrotranvieri, del regime privatistico, dimostrando chiaramente la tendenza, sempre più accentuata con gli interventi legislativi successivi a quello evocato dal ricorrente, di avvicinare la regolamentazione degli autoferrotranvieri al regime privatistico, tendenza che questa Corte, con autorevoli interventi, non ha mancato di sottolineare ed avallare ove si sia riscontrata la necessità di integrare o sostituire i singoli istituti dettati dal Regio decreto in quanto incompatibili con il sistema in generale, “tenuto conto del progressivo avvicinamento del sistema dei trasporti pubblici e del relativo rapporto di lavoro al regime privatistico, della contrattualizzazione del pubblico impiego e, soprattutto, dell’immanenza nel nostro ordinamento giuridico, con riferimento al rapporto di lavoro, di principi fondamentali anche di livello comunitario che devono presiedere nell’esegesi delle norme disciplinanti qualsiasi rapporto di lavoro” (Cass. Sez. U. n. 15540 del 2016).

5. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, attenendo tutti al processo di sussunzione della fattispecie concreta nella nozione legale di giusta causa, possono essere trattati congiuntamente, e sono infondati.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. 13.2.2012 n. 2013 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. 21.6.2011 n. 13574; Cass. 7.4.2011 n. 7948; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 18.2.2011 n. 4060). In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass 4060/2011 cit.).

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice del merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto” (v. Cass. 14.1.2003 n. 444, Cass. 25.2.2005 n. 3994, Cass. 16.5.2006 n. 11430, Cass. 24.7.2006 n. 16864, Cass. 10.12.2007 n. 25743, Cass. 22.3.2010 n. 6848, Cass. 21.6.2011 n. 13574).

Nella fattispecie, la Corte di merito ha rilevato che: doveva ritenersi (a seguito di applicazione del principio di non contestazione, oltre che dal copioso materiale probatorio e fotografico fornito dal datore di lavoro) provata “l’attività di gestione attiva del parcheggio del lido (OMISSIS) da parte del lavoratore che è stato osservato intento nell’attività per numerose ore consecutive nei giorni indicati in contestazione (100 giorni nel periodo marzo-luglio 2013 nonchè assenza continuativa dal 7.8 al 14.10.2013) e che è stato poi fotografato in pose di evidente attività, orientata all’indicazione dei luoghi e delle modalità di parcheggio ai clienti” (pag. 7 della sentenza impugnata); “la frequenza settimanale delle osservazioni (da parte dell’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro) e la costante presenza dell’appellante inducono a ritenere che si trattasse di attività svolta con regolarità praticamente quotidiana.. con posture certamente non riposanti anche perchè mantenute per ore e sotto il calore del sole pieno” (pag. 8); le azioni compiute dal N. “apparivano ictu oculi incompatibili con la denunziata infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie. Il lavoratore è stato osservato per ore gestire le attività di parcheggio dei clienti, rilasciare scontrini, restare in piedi sotto il sole a dare indicazioni sia presso il lido che presso il parcheggio; in un’occasione era stato anche fotografato mentre armeggiava con la realizzazione di un manufatto di legno; in un’occasione, in data 1.9.2013, era stato visto e fotografato intento nelle solite attività, senza avere indosso il prescritto collare protettivo; l’insieme di tali condotte denotava una buona efficienza fisica, con particolare riferimento all’apparato osteoarticolare e risultavano del poco compatibili con la effettiva sussistenza dell’affezione che aveva dato luogo alla sua prolungata assenza” (pag. 10 della sentenza impugnata).

Tale motivazione, incentrata su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme ai principi sopra richiamati, nonchè congrua e priva di vizi logici e resiste alle censure del ricorrente.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2018


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-05-2018) 04-07-2018, n. 17533

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di Sez. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 279/2015 proposto da:

V.C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BLUMENSTHILL 55, presso lo studio dell’avvocato CATERINA BINDOCCI, rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO BRAGAGNI;

– ricorrente –

contro

PAT COSTRUZIONI DI P.V. & CO S.A.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1684/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 4/11/2013;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2018 dal Consigliere LUCIA TRIA;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Arnaldo Tutti per delega dell’avvocato Alfredo Bragagni.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Grosseto, su istanza di V.C.A., emetteva il decreto ingiuntivo n. 93/2005 nei confronti della PAT Costruzioni di P.V. & Co. s.a.s. per l’importo di Euro 40.000,00, come penale prevista nel contratto di appalto stipulato tra le parti per il ritardo nella consegna delle opere di ristrutturazione di un fabbricato, oggetto del suddetto contratto.

L’atto di opposizione al decreto ingiuntivo della società PAT Costruzioni era notificato dall’Ufficiale giudiziario assegnato all’UNEP presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere anzichè da quello dell’UNEP presso il Tribunale di Grosseto nel cui circondario risiedeva la destinataria della notifica.

Nella contumacia di quest’ultima – originaria ricorrente – il Tribunale di Grosseto accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo per ragioni attinenti al merito della controversia.

2. La V. appellava la sentenza, mentre la PAT Costruzioni ne chiedeva la conferma.

3. La Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 4 novembre 2013, ha rigettato il gravame.

4. Per quanto riguarda il motivo di appello con il quale si prospettava la nullità della notificazione della citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, in quanto eseguita da un ufficiale giudiziario diverso da quello territorialmente competente ex lege, la Corte d’appello ha precisato quanto segue:

a) la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che sia affetta da nullità relativa – sanabile per effetto della costituzione in giudizio del destinatario – la notificazione eseguita dall’ufficiale giudiziario extra districtum;

b) invece, la giurisprudenza amministrativa configura tale ipotesi come una mera irregolarità della notificazione;

c) andando in contrario avviso rispetto alla suddetta consolidata giurisprudenza di legittimità deve rilevarsi che: 1) le cause di nullità processuali sono soltanto quelle previste dalla legge (art. 156 c.p.c.); 2) l’art. 160 c.p.c. non annovera fra le cause di nullità della notifica quella in oggetto; 3) per la violazione D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 che disciplinano il riparto territoriale dell’attività degli ufficiali giudiziari non è prevista la nullità della notificazione; 4) tali disposizioni, infatti, sono dettate per organizzare il funzionamento degli uffici, sicchè la loro violazione potrebbe al più comportare conseguenze disciplinari o di responsabilità civile per il notificante, ma non conseguenze sul processo;5) nel caso di specie, comunque, essendosi la notificazione realizzata a mezzo posta, è stato l’agente postale a certificare la consegna del plico, con atto che potrebbe ben essere considerato valido a prescindere da quello, meramente preparatorio, dell’ufficiale giudiziario territorialmente incompetente che ne ha solo richiesto l’invio; 6) comunque, anche a voler ritenere l’incompetenza dell’ufficiale giudiziario produttiva, per derivazione, della nullità della notificazione, la sanatoria per raggiungimento dello scopo si dovrebbe considerare avvenuta per effetto della consegna (seguita indifferentemente dalla costituzione in giudizio o dalla contumacia) e non per effetto della sola costituzione in giudizio (come invece ritenuto dalla suddetta giurisprudenza di legittimità consolidata) e, nella specie, la V. pur se rimasta contumace in primo grado non ha mai contestato di aver ricevuto l’atto di opposizione.

5. Nel merito la Corte d’appello ha confermato la decisione del primo giudice secondo cui il mancato completamento dei lavori da parte dell’appaltatore era dipeso dall’inadempimento della committente all’obbligo di corrispondere il prezzo secondo i previsti stati di avanzamento, non essendo stata la prova documentale fornita dalla V. in appello ritenuta idonea a scalfire tale statuizione, in quanto dai documenti prodotti sono risultati come effettuati pagamenti per un importo complessivo inferiore di circa settantamila euro rispetto a quello che la committente stessa ha indicato come corrispettivo che si era impegnata a pagare per le opere effettivamente eseguite dalla società appaltatrice.

6. Il ricorso di V.C.A. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; la PAT Costruzioni di P.V. & Co. s.a.s. resta intimata.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge e nullità della sentenza, in ordine alla ritenuta validità della notificazione dell’atto di citazione in opposizione quantunque effettuata dall’ufficiale giudiziario assegnato presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, anzichè da quello presso il Tribunale di Grosseto nel cui circondario risiedeva la parte destinataria, aggiungendo che pertanto la notifica avrebbe dovuto essere considerata affetta da nullità sanabile solo per effetto della propria costituzione in giudizio o della relativa rinnovazione disposta dal giudice di primo grado. Poichè, nella specie, nessuna di tali due evenienze si è verificata, tale nullità non sarebbe stata sanata, con conseguente nullità della sentenza d’appello per omesso rilievo del suddetto vizio della notifica e invalidità derivata dell’intero giudizio di opposizione.

7. In vista dell’adunanza camerale fissata per la definizione del ricorso dinanzi alla Seconda Sezione Civile l’Avvocato Generale, nelle sue conclusioni scritte, dopo aver rilevato l’inammissibilità del secondo e del terzo motivo di ricorso perchè riguardanti questioni di fatto, ha sottolineato la “plausibilità” degli argomenti consapevolmente innovativi rispetto ai consolidati approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità – prospettati dalla Corte d’appello di Firenze in riferimento alla questione proposta con il primo motivo ed ha chiesto che venisse disposta la trasmissione degli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2.

8. La V., in prossimità della suddetta adunanza camerale, ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., nella quale, con riguardo al primo motivo, ha dichiarato di essere “remissiva sulle richieste del Procuratore Generale” e quindi di rimettersi sul punto al giudizio della Corte, mentre ha insistito per l’accoglimento degli altri due motivi.

9. La Seconda Sezione Civile, accogliendo le conclusioni dell’Avvocato Generale, con ordinanza interlocutoria 8 gennaio 2018, n. 179, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, sulle questioni – in parte evidenziate dalla Corte d’appello di Firenze che si pongono con riguardo alla determinazione delle conseguenze del mancato rispetto da parte dell’Ufficiale giudiziario nella notificazione degli atti in materia civile delle norme che definiscono, anche con riferimento alle notifiche a mezzo posta, i criteri di ripartizione territoriale per l’esecuzione delle suddette notifiche tra i vari uffici cui sono addetti gli ufficiali giudiziari.

Le suindicate questioni nell’ordinanza di rimessione sono state qualificate come “di massima di particolare importanza”, sia per l’impatto rilevante sul contenzioso civile di qualsiasi tipo, sia in considerazione del coordinamento della relativa soluzione con la recente sentenza di queste Sezioni Unite 20 luglio 2016, n. 14916.

10. Il ricorso è stato quindi assegnato dal Primo Presidente a queste Sezioni Unite ed è stata acquisita la relazione dell’Ufficio del Massimario.

Motivi della decisione
I – Sintesi delle censure.

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, – violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., commi 1 e 3, e art. 159 c.p.c. nonchè del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, artt. 106 e 107, contestando la statuizione della Corte d’appello con la quale – in deliberato contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità – è stato respinto il proprio motivo di gravame volto ad ottenere la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado, per essere stata la notificazione dell’atto di citazione in opposizione effettuata da un ufficiale giudiziario “territorialmente incompetente” ad eseguirla – cioè dal’ufficiale giudiziario assegnato all’UNEP presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere anzichè da quello dell’UNEP presso il Tribunale di Grosseto nel cui circondario risiedeva la parte destinataria – senza che tale nullità sia stata, nella specie, sanata visto che la V. nel giudizio di primo grado non si è costituita (ma è rimasta contumace) e neppure il Tribunale ha disposto la rinnovazione della notifica stessa. Pertanto, ad avviso della ricorrente, la corretta applicazione delle norme invocate dovrebbe portare alla nullità della sentenza d’appello per omesso rilievo del suddetto vizio della notifica, con invalidità derivata dell’intero giudizio di opposizione.

1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., sostenendo che la sentenza impugnata sarebbe stata emessa in violazione dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio, secondo cui laddove si discute di contratti a prestazioni corrispettive il giudice del merito, a fronte di dedotte inadempienze reciproche delle parti, deve effettuare una comparazione del comportamento dei due contraenti onde stabilire quale sia la parte che, con il proprio comportamento, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e quindi debba considerarsi l’unica cui vada addebitato l’inadempimento. Si afferma che, nella specie, tale comparazione non sarebbe stata fatta, avendo la Corte d’appello dato rilievo alla mancata correttezza della V. nel pagamento del corrispettivo pattuito per gli stati di avanzamento dei lavori, senza verificare se la PAT Costruzioni aveva realizzato tutte le opere previste nel contratto e se le aveva consegnate entro la data stabilita.

1.3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, – omesso esame di una serie di documenti prodotti in giudizio che la Corte d’appello non avrebbe esaminato e che avrebbero dimostrato l’inadempimento della PAT Costruzioni rispetto agli obblighi contrattuali riguardanti il completamento delle opere appaltate e la riconsegna del cantiere. Si aggiunge che, in mancanza della prova delle opere realizzate e della loro puntuale consegna, la Corte territoriale non avrebbe neppure potuto affermare la sussistenza dell’inadempimento della V..

II – Esame delle censure.

4. L’esame delle censure porta al rigetto del primo motivo e alla dichiarazione di inammissibilità degli altri due motivi, per le ragioni di seguito esposte.

5. Secondo quanto rilevato dalla Seconda Sezione Civile nell’ordinanza interlocutoria 8 gennaio 2018 n. 179, lo scrutinio del primo motivo di ricorso comporta la soluzione di alcune questioni di massima di particolare importanza concernenti la determinazione degli effetti della notificazione eseguita – nella specie: a mezzo posta – dall’ufficiale giudiziario senza rispettare i criteri di riparto territoriale stabiliti dal D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107.

In particolare, la Seconda Sezione ha chiesto di stabilire, anche tenendo conto della recente sentenza di queste Sezioni Unite 20 luglio 2016, n. 14916: a) se una simile notifica possa dare luogo ad una semplice irregolarità come affermato da tempo dalla giurisprudenza amministrativa; b) se, comunque, anche a voler considerare l’incompetenza dell’ufficiale giudiziario produttiva, per derivazione, di nullità della notificazione, la sanatoria per raggiungimento dello scopo si possa considerare avvenuta per effetto della consegna dell’atto cui segua indifferentemente la costituzione in giudizio o la contumacia – e non per effetto della sola costituzione in giudizio.

6. Per una migliore comprensione della soluzione data a tali questioni si ritiene opportuno effettuare una sintetica ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in materia.

7. Gli ufficiali giudiziari (al pari degli aiutanti ufficiali giudiziari e dei coadiutori degli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti) sono assegnati agli Uffici notificazioni, esecuzioni e protesti (UNEP), istituiti presso ciascuna Corte d’appello e presso ogni Tribunale che non sia sede di Corte d’appello (vedi R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 3, nel testo vigente e D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 101, comma 1).

8. In base allo stesso D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 106, comma 1, (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari): “l’ufficiale giudiziario compie con attribuzione esclusiva gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto, salvo quanto disposto dal comma 2 dell’articolo seguente”.

Il successivo art. 107 – dopo avere, al comma 1, stabilito che per la notificazione degli atti in materia civile ed amministrativa da eseguire fuori del Comune ove ha sede l’ufficio, l’ufficiale giudiziario deve avvalersi del servizio postale, a meno che la parte chieda che la notificazione sia eseguita di persona – al secondo comma prescrive che: “tutti gli ufficiali giudiziari possono eseguire, a mezzo del servizio postale, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede alla quale sono addetti”, oltre che del verbale di cui all’art. 492-bis c.p.c. (sulla ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare) e degli atti stragiudiziali.

D’altra parte, l’art. 156 c.p.c. sancisce il principio generale di tassatività delle nullità degli atti del processo, stabilendo che esse devono essere previste dalla legge e aggiungendo che tale principio è derogabile (nel senso che la nullità può essere in ogni caso pronunciata) soltanto nell’ipotesi in cui l’atto sia privo dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, mentre reciprocamente la nullità non può essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Per il successivo art. 160 c.p.c. la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia oppure se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l’applicazione del citato art. 156, oltre che dell’art. 157 (che qui non interessa).

9. Le questioni evidenziate dall’ordinanza di rimessione sono scaturite principalmente dall’interpretazione del combinato disposto delle suindicate norme che ha dato luogo a orientamenti differenti rispettivamente della giurisprudenza di questa Corte e di quella del Consiglio di Stato – circa gli effetti della notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario al di fuori dall’ambito territoriale di pertinenza dell’UNEP al quale è assegnato.

9.1. In particolare, la Corte di cassazione in un risalente orientamento configurò la suddetta fattispecie come mera irregolarità della notificazione, sanabile con la comparizione in giudizio del destinatario (vedi, per tutte: Cass. 5 gennaio 1945, n. 2), considerando la competenza dell’ufficiale giudiziario come di tipo amministrativo e non giurisdizionale.

Tale orientamento venne criticato da autorevole dottrina che sostenne che tra le nullità della notificazione di cui all’art. 160 c.p.c. e l’inesistenza della notificazione avrebbe dovuto essere contemplata la suddetta ipotesi da considerare come una vera e propria nullità – dimenticata dal legislatore – attinente ad un presupposto essenziale dell’atto di notificazione e che quindi determina un vizio logicamente precedente rispetto a quelli previsti nell’art. 160 cit., come tale riconducibile alla disciplina dettata dall’art. 156 c.p.c. ma sanabile dalla comparizione in giudizio del destinatario.

9.1.1. Nel corso del tempo nella giurisprudenza di legittimità si è quindi consolidato un indirizzo sostanzialmente conforme a tale dottrina in base al quale la notificazione effettuata da un ufficiale giudiziario extra districtum non si considera affetta da nullità assoluta, ma soltanto da nullità relativa sanabile, con effetto ex tunc, qualora l’atto abbia raggiunto il suo scopo, rappresentato dalla costituzione del destinatario in giudizio (e non dalla mera consegna dell’atto), dovendo in caso contrario il giudice disporre la rinnovazione della notifica ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (ex plurimis: Cass. 24 luglio 1964, n. 2000; Cass. 12 agosto 1982, n. 9569; Cass. 11 febbraio 1995, n. 1544 e di recente Cass. 6 luglio 2006, n. 15372; Cass. 6 giugno 2013, n. 14355; Cass. 21 agosto 2013, n. 19352; Cass. 19 settembre 2014, n. 19834; Cass. 29 ottobre 2014, n. 22995), con l’ulteriore precisazione che la sanatoria ex tunc per effetto della costituzione dell’intimato si produce anche quando la parte dichiari che tale costituzione è avvenuta al solo fine di denunciare l’invalidità della notificazione (ex plurimis, Cass. 15 gennaio 2003, n. 477; Cass. 23 agosto 2004, n. 16591).

9.1.2. Nella medesima ottica – e quindi sempre riaffermando anche il suddetto regime di sanabilità della nullità – per effetto di alcuni interventi di queste Sezioni Unite, si è anche precisato che:

a) la nullità della notificazione della sentenza eseguita da ufficiale giudiziario territorialmente incompetente preclude il decorso del termine breve di impugnazione (Cass. SU 12 febbraio 1999, n. 51), dovendosi escludere la sua sanatoria per raggiungimento dello scopo derivante dall’impugnazione della sentenza, la quale ha carattere autonomo rispetto alla notificazione della sentenza stessa, senza presupporla necessariamente come avvenuta in una data precisa e, quindi, senza realizzare lo scopo dell’utile decorrenza del termine per impugnare (ex multis: Cass. 18 dicembre 2003, n. 17430);

b) la legge 20 novembre 1982, n. 890 ha attribuito all’ufficiale giudiziario la facoltà di utilizzare, in linea generale, la notificazione degli atti a mezzo posta, senza nulla immutare quanto alla sua competenza territoriale. Conseguentemente l’ufficiale giudiziario, a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 106 e 107, anche in ipotesi di utilizzazione del servizio postale, può notificare atti del proprio ministero a persone residenti, dimoranti o domiciliate all’interno dell’ambito territoriale dell’ufficio al quale è addetto, mentre può eseguire notificazioni al di fuori di tale ambito soltanto se concernono atti relativi a procedimenti che siano o possano essere di competenza dell’autorità giudiziaria della sede di appartenenza (Cass. SU 23 marzo 2005, n. 6271 e fra le tante: Cass. 11 febbraio 1995, n. 1544; Cass. 11 novembre 1997, n. 11210; Cass. 6 giugno 2013, n. 14355);

c) la notificazione del ricorso per cassazione costituisce, a norma del D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 107, un atto di competenza promiscua, perchè la stessa riguarda non solo la città di Roma dove il processo deve essere trattato, ma anche il luogo nel quale la sentenza impugnata è stata pronunciata e il ricorso deve essere notificato; ne consegue che l’incombenza può essere svolta anche dall’ufficiale giudiziario del luogo dove la sentenza impugnata è stata emessa (Cass. SU 4 ottobre 1996, n. 8683; Cass. SU 9 agosto 2001, n. 10969 e fra le molte conformi: Cass. 15 gennaio 2013, n. 812). E la stessa regola si applica anche alla notifica del controricorso e dell’eventuale ricorso incidentale (tra le tante: Cass. 15 febbraio 2007, n. 3455.

9.1.3. Sono stati anche affermati i seguenti principi:

a) l’incompetenza dell’ufficiale giudiziario notificante è causa di una nullità, non dell’atto, ma della sua notificazione che è suscettibile di sanatoria esclusivamente per effetto della costituzione del destinatario, in quanto questo è l’atto del processo cui la notificazione stessa è strumentale e non trova, quindi, equipollenti nella semplice certezza dell’avvenuta ricezione che è, di per sè, circostanza estranea al processo medesimo (Cass. 29 marzo 1994, n. 3039; Cass. 17 settembre 1992, n. 10647; Cass. 11 dicembre 1987, n. 9165);

b) per il combinato disposto del D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 106 e art. 107, comma 2, la potestà notificatoria è attribuita sia all’ufficiale giudiziario del luogo in cui essa deve essere eseguita sia a quello addetto all’autorità giudiziaria competente a conoscere della causa cui attiene la notificazione, il quale ultimo può operare anche fuori dalla circoscrizione territoriale, ma solo a mezzo del servizio postale. Pertanto, è nulla la notificazione effettuata dall’ufficiale giudiziario fuori dalla circoscrizione territoriale personalmente e non a mezzo del servizio postale (Cass. 26 agosto 1985, n. 4549), mentre è valida la notificazione di un ricorso per cassazione eseguita dagli ufficiali giudiziari addetti agli uffici giudiziari dei domicili eletti dagli intimati presso i loro difensori (Cass. 4 febbraio 1983, n. 940 e di recente: Cass. 9 febbraio 2016, n. 2574);

c) i messi del giudice di pace (già messi di conciliazione), pur se sono in rapporto di servizio con l’ente locale, tuttavia sono inseriti nell’ufficio giudiziario per effetto di nomina da parte del presidente del tribunale e partecipano con gli ufficiali giudiziari e con i relativi aiutanti alla funzione di notificazione degli atti processuali (L. n. 374 del 1991, artt. 12 e 13, come modificati sia dal D.L. n. 571 del 1994, convertito dalla L. n. 673 del 1994 sia dalla L. n. 479 del 1999). Pertanto è nulla – non giuridicamente inesistente – la notificazione eseguita dal messo del giudice di pace in violazione delle regole sulla distribuzione delle competenze con gli ufficiali giudiziari e i relativi aiutanti oppure sui previsti limiti territoriali o anche laddove non ricorra alcuna delle deroghe alla competenza generale dell’ufficiale giudiziario previste al D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 34, perchè si tratta di un atto posto in essere da un organo pur sempre partecipe della complessiva funzione di notificazione degli atti processuali (Cass. 28 febbraio 1996, n. 1586; Cass. 3 maggio 1999, n. 4396; Cass. 23 agosto 2004, n. 16591);

d) i messi del giudice di pace esplicano esclusivamente le loro funzioni per gli affari di competenza del giudice stesso nel territorio della sua giurisdizione e il D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 34 ove manchino o siano impediti l’ufficiale giudiziario e l’aiutante ufficiale giudiziario e ricorrano motivi di urgenza – consente al capo dell’ufficio di disporre che le notificazioni siano eseguite dal messo di conciliazione (oggi del giudice di pace), ma deve trattarsi del messo del luogo in cui l’atto deve essere notificato in quanto in caso contrario la notificazione è nulla e tale nullità – relativa e sanabile con la costituzione della parte intimata o con la rinnovazione dell’atto disposta d’ufficio dal giudice ex art. 291 c.p.c. – si verifica anche se la notifica è effettuata a mezzo del servizio postale, in quanto è applicabile solo nei confronti degli ufficiali giudiziari il D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 107, che prevede la possibilità di eseguire per posta, senza limitazioni territoriali, la notificazione di atti relativi ad affari di competenza dell’autorità giudiziaria della sede di assegnazione (tra le altre: Cass. 20 luglio 1999, n. 7782);

e) anche la nullità della notificazione della sentenza eseguita da messo di conciliazione (oggi messo notificatore del giudice di pace, n.d.r.) incompetente preclude il decorso del termine breve d’impugnazione, al pari di quella eseguita dall’ufficiale giudiziario incompetente (Cass. 1 giugno 2000, n. 7277).

9.1.3. Quanto alle modalità di sanatoria solo in ipotesi del tutto marginali si è affermata, nel caso di notificazione a mezzo posta, la sanabilità del vizio da “incompetenza territoriale” dell’ufficiale giudiziario notificante per effetto della sottoscrizione da parte del destinatario della ricevuta di ritorno, sottolineandosi che tale atto attesta l’avvenuta attuazione della recezione, la quale “costituisce lo scopo della notifica stessa” (Cass. 8 luglio 1981, n. 4474; Cass. 5 maggio 1978, n. 2116).

Peraltro il suddetto indirizzo minoritario è stato seguito in alcuni casi con riguardo alla notifica effettuata dal messo di conciliazione (oggi del giudice di pace) in difetto dell’autorizzazione del capo dell’ufficio giudiziario affermandosi che la relativa nullità è sanabile non solo a seguito della costituzione della parte, ma anche in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova della avvenuta comunicazione dell’atto al notificato, data l’equiparazione funzionale tra l’ufficiale giudiziario ed il messo di conciliazione contenuta nella L. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 34, come modificata dalla L. 11 giugno 1962, n. 546 (Cass. 28 gennaio 1999, n. 770; Cass. 6 maggio 2004, n. 8625; Cass. 24 novembre 2005, n. 24812; Cass. 16 maggio 2008, n. 12456; Cass. 29 gennaio 2014, n. 1990).

A quest’ultima giurisprudenza ha fatto riferimento, di recente, Cass. 21 novembre 2017, n. 27571 per affermare – in una ipotesi di notificazione dell’atto di appello a mezzo del servizio postale effettuata da un ufficiale giudiziario asseritamente incompetente territorialmente, ma perfezionatasi con la consegna dell’atto stesso al procuratore dei ricorrenti costituito in primo grado – il principio secondo cui non può essere dichiarata la nullità della notificazione eseguita da ufficiale giudiziario territorialmente incompetente, laddove questa anche in mancanza di costituzione della parte in giudizio abbia comunque raggiunto il suo scopo, in virtù dell’avvenuta consegna dell’atto al destinatario – o comunque della circostanza che l’atto in questione sia pervenuto nella sfera di conoscenza o di conoscibilità di questi – a seguito del regolare adempimento delle disposizioni normative disciplinanti la sua consegna.

Tale conclusione è stata espressamente finalizzata a restringere l’area di operatività della nullità della notificazione eseguita da ufficiale giudiziario territorialmente incompetente, in conformità l’art. 160 c.p.c..

Nella medesima ottica è stata anche esclusa la nullità della notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario extra districtum, senza la preventiva richiesta scritta del notificante, precisandosi che il requisito della richiesta scritta ha rilievo soltanto nel rapporto tra il notificante e l’ufficiale giudiziario e non incide, invece, sulla validità della notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario fuori dal Comune sede dell’ufficio cui è assegnato perchè non può dubitarsi che il soggetto notificando non vede menomata la sua posizione per il fatto che la notifica sia stata eseguita dall’ufficiale giudiziario di persona invece che con il servizio postale, nè ciò riduce le garanzie da cui deve essere assistita la notifica (Cass. 9 aprile 2001, n. 5262).

9.1.4. La stessa finalità è stata perseguita, mutatis mutandis, anche da Cass. 28 luglio 2017, n. 18759 che – in continuità con un consolidato indirizzo della giurisprudenza di nomofilachia (risalente, quale sua prima espressione, a Cass. 21 giugno 1949, n. 1557) e superando il diverso orientamento della nullità della notifica del precetto eseguita da un ufficiale giudiziario territorialmente incompetente, sanabile per effetto della proposizione dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. – ha affermato che, ai sensi del D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 107, comma 2, il precetto può essere notificato, a richiesta di parte ed a mezzo del servizio postale, ad opera di qualunque ufficiale giudiziario, senza limitazioni territoriali, in quanto non costituisce atto del processo esecutivo, ma è un presupposto estrinseco ad esso, ossia un atto preliminare stragiudiziale.

9.1.5. Anche per quanto riguarda l’inesistenza giuridica della notificazione – pure prima di Cass. SU 20 luglio 2016, n. 14916, ma comunque in sintonia con i principi ivi affermati – la notificazione è stata considerata giuridicamente inesistente (e insuscettibile di sanatoria) solo in caso di completa esorbitanza dallo schema legale degli atti di notificazione, ossia quando difettino gli elementi caratteristici del modello delineato dalla legge, dovendo invece considerarsi nulla nel caso in cui sussistano violazioni di tassative prescrizioni del procedimento di notificazione.

Di conseguenza, è stato precisato che la legittimazione di chi provvede alla notificazione è da considerare condizione essenziale perchè la notificazione esplichi, almeno in parte, gli effetti che le sono propri (vedi, per tutte: Cass. 9 settembre 1997, n. 8804). Pertanto, ad esempio, è stata considerata inesistente: 1) la notificazione del ricorso per cassazione eseguita anzichè dall’ufficiale giudiziario, ai sensi dell’art. 137 c.p.c., da persona qualificatasi come “responsabile ufficio personale” (Cass. 13 febbraio 1999, n. 1195); 2) la notificazione eseguita per mezzo di ufficiale di P.G., che è assolutamente incompetente a compiere notifiche di atti processuali civili (Cass. 7 marzo 2004, n. 5392); 3) la notificazione del ricorso per cassazione al difensore dell’intimato a mezzo di un Commissariato di P.S. (Cass. 5 ottobre 2004, n. 19921).

Inoltre, in alcuni casi, anche la notificazione di atti giudiziali da parte di messi comunali – diversamente da quella eseguita dai messi di conciliazione (ora messi del giudice di pace) – è stata reputata giuridicamente inesistente, non nulla, in quanto è effettuata da organi carenti di qualsiasi attribuzione in materia. Infatti, anche i messi comunali notificatori, come organi amministrativi, svolgono la funzione di notificazione, sulla base della L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 10, comma 1, secondo cui le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, comma 2, “possono avvalersi, per le notificazioni dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle altre forme di notificazione previste dalla legge” (Cass. 30 agosto 2017, n. 20582). Tuttavia vi è una totale disomogeneità tra la categoria dei messi comunali, legati all’ente locale sia da rapporto di servizio che da rapporto organico, e quella dei messi notificatori del giudice di pace, il cui il rapporto di servizio intercorre con il comune ma sono incardinati sul piano del rapporto organico nell’ufficio giudiziario in virtù dell’atto di nomina del presidente del Tribunale e sono investiti della funzione di notificare gli atti relativi ai procedimenti di competenza del giudice di pace ai sensi del D.P.R. n. 1229 del 1959 (Cass. 23 agosto 2004, n. 16591).

Cass. 21 marzo 2005, n. 6095 – richiamata nell’ordinanza di rimessione in oggetto – ha ritenuto inesistente e non meramente nulla la notificazione eseguita a cura del “messo del giudice di pace” dalla cui relata emergeva la mera indicazione del Comune senza alcun riferimento (anche) all’ufficio di tale luogo ove la notificazione doveva essere eseguita, ritenendo che in tale situazione la notifica difettasse degli elementi caratteristici suoi propri, esorbitando anzi completamente dallo schema legale degli atti di notificazione. Ma si tratta di un orientamento isolato, difforme da quello su riportato, benchè nella sentenza si richiamino, senza motivazione espressa, sia Cass. 20 luglio 1999, n. 7782 sia Cass. 13 febbraio 1999, n. 1195, dianzi citate.

9.1.6. In sintesi, può dirsi che la giurisprudenza fin qui sinteticamente illustrata – a parte il regime della sanatoria, sul quale comunque si registrano importanti aperture – si è sviluppata in modo del tutto conforme al principio affermato da Cass. SU 20 luglio 2016, n. 14916, secondo cui un elemento costitutivo essenziale idoneo a rendere un atto qualificabile come notificazione – la cui mancanza determina l’inesistenza della notifica – è rappresentato dallo svolgimento dell’attività di notificazione da parte di un soggetto qualificato dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato.

Infatti, la notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario senza rispettare le norme che definiscono, anche con riferimento alle notifiche a mezzo posta, i criteri di ripartizione territoriale per l’esecuzione delle notifiche tra i vari uffici cui sono addetti gli ufficiali giudiziari in genere è stata considerata nulla perchè eseguita in violazione delle norme relative alla “competenza territoriale” o “funzionale” dell’organo notificante, rientranti tra le tassative prescrizioni del procedimento di notificazione, visto che in casi minoritari si è parlato al riguardo di “carenza di potere” ma sempre in termini di nullità e non di inesistenza della notifica (Cass. 7 giugno 2013, n. 14495).

10. Da questa argomentazione nasce la diversa posizione assunta dalla giurisprudenza amministrativa da molto tempo (vedi: Cons. Stato. Ad. Plen. 26 marzo 1982, n. 4 e giurisprudenza successiva conforme), la quale muove dalla premessa che il D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 non regolano la “competenza” territoriale degli ufficiali giudiziari, ma la ripartizione delle relative attribuzioni, in ragione, tra l’altro, della circostanza che all’epoca gli ufficiali giudiziari erano retribuiti in funzione del numero di atti compiuti.

10.1. L’improprietà del riferimento al concetto di competenza e alla sanzione della nullità (sia pure relativa) viene desunta da molteplici elementi:

a) nel codice di rito mentre si detta la disciplina delle modalità con le quali la notifica va eseguita nulla si dice in merito alla “competenza” dell’ufficiale giudiziario e, d’altra parte, a differenza di quanto avveniva nel passato, oggi gli ufficiali giudiziari non sono più “addetti” agli uffici giudiziari ma ad appositi e autonomi UNEP;

b) i citati gli artt. 106 e 107 non prevedono alcuna nullità per le ipotesi di loro violazione nè delineano per gli ufficiali giudiziari una competenza inderogabile la cui violazione possa determinare la nullità;

c) le norme che disciplinano la materia e anche le due suddette disposizioni utilizzano, infatti, il termine “competenza” soltanto per indicare l’oggetto di cognizione del giudice (vedi art. 107, comma 2, cit.);

d) neppure le norme processuali prevedono una simile nullità e neanche potrebbe sostenersi che la “competenza” territoriale dell’ufficiale giudiziario rappresenti un requisito necessario perchè la notificazione raggiunga il suo scopo, visto che la relativa violazione non incide sulla garanzia della consegna al destinatario dell’atto con modalità idonee ad assicurarne la conoscibilità, tanto più nel caso di notifica a mezzo posta nella quale l’ufficiale giudiziario è solo mittente del plico raccomandato mentre la notifica viene completata dall’ufficiale postale del luogo di residenza dell’intimato.

10.2. Di qui la conclusione che, nell’ipotesi di cui si tratta, non è configurabile una nullità attinente al processo – come sostenuto da autorevole dottrina – anche se questo non vuol dire che non si producano conseguenze, solo che non si tratta di conseguenze processuali: in caso di richiesta delle parti di notificare atti che esulano dalle sue attribuzioni l’ufficiale giudiziario può motivatamente ricusare il suo ministero (D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 108) e se ciò non avviene è ipotizzabile l’irrogazione di sanzioni disciplinari, o di altro tipo, a carico dell’ufficiale giudiziario.

La successiva giurisprudenza amministrativa ha precisato che la violazione delle norme di cui al D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 non costituisce causa di nullità della notificazione, ma semplice irregolarità della stessa, non rilevante ai fini processuali (Cons. Stato Sez. 4, 13 ottobre 1983, n. 714; Cons. Stato, Sez. 4, 14 dicembre 2004, n. 8072 seguite dall’assolutamente prevalente giurisprudenza amministrativa, anche se non mancano alcune voci dissonanti, che peraltro richiamano la giurisprudenza di questa Corte; vedi per tutte: TAR Sicilia Palermo Sez. 3, 19 giugno 2013, n. 1339; TAR Sicilia Catania Sez. 4 Sent., 3 maggio 2008, n. 726).

11. Alla luce delle suddette osservazioni il Collegio ritiene che il suindicato indirizzo – che considera affetta da nullità la notifica eseguita da ufficiale giudiziario eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni territoriali – vada approfondito nelle sue premesse e nei suoi effetti e vada quindi superato, anche alla luce degli sviluppi della giurisprudenza di legittimità più recente, nella quale viene data ampia applicazione ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, a partire da Cass. SU 20 luglio 2016, n. 14916.

12. Quanto alle premesse come si è già detto e come risulta anche da Cons. Stato. Ad. Plen. 26 marzo 1982, n. 4 la tesi della nullità della notifica eseguita da ufficiale giudiziario eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni territoriali ha la sua radice in una risalente dottrina, secondo la quale il legislatore si era “dimenticato” di inserire tale ipotesi tra le nullità e che essa era da configurare come effettuazione di un atto in difetto di “competenza funzionale” dell’ufficiale giudiziario, antecedente rispetto a quelli contemplati nell’art. 160 c.p.c., ma da disciplinare ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

In tutta la copiosa giurisprudenza di questa Corte successiva non si rinviene alcun approfondimento specifico al riguardo, nè nel corso degli anni si registrano modifiche derivanti dalle molteplici innovazioni in materia di notifiche e di disciplina del rapporto di lavoro del personale addetto agli UNEP ivi compreso il relativo trattamento retributivo.

13. Ebbene, a distanza di tanti anni dall’emanazione del D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 risulta oggi del tutto evidente l’errore di prospettiva della suindicata dottrina oltre che, a questo punto, la contrarietà dei relativi effetti ai principi del giusto processo.

L’errore di prospettiva è fondato su diversi elementi:

a) se, come sostenuto dalla suddetta dottrina, l’ipotizzata nullità è un vizio “logicamente precedente” rispetto a quelli previsti nell’art. 160 c.p.c. difficilmente esso può essere configurato come vizio “processuale”, in quanto esso, anche nell’indicata prospettiva, più che incidere sul processo – ai cui fini è sufficiente che sia garantita la consegna al destinatario con modalità idonee ad assicurarne la conoscibilità dell’atto – riguarderebbe la “competenza” dell’ufficiale giudiziario nell’ambito del procedimento notificatorio;

b) ma, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, nè gli artt. 106 e 107 cit. nè altre norme della materia fanno riferimento, al riguardo, al concetto di “competenza” dell’ufficiale giudiziario, in quanto si limitano a parlare di ripartizione delle attribuzioni tra ufficiali giudiziari e quindi dei relativi compiti, la cui mancata consapevole violazione è considerata valutabile dal punto di vista disciplinare (vedi D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 63, lett. h, nonchè D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55);

c) infatti, è significativo che il D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 non prevedano alcuna nullità per la notifica effettuata senza il rispetto della suddetta ripartizione;

d) ne consegue che appare improprio fare riferimento alla categoria della “competenza” funzionale o territoriale degli ufficiali giudiziari quando la rispettiva normativa non lo fa e soprattutto al fine di desumerne la produzione di effetti sul processo;

e) a tale ultimo riguardo va sottolineato che, poichè non si può mettere in dubbio che la notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario extra districtum è del tutto idonea a raggiungere il suo scopo, la configurazione di una nullità di tipo processuale (sia pure sanabile) al di fuori delle ipotesi contemplate dall’art. 160 c.p.c. non può neppure rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 156 c.p.c., nel silenzio sia delle norme del codice che disciplinano le modalità di effettuazione delle notifiche sia del D.P.R. n. 1229 del 1959 e della normativa ad esso collegata;

f) sicuramente più esatto è fare riferimento ai “limiti territoriali delle attribuzioni” degli ufficiali giudiziari e questo consente di andare più agevolmente alla ratio di tali limiti che è da rinvenire nella necessità di distribuire il lavoro tra i vari uffici con la finalità di un’equa ripartizione degli introiti che, all’epoca, formavano la retribuzione, prettamente proventistica, degli ufficiali giudiziari;

g) tale ragione oggi è anche venuta meno perchè con la privatizzazione del pubblico impiego la disciplina del rapporto di lavoro e della responsabilità disciplinare gli ufficiali giudiziari e assimilati – quali impiegati dello Stato inseriti nel Comparto Ministeri ai fini della contrattazione collettiva – non è più compresa nella normativa “particolare”, prevista dal D.P.R. n. 1229 del 1959, essendo dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e dalla contrattazione collettiva di settore – a partire dal primo CCNL Comparto Ministeri, entrato in vigore il 16 maggio 1995, – con applicazione di un complesso metodo retributivo che può ritenersi assimilabile al trattamento stipendiale degli impiegati statali e che non è più legato ai proventi riscossi per le notifiche come lo era un tempo (Cass. SU 25 luglio 2006, n. 16895; Cass. 28 settembre 2006, n. 21032).

14. Tutte le anzidette osservazioni non possono che portare all’accoglimento della soluzione secondo cui la violazione delle norme di cui al D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 costituisce una semplice irregolarità del comportamento del notificante (eventualmente sanzionabile disciplinarmente o ad altro titolo, se ne ricorrono i presupposti) la quale non solo è di per sè del tutto ininfluente sulla validità del procedimento notificatorio (visto che per la ripartizione delle attribuzioni tra gli ufficiali giudiziari la relativa disciplina non fa riferimento alla nozione di “competenza” territoriale) ma non produce alcun effetto ai fini processuali e quindi non può essere configurata come causa di nullità della notificazione.

15. Tale soluzione è conforme non solo al principio di tassatività delle nullità processuali (art. 156 c.p.c.), ma anche ai principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. che, in coerenza con l’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo – costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo (vedi, fra le tante, Corte EDU: sentenze Beles e altri c. Repubblica ceca, 12 novembre 2002 – p. 62; Viard c. Francia, 9 gennaio 2014 – p. 38; Kemp e altri c. Lussemburgo, 24 aprile 2008 – p. 53; Trevisanato c. Italia, 15 settembre 2016 – p. 45).

16. Dal punto di vista sistematico la suindicata soluzione, oltre ad avere il pregio di essere uguale a quella applicata dalla prevalente giurisprudenza amministrativa – con conseguente semplificazione del sistema complessivo – è anche in linea con le profonde evoluzioni che si sono avute in materia di notificazioni, contraddistinte dalla perdita di rilievo del “requisito territoriale” del notificante, come evidenziato anche nella presente ordinanza di rimessione.

Ciò si verifica, infatti, sia nel ricorso alle piattaforme telematiche collegate ad anagrafe elettronica obbligatoria (che è in espansione), sia nella crescente diffusione delle notifiche a mezzo posta (L. n. 890 del 1982) e di quelle eseguite in proprio dagli avvocati (L. n. 53 del 1994), ora anche mediante PEC (Posta Elettronica Certificata).

Lo stesso accade anche in ambito UE sia con riguardo al titolo esecutivo europeo (Cass. 22 maggio 2015, n. 10543) sia per quel che si riferisce al riconoscimento, ai sensi del regolamento 13 novembre 2007, n. 1393/2007/CE, di una competenza generalizzata agli organi mittenti (per l’Italia: gli UNEP costituiti presso le Corti d’appello o presso i Tribunali che non siano sede di Corti d’appello) in relazione a tutti gli atti da notificare negli Stati membri dell’Unione, senza limiti territoriali.

17. Per tutte le anzidette ragioni il primo motivo di ricorso deve essere respinto e per la soluzione delle questioni di massima di particolare importanza prospettate nell’ordinanza interlocutoria va affermato il seguente principio di diritto:

“in tema di notificazione, la violazione delle norme di cui al D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 costituisce una semplice irregolarità del comportamento del notificante la quale non produce alcun effetto ai fini processuali e quindi non può essere configurata come causa di nullità della notificazione. In particolare, la suddetta irregolarità, nascendo dalla violazione di norme di organizzazione del servizio svolto dagli ufficiali giudiziari non incide sull’idoneità della notificazione a rispondere alla propria funzione nell’ambito del processo e può, eventualmente, rilevare soltanto ai fini della responsabilità disciplinare o di altro tipo del singolo ufficiale giudiziario che ha eseguito la notificazione”.

18. Restano da esaminare il secondo e il terzo motivo di ricorso, che come si è detto vanno dichiarati inammissibili.

19. Per il secondo motivo a tale conclusione si perviene perchè, come ha osservato l’Avvocato generale nelle proprie conclusioni, con esso si deduce solo apparentemente una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (orientamento consolidato; di recente: Cass. 4 aprile 2017, n. 8758) ponendo così in discussione l’attività di “governo delle prove” che spetta al giudice del merito. Tale attività va svolta in base al principio del libero convincimento del giudice ed è regolata dagli artt. 115 e 116 c.p.c., la cui eventuale violazione è apprezzabile nel giudizio di cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile “ratione temporis”, che nella specie è quello successivo alla sostituzione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Ciò è reso evidente dal fatto che non si denuncia l’avvenuta attribuzione, da parte della Corte d’appello, dell’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risultava gravata secondo le regole dettate dal’art. 2697 cod. civ., ma si sostiene l’erroneità delle modalità di valutazione delle prove – derivante dalla mancata effettuazione della prospettata “comparazione” del comportamento dei due contraenti – da cui sarebbe derivata una errata ricostruzione dei fatti. Ma l’unico profilo di censura denunciabile – e quindi ammissibile – nel ricorso per cassazione come violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è solo quello del mancato rispetto delle regole sull’attribuzione dell’onere probatorio, che qui non viene prospettato (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).

20. Con il terzo motivo si denuncia l’erroneità dell’attività di valutazione delle prove svolta dalla Corte territoriale, ma le censure risultano formulate in modo da esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dalla Corte d’appello, che come tale è di per sè inammissibile. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo qui applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

III – Conclusioni.

In sintesi, il primo motivo di ricorso deve essere respinto e gli altri due vanno dichiarati inammissibili, sicchè il ricorso nel suo complesso va rigettato.

La complessità delle questioni trattate e la sostanziale novità della soluzione accolta impone l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Compensa, fra le parti, le spese del presente giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2018


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 24-05-2018) 02-07-2018, n. 17235

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4488-2017 proposto da:

P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MICCICHE’, rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDIO MAGGIOLO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

nonchè contro

EQUITALIA NORD SPA, (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 887/31/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di VENEZIA, depositata il 07/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/05/2018 dal Consigliere Dott. CONTI ROBERTO GIOVANNI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
P.C. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, contro l’Agenzia delle entrate, impugnando la sentenza della CTR Veneto indicata in epigrafe, con la quale è stato respinto l’appello del contribuente e confermata la legittimità del preavviso di fermo in relazione alla rituale notifica dell’atto propedeutico, effettuato con raccomandata consegnata alla moglie del contribuente pur senza l’inoltro di raccomandata informativa al destinatario.

L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso Il procedimento può essere definito con motivazione semplificata.

Il primo motivo di ricorso, con il quale si prospetta la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b) bis e dell’art. 19 c.p.c., è manifestamente fondato.

Ed invero, questa Corte ha di recente ricordato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nel caso la notifica venga eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte, il messo deve fare sottoscrivere dal consegnatario l’atto o l’avviso) ovvero deve indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto prevedendo ancora alla lett. b) bis che, nel caso il consegnatario non sia il destinatario dell’atto o dell’avviso il messo consegni o depositi la copia dell’atto da notificare in busta sigillata, su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso – cfr. Cass. n. 2868/2017. Nella medesima circostanza si è aggiunto che il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo deve dare notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata, poi espressamente ritenendo che “… Il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica: tale è l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte che, tenuto conto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 258 del 22 novembre 2012 relativa al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3 (ora 4) e n. 3 del 2010 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione – ha deciso che nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto D.P.R. n. 600 del 1973, citato art. 26, u.c. e art. 60, comma 1, alinea, sicchè è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione. Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014′- cfr. Cass. n. 2868/2017.

A tale principio non si è conformato il giudice di merito che ha, per converso, escluso la necessità della raccomandata informativa in caso di consegna della raccomandata a familiare del destinatario dell’atto.

Pertanto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della CTR Veneto anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR Veneto anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Motivazione Semplificata.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2018


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 13-02-2018) 22-06-2018, n. 16528

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, N. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;

– ricorrente –

contro

R.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti ARGENTA Enrico Sereno e CONTALDI Gianluca, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. CONTALDI Gianluca in Roma, via P. G. da Palestrina, n. 63;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 76/26/2009 della Commissione Tributaria regionale del Piemonte depositata il 24/11/2009;

e sul ricorso iscritto al n. 8403/2011 R.G. proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti SORGENTE Elena e CONTALDI Gianluca, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in ROMA, VIA GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA, N. 63;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, N. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 5/15/10 depositata il 11/2/2010;

e sul ricorso iscritto al n. 14657/12 R.G. proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti SORGENTE Elena e CONTALDI Gianluca, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in ROMA, VIA GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA, N. 63;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, N. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 101/22/11 depositata il 16/12/2011;

e sul ricorso iscritto al n. 11680/2013 R.G. proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti SORGENTE Elena e CONTALDI Gianluca, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in ROMA, VIA GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA, N. 63;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE, N. 161, presso lo studio dell’avv. RICCI Sante, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. CIMETTI Maurizio;

– controricorrente –

e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 103/36/12 depositata il 29/10/12;

e sul ricorso iscritto al n. 15361/13 R.G. proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti SORGENTE Elena e CONTALDI Gianluca, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in ROMA, VIA GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA, N. 63;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti CIMETTI Maurizio e PARENTE Giuseppe, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. RICCI Sante in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE, N. 161;

– resistente –

e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 95/28/12 depositata il 10/12/12;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13/2/2018 dal Consigliere Dott.ssa CONDELLO Pasqualina Anna Piera;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso chiedendo, in relazione al ricorso iscritto al n. 27505/10 R.G., l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale; in relazione al ricorso iscritto al n. 8403/11 R.G., il rigetto del ricorso; in relazione al ricorso iscritto al n. 14657/12 R.G., l’accoglimento dell’ottavo e del decimo motivo e rigetto dei restanti motivi; in relazione al ricorso iscritto al n. 11680/13 R.G., l’accoglimento dell’ottavo motivo ed il rigetto dei restanti motivi; in relazione al ricorso iscritto al n. 15361/13 R.G., l’accoglimento del primo motivo ed il rigetto dei restanti motivi;

uditi i difensori di R.S., Avv.ti CONTALDI Gianluca e SORGENTE Elena anche per delega dell’avv. ARGENTA Enrico Sereno;

udito il difensore di Equitalia Nord s.p.a., Avv. CHIRICOTTO Simona per delega dell’avv. CIMETTI Maurizio.

Svolgimento del processo
La Agenzia delle Entrate in data 21.7.06 notificava a R.S., titolare di ditta individuale esercente la attività di commercio di autoveicoli, avviso di accertamento relativo all’anno 2003 ai fini del recupero a tassazione di Irpef, Irap e contributi previdenziali, avverso il quale il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, eccependo, tra l’altro, la nullità dell’avviso, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c..

Deduceva, in particolare, che per lo stesso anno d’imposta aveva ricevuto un primo avviso del 1.7.05, con il quale era stata recuperata a tassazione l’Iva detratta ed erano stati esaminati i dati dichiarati ai fini delle imposte dirette, ed un secondo avviso del 21.7.06, con il quale era stato accertato un maggior imponibile ai fini Irpef, e faceva rilevare che l’art. 43 citato consentiva un nuovo avviso solo ove fossero sopravvenuti nuovi elementi.

La Commissione tributaria provinciale, ritenendo fondata la eccezione di nullità del secondo avviso di accertamento sollevata dal contribuente, annullava l’accertamento.

La Commissione tributaria regionale respingeva sia l’appello principale proposto dall’Ufficio che l’appello incidentale del contribuente, confermando la fondatezza della eccezione di nullità dell’avviso di accertamento e ritenendo che il giudice di primo grado avesse correttamente disposto la compensazione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ..

Per la cassazione della suddetta decisione ricorre la Agenzia delle Entrate, con due motivi (ricorso iscritto al n. 27505/10 R.G.), mentre il contribuente resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Con autonomo avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione, nei confronti di R.S., per l’anno d’imposta 2003, le detrazioni Iva ed i costi relativi ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, connesse all’acquisto di autovetture di provenienza comunitaria da società considerate fittiziamente interposte.

Il ricorso proposto dal contribuente avverso tale atto impositivo veniva rigettato dall’adita Commissione tributaria provinciale e la decisione veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale che respingeva l’appello del contribuente, ritenendo legittimo l’atto impositivo.

Avverso tale decisione R.S. propone ricorso per cassazione (iscritto al n. 8403/11 R.G.), affidato a dieci motivi, illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

L’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione.

Con altro avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate procedeva, nei confronti di R.S., al recupero a tassazione, ai fini Irpef ed Iva per l’anno di imposta 2004, in relazione all’attività di acquisto di autoveicoli di provenienza estera e successiva rivendita, le cui modalità, secondo la ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria, realizzavano un meccanismo contabile di fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti nel quadro di una “frode carosello”.

Il ricorso proposto dal contribuente, il quale contestava il suo coinvolgimento nella frode, veniva respinto dalla Commissione tributaria provinciale e la decisione veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale, la quale motivava che si verteva in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti e che l’acquisto di merce con fatture soggettivamente inesistenti non comportava la detrazione dei costi in assenza di buona fede dell’acquirente.

Per la cassazione della sentenza insorge R.S. (con ricorso iscritto al n. 14657/12 R.G.), con undici motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

In relazione all’accertamento per l’anno di imposta 2004, il Concessionario della Riscossione Equitalia Nord s.p.a. notificava a R.S. cartella di pagamento n. (OMISSIS), avverso la quale ricorreva il contribuente, eccependo l’inesistenza della notifica, il difetto di sottoscrizione del ruolo e della cartella ed il difetto di motivazione.

Con sentenza n. 103/36/12 depositata il 29.10.12, la Commissione tributaria regionale rigettava l’appello proposto da R.S. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia Nord s.p.a. avverso la sentenza n. 78/1/2011 della Commissione Tributaria provinciale di Asti, che aveva respinto il ricorso proposto dal contribuente avverso la suddetta cartella di pagamento.

Avverso la sentenza di appello propone ricorso per cassazione R.S. (iscritto al n. 11680/13 R.G.), affidato ad otto motivi, cui resiste con controricorso Equitalia Nord s.p.a..

L’Agenzia delle Entrate si è costituita al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

A seguito di notifica di cartella di pagamento relativa ad Irpef, Irap ed addizionali regionali e comunali per l’annualità 2003, R.S. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, che lo respingeva.

Con sentenza n. 95/28/12 del 10.12.2012 la Commissione Tributaria regionale confermava la sentenza di primo grado.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso (iscritto al n. 15631/13 R.G.) R.S., affidato ad otto motivi.

Equitalia Nord s.p.a. si è costituita al solo fine di partecipare all’udienza di discussione ex art. 370 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1. In via preliminare deve disporsi la riunione al ricorso iscritto al n. 27505/10 R.G. di quelli recanti nn. 8403/11 R.G. e 14657/12 R.G., per evidente connessione soggettiva ed oggettiva, trattandosi di impugnazioni proposte avverso avvisi di accertamento emessi nei confronti dello stesso contribuente in relazione agli anni di imposta 2003 e 2004.

2. Va, altresì, disposta la riunione al presente ricorso, previa sostituzione del relatore, dei ricorsi recanti nn. 11680/13 R.G. e 15631/13 R.G., avendo questi ad oggetto impugnazioni proposte avverso le cartelle di riscossione provvisoria degli avvisi di accertamento oggetto dei giudizi precedenti.

3. Ricorso n. 27505/10 R.G. Con la sentenza impugnata n. 76/26/09 la Commissione tributaria regionale del Piemonte, aderendo alla decisione di primo grado, ha respinto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, rilevando che l’Amministrazione, con il primo avviso di accertamento, oltre ad esaminare la dichiarazione presentata dal contribuente ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, ha pure valutato i dati dallo stesso dichiarati ai fini delle imposte dirette, con la conseguenza che l’atto impositivo oggetto di impugnazione integra un secondo accertamento sulle imposte dirette.

Con il primo motivo la Agenzia delle Entrate denuncia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e dei principi generali in tema di accertamento tributario, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, deducendo che con l’avviso datato 1.7.05 e notificato il 13.7.05 non ha formulato rilievi in materia di imposte dirette e di Irap, ma ha preso in considerazione la posizione del contribuente esclusivamente sotto il profilo dell’imposta sul valore aggiunto, con la conseguenza che la Commissione Tributaria provinciale, affermando che l’avviso datato 1.7.05 comprendeva anche un accertamento relativo alle imposte dirette, non aveva fatto corretta applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c..

Precisa, inoltre, che un atto tributario, con il quale si evidenzia che quanto dichiarato dal contribuente – ai fini di una certa imposta – non dà luogo a rilievi o contestazioni, non costituisce “atto di accertamento” per quell’imposta, sicchè resta ferma la possibilità di formulare, nei termini di decadenza, i rilievi originariamente non ipotizzati a seguito di successiva e nuova valutazione degli elementi raccolti.

3.1. Il motivo è fondato.

3.2. La Commissione tributaria regionale, partendo dal presupposto di fatto che con il primo avviso di accertamento l’Ufficio, “oltre ad esaminare le risultanze Iva, aveva anche esaminato i dati dichiarati dal contribuente ai fini II.DD. poichè i relativi dati non solo sono stati riportati nell’atto suddetto, ma sono anche stati ritenuti congrui dall’Ufficio come attesta il quadro RF concernente la determinazione del reddito di impresa dichiarato in Euro 32.170,00 ed accertato nello stesso importo”, ha accolto la eccezione di nullità del secondo avviso di accertamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c., ritenendo che l’avviso impugnato costituisca un secondo accertamento sulle imposte dirette emesso in assenza di indicazione di nuovi elementi, atti o fatti, richiesti ai fini della validità di un accertamento integrativo.

3.3. Come è noto, il citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c., è preordinato alla ripresa a tassazione di altri elementi reddituali incrementativi del reddito complessivo definito in precedenza e non noti al momento dell’esercizio della precedente attività accertatrice.

La sopravvenienza di “nuovi elementi” richiesti dalla norma per l’emissione dell’accertamento integrativo non può essere restrittivamente interpretata quale sopravvenienza di “nuovi elementi reddituali”, poichè l’emersione di nuovi cespiti imponibili legittima senz’altro la adozione di un autonomo avviso di accertamento. La ampia dizione utilizzata nella disposizione di legge giustifica il ricorso all’avviso di accertamento integrativo qualora l’Ufficio, successivamente all’accertamento originario, venga a conoscenza di elementi fattuali, probatoriamente rilevanti, sconosciuti al momento della emissione dell’avviso originario.

Come chiarito da questa Corte, il contenuto preclusivo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c., deve essere limitato al divieto, rebus sic stantibus, di emettere un avviso di accertamento integrativo sulla base della semplice rivalutazione o maggiore approfondimento di dati probatori già interamente noti all’Ufficio al momento della emissione dell’avviso originario (Cass. n. 11421 del 3/6/2015; n. 8029 del 3/4/13; n. 576 del 15/1/16).

3.4. Nel caso in esame, con l’avviso di accertamento originario la Agenzia delle Entrate si è limitata ad esaminare il contenuto della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente ed a formulare rilievi ai soli fini dell’imposta sul valore aggiunto, senza muovere contestazioni con riguardo alle imposte dirette, sicchè l’avviso emesso in data 1.7.05, non contenendo l’accertamento di una obbligazione tributaria in materia di Irpef ed Irap per l’anno di imposta 2003, non può essere considerato “avviso di accertamento” ai fini delle imposte dirette e non può, conseguentemente, escludere la adozione, da parte della Amministrazione finanziaria ed a carico del contribuente, di un successivo ed autonomo accertamento in materia di imposte dirette, che, non costituendo atto integrativo di quello emesso ai soli fini della imposta sul valore aggiunto, non esige la sussistenza di nuovi elementi sopravvenuti.

4. Con il secondo motivo di ricorso la Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata per “motivazione insufficiente su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, lamentando che la motivazione resa dalla Commissione Tributaria regionale risulta insufficiente, in quanto fondata su un argomento che non consente di trarre la conseguenza che l’avviso datato 1.7.05 sia atto di accertamento anche ai fini delle altre imposte.

4.1. L’accoglimento del primo motivo fa ritenere assorbito il secondo motivo.

5. Con il primo motivo del ricorso incidentale R.S. censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, e dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per non avere la sentenza indicato i “giusti motivi” che consentivano la compensazione delle spese di lite.

6. Con il secondo motivo del ricorso incidentale deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che la Commissione Tributaria regionale non si è pronunciata in relazione agli altri motivi di censura sollevati con il ricorso incidentale di appello.

6.1. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione ai motivi accolti.

7. Ricorso n. 8403/11 R.G. Con la sentenza n. 5/15/10 depositata in data 11 febbraio 2010 la Commissione tributaria regionale del Piemonte ha confermato la sentenza di primo grado, respingendo tutti i motivi di appello proposti dal contribuente e ritenendo infondata la eccezione di inesistenza dell’avviso di accertamento per mancanza di valida relata di notificazione e fittizie, perchè soggettivamente inesistenti, le operazioni poste in essere dal contribuente.

Con il primo motivo di ricorso – rubricato: contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – R.S. sostiene che, sebbene abbia sin dal primo grado del giudizio eccepito la inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, inviato a mezzo posta, in quanto sulla copia dell’atto a lui recapitata la relata di notifica non risultava nè compilata, nè firmata, nè esisteva alcuna indicazione delle modalità di notifica, la Commissione Tributaria regionale, con motivazione priva di adeguato supporto argomentativo, ha affermato che la proposizione del ricorso ha sanato eventuali vizi di notifica, pur vertendosi in ipotesi di inesistenza e non di nullità della notifica.

8. Con il secondo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, degli artt. 137, 148, 149, 156, 160 cod. proc. civ. e della L. n. 890 del 1982, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il contribuente lamenta che la sentenza si pone in contrasto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e con l’art. 137 cod. proc. civ., atteso che l’agente postale non è indicato tra i soggetti titolati a compiere attività notificatoria, nonchè con l’art. 148 cod. proc. civ., che considera necessaria la relata di notifica, posta a tutela del destinatario della notifica, il quale, in assenza di certificazione della attività notificatoria, non è in grado di conoscere gli elementi necessari a computare con certezza i termini perentori per l’esercizio di eventuali diritti allo stesso attribuiti.

9. Con il terzo motivo il contribuente deduce “nullità della sentenza, per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, degli artt. 137, 148, 149, 156, 160 cod. proc. civ. e della L. n. 890 del 1982, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, ribadendo che la mancanza di relata produce la inesistenza insanabile della notifica dell’atto, con la conseguenza che la Commissione Tributaria regionale è incorsa in un error in procedendo quando ha affermato che la notifica è avvenuta regolarmente e che il vizio di notifica denunciato sarebbe in ogni caso sanato, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ..

10. Con il quarto motivo si deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, per avere la Commissione Tributaria regionale omesso di pronunciarsi sul motivo di appello concernente la dedotta illegittimità dell’accertamento operato dall’Ufficio a fronte della istanza di concordato preventivo presentata dalla ditta contribuente.

Il ricorrente ha spiegato che avendo effettuato, per l’annualità in contestazione, il concordato preventivo disciplinato dal D.L. n. 269 del 2003, art. 33, comma 8, convertito con modifiche dalla L. n. 326 del 2003 ed integrato dalla L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 10, gli unici poteri di accertamento che residuavano nei suoi confronti erano quelli afferenti ad accertamenti analitici o induttivi motivati dalla mancata esibizione di libri e/o registri obbligatori, mentre erano inibiti all’Ufficio gli accertamenti previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, secondo periodo e dall’art. 55 del medesimo decreto.

Poichè, secondo la prospettazione del contribuente, l’accertamento operato dall’Ufficio, fondandosi su presunzioni, non rientra tra quelli previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, primo periodo, come ritenuto dal giudice di primo grado, l’attività svolta dall’Amministrazione finanziaria sarebbe illegittima.

11. Con il quinto motivo il contribuente deduce “violazione e falsa applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 33, comma 8, convertito con modifiche dalla L. n. 326 del 2003 ed integrato dalla L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per non avere la sentenza impugnata fatto corretta applicazione della norma richiamata.

12. Con il sesto motivo il contribuente deduce “nullità della sentenza per violazione degli artt. 24, 111 Cost., degli artt. 112, 115 cod. proc. civ., del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 58, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 e L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”.

Evidenzia, al riguardo, che la Commissione Tributaria regionale alla udienza di discussione del 8.10.08 ha emesso ordinanza con la quale ha invitato l’Agenzia delle Entrate a produrre copiosa documentazione, e precisamente le fatture emesse dalla società Coces s.n.c. nei confronti del R., le fatture ricevute dalla Coces s.r.l. e provenienti da fornitori esteri, le richieste di rinvio a giudizio o di archiviazione avanzate dalla Procura della Repubblica di Asti nei confronti del contribuente, sentenze di patteggiamento, comunicazioni di notizie di reato o annotazioni di polizia riguardanti i rapporti tra la Coces s.r.l., R.S., R.G., Punto Auto ed altre società, violando il principio del contraddittorio e del diritto di difesa; sostiene pure che la attività istruttoria svolta dalla Commissione Tributaria regionale ha consentito all’Ufficio di depositare documentazione che non era stata allegata all’avviso di accertamento (in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42) e che è stata irritualmente posta dal giudice a fondamento della decisione, senza tener conto delle deduzioni difensive esposte nella memoria depositata in data 27.4.09 (ritrascritta nel ricorso per cassazione).

13. Con il settimo motivo il contribuente denuncia “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, per avere la C.T.R. omesso di pronunciarsi in ordine alla censura concernente la inadeguata motivazione dell’avviso di accertamento.

14. Con l’ottavo motivo di ricorso il contribuente censura la sentenza per “contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, deducendo che la motivazione è contraddittoria perchè, pur facendo riferimento ad operazioni soggettivamente inesistenti ed alla “simulazione soggettiva”, e dunque ad operazioni realmente avvenute sotto il profilo oggettivo, ma che non hanno trovato svolgimento ed esecuzione fra le parti che sono indicate in fattura, ma tra altri soggetti, non individua il terzo soggetto interposto che avrebbe partecipato alla operazione.

15. Con il nono motivo censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 21, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, deducendo che la detraibilità dell’Iva non può essere esclusa senza precisi riscontri sullo stato soggettivo del cessionario in merito all’altruità della fatturazione.

16. Con il decimo motivo censura la sentenza per “insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, per avere il giudice di appello escluso la buona fede del contribuente in assenza di elementi di fatto idonei a supportare tale assunto, considerato che erano stati prodotti in appello i listini Eurotax, dai quali emergeva che i prezzi di acquisto e di vendita praticati erano in linea con i prezzi di mercato, e tenuto conto che l’esiguo margine di guadagno conseguito dalla ditta contribuente, che si collocava tra l’1% ed il 2%, non poteva costituire indice di carenza di buona fede.

17. Logicamente prioritario si presenta l’esame del quarto motivo, che è fondato.

17.1. La Commissione Tributaria regionale, pur essendo pacifico che la ditta contribuente aveva richiesto il concordato preventivo nell’anno di imposta oggetto di accertamento, ha omesso di pronunciarsi sul motivo di appello fatto valere avverso la sentenza di primo grado che aveva ritenuto infondata la eccezione di illegittimità dell’accertamento sollevata dal contribuente.

17.2. L’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello (Cass. n. 22759 del 27/10/2014, Rv. 633205 – 01, Cass. n. 16/3/17 n. 6835).

La omessa pronuncia determina nullità, in parte qua, della decisione.

18. Anche il sesto motivo è fondato.

18.1. A seguito dell’abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti nella materiale disponibilità di una delle parti, non potendo il giudice sopperire con la propria iniziativa officiosa all’inerzia delle parti (Cass. n. 25464 del 18/12/2015; n. 13152 del 11/6/2014).

In tema di contenzioso tributario, d’altro canto, ancora sotto la vigenza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, questa Corte aveva rilevato come il potere istruttorio officioso riservato alle Commissioni tributarie incontrava il limite di non dover sopperire al mancato assolvimento, ad opera della parte, del relativo onere probatorio (Cass. n. 25769 del 5/12/2014; n. 4617 del 22/2/2008).

Non possono dunque considerarsi “indispensabili”, secondo la formulazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 1, quelle prove che non sono state ritualmente prodotte in giudizio per inadempienza delle parti, non potendo tale lacuna essere colmata dall’esercizio dell’indicato potere giudiziale.

18.2. Nel caso di specie, il giudice di appello, esorbitando dai poteri allo stesso attribuiti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, e sostituendosi alla Amministrazione finanziaria, ha svolto una attività istruttoria integrativa volta alla acquisizione di documentazione che la Agenzia delle Entrate avrebbe già dovuto produrre in primo grado a supporto della pretesa tributaria ed ha poi utilizzato detta documentazione ai fini della decisione, avendo dato atto nella motivazione che la sentenza si fonda non solo sulle risultanze delle operazioni di accesso compiute dai verificatori e sulla contabilità, ma anche su “quanto risulta in atti”, e quindi anche sugli elementi di prova ricavati dalla documentazione acquisita per effetto della ordinanza istruttoria del 8.10.08.

Da ciò la nullità della sentenza per violazione del disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58.

19. L’accoglimento del quarto e del sesto motivo di ricorso comporta l’assorbimento di tutti gli altri motivi.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione alle censure accolte.

20. Ricorso n. 14657/12 R.G. Con la sentenza n. 101/22/11 depositata il 16 dicembre 2011, la Commissione tributaria regionale del Piemonte, oltre a respingere le eccezioni di inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento e di difetto di sottoscrizione, sollevate dal R., ha ritenuto fondata la contestata inesistenza soggettiva delle operazioni commerciali e non provata la buona fede del contribuente.

Il R., con il primo motivo, censura la sentenza impugnata per “contraddittoria, insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto la Commissione Tributaria regionale ha ritenuto soggettivamente inesistenti le operazioni di compravendita di autovetture, in difetto di prova, non fornita dalla Agenzia delle Entrate, della interposizione fittizia o della simulazione soggettiva ed in assenza della indicazione del soggetto estero interposto.

Ha, in particolare, osservato che: a) aveva eccepito sia in primo che in secondo grado che le operazioni definite “soggettivamente inesistenti” erano state descritte dalla stessa Agenzia delle Entrate come effettivamente avvenute senza indicazione o individuazione di un diverso cedente delle autovetture, con la conseguenza che doveva ritenersi che tutte le operazioni erano effettivamente avvenute b) la Agenzia delle Entrate non aveva fornito prova degli assunti richiamati nell’avviso di accertamento c) le affermazioni contenute nella sentenza e poste a fondamento della decisione erano state tratte dall’avviso di accertamento, sicchè la motivazione era apparente, e non teneva conto della documentazione prodotta nel giudizio di appello, ed in particolare dei listini del settore e della relazione tecnica redatta da ingegnere esperto nel settore degli autoveicoli comprovante che i prezzi di acquisto delle autovetture oggetto di contestazione erano coerenti con i prezzi di mercato del settore di riferimento d) la società fornitrice Autochallenge s.r.l. era titolare di partita Iva ed operava nel settore degli autoveicoli, circostanza questa che faceva escludere che fosse un soggetto “finto” e) la circostanza che la società Coces s.r.l. non riversasse l’Iva all’Erario non era indice di falsità del fornitore f) il fatto che la Point Car avesse acquistato da Autocommerciale Verbania (che non era fornitore del R.) restava fatto sconosciuto al contribuente ed inidoneo a dimostrare che la Point Car fosse soggetto “finto”.

21. Con il secondo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per avere la sentenza ritenuto, in contrasto con le regole di riparto dell’onere della prova, che nel caso di contestazione di utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti spettava al contribuente dimostrare la propria estraneità ai fatti, sebbene l’Ufficio non avesse fornito alcuna prova concreta, neppure di tipo indiziario, idonea a dimostrare gli elementi di fatto della frode affermati nell’avviso di accertamento, nonchè la ritenuta connivenza nella frode del cessionario.

Ha ribadito di avere intrattenuto rapporti commerciali con le società indicate nell’avviso, tutte operanti nel settore della compravendita di auto, ignorando che i propri fornitori non riversassero l’Iva all’Erario, e che l’Ufficio non aveva offerto prova che i prezzi di acquisto fossero “più favorevoli”, nè che la contribuente avesse usufruito degli effetti favorevoli della frode; ha fatto pure presente che in sede penale era stata dichiarata la sua estraneità ad ogni fatto contestatogli.

22. Con il terzo mezzo ha dedotto “omessa, insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in merito alla ritenuta consapevolezza del contribuente di partecipare, tramite gli acquisti degli autoveicoli, ad eventuali frodi.

Sul punto il ricorrente ha evidenziato che la Commissione Tributaria regionale si è limitata ad affermare “il contribuente avendo avuto contatti commerciali con le imprese su citate, non poteva non sapere che le stesse, dopo avere svolto l’operazione, sparivano, chiudevano e non versavano Iva”, senza tuttavia indicare gli elementi di prova da cui aveva tratto il proprio convincimento, considerato che l’avere avuto contatti con le imprese indicate nell’avviso di accertamento non era di per sè elemento probante della presunta consapevolezza.

23. Con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza per “violazione o falsa applicazione dell’art. 17, p. 2, lett. B) della Direttiva n. 77/388/Cee, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Rileva che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’esigenza di assicurare la riscossione dell’imposta e di evitare le frodi non può essere attuata in modo da pregiudicare il legittimo affidamento del cittadino e che, pertanto, incombe sulla Amministrazione l’onere di fornire elementi di prova atti a giustificare la pretesa fittizietà dell’interposizione e la consapevole partecipazione del contribuente alla frode e, solo a fronte dell’assolvimento di tale onere, spetta al contribuente fornire la prova contraria.

24. Con il quinto motivo deduce “nullità della sentenza, per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, per avere la C.T.R. omesso di pronunciarsi in ordine al motivo di appello concernente la nullità dell’avviso di accertamento per violazione del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, u.c., e L. n. 212 del 2000, art. 7, in quanto non riproducente gli atti richiamati.

25. Con il sesto motivo censura la sentenza per “contraddittoria, insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto la sentenza considera motivato l’accertamento e provata la pretesa, sebbene l’avviso di accertamento non indichi la norma in base alla quale è stato eseguito e faccia riferimento ad atti e verbalizzazioni redatti nei confronti di terzi, non allegati e, quindi, non conosciuti.

26. Con il settimo motivo si deduce “violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il contribuente, in particolare, sottolinea che l’accertamento analitico-induttivo deve essere sorretto da presunzioni gravi, precise e concordanti, come prevede il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e che tali elementi nel caso di specie mancano.

27. Con l’ottavo motivo si deduce, nuovamente, “insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, laddove la sentenza afferma “Col terzo motivo il ricorrente impugna la sentenza dei giudici provinciali riguardo la inesistenza della relata di notifica “.

Il contribuente ha posto in rilievo che già nel giudizio di primo grado aveva eccepito la inesistenza o nullità della notifica dell’avviso di accertamento e la conseguente decadenza della Amministrazione dal potere accertativo per l’annualità 2004, ormai maturato con lo spirare del termine del 31.12.09, questione sulla quale la C.T.R. avrebbe reso una motivazione apparente, dato che nella sentenza si assume che “l’atto sia stato notificato a mezzo del servizio postale in data 9.9.2005”, mentre l’atto di accertamento è stato emesso in data 2/11/2009.

28. Con il nono motivo il contribuente deduce “contraddittoria, insufficiente motivazione in ordine a fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, nella parte in cui la sentenza esamina la questione del difetto di sottoscrizione dell’atto di accertamento, facendo rilevare che la doglianza si riferisce alla mancata sottoscrizione degli atti prodromici all’atto di accertamento da parte di soggetti non titolari del potere accertativo.

29. Con il decimo motivo deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, per non avere la C.T.R. pronunciato sui motivi di appello concernenti 1) disconoscimento dei costi di impresa 2) omessa indicazione nell’avviso di accertamento delle aliquote di imposta applicate e del calcolo degli interessi 3) omessa indicazione delle ragioni giuridiche del trattamento sanzionatorio applicato.

30. Con l’undicesimo motivo si deduce “omessa motivazione in ordine a fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, nella parte in cui la sentenza afferma “vengono assorbite le altre eccezioni poste, considerato il grado di importanza che rivestono”, trattandosi di mera affermazione di stile, non idonea a rendere conto della decisione assunta.

31. Il primo, il secondo, ed il quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la evidente connessione, sono infondati, mentre il terzo motivo è parzialmente fondato nei limiti che di seguito si espongono.

31.1. La questione della detraibilità dell’Iva, nel caso di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti o comunque inerenti ad operazioni iscritte in un meccanismo negoziale finalizzato a frodare il fisco (cd. “frodi carosello”), è stata oggetto di numerose pronunce di questa Corte, le quali hanno chiarito, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, i criteri di ripartizione dell’onere della prova fra fisco e contribuente (Cass. n. 24490 del 2/12/2015; n. 20059 del 24/9/2014; n. 24426 del 30/10/2013; n. 23074 del 14/12/2012).

Va, in primo luogo, ribadito che una fattura che presenti i requisiti di forma e di contenuto richiesti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 fa presumere la veridicità di quanto in essa rappresentato e costituisce, di conseguenza, valido titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva, ricadendo in tal caso sulla Agenzia delle Entrate l’onere di provare il difetto delle condizioni per la detrazione.

In caso di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, ivi compresa l’ipotesi di inesistenza soggettiva, la Amministrazione non può limitarsi a contestare la fattura, ossia la prestazione in essa rappresentata ed il costo indicato, dovendo essa provare che la operazione non è mai stata posta in essere o che è in realtà intervenuta tra soggetti diversi.

Tale prova può essere data dalla Amministrazione fornendo elementi, alla stregua del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 40 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, che possono assumere anche la consistenza di indizi attendibili (presunzione semplice ex art. 2727 cod. civ.), idonei a far affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni fittizie o fornendo elementi probatori che dimostrino in modo certo la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione; qualora gli elementi forniti dall’Ufficio siano dotati dei caratteri di gravità precisione e concordanza, passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass. 23/4/2010 n. 9784).

Con specifico riferimento alla fattispecie riconducibile alle cd. “frodi carosello”, che sono caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente che esercita il diritto alla detrazione Iva proviene in realtà da soggetto diverso da quello fittiziamente interposto che ha emesso la fattura, incassando l’Iva in rivalsa ed omettendo poi di versarla all’Erario, questa Corte ha stabilito che incombe sulla Amministrazione finanziaria l’onere di fornire sia la prova della interposizione fittizia nella operazione commerciale effettivamente posta in essere dal cessionario, prova che può essere data anche attraverso indizi che rivelino la natura di società “cartiera” dell’apparente soggetto cedente che ha emesso la falsa fattura, sia la prova della connivenza nella frode da parte del cessionario o la prova che il contribuente disponeva di indizi idonei ad indurre un normale operatore, mediamente esperto, a sospettare della inesistenza del contraente e della irregolarità della operazione (Cass. n. 10414 del 12/5/2011, Cass. n. 23560 del 20/12/12; Corte Giustizia in C-284/11, Bonik; Corte di Giustizia in C277/14, Ppuh); una volta fornita la prova degli elementi di fatto della frode e della connivenza nella frode da parte del cessionario, spetta al contribuente (cessionario/committente) che ha portato in detrazione l’Iva fornire la prova contraria che l’apparente cedente non è un mero soggetto fittiziamente interposto e che l’operazione è stata realmente conclusa con esso.

A tale fine non è sufficiente, tuttavia, la regolarità della documentazione contabile eseguita e la dimostrazione che la merce è stata effettivamente consegnata e che è stato regolarmente corrisposto il corrispettivo, poichè si tratta di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perchè relativa ad un dato di fatto inidoneo, di per sè, a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass. 12802 del 10/6/2011; n. 5912 del 11/3/10).

Poichè, comunque, non può negarsi al contribuente “in buona fede” l’esercizio alla detrazione Iva versata in rivalsa, si è pure specificato che il soggetto cessionario, qualora non sia in grado di dimostrare, con riferimento al cedente, che la operazione fatturata è “reale” e non fittizia, può fornire prova contraria dimostrando che, sulla base degli elementi conoscitivi acquisiti o rilevabili nel corso delle trattative e della operazione intrattenuta con il soggetto cedente, non sono emerse circostanze che potessero far sorgere il sospetto sulla irregolarità fiscale della operazione.

In tale ipotesi, infatti, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, si pone una esigenza di tutela della buona fede del contribuente in ordine ad eventuali accordi fraudolenti volti alla evasione dell’Iva intercorsi tra il soggetto cedente, che ha emesso la fattura, ed i soggetti intervenuti nelle precedenti operazioni, sulla quale viene ad essere imperniato il principio della neutralità fiscale che caratterizza il sistema comune dell’Iva, in base al quale deve essere riconosciuto il diritto alla detrazione Iva a tutti i soggetti passivi che effettuino operazioni di cessione di beni o di prestazioni di servizi nell’esercizio di una attività economica (cfr. Corte di Giustizia 6.9.12 causa C.324/11, Gabor Toth, Corte giustizia 21.6.12 cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben kft e David).

Come è stato precisato dal Giudice comunitario, “gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte della frode… devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla detrazione dell’Iva pagata a monte” (Corte giustizia 11.5.06 in causa C- 384/04, Federation of Technological Industries; Corte Giustizia 6.7.06, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Kittel e Recolta Recycling srl).

Tali principi sono stati affermati anche nella sentenza della Corte di Giustizia del 21.6.12 (C-80/11 e C-142/11, punti 45-49), in cui viene ribadito che il soggetto passivo che “sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad una operazione che si iscriveva in una evasione dell’Iva deve essere considerato ai fini della direttiva 2006/12, partecipante di tale evasione”, non essendo “compatibile con il regime del diritto alla detrazione previsto dalla suddetta direttiva sanzionare col diniego di tale diritto un soggetto passivo che non sapeva o non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si iscriveva in un’evasione commessa con il fornitore” (Corte di Giustizia 6.12.2012, in C-285/11; C-642/11, punto 48).

31.2. Nel caso di operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare, che è quella contestata dalla Amministrazione finanziaria nel caso in esame, caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano, fittizio, nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), questa Corte ha evidenziato che l’onere gravante sulla Amministrazione “può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (ossia è una cartiera), poichè questo costituisce, da solo, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poichè l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta” (Cass. n. 24426 del 30/10/13).

31.3. La C.T.R., uniformandosi ai principi comunitari ed a quelli enunciati da questa Corte sopra richiamati, ha escluso nel caso in esame la detraibilità della imposta, ritenendo la fittizietà della interposizione e la assenza di buona fede del contraente.

Quanto alla individuazione degli elementi indiziari rilevanti ai fini della decisione, ha posto in rilievo, sulla base dell’atto di accertamento, che a) la ditta fornitrice Auto Challenge s.r.l. “non svolge una reale attività di impresa”, poichè non possiede requisiti di struttura e di organizzazione b) la società Coges s.r.l. non ha assolto gli obblighi tributari, avendo omesso di versare l’Iva e trattenuto la medesima ripartendola con il cliente tramite vendita sottocosto c) la società cedente, Point Car s.r.l., “ha posto in essere fatture soggettivamente inesistenti provenienti dalla società Auto Commerciale Verbania s.r.l., operatore fittizio, all’uopo costituito e che non disponeva di normali strutture organizzative e commerciali”; tali circostanze, complessivamente valutate, sono sicuramente idonee a far ritenere provata, da parte dell’Amministrazione fiscale, la natura di “cartiere” delle società interposte.

Sotto il profilo della conoscenza o conoscibilità da parte del contribuente, la C.T.R. ha ritenuto che la immediatezza dei rapporti intercorsi tra i soggetti coinvolti inducesse ragionevolmente ad escludere la ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta ed ha negato che gli elementi probatori offerti dalla ditta contribuente fossero idonei a superare gli elementi presuntivi esposti dall’Ufficio, considerato che la regolarità della documentazione contabile, la effettiva consegna dei veicoli previo versamento del corrispettivo e la congruità dei prezzi praticati – che il ricorrente assumeva di avere dimostrato mediante la produzione in appello dei listini di settore e di consulenza tecnica redatta da un ingegnere esperto nel settore – non costituivano circostanze concludenti (Cass. n. 428 del 14/1/2015), trattandosi di dati facilmente falsificabili.

La sentenza, pertanto, con riferimento alla detraibilità dell’Iva, è esente dalle censure ad essa rivolte, in quanto ha fatto corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova, e la motivazione, che risulta esaustiva ed immune da vizi logici, consente di individuare il percorso logico-giuridico che ha condotto il giudice ad adottare quella decisione.

31.4. Un discorso distinto occorre invece svolgere per quanto concerne la deducibilità dei costi per operazioni inesistenti ai fini delle imposte dirette.

Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata anche nella parte in cui la C.T.R. afferma che “…anche sotto il profilo dell’imposizione diretta, l’acquisto di merce con fatture soggettivamente inesistenti non comporta la detrazione dei costi ove non emerga chiaramente la buona fede dell’acquirente”.

31.5. Deve, al riguardo, rilevarsi che il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, (convertito in L. 26 aprile 2012, n. 44) ha sostituito la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis nei seguenti termini: “Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 425 c.p.p. ovvero la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p…..”.

Tale disposizione normativa ha diretta rilevanza nel presente giudizio, operando quale “ius superveniens”, che trova applicazione d’ufficio anche in sede di legittimità, in quanto il rapporto tributario controverso non è ancora esaurito.

Infatti, il comma 3 dello stesso art. 8 ha stabilito che le disposizioni di cui al citato comma 1 “si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore” dello stesso comma 1, ” ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi”.

Questa Corte ha già rilevato, sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16 del 2012, che la nuova normativa comporta che, poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni; ferma, restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. 24426 del 30/10/2013; n. 13803 del 18/6/2014, n. 10167 del 20/6/12, n. 12503 del 22/5/13; n. 25249 del 7/12/2016).

Ne consegue che ai soggetti coinvolti nelle “frodi carosello” non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti.

Poichè nel caso in esame non è in contestazione la oggettività delle operazioni commerciali poste in essere dalla ditta R., risulta del tutto irrilevante l’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della ditta cessionaria, anche se rimangono fermi i criteri ordinari, previsti dall’art. 109 del Testo Unico delle imposte dirette, che impongono la verifica della sussistenza dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità dei componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile.

32. Il quinto motivo è infondato.

32.1. La C.T.R., seppure con motivazione sintetica, ha respinto il motivo di appello affermando che l’Ufficio ha eseguito l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e che, sebbene l’accertamento sia scaturito da precedenti controlli effettuati nei confronti di altri soggetti, il contribuente è stato posto in condizione di difendersi, tanto che è stato invitato a produrre documentazione probatoria.

Non è, quindi, ravvisabile vizio di omessa pronuncia, che ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass. n. 28308 del 27/11/2017; n. 7653 del 16/5/2012).

33. Il sesto motivo è inammissibile.

Infatti, è inammissibile, per difetto di autosufficienza, il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.p., comma 1, n. 5, avverso la sentenza che abbia ritenuto correttamente motivato l’atto impositivo, qualora non sia trascritta la motivazione di quest’ultimo, precludendo, pertanto, al giudice di legittimità ogni valutazione (Cass. n. 2928 del 13/02/2015; n. 16147 del 28/6/2017).

Nel caso di specie il ricorrente ha omesso la trascrizione dell’atto impugnato.

34. Il settimo motivo è inammissibile.

34.1. Il ricorrente, sebbene lamenti la violazione o falsa applicazione di legge, prospetta in realtà un vizio di motivazione, assumendo che la disamina di tutte le censure mosse in primo ed in secondo grado avrebbero dovuto condurre il giudice di appello ad una diversa decisione e si limita a richiamare fatti che, secondo l’assunto difensivo, non sarebbero stati esaminati (esborsi sostenuti per l’acquisto dei veicoli acquistati, mancata indicazione dei fornitori comunitari, assoluzione in sede penale), che sono, di per sè, non idonei ad escludere la inesistenza soggettiva delle operazioni e la partecipazione alla frode.

35. L’ottavo motivo è inammissibile.

35.1. Con riferimento alla eccepita inesistenza della relata di notifica ed alla decadenza della Amministrazione dal potere accertativo, la C.T.R. ha motivato che l’atto è stato notificato a mezzo servizio postale in data 9.9.2005 e che, conseguentemente, il contribuente ha avuto possibilità di spiegare il diritto di difesa; ha inoltre richiamato giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la eccezione di inesistenza o inefficacia della notifica dell’avviso di accertamento può essere fatta valere solo al fine di eccepire la decadenza dal potere accertativo o al fine di dimostrare la tempestività dell’impugnazione.

Tale statuizione è conforme al principio espresso dalla Corte, secondo il quale anche in tema di notifica di un atto tributario l’inesistenza è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle ipotesi in cui venga posta in essere una attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità, sanabile con efficacia “ex tunc” o per raggiungimento dello scopo (Cass. n. 21865 del 28/10/2016).

35.2. Nel caso di specie la notifica ha raggiunto il suo scopo con effetto sanante, posto che il contribuente ha tempestivamente esercitato il suo diritto di difesa proponendo il ricorso, mentre la doglianza relativa alla decadenza della Amministrazione dal potere accertativo è generica, in ragione della mancata indicazione, da parte del contribuente, della data in cui è avvenuta la notifica e dovendo ritenersi che quella indicata nella sentenza impugnata sia dipesa da un mero errore materiale.

36. Il nono motivo è infondato. La C.T.R. ha rilevato che l’atto impugnato reca la firma del soggetto addetto all’Ufficio, in conformità a quanto previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e, pertanto, non è ravvisabile il dedotto vizio di motivazione per il fatto che il Giudice di appello non si è pronunciato in merito alla mancanza di sottoscrizione di atti prodromici all’atto di accertamento (atti non autonomamente impugnabili) da parte di soggetti non titolari del potere accertativo, trattandosi di doglianza che non investe l’atto oggetto di impugnazione.

37. Il decimo motivo è fondato.

37.1. La C.T.R., come dedotto dal contribuente e come si desume dall’esame dei motivi di appello ritrascritti nel ricorso, non ha esaminato e deciso le doglianze formulate in ordine alla mancata indicazione nell’avviso di accertamento delle aliquote di imposta applicate, dei criteri di calcolo degli interessi di mora e delle sanzioni, pur trattandosi di contestazioni dedotte con il ricorso di primo grado e reiterate in sede di appello.

Costituisce una violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, e configura il vizio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., l’omesso esame di specifiche richieste o eccezioni fatte valere dalla parte e rilevanti ai fini della definizione del giudizio, che va fatto valere ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 22759 del 27/10/2014; n. 16/3/17 n. 6835).

38. L’undicesimo motivo è inammissibile, in quanto il contribuente, pur deducendo un vizio di motivazione della sentenza, laddove la C.T.R. ha affermato “vengono assorbite le altre eccezioni poste, considerato il grado di importanza che rivestono”, omette di indicare le eccezioni decisive e rilevanti non esaminate dal giudice di appello.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione alle censure accolte.

39. Alla stregua delle considerazioni che precedono, i ricorsi iscritti ai nn. 27505/10 R.G., 8403/11 R.G. e 14657/12 R.G. vanno accolti in relazione ai motivi ritenuti sopra fondati, con conseguente cassazione delle decisioni impugnate e rinvio delle cause alla Commissione Tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, per il riesame e per la liquidazione delle spese dei giudizi di legittimità.

40. Ricorso n. 11680/13 R.G. Il ricorso concerne la impugnazione di cartella di riscossione provvisoria di avviso di accertamento oggetto dei ricorsi precedenti nei termini sopra indicati.

La Commissione tributaria regionale del Piemonte, con la sentenza impugnata n. 103/36/12 depositata il 29/10/12, ha respinto l’appello del contribuente, ritenendo infondati tutti i motivi di gravame proposti concernenti la inesistenza della notifica, il difetto di sottoscrizione del ruolo e della cartella, nonchè il difetto di motivazione della cartella di pagamento.

R.S. denuncia, con il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 12 e 25 e D.P.R. n. 546 del 1992, art. 19, lamentando che la C.T.R. ha escluso la necessità della sottoscrizione del responsabile del procedimento sul ruolo.

40.1. Il motivo è infondato, perchè, come correttamente rilevato dalla C.T.R. nella sentenza impugnata, non è richiesta, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, la sottoscrizione del ruolo da parte del titolare dell’Ufficio, trattandosi di atto privo di un autonomo rilievo esterno.

Al riguardo, questa Corte ha chiarito che in tema di riscossione delle imposte sui redditi, ai sensi del D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5-ter, conv., con modif., dalla L. n. 156 del 2005, norma di interpretazione autentica del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, i ruoli sono formati e resi esecutivi anche mediante la cd. validazione informatica dei dati in essi contenuti, eseguita in via centralizzata dal sistema informativo dell’Amministrazione creditrice, che deve considerarsi equipollente alla sottoscrizione del ruolo stesso (Cass. n. 1449 del 20/01/2017; n. 23550 del 18/11/2015).

41. Con il secondo motivo ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma, n. 4, vizio di difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c., poichè nella sentenza impugnata era stato precisato che “l’unico vincolo previsto consiste nell’obbligo di indicare in cartella la data di esecutorietà”, mentre l’oggetto delle censure riguardava la mancanza di esecutorietà del ruolo per mancanza di sottoscrizione.

41.1. Il motivo è infondato. La C.T.R. si è pronunciata sulla questione sollevata, affermando che sulla cartella risulta indicata la data in cui il ruolo è divenuto esecutivo e che, non prevedendo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 la “apposizione della firma del responsabile del ruolo sull’atto”, la Agenzia aveva correttamente operato; così motivando il giudice di appello si è pronunciato escludendo il vizio denunciato.

42. Con il terzo motivo denuncia, “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, art. 2697 cod. civ., artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., nonchè insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia”, lamentando la errata statuizione della C.T.R. in merito ai vizi di notifica della cartella impugnata, effettuata a mezzo posta, concernenti la assenza di relata e la mancanza di prova della consegna al destinatario.

42.1. Il motivo è infondato.

42.2. In primo luogo la Corte ha già chiarito che “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, comma penultimo, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione” (Cass. n. 16919 del 10/8/2016; ord. 6395 del 19/3/2014; n. 4567 del 6/3/2015).

Quanto, poi, all’eccepito difetto di prova della consegna al destinatario, la C.T.R. ha affermato che la prova si desume dalla documentazione allegata da Equitalia Nord s.p.a. e, di conseguenza, l’accertamento in fatto svolto dal giudice di appello non è censurabile in sede di legittimità.

42.3. La censura è inoltre inammissibile nella parte in cui si contesta la mancata corrispondenza tra la relata prodotta da Equitalia Nord s.p.a. nei gradi di merito e la cartella impugnata; l’omessa trascrizione della relata di notifica priva, invero, il ricorso di autosufficienza, in quanto qualora oggetto del motivo di ricorso per cassazione sia una relata di notifica, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale della relata stessa (Cass. n. 5185 del 28/2/2017; n. 17424 del 2/9/2015).

43. Con il quarto motivo ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, artt. 2697 e 2713 cod. civ., artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., nonchè insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia, lamentando la errata statuizione della C.T.R. in merito all’eccepito difetto di completezza dell’atto impugnato.

44. Con il quinto motivo ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, artt. 2697 e 2713 cod. civ., artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., nonchè insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia, lamentando che la C.T.R. avrebbe dato rilievo alla circostanza che il contribuente non si sarebbe attivato “al fine di ottenere una copia completa della cartella (incluse cioè le pagine mancanti)”.

44.1. Sono infondati anche il quarto ed il quinto motivo di ricorso.

44.2. Sul tema si registrano, invero, due diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità, ma questo Collegio intende aderire all’orientamento che risulta prevalente, in base al quale, ove il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della notificazione è sufficiente – anche alla luce della disciplina dettata dal D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39 – che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento a carico dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; ai predetti fini non si ritiene invece necessario che l’agente della riscossione dia la prova anche del contenuto del plico spedito con lettera raccomandata, dal momento che l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 5397 del 18/3/2016; n. 15315 del 4/7/2014; n. 9111 del 6/6/12; n. 20027 del 30/9/2011).

44.3. In altri termini, la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere l’invio e la conoscenza dell’atto, mentre l’onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l’atto spetta non già al mittente (in tal senso, Cass. ord. n. 9533 del 12/5/2015; n. 2625/2015; n. 18252 del 30/7/2013; n. 24031 del 10/11/2006; n. 3562 del 22/2/2005), bensì al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. sez. 1^, 22 maggio 2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322 del 14/11/2014; n. 15315 del 4/7/2014; n. 23920 del 22/10/13; n. 16155 del 8/7/2010; n. 17417 del 8/8/2007; n. 20144 del 18/10/2005; n. 15802 del 28/7/2005; n. 22133 del 24/11/2004; n. 771 del 20/1/2004; n. 11528 del 25/7/2003; n. 4878/1992; 4083/1978; cfr. Cass. ord. n. 20786 del 2/10/2014, per la quale tale presunzione non opererebbe – con inversione dell’onere della prova – ove il mittente affermasse di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contestasse tale circostanza).

44.4. L’orientamento prevalente risulta peraltro conforme al principio generale di c.d. vicinanza della prova, poichè la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di testimoni, che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto.

44.5. Merita dunque di essere confermato il principio per cui, in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26 (così come, più in generale, in caso di spedizione di plico a mezzo raccomandata), la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta dal notificante mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, poichè, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione, come nel caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un atto diverso da quello che si assume spedito).

44.6. Ne consegue che, nel caso di specie, non avendo il contribuente fornito la prova dell’asserita assenza, all’interno della busta notificatagli, di parte dei fogli che componevano la cartella di pagamento impugnata, detta notifica deve ritenersi validamente perfezionata.

45. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 212 del 2000, art. 7 e L. n. 241 del 1990, art. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, lamentando la errata statuizione del giudice di appello in merito all’eccepito difetto di motivazione della cartella impugnata.

46. Con il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 212 del 2000, art. 7, L. n. 241 del 1990, art. 3, nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ. ed insufficiente, contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia, lamentando che la C.T.R. avrebbe dato rilievo alla circostanza che il contribuente avrebbe potuto “chiedere chiarimenti (anche in fase dell’attuale giudizio) e contestare specifici errori di calcolo”.

46.1. Il sesto e settimo motivo sono inammissibili.

46.2. In tema di contenzioso tributario, è inammissibile, infatti, per difetto di autosufficienza, il ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia ritenuto legittima una cartella di pagamento ove sia stata omessa la trascrizione del contenuto dell’atto impugnato, restando preclusa al Giudice di legittimità la verifica della corrispondenza tra contenuto del provvedimento impugnato e quanto asserito dal contribuente (cfr. Cass. n. 17321 del 13/7/2017; n. 16010 del 29/7/2015).

Nella specie, il ricorrente ha omesso la trascrizione, nonostante la dettagliata censura, dianzi illustrata, circa la motivazione della cartella.

47. Ricorso n. 15361/13 R.G. Anche quest’ultimo ricorso ha per oggetto la impugnazione proposta avverso cartella di riscossione provvisoria degli avvisi di accertamento oggetto dei giudizi precedenti.

Con la sentenza n. 95/28/12 del 10/12/2012, la Commissione tributaria regionale del Piemonte ha rigettato l’appello proposto dal contribuente, respingendo tutte le doglianze fatte valere concernenti vizi propri della cartella e del ruolo.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 25, D.P.R. n. 546 del 1992, art. 19, nonchè nullità della sentenza o del procedimento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando errata statuizione della C.T.R. in merito all’eccepito difetto di sottoscrizione del ruolo.

48. Con il terzo motivo (erroneamente indicato come quarto in ricorso) denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 10, artt. 112, e 115 c.p.c., “nullità della sentenza o del procedimento”, nonchè “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio” e lamenta che la C.T.R. ha omesso di rispondere sulla specifica eccezione di mancanza di sottoscrizione del ruolo.

49. Con il quarto motivo (erroneamente indicato come quinto in ricorso) il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 12 e 25, D.P.R. n. 546 del 1992, art. 19, nonchè omessa o contraddittoria motivazione, ribadendo che la sottoscrizione è un elemento essenziale affinchè il ruolo acquisti efficacia esecutiva e che la C.T.R. ha affermato che non era in dubbio la provenienza di tale documento dalla Amministrazione e che tale circostanza fosse di per sè sufficiente a superare la mancanza di prova della sottoscrizione.

49.1. Il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso sono infondati per le ragioni già esposte ai paragrafi 40 e 40.1. con riguardo ad analoghe censure fatte valere dal R. con il ricorso iscritto al n. 11680/13 R.G. e non sono pertanto ravvisabili nè le denunciate violazioni di legge, nè i vizi di omessa pronuncia o di insufficiente o contraddittoria motivazione, considerato che il giudice di appello, pronunciandosi espressamente sulla questione, ha posto in rilievo che i ruoli formati direttamente dall’ente creditore sono redatti, firmati e consegnati, mediante trasmissione telematica, ai competenti concessionari del servizio nazionale della riscossione e che la eventuale mancanza di sottoscrizione della cartella non comporta nè nullità, nè annullabilità dell’atto.

49.2. Nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, u.c., manca, infatti, qualsiasi espressa previsione della sanzione legale della nullità del ruolo per omessa sottoscrizione, costituendo ius receptum il principio che, in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana, così come la giurisprudenza di legittimità ha chiarito nei più vari contesti, quali ad esempio la cartella esattoriale (cfr. Cass. n. 13461 del 2012), il diniego di condono (Cass. n. 11458 del 2012), l’avviso di mora (cfr. Cass. n. 4283 del 2010), l’attribuzione di rendita (cfr. Cass. n. 8248 del 2006), l’ordinanza-ingiunzione (cfr. Cass. n. 13375 del 2009) e diversamente da quel che accade per l’avviso di accertamento che, se non sottoscritto, è nullo per tassativa previsione di legge (cfr. Cass. n. 18758 del 2014; cfr. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56).

49.3. In assenza dell’espressa previsione di elementi formali a pena di nullità, rileva, dunque, unicamente che l’atto sia riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, a meno che non si dimostri, con onere della prova a carico di colui che l’allega, l’insussistenza del potere o della provenienza, ipotesi che non ricorre nel caso in esame.

50. Con il quinto motivo (erroneamente indicato come sesto in ricorso) ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7, artt. 24 e 111 Cost., art. 2697 cod. civ., artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, lamentando che la cartella non è stata redatta in conformità al modello ministeriale all’epoca in vigore.

51. Con il sesto motivo (erroneamente indicato come settimo in ricorso) ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 2697 cod. civ., artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ. ed “omessa o comunque insufficiente e contraddittoria pronunzia sopra punti decisivi della controversia”, nonchè nullità della sentenza o del procedimento, evidenziando che, a fronte dell’eccepito difetto di motivazione della cartella esattoriale, la C.T.R. ha erroneamente ritenuto “sufficiente una motivazione inesistente”.

52. Con il settimo motivo (erroneamente indicato come ottavo in ricorso) ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 20, L. n. 212 del 2000, art. 7, artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ. ed “omessa o comunque insufficiente e contraddittoria pronunzia sopra punti decisivi della controversia”, sottolineando che, in riferimento alle contestazioni concernenti il calcolo degli interessi, dell’aggio e delle spese di notifica riportato nelle cartelle impugnate, la C.T.R. si è limitata ad affermare che, risultando indicata la data di esecutività dei ruoli, il contribuente fosse in grado di calcolare gli interessi.

53. Con l’ottavo motivo (erroneamente indicato come nono in ricorso) ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, e D.M. 4 agosto 2000, nonchè “omessa o comunque insufficiente e contraddittoria pronunzia sopra punti decisivi della controversia”, lamentando che la C.T.R. avrebbe erroneamente ritenuto insussistente la carenza di motivazione per mancata indicazione del calcolo dei compensi del concessionario e delle spese di notifica riportati nelle cartelle impugnate.

53.1. Il quinto, il sesto, il settimo ed ottavo motivo di ricorso sono inammissibili per le ragioni già evidenziate al paragrafo 46.2. con riguardo alle censure svolte con il ricorso iscritto al n. 11680/13 R.G. 54. Con l’ottavo motivo dedotto con il ricorso iscritto al n. 11680/13 R.G. e con il primo motivo dedotto con il ricorso iscritto al n. 15361/13 R.G., il R. lamenta “violazione e falsa applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito in L. n. 44 del 2012, nonchè motivazione insufficiente, contraddittoria o illogica su punti decisivi per la controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Si duole, in particolare, del fatto che la C.T.R., sebbene diverse voci delle cartelle impugnate si riferiscano alle imposte dirette, non abbia tenuto conto della disposizione normativa sopravvenuta, richiamata in rubrica, che esplica efficacia in relazione ad accertamenti non ancora definitivi.

54.1. In relazione al tema della applicabilità dello ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito in L. n. 44 del 2012, alle cartelle di riscossione in esame, operano gli stessi principi già sopra richiamati per gli avvisi di accertamento (v. paragrafi 31.4 e 31.5), attesa la dipendenza delle cartelle di pagamento dagli atti impositivi oggetto dei precedenti giudizi, trattandosi, come già detto, di cartelle frazionate dei suddetti avvisi di accertamento.

56. Alla luce di tali argomentazioni, respinte tutte le altre censure, in accoglimento dell’ottavo motivo dedotto con il ricorso n. 11680/13 R.G., la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Commissione Tributaria del Piemonte, in diversa composizione, per il riesame e per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità; in accoglimento del primo motivo dedotto con il ricorso n. 15361/13 R.G., rigettate le altre censure, la sentenza va cassata in relazione alla denegata applicazione dello ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito in L. n. 44 del 2012, con rinvio della causa alla Commissione Tributaria del Piemonte, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.
riuniti al presente ricorso n. 27505/10 R.G. i ricorsi nn. 8403/11 R.G., 14657/12 R.G., 11680/13 R.G. e 15361/13 R.G., la Corte accoglie, quanto al ricorso n. 27505/10 R.G., il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo ed il ricorso incidentale; quanto al ricorso n. 8403/11 R.G., accoglie il quarto ed il sesto motivo, assorbiti tutti gli altri; quanto al ricorso n. 14657/12 R.G., accoglie il terzo motivo nei limiti indicati in motivazione ed integralmente il decimo, rigettati tutti gli altri; quanto al ricorso n. 11680/13 R.G., accoglie l’ottavo motivo, respinti gli altri e corrispondentemente cassa le sentenze impugnate in relazione ai motivi accolti; decidendo sul ricorso n. 15361/13 R.G., cassa altresì la sentenza impugnata in relazione alla denegata applicazione dello ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito in L. n. 44 del 2012; rinvia alla Commissione tributaria del Piemonte, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese relative a tutti i riuniti giudizi di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 28-02-2018) 28-05-2018, n. 13270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27302-2016 proposto da:

PAM PANORAMA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 31, presso lo studio dell’avvocato FABIO PULSONI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIA MARESCA giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. GALILEI 45, presso lo studio dell’avvocato PIETRO UGO LITTA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO ERMINI giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2752/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/09/2016 R.G.N. 2819/2013.

Svolgimento del processo
CHE:

La Corte d’Appello di Roma con sentenza resa pubblica in data 5/9/2016, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato dalla PAM Panorama s.p.a. nei confronti di M.G. in data 12/10/2009.

Gli addebiti ascritti alla lavoratrice consistevano nell’aver svolto in periodo di astensione dal lavoro per malattia e per infortunio (a causa di tendinopatia bilaterale sovra spinoso spalla destra e sinistra, distrazione spalla destra e contusione ginocchio sinistro), attività lavorativa di vendita ed incasso, in concorrenza con quella svolta presso la datrice di lavoro, per conto e nell’interesse dell’attività di bar pasticceria intestata al coniuge, oltre ad attività fisica accessoria incompatibile con lo stato di malattia in cui versava.

In estrema sintesi, a fondamento del decisum la Corte distrettuale argomentava che dall’articolato quadro istruttorio definito in prime cure era emerso che la ricorrente durante il periodo di astensione dal lavoro aveva lavorato presso il bar complessivamente solo per poche ore, deducendo che, in tale contesto probatorio ed in assenza di divieto di legge, non era configurabile alcuna necessità di riposo assoluto per la lavoratrice. Non riteneva, pertanto, fosse emersa alcuna fraudolenta simulazione dello stato di malattia e dell’infortunio, nè che la lavoratrice avesse assunto un rischio di aggravamento delle proprie condizioni di salute.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la P.A.M. S.p.a. affidato a sei motivi. Resiste con controricorso la parte intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
CHE 1. Con i primi cinque motivi, denunciando omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente si duole che il giudice del gravame abbia tralasciato di considerare una serie di episodi oggetto di contestazione (il 27 e il 28/9/09, il 30/9/09, il 3-8-912/10/09) nel corso dei quali, oltre a servire clienti presso l’esercizio bar pasticceria del coniuge, aveva camminato con scarpe dal tacco alto e trasportato pesi, ponendo in essere una condotta incompatibile con il proprio stato di salute.

2. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano profili di inammissibilità.

Non può sottacersi che i rilievi formulati dalla ricorrente sono volti essenzialmente a sindacare un accertamento fattuale condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere dimostrata, alla stregua delle circostanze riferite dai testimoni escussi e dai dati documentali acquisiti agli atti, la effettività dello stato patologico in cui versava la lavoratrice – verificata anche alla stregua della visita di controllo svolta dal medico fiscale e delle certificazioni mediche rilasciate da strutture sanitarie pubbliche – e l’insussistenza di elementi dai quali desumere la necessità di riposo assoluto.

I dati istruttori acquisiti deponevano altresì nel senso della partecipazione meramente sporadica della M. allo svolgimento della attività commerciale presso il bar gestito dal coniuge, che non comportava pregiudizievoli ricadute, stante l’occasionalità delle prestazioni, sul proprio stato di salute, sicchè non comprometteva l’interesse della parte datoriale al conseguimento della prestazione lavorativa.

Premesso che la quaestio facti rilevante in causa è stata trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, va rimarcato che a tale ricostruzione il ricorrente ne contrappone una difforme, non censurando puntualmente quella svolta in sentenza, ma proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti, secondo modalità non compatibili con i dettami di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134.

Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 applicabile nella fattispecie, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881, Cass. sez. un. 7/4/2014 n. 8053). Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”,, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

L’iter motivazionale che pervade l’impugnata sentenza, per quanto sinora detto e fatto cenno nello storico di lite, non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità; onde la pronuncia resiste alle censure all’esame.

3. Con il sesto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., in relazione alla censura di inammissibilità del gravame, delibata dalla Corte di merito con motivazione solo apparente.

4. La censura presenta evidenti profili di inammissibilità.

E’, invero, principio affermato da questa Corte e che va qui ribadito, quello secondo cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza la relativa censura deve essere proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, e oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (vedi, per tutte: Cass. SU 22/5/2012, n. 8077).

L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone infatti che la pa7te, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (nei descritti termini, fra le altre, vedi Cass. 30/9/2015, n. 19410). Nello specifico, il motivo presenta innegabili carenze, avendo la ricorrente omesso del tutto di riportare il tenore dell’atto introduttivo del giudizio di appello onde consentire a questa Corte, di verificare ex actis la fondatezza della censura.

5. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto. Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 28 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2018


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-03-2018) 23-05-2018, n. 12753

In caso di assenza temporanea del contribuente, la notifica degli atti impositivi mediante deposito presso la Casa comunale è valida solo se la relativa informativa, spedita a mezzo raccomandata a/r dall’ente impositore, sia effettivamente ricevuta dal destinatario. Né l’impugnazione dell’atto successivo può sanarne il vizio.

Sono queste le principali precisazioni contenute nell’ordinanza n. 12753 del 23 maggio 2018 pronunciata della Corte di cassazione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21648-2013 proposto da:

G.C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CESARE FEDERICO GLENDI;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD SPA, domiciliato in ROMA presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE rappresentato e difeso dagli Avvocati GIOVANNI CALISI, GAVINO ERSILIO (avviso postale ex art. 135);

– controricorrente – avverso la sentenza n. 75/2012 della COMM.TRIB.REG. di GENOVA, depositata il 22/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/03/2018 dal Consigliere Dott. LIANA MARIA TERESA ZOSO.

Svolgimento del processo
1. G.C. impugnava varie intimazioni di pagamento notificategli da Equitalia Sestri s.p.a. assumendo di essere venuto a conoscenza di esse a seguito del pignoramento in quanto la notifica di dette intimazioni non si era perfezionata poichè era stato effettuato il deposito preso la casa comunale senza l’affissione dell’avviso presso la casa di abitazione e senza l’invio di raccomandata, benchè non si trattasse di irreperibilità assoluta del destinatario, ma di irreperibilità relativa. Sosteneva il ricorrente, altresì, che mancava la valida notifica delle cartelle prodromiche. La commissione tributaria provinciale di Savona rigettava il ricorso con sentenza che era confermata dalla CTR della Liguria sul rilievo che le intimazioni di pagamento erano state ritualmente notificate a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, che richiama il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per il che anche in caso di irreperibilità relativa del destinatario era sufficiente l’affissione nell’albo comunale e l’invio al destinatario di raccomandata. Osservava, poi, la CTR che le cartelle prodromiche risultavano ritualmente notificate in quanto la concessionaria aveva prodotto gli avvisi di ricevimento delle raccomandate da cui si evinceva il numero delle cartelle cui inerivano ed il documento meccanografico da cui si rilevava la corrispondenza del numero e data della raccomandata con il numero di cartella cui si riferiva.

2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione il contribuente affidato a due motivi illustrati con memoria. Resiste con controricorso Equitalia Nord s.p.a., già Equitalia Sestri s.p.a.. L’Agenzia delle entrate – Riscossione ha depositato memoria.

3. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 art. 112 c.p.c.. Sostiene che gli avvisi di intimazione non erano stati ritualmente notificati perchè, trattandosi di irreperibilità relativa del destinatario, anche le cartelle e gli avvisi di pagamento dovevano essere notificati a mezzo dell’espletamento delle attività di cui all’art. 140 c.p.c. e non solo a mezzo del deposito presso la casa comunale seguito dall’invio di raccomandata.

4. Con il secondo motivo deduce, in via gradata, violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 26 e 50 e art. 2697 c.c.. Sostiene che, nel caso in cui il primo motivo di ricorso non fosse accolto, la sentenza della CTR dovrebbe essere cassata relativamente al capo con cui è stata dichiarata la legittimità della notifica delle cartelle di pagamento prodromiche.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente rileva la Corte che la memoria depositata dall’Agenzia delle entrate-Riscossione è tardiva in quanto è pervenuta a questo ufficio il 21 marzo 2018.

2. Il primo motivo di ricorso è fondato. Va premesso che il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, prevede che, nelle fattispecie di cui all’art. 140 c.p.c., (irreperibilità c.d. relativa del destinatario o rifiuto di ricevere la copia nei luoghi di residenza, dimora o domicilio, noti ed esattamente individuati, dovendo altrimenti osservarsi il disposto dell’art. 143 c.p.c.), la notifica della cartella di pagamento si effettui con le modalità fissate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (“lett. e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c. si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione”). La notifica, secondo l’art. 26 citato, “si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune”. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 3 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., disposizione richiamata dall’art. 26 citato, nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione. A seguito di tale sentenza, pertanto, la notificazione effettuata ai sensi di tale disposizione si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione (Cass. 14316/2011). La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 258/2012, ha dichiarato inoltre l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 3, (corrispondente all’attualmente vigente comma 4), nella parte in cui stabilisce, per l’appunto, che la notificazione della cartella di pagamento “nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c…. si esegue con le modalità stabilite dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60”, anzichè “nei casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario… si esegue con le modalità stabilite dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, alinea e lett. e)”.

I giudici della Consulta hanno infatti evidenziato che, nell’ipotesi di irreperibilità meramente “relativa” del destinatario (vale a dire, nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c., come recita il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3), la cartella di pagamento andrebbe notificata, secondo la lettera della disposizione, applicando, in realtà, non l’art. 140 c.p.c., ma le formalità previste per la notificazione degli atti di accertamento a destinatari “assolutamente” irreperibili (lettera e) del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1) e che pertanto, a differenza di quanto previsto per la notifica dell’avviso di accertamento, per la validità della notificazione della cartella, “nonostante che il domicilio fiscale sia noto ed effettivo”, non sarebbero “necessarie… nè l’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, nè la comunicazione del deposito mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento”, essendo prevista solo l’affissione nell’albo del Comune, secondo modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella (sul modello di quanto previsto dall’art. 143 c.p.c.), con evidente disparità di trattamento di situazioni omologhe e violazione dell’art. 3 Cost.. La Consulta ha quindi ritenuto della cartella (sul modello di quanto previsto dall’art. 143 c.p.c.), con evidente disparità di trattamento di situazioni omologhe e violazione dell’art. 3 Cost.. La Consulta ha quindi ritenuto necessario “restringere” la sfera di applicazione del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea e lett. e), “alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile e, quindi, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, previsto dall’art. 140 c.p.c.”, cosicchè, nei casi di “irreperibilità c.d. relativa” (cioè nei casi di cui all’art. 140 c.p.c.), va invece applicato, con riguardo alla notificazione delle cartelle di pagamento, il disposto dello stesso D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., in forza del quale “per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni del predetto D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60” e, quindi, in base all’interpretazione data a tale normativa dal diritto vivente, quelle dell’art. 140 c.p.c., cui anche rinvia l’alinea del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1.

Pertanto, le disposizioni sopra richiamate richiedono effettivamente, per la validità della notificazione della cartella di pagamento, effettuata nei casi di irreperibilità c.d. relativa del destinatario, quali disciplinati dall’art. 140 c.p.c., l’inoltro al destinatario della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale e la sua effettiva ricezione, non essendo, per tale modalità di notificazione degli atti, sufficiente la sola spedizione. Il perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., necessita dunque del compimento di tutti gli adempimenti stabiliti da tale norma, con la conseguenza che, in caso di omissione di uno di essi la notificazione è da considerarsi nulla. La notificazione, è invece inesistente quando essa manchi del tutto ovvero sia stata effettuata in modo assolutamente non previsto dalla legge, come, ad es., nel caso sia avvenuta in un luogo o con riguardo a persona che non abbiano attinenza alcuna (o che non presentino alcun…. riferimento o collegamento) con il destinatario della notificazione stessa, risultando a costui del tutto estranea. Orbene, nella specie non sono stati effettuati tutti gli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., per il perfezionamento del procedimento notificatorio, atteso che la concessionaria, con il controricorso, ha affermato di aver disposto l’affissione dell’avviso alla casa comunale e di aver inviato la raccomandata ma non già che questa è pervenuta nella sfera di conoscenza del destinatario. In definitiva, la notifica delle intimazioni di pagamento è stata effettuata senza il rispetto di tutte le prescrizioni dettate dalla normativa operante nei casi di irreperibilità c.d. relativa del destinatario dell’atto.

Il contribuente ha affermato di aver avuto conoscenza delle intimazioni di pagamento solo nel corso del pignoramento successivamente intrapreso, per il che risulta infondata l’eccezione della controricorrente relativa all’intervenuta sanatoria del vizio di notificazione per effetto dell’impugnazione comunque proposta dal contribuente, posto che non può parlarsi di “raggiungimento dello scopo dell’atto”, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., avendo il contribuente avuto conoscenza dell’esistenza degli atti soltanto a seguito del pignoramento e lo stesso Concessionario aveva, in giudizio, eccepito la tardività dell’impugnazione in quanto proposta oltre i termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21. Invero la Corte di legittimità ha affermato che “la nullità della notificazione dell’atto impositivo è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per effetto del raggiungimento del suo scopo, il quale, postulando che alla notifica invalida sia comunque seguita la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad opera di quest’ultimo, dell’atto invalidamente notificato” Cass. n. 25079 del 26/11/2014; Cass. 1238/2014; Cass. 1088 e 17251/2013; Cass. 15849/2006; Cass. S.U. 19854/2004).

3. Il secondo motivo rimane assorbito.

4. L’impugnata sentenza va cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Conseguentemente il ricorso originario del contribuente va accolto dichiarandosi nulle le notifiche delle intimazioni di pagamento. Le spese processuali dei giudizi di merito si compensano in considerazione del fatto che i pronunciamenti della Corte Costituzionale sono successivi alla proposizione del ricorso e quelle di questo giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza d’appello e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario del contribuente. Compensa le spese dei giudizi di merito e condanna l’agenzia delle entrate a rifondere al contribuente le spese processuali che liquida in Euro 7.000,00 oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% ed oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 21 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2018


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 14/02/2018) 21/05/2018, n. 12451

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22132-2016 proposto da:

Z.D., R.D., L.S., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati ROBERTO ZIBETTI e NICO PARISE, giusta procura in atti;

– ricorrenti –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARGHERITA CAMPIOTTI, giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 1092/2016 del TRIBUNALE di VARESE, depositato il 19/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Nico Parise.

Svolgimento del processo
Gli odierni ricorrenti propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, avverso il decreto n.1092/16 con cui il Tribunale di Varese respinse, per estinzione completa ed irreversibile dell’intero apparato produttivo aziendale, la loro opposizione allo stato passivo del Fallimento (OMISSIS). s.r.l., segnatamente laddove escluse il loro diritto al risarcimento del danno da illegittimo licenziamento.

Resiste il Fallimento con controricorso.

Motivi della decisione
Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata della presente sentenza.

1.- Deve pregiudizialmente rilevarsi che l’eccezione di inammissibilità del presente ricorso, sollevata dal Fallimento in questa sede, è fondata. Quest’ultimo in particolare ha dedotto e documentato (doc. 2 allegato al controricorso) che il deposito del decreto oggi impugnato del Tribunale di Varese venne comunicato agli attuali ricorrenti il 19.8.16 tramite p.e.c. in quanto, pur essendo pervenuto alla Cancelleria del Tribunale un messaggio di mancata comunicazione in quanto la casella p.e.c. del difensore dei ricorrenti risultava piena, tale comunicazione doveva ritenersi comunque valida con conseguente inammissibilità dell’odierno ricorso, notificato solo in data 20 settembre 2016.

L’eccezione è fondata.

Premesso infatti che il termine per impugnare il detto decreto è di giorni 30 ai sensi dell’art. 99 L. Fall., deve valutarsi se la comunicazione dell’avvenuto deposito del decreto, avvenuto tramite p.e.c. all’indirizzo indicato nello stesso attuale ricorso (nico.parise.busto.pecavvocati.it), e conclusosi con messaggio di mancata comunicazione per risultare piena la predetta casella di posta elettronica, sia da considerare parimenti effettuata ed efficace.

Al quesito il Collegio intende dare risposta affermativa in base ai tenore del D.L. n. 172 del 2012, art. 16, comma 6, convertito in L. n. 221 del 2012, e della giurisprudenza di questa Corte in argomento.

Il D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, convertito in L. n. 221 del 2012, stabilisce: “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario”, sicchè la comunicazione deve aversi per notificata allorquando la mancata consegna dipenda da cause imputabili al destinatario, come nel caso in cui, per mancata diligenza di questi, la casella risulti piena per prolungata (e dunque colpevole) assenza di lettura della posta elettronica.

In materia questa Corte si è già pronunciata, affermando che il titolare dell’”account” di posta elettronica certificata ha il dovere di assicurarsi il corretto funzionamento della propria casella postale e di utilizzare dispositivi di vigilanza e di controllo, dotati di misure anti intrusione, oltre che di controllare prudentemente la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata” (Cass. n. 13917/16, Cass. n.31/2017).

Con particolare riferimento a fattispecie analoga a quella in esame questa Corte ha affermato che: “l’avviso di fissazione della udienza di discussione è stato comunicato dalla cancelleria alla casella di posta elettronica…. ed è stato rifiutato dal sistema con il messaggio “5.2.2 Aruba Pec s.p.a – casella piena”. La comunicazione deve ritenersi regolarmente avvenuta giacchè, una volta ottenuta dall’ufficio giudiziario l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di PEC, diventa responsabile della gestione della propria utenza, nel senso che ha l’onere, non solo di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli dalla cancelleria a tale indirizzo ma anche di attivarsi affinchè i messaggi possano essere regolarmente recapitati” (Cass. n. 23650/16).

1.2- Ne consegue l’inammissibilità del ricorso, nulla peraltro avendo dedotto i ricorrenti in ordine all’eccezione sollevata.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228L. 24/12/2012, n. 228, la Corte d’atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2018


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-03-2018) 11-05-2018, n. 11504

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21689-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

F.A., EQUITALIA NORD SPA;

– intimati –

Nonché da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA LARGO LUIGI ANTONELLI 2, presso lo studio dell’avvocato PAOLO SPATARO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente incidentale – contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, EQUITALIA NORD SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 95/2013 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 06/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/03/2018 dal Consigliere Dott. LIANA MARIA TERESA ZOSO.

Svolgimento del processo
1. F.A. impugnava la cartella di pagamento notificata da Equitalia Nord S.p.A. sostenendo la mancata notifica dell’avviso di accertamento e dell’atto di contestazione delle sanzioni che costituivano gli atti prodromici. La commissione tributaria provinciale di Milano accoglieva il ricorso con sentenza che era confermata dalla CTR della Lombardia sul rilievo che gli atti prodromici all’emissione della cartella impugnata non risultavano ritualmente notificati in quanto il contribuente aveva trasferito la residenza nel comune di (OMISSIS) in data 11 ottobre 2010 mentre l’avviso di accertamento e l’atto di contestazione delle sanzioni erano stati notificati il 3 dicembre 2010 presso il precedente indirizzo di (OMISSIS).

2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione l’agenzia delle entrate affidato ad un motivo. Il contribuente si è costituito in giudizio con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo. Equitalia Nord S.p.A. non si è costituita in giudizio.

3. Con l’unico motivo l’agenzia delle entrate deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60. Sostiene che, avendo il contribuente trasferito la propria residenza in un altro Comune, la variazione del domicilio fiscale avrebbe avuto effetto decorsi 60 giorni dal trasferimento, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, di talchè la notifica che era stata effettuata a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e, era rituale.

4. Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato il contribuente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 53 e 57. Sostiene che nel giudizio di appello l’agenzia delle entrate aveva introdotto inammissibilmente una domanda nuova poichè solo in tale giudizio aveva affermato la legittimità della notifica richiamando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58.

Motivi della decisione
1. Osserva la Corte che l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso svolta dal controricorrente per non aver l’agenzia delle entrate trascritto nel ricorso il contenuto della cartella impugnata è infondata. Invero il ricorso verte sulla corretta applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60 ed i fatti sono stati esposti in modo da rendere chiaramente intellegibili le ragioni della censura ed i punti della sentenza oggetto di doglianza, per il che appare assolto l’onere della specificità.

2. Il motivo di ricorso principale è fondato. Ciò in quanto la Corte di legittimità ha più volte affermato il principio secondo cui la disciplina delle notificazioni degli atti tributari si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sull’onere preventivo del contribuente di indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e di tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, di guisa che il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’ufficio procedente ad eseguire le notifiche comunque nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, lett. e), non potendosi addossare all’Amministrazione l’onere di ricercare il contribuente fuori del domicilio stesso (Cass. n. 25272 del 28/11/2014; Cass. n. 1206 de120 gennaio 2011). Ciò posto, considerato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58 prevede che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte (comma 2) e che le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate (comma 5), la notifica degli atti prodromici, nel caso di specie, è stata legittimamente effettuata, in mancanza di comunicazione della variazione da parte del contribuente, presso l’indirizzo pregresso di (OMISSIS), posto che dalla sentenza impugnata si evince che la notifica ha auto luogo il 3.12.2000 (sul punto il contribuente non ha svolto ricorso incidentale) e che il trasferimento di residenza nel Comune di (OMISSIS) ha avuto luogo in data 11.10.2010.

3. Il motivo di ricorso incidentale condizionato è infondato in quanto non costituisce domanda nuova, inammissibile ove proposta per la prima volta nel giudizio di appello, la prospettazione di una qualificazione giuridica della fattispecie diversa, in quanto disciplinata da norme in precedenza non invocate, ove la ricostruzione si fondi sui medesimi fatti.

4. Il ricorso principale va, dunque, accolto, il ricorso incidentale va rigettato. L’impugnata decisione va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione che, adeguandosi ai principi esposti, procederà alle necessarie verifiche e deciderà nel merito oltre che sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa l’impugnata decisione e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 21 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2018


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 21/12/2017) 04/05/2018, n. 10776

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 322/2017 proposto da:

COMUNE GAIBA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SCIUBBA, rappresentato e difeso dall’avvocato RUGGERO MOLLO;

– ricorrente –

contro

P.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 702/1/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di VENEZIA, depositata il 26/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/12/2017 dal Consigliere Don. LUCA SOLAINI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso in Cassazione affidato a tre motivi, nei cui confronti la parte contribuente non ha spiegato difese scritte, l’ente impositore impugnava la sentenza della CTR del Veneto, relativa ad alcuni avvisi di accertamento Tarsu/Tia per il periodo 2007-2011 riferiti a una maggiore superficie catastale degli immobili oggetto d’imposizione.

Il ricorrente comune denuncia, con un primo motivo, la nullità del procedimento, per violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 17 e degli artt. 291 e 350 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto, erroneamente, la CTR aveva ritenuto valida la notifica dell’appello eseguita con consegna all’addetto dell’ufficio protocollo del comune, piuttosto che presso lo studio del difensore nominato in primo grado dove l’ente aveva eletto domicilio.

Con un secondo motivo, il ricorrente comune deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 324 c.p.c. e art. 329 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto, i giudici d’appello, avevano annullato gli atti impugnati per una violazione di quanto stabilito dal D.L. n. 201 del 2011, art. 14, comma 9, senza che l’appellante avesse proposto la relativa censura.

Con un terzo motivo, proposto in via subordinata, il ricorrente comune deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 70 e 73, D.L. n. 201 del 2011, art. 14, comma 9, convertito con L. n. 2014 del 2011, in relazione all’art. 360, comma 1 (senza indicazione del numero), in quanto, le norme di cui alla rubrica riguardano la Tares e sono entrate in vigore a decorrere dal 1 gennaio 2013, mentre, gli avvisi d’accertamento opposti riguardavano la Tarsu per le annualità 2007-2011. Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma semplificata.

E’ fondato il primo motivo, con assorbimento dei restanti, in quanto, la notifica dell’appello del contribuente, effettuata mediante notifica a mezzo posta ordinaria solo presso la Casa municipale (v. p. 2 del ricorso) è nulla per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, in quanto doveva essere effettuata presso il domicilio eletto in primo grado (vedi procura a margine delle controdeduzioni in primo grado, allegate, ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ai fini dell’autosufficienza) mentre, l’ipotesi della consegna “a mani proprie” poteva realizzarsi solo con la consegna a mani del legale rappresentate. D’altra parte, la notifica non è inesistente ma nulla (Cass. sez. un. n. 14916/16) e dovrà essere rinnovata, ex art. 291 c.p.c.. Va, conseguentemente, accolto il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, e la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Commissione tributaria regionale del Veneto, affinchè, alla luce dei principi sopra esposti, riesamini il merito della controversia.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto, in diversa composizione.

Motivazione semplificata.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2018


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 19/12/2017) 06/04/2018, n. 8472

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22955/2014 proposto da:

EQUITALIA SUD SPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ADOLFO GANDIGLIO 27, presso lo studio dell’avvocato EMIDDIO PERRECA, rappresentato e difeso dall’avvocato GENNARO DI MAGGIO;

– ricorrente –

contro

GARAGE MARIA DI P.B. & C. SAS, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CESARE FEDERICI 2, presso lo studio dell’avvocato MARIA CONCETTA ALESSANDRINI, rappresentato e difeso dagli avvocati MARIO DI TUORO, MAURIZIO SPIRITO, NUNZIA VISCONTI;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI NAPOLI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1549/2014 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI, depositata il 14/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/12/2017 dal Consigliere Dott. ANNA MARIA FASANO.

Svolgimento del processo
che:

Equitalia Sud S.p.A. ricorre, svolgendo un solo motivo di censura, per la cassazione della sentenza n. 1549/45/14 della CTR Campania, la quale, in controversia riguardante l’impugnazione di una intimazione di pagamento, promossa dalla società contribuente Garage Maria di P.B. & C. S.a.S., rigettava l’appello proposto dalla concessionaria, sul presupposto della irregolare notifica della cartella di pagamento presupposta emessa per TARSU, annullando l’atto impugnato. Si è costituito con controricorso la società Garage Maria s.a.s. di B.P. e C.. La società di riscossione ha depositato memorie.

Motivi della decisione
che:

1. Con l’unico motivo di ricorso, parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, artt. 138, 139 e 141 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), atteso che la CTR non avrebbe correttamente interpretato le norme riguardanti la notifica degli atti, effettuata a mezzo posta ad una società in accomandita semplice, presso la sede di tale società ed a persona qualificatasi come familiare convivente. Nella specie, le attestazioni dell’ufficiale notificante in ordine al rapporto tra il soggetto che riceva in consegna l’atto e il destinatario dello stesso fanno fede fino a querela di falso.

1.1. Il motivo è infondato.

Invero, qualora la notifica di una cartella di pagamento nei confronti di una società sia eseguita direttamente dal concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, per il relativo perfezionamento è sufficiente che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la propria firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente, dovendosi escludere, stante l’alternatività di tale disciplina speciale rispetto a quella dettata dalla L. n. 890 del 1982 e dal codice di rito, l’applicabilità delle disposizioni in tema di notifica degli atti giudiziari e, in specie, dell’art. 145 c.p.c. (Cass. n. 23511 del 2016).

Nella specie, la notificazione della cartella di pagamento, eseguita presso la sede della società, a mani di persona qualificatasi “familiare convivente”, non risulta effettuata in modo giuridicamente corretto, dovendosi rilevare la peculiarità della notificazione eseguita non a persona fisicatma presso la sede della società.

E’ noto al Collegio 1″indirizzo di questa Corte secondo cui:

“Ove la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani di un familiare convivente con il destinatario, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante (anche) ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c., in quanto il problema della identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con la conseguente irrilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire” (Cass. n. 6345 del 2013; Cass. n. 599 del 1998), ma tale forma di notifica non può ritenersi rituale, se eseguita presso la sede legale della società.

Va, invero, rilevata una distinzione tra l’ipotesi in cui la notifica venga eseguita nel luogo di residenza del legale rappresentante della società, ed il caso in cui la notifica venga eseguita presso la sede della società.

E’ incontroverso che la notifica della cartella di pagamento presupposta all’intimazione venne effettuata in data 11.2.2002 presso la sede della società Garage Maria di P.B. & C. S.a.s.. L’art. 145 c.p.c., nel testo applicabile “ratione temporis”, prima della riforma operata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, in vigore dal 1.3.2006, dispone al primo comma che la notificazione alle persone giuridiche, ed a società non aventi personalità giuridica, si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa.

Ne consegue che tale specificazione rileva ai fini della ritualità della notifica presso la sede legale della società, atteso che dalla lettura dell’art. 145 c.p.c., appare evidente che i limiti posti dal legislatore si riferiscono ai soggetti cui il notificante può legittimamente consegnare l’atto da notificare, ossia al “rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”, tra i quali non è compreso il “familiare convivente”.

La sentenza della CTR, pertanto, non merita censura, con la conseguenza che il ricorso va rigettato e la parte soccombente condannata al rimborso delle spese di lite, liquidate come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del soccombente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte soccombente al rimborso delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 2300,00 oltre spese forfetarie ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del soccombente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2018