Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 28/11/2018, n. 30811 (rv. 651752-01)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11123-2017 proposto da:

R.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA CICERONE n.49, presso lo studio dell’avvocato GAETANO DI GIACOMO, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO SCHIAVO;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE di SALERNO, (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma alla VIA della GIULIANA n. 83/a presso lo studio dell’avvocato WLADIMIRA ZIPPARRO, rappresentata e difesa dagli avvocati ANTONELLA DELLA GALA e GAIA DE STEFANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 870/2016 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 09/11/2016 R.G.N. 1534/2014.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:

1. la Corte di Appello di Salerno, in riforma della sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che aveva accolto la domanda nei limiti della prescrizione quinquennale, ha rigettato nella sua interezza il ricorso proposto da R.R. la quale, nel convenire in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale di Salerno, aveva domandato il pagamento della complessiva somma di Euro 149.450,19 a titolo di differenze retributive maturate in conseguenza dello svolgimento delle mansioni superiori di dirigente avvocato;

2. la Corte territoriale, premesso che la R., iscritta nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, aveva assunto la difesa della Asl e, secondo quanto riferito dai testi escussi aveva svolto la medesima attività defensionale curata dal responsabile dell’ufficio legale, ha ritenuto che dette circostanze di fatto, valorizzate dal Tribunale, non fossero sufficienti per far ritenere provato lo svolgimento di funzioni di natura dirigenziale, non avendo l’appellata assunto la piena responsabilità della struttura di appartenenza;

3. il giudice di appello ha evidenziato che la R. non aveva avuto assegnati obiettivi, non aveva partecipato ad alcuna selezione di natura dirigenziale, non era mai stata sottoposta alle verifiche previste per i dirigenti;

4. la Corte territoriale ha aggiunto che l’attività di avvocato non comporta il necessario inquadramento come dirigente perchè anche il collaboratore amministrativo professionale di categoria D svolge attività comportante autonoma elaborazione di atti preliminari ed istruttori dei provvedimenti di competenza e collabora con i dirigenti nelle attività di studio programmazione anche nel settore legale;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.R. sulla base di due motivi illustrati da memoria, ai quali l’Azienda Sanitaria Locale di Salerno ha resistito con tempestivo controricorso.

Considerato che:

1. il primo motivo del ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione degli artt. 434 e 437 ed addebita alla Corte territoriale di non avere pronunciato sulla eccezione di inammissibilità dell’appello che, invece, doveva essere accolta in quanto la Asl aveva omesso di indicare in modo specifico i capi ed i passaggi argomentativi oggetto di impugnazione e si era limitata a riproporre le argomentazioni difensive svolte nel primo grado di giudizio;

2. con la seconda censura la ricorrente si duole della violazione del CCNL 7.4.1999 per il personale del comparto sanità, dei CCNL 5/12/1996 e 8/6/2000 per la dirigenza sanitaria, tecnica ed amministrativa del medesimo comparto, dell’art. 2126 c.c. e deduce che erroneamente la Corte territoriale ha respinto la domanda, pur essendo pacificamente emerso dall’istruttoria lo svolgimento esclusivo ed ininterrotto delle mansioni di avvocato, svolte a causa della vacanza dei posti di avvocato dirigente presenti in pianta organica;

2.1. precisa la ricorrente che il collaboratore amministrativo, sulla base delle declaratorie dei profili professionali, svolge nel settore legale attività istruttorie, di studio e di supporto, mentre l’esercizio della professione forense è riservata all’avvocato che in base a quanto previsto dal C.C.N.L. 5/12/1996 è inquadrato nell’ambito della dirigenza sanitaria non medica;

2.2. aggiunge che nell’ambito del comparto sanità la qualifica dirigenziale non presuppone necessariamente la titolarità di una struttura, semplice o complessa, perchè il dirigente può essere destinatario anche di un incarico di natura esclusivamente professionale, svolto in condizioni di autonomia operativa;

2.3. ha, conseguentemente, errato la Corte territoriale nel valorizzare, per escludere lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, circostanze non decisive ai fini di causa;

3. il primo motivo è inammissibile perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

3.1. anche qualora il ricorrente prospetti un error in procedendo, rispetto al quale la Corte di cassazione è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito presuppone l’ammissibilità della censura ex art. 366 c.p.c., sicchè la parte non è dispensata dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, di indicare in modo egualmente specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti (fra le più recenti Cass. 4.7.2014 n. 15367, Cass. 10.11.2011 n. 23420 e con riferimento alla questione della inammissibilità dell’appello Cass. 20.7.2012 n. 12664 e Cass. 10.1.2012 n. 86);

3.1. il ricorrente, pertanto, ove censuri la statuizione relativa alla ritenuta infondatezza della eccezione di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità, non può limitarsi a richiamare le ragioni di diritto poste a fondamento della censura, ma ha l’onere di riportare il contenuto degli atti processuali rilevanti, nella misura necessaria ad evidenziare la pretesa assenza di specificità dell’impugnazione;

3.2. nel caso di specie la R., oltre non fornire indicazioni sull’allocazione nei fascicoli di parte o d’ufficio degli atti rilevanti, ha omesso sia di individuare e riportare le statuizioni della sentenza di prime cure, rispetto alle quali i motivi proposti risulterebbero privi di specificità, sia di trascrivere nelle parti rilevanti il contenuto dell’atto di appello, così impedendo alla Corte, in difetto della compiuta descrizione del fatto processuale, di procedere alla preliminare verifica sulla rilevanza e decisività del vizio denunciato;

4. è, invece, fondato il secondo motivo, perchè la Corte territoriale, erroneamente, per escludere la natura dirigenziale delle funzioni espletate dalla ricorrente ha valorizzato circostanze (mancato espletamento di procedura concorsuale, presenza di un responsabile dell’ufficio legale, assenza di responsabilità di conduzione della struttura, mancata gestione delle risorse, omessa individuazione degli obiettivi e conseguente mancata verifica dei risultati) non decisive ai fini di causa e non ha tenuto conto delle peculiarità proprie della dirigenza professionale del sistema sanitario nazionale;

4.1. questa Corte ha già affermato che in materia di pubblico impiego contrattualizzato l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost., che deve trovare integrale applicazione, senza sbarramenti temporali di alcun genere (Cass. S.U. n. 25837/2007; Cass. 23 febbraio 2009, n. 4367);

4.2. il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione (Cass. n. 19812/2016; Cass. n. 18808/2013), sicchè il diritto va escluso solo qualora l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento (Cass. n. 24266/2016);

4.3. è stato precisato che detti principi operano anche in relazione allo svolgimento di fatto di funzioni dirigenziali (Cass. S.U. n. 3814/2011), a condizione che il dipendente dimostri di averle svolte con le caratteristiche richieste dalla legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di tali mansioni (Cass. n. 752/2018 e Cass. n. 18712/2016);

4.4. a tal fine, quindi, è innanzitutto necessario che l’ente abbia provveduto ad istituire la posizione dirigenziale (Cass. n. 350/2018) perchè, sulla base delle previsioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, la valutazione sulla rilevanza degli uffici, sulle risorse umane e finanziare da assegnare agli stessi ed in genere sull’organizzazione è rimessa al potere discrezionale della P.A. che non può essere sindacato nel merito in sede giudiziale;

4.5. per le aziende sanitarie locali rilevano, quindi, l’atto aziendale di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3 nonchè l’individuazione e la graduazione delle funzioni dirigenziali, come disciplinata dalla contrattazione collettiva di area (art. 50 CCNL 5.12.1996, art. 26 CCNL 8.6.2000, I biennio economico, art. 6 CCNL 17.10.2008), che tiene conto delle peculiarità proprie della dirigenza sanitaria, già poste in rilievo dal D.Lgs. n. 502 del 1992;

4.6. l’art. 15 del richiamato decreto, infatti, prevede che la dirigenza sanitaria, collocata in un unico ruolo distinto per profili professionali, è caratterizzata “dall’autonomia tecnico-professionale delle proprie funzioni e mansioni i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di valutazione e verifica sono progressivamente ampliati” ed aggiunge che al dirigente “all’atto della prima assunzione sono affidati compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione dell’attività….”, e successivamente, decorsi cinque anni di attività con valutazione positiva, “funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio e ricerca, ispettive, di verifica e controllo nonchè possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici”;

4.7. in linea con la previsione normativa l’art. 27 del CCNL 8.6.2000 per la dirigenza non medica del servizio sanitario nazionale prevede che al dirigente possono essere conferite quattro diverse tipologie di incarico ossia: incarico di direzione di struttura complessa, incarico di direzione di struttura semplice, incarichi di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio e ricerca, ispettivi, di verifica e di controllo, incarichi di natura professionale conferibili ai dirigenti con meno di cinque anni di attività;

4.8. la posizione dirigenziale, pertanto, non implica necessariamente la responsabilità della struttura, perchè la dirigenza sanitaria può essere solo di tipo professionale, e diviene anche gestionale qualora al dirigente siano conferite funzioni di direzione delle strutture semplici o complesse;

4.9. questa Corte ha anche affermato che, ove la posizione dirigenziale sia stata istituita ed assegnata di fatto a dipendente privo della qualifica dirigenziale, il diritto alle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori non può essere escluso valorizzando la mancata formale assegnazione degli obiettivi (Cass. n. 6068/2016), che incide unicamente sul trattamento accessorio spettante, perchè mentre la retribuzione di posizione retribuzione riflette “il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione” (Cass. n. 10558/2013), quella di risultato, che corrisponde all’apporto del dirigente in termini di produttività o redditività della sua prestazione, presuppone la positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi, previamente determinati, cui la stessa è correlata (Cass. n. 8084/2015; Cass. n. 20976/2011);

5. in sintesi, tenuto conto del quadro normativo e contrattuale sopra delineato nei suoi tratti essenziali, risulta evidente la erroneità della sentenza impugnata che ha escluso la natura dirigenziale delle funzioni svolte dalla R. sostanzialmente perchè era mancata la “conduzione della struttura”, ossia un elemento caratterizzante l’incarico di dirigente di struttura semplice o complessa, che non vale, invece, ad escludere la configurabilità di un incarico dirigenziale di tipo professionale che, come evidenziato dal richiamato D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15, comporta l’affidamento di “compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura” nonchè “funzioni di collaborazione e di corresponsabilità nella gestione delle attività”, non dell’ufficio nel suo complesso;

6. la Corte territoriale, inoltre, ha omesso di accertare l’organizzazione data dall’azienda all’ufficio legale e di valutare se fossero state istituite una o più posizioni dirigenziali di “dirigente avvocato”, destinatario di un incarico di tipo professionale, e se la R. fosse stata o meno chiamata a ricoprire una di dette posizioni, vacanti, interagendo con il dirigente responsabile della struttura nei termini indicati al punto 5, implicanti esercizio di fatto di mansioni superiori rispetto a quelle del collaboratore amministrativo-professionale che, pur potendo essere assegnato al settore legale e svolgere nello stesso attività corrispondenti al titolo culturale e professionale posseduto, si limita a curare “attività comportanti un’autonoma elaborazione di atti preliminari ed istruttori dei provvedimenti di competenza dell’unità operativa in cui è inserito” e “collabora con i dirigenti nell’attività di studio e di programmazione”;

7. il secondo motivo merita, pertanto, accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame attenendosi al principio di diritto che, sulla base delle considerazioni espresse nei punti che precedono, di seguito si enuncia: “Nell’ambito della dirigenza sanitaria del ruolo professionale le aziende sanitarie possono istituire posizioni dirigenziali che, senza attribuzione di responsabilità della struttura, semplice o complessa, comportano l’assegnazione di incarichi di tipo esclusivamente professionale, caratterizzati dall’affidamento di compiti con precisi ambiti di autonomia tecnica-professionale, da esercitare nel rispetto degli indirizzi dati dal dirigente responsabile della struttura, nonchè dalla collaborazione con quest’ultimo e dall’assunzione di corresponsabilità quanto alla gestione dell’attività professionale.

L’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, prevista dall’atto aziendale e dal provvedimento di graduazione delle funzioni, costituisce espletamento di mansioni superiori, rilevante ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, la cui applicazione non è impedita dal mancato espletamento della procedura concorsuale, dall’assenza di un atto formale e dalla mancanza della previa fissazione degli obiettivi, che assume rilievo, eventualmente, per escludere il diritto a percepire anche la retribuzione di risultato”;

8. al giudice del rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità;

9. non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater..

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Salerno in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 12-06-2018) 27-11-2018, n. 30676

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4908-2017 proposto da:

RADIO DIMENSIONE SUONO S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 1/E PALAZ. G, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO RIZZO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato BRUNO DEL VECCHIO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 5855/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/12/2016, R.G.N. 995/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/06/2018 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CLAUDIO RIZZO;

udito l’AvvocatoBRUNO DEL VECCHIO.

Svolgimento del processo
La Corte di appello di Roma con la sentenza n. 5855/2016 aveva accolto il reclamo proposto da R.A. avverso la sentenza con la quale il tribunale di Roma, in sede di procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva rigettato la domanda della R. diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento a lei intimato da Radio Dimensione Suono spa; accogliendo il reclamo la corte aveva condannato quest’ultima a reintegrare la dipendente ed a pagare una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità.

La corte romana aveva ritenuto che le contestazioni mosse alla R., sostanzialmente consistenti nell’aver impropriamente utilizzato i permessi a lei concessi per ragioni di assistenza alla madre disabile e nell’aver usufruito di congedo per malattia risultata fittizia, fossero infondate in quanto le circostanze di fatto non erano risultate idonee a sostenere l’addebito dovendosi annettere al concetto di “assistenza” un significato più ampio rispetto alla semplice e materiale accudienza del soggetto disabile e dovendosi altresì escludere valenza alla circostanza che la lavoratrice fosse uscita di casa nel giorno in cui era stata sottoposta ad un intervento chirurgico e fosse quindi in congedo per malattia, attesa la mancata prova della incompatibilità della uscita con la infermità dedotta.

Radio Dimensione Suono spa proponeva ricorso avverso detta decisione affidandolo a 11 motivi, cui resisteva con controricorso la R., anche depositando successiva memoria.

Motivi della decisione
1) Con il primo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione (ex art. 360 c.p.c., n. 3) del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, della L. n. 183 del 2010, art. 24, comma 2, lett. b) e della L. n. 53 del 2000, art. 4.

Si duole la società dell’errore in cui è incorsa la corte territoriale nel ritenere eliminato il requisito della convivenza in quanto l’eliminazione avrebbe riguardato materia differente (permessi ex lege n. 104 del 1992 per genitori di figlio con handicap).

Il motivo risulta inconferente in quanto, pur avendo la corte richiamato normativa non direttamente afferente alla fattispecie in esame, ha peraltro correttamente individuato nella L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3 la regola giuridica cui riferirsi per valutare i diritti della lavoratrice e le condizioni cui gli stessi sono legati. Ha infatti valutato, alla luce della suddetta normativa, la esistenza delle condizioni di assistenza cui assoggettare il riconoscimento del diritto vantato.

2)Con il secondo motivo è dedotta la nullità della sentenza (ex art. 360 c.p.c., n. 4) per omessa pronuncia sulla eccezione di giudicato inerente la carenza di attività assistenziale dalle ore 21 alle 24 del 12.9.2014. Rileva la società che la Corte territoriale ha omesso di pronunciarsi sulla eccezione svolta in sede di reclamo sulla circostanza accertata dal tribunale.

Se pur il motivo possa ritenersi ammissibile, essendo privo del riferimento al contenuto esatto della eccezione sollevata (non è sufficiente il mero richiamo alle pagine della memoria), lo stesso sarebbe comunque infondato, in quanto la Corte territoriale ha chiarito, basando su questo la decisione, che la lavoratrice nelle giornate oggetto della contestazione aveva comunque dedicato il proprio tempo ad attività riconducibili in senso lato al concetto di assistenza, non potendo essere, quest’ultimo, interpretato in modo restrittivo limitatamente alla sola attività di accudimento. L’eccezione di giudicato ed il motivo inerente risulta quindi ininfluente rispetto al decisum.

3)- Con il terzo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3) quali l’art. 2697, 2729 e 2730 c.c. artt. 112, 115, 116, e 230 c.p.c. in materia di valutazione delle prove.

Il motivo è diretto a censurare la valutazione del materiale probatorio esaminato dalla corte. Come già in molte occasioni affermato “l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass.n. 16056/2016). Il motivo risulta inammissibile.

4)- Con il quarto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3) per la violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5, non avendo, la corte fatto riferimento al concetto di fatto materiale quale elemento integratore della fattispecie da considerare ai fini del licenziamento. In conseguenza di ciò, se pur ritenuto illegittimo il licenziamento, avrebbe dovuto comunque ritenere sussistenti i fatti materiali (anche se privi di rilievo giuridico) e quindi applicare le tutele di cui all’art. 18, comma 5 richiamato.

Questa corte ha avuto occasione di chiarire che “L’insussistenza del fatto contestato”, di cui all’art. 18, comma 4 St.lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità. (Cass. n. 29062/2017; conf. Cass. n. 13383/2017; Cass.n. 12102/2018; Cass.n. 14192/2018). Il motivo è da rigettare.

5) Con il 5, 6 e 7^ motivo la società denuncia il vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., n. 5) per aver la corte omesso l’esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, quale la mancata assistenza alla madre nei tre giorni in contestazione.

I motivi risultano inconferenti in quanto, come sopra già evidenziato, il decisum della corte è centrato sulla circostanza che la lavoratrice nelle giornate oggetto della contestazione aveva comunque dedicato il proprio tempo ad attività riconducibili in senso lato al concetto di assistenza, non potendo essere, questo, interpretato in senso restrittivo limitatamente alla sola attività di accudimento. Alcun rilievo assumono quindi le censure di mancata assistenza peraltro veicolate in modo improprio attraverso il vizio denunciato rispetto al quale non si evidenzia alcuna decisività.

6) Con l’ottavo motivo la società denuncia il vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., n. 5) per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, consistito nella elezione fittizia residenza finalizzata al godimento dei congedi straordinari.

Val la pena premettere che non risulta chiaro, non essendo stata riportata la contestazione originaria nel corpo del ricorso, se tale circostanza sia interna alla vicenda addebitata. Peraltro, il motivo contiene una serie di deduzioni ed elementi di fatto attinenti al giudizio di merito che non possono formare oggetto del giudizio di legittimità. Il motivo è inammissibile.

7) Con il nono motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3) quali gli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. degli artt. 112, 115, 116 e 230 c.p.c., in materia di valutazione delle prove ed attendibilità dei testi.

Come già sopra rilevato in relazione al terzo motivo “l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass.n. 16056/2016). Anche tale motivo risulta inammissibile.

8) Con il decimo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3) quali gli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. degli artt. 112, 115, 116 e 230 c.p.c., in relazione al giorno della malattia. Violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18.

La società lamenta la errata valutazione della insussistenza del fatto legato alla circostanza che la lavoratrice fosse uscita nel giorno di congedo per malattia (e ciò anche con riferimento alla tutela riconosciuta L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, comma 4 (e non 5)).

Il motivo è inammissibile con riguardo alla valutazione della compatibilità della malattia con la uscita di casa, già esaminata dal giudice del merito ed estranea alla valutazione del giudice di legittimità.

Deve poi essere richiamato quanto detto con riferimento al 4^ motivo ed alla natura del fatto contestato: “L’insussistenza del fatto contestato”, di cui all’art. 18, comma 4 st.lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità.

Il motivo è infondato.

9) Con l’ultimo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3) quali la L. n. 104 del 1992, art. 3, L. n. 53 del 2000, art. 4 e D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42.

Con tale motivo la società contesta l’interpretazione data dalla corte territoriale alla natura delle cure ed assistenza necessarie ad integrare il diritto di fruire dei permessi a ciò diretti.

La Corte territoriale ha valutato in concreto la riferibilità delle attività svolte dalla lavoratrice, come accertate nel giudizio, alla cure ed assistenza della madre disabile anche considerando ed escludendo l’utilizzo dei permessi e congedi “in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza”. Ha pertanto tenuto presenti i criteri interpretativi del concetto di assistenza come integrato dagli orientamenti del giudice di legittimità (Cass. n. 29062/2017). Ogni differente valutazione atterrebbe al merito del giudizio non consentita in sede di legittimità.

Il ricorso deve essere rigetatto.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 12/07/2018) 14/11/2018, n. 29376

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21046/2016 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PARAGUAY 5, presso lo studio dell’avvocato ROSARIO SICILIANO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati MICHELE MARDEGAN, CINZIA CONTI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE REGIONALE DELLA LOMBARDIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 989/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 11/07/2016; R.G.N. 262/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/07/2018 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo assorbito il resto;

Ud. l’Avvocato Siciliano Rosario.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 989 del 2016, emessa in ordine al reclamo proposto da F.G. nei confronti dell’Agenzia delle entrate Direzione regionale della Lombardia, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Pavia, in parziale riforma di quest’ultima, ordinava all’Agenzia delle entrate di reintegrare la lavoratrice nel precedente posto di lavoro o in altro equivalente, con condanna a corrispondergli le retribuzioni maturate dal 20 gennaio 2015 sino alla effettiva reintegra, oltre accessori di legge, e condannava la lavoratrice a restituire le somme già corrisposte in esecuzione della sentenza reclamata oltre interessi dal pagamento al saldo.

2. La lavoratrice, con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48, aveva impugnato dinanzi al Tribunale di Pavia il provvedimento del 20 gennaio 2015 con cui l’Agenzia delle entrate, in esito alla riapertura del procedimento disciplinare D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 ter, comma 2, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che assolveva la stessa dai reati ascrittigli, aveva confermato la sanzione del licenziamento per giusta causa intimato il 6 agosto 2010, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18.

3. Il Tribunale aveva accolto parzialmente il ricorso e ritenuta la non proporzionalità del licenziamento dichiarava illegittimo il recesso e facendo applicazione dell’art. 18, comma 5, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, dichiarava risolto il rapporto di lavoro a far data dal 20 gennaio 2015 e condannava la Agenzia delle entrate a versare l’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità e a rifondere le spese processuali.

4. In sede di opposizione il Tribunale confermava la decisione di cui alla fase sommaria, rigettando l’opposizione della lavoratrice e dichiarando inammissibile l’opposizione incidentale dell’Agenzia delle entrate con cui si era chiesto dichiararsi la legittimità del licenziamento.

5. La Corte d’Appello, cui proponevano reclamo sia la lavoratrice in via principale, sia l’Agenzia delle entrate in via incidentale, dichiarava inammissibile l’opposizione incidentale, volta all’accertamento della legittimità del licenziamento, in ragione della inammissibilità dell’opposizione incidentale, per cui la domanda di accertamento della legittimità del risarcimento si poneva come nuova e inammissibile, e, ferma la statuizione sulla illegittimità del licenziamento, faceva applicazione, ai sensi alla L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo anteriore alle modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, della reintegrazione e della conseguente condanna al pagamento delle retribuzioni dal 20 gennaio 2015.

Ha affermato la Corte d’Appello che la riapertura del procedimento disciplinare fa sorgere un nuovo e distinto procedimento, che ha ad oggetto il riesame del pregresso licenziamento in relazione all’esito del giudizio penale. Il datore di lavoro pubblico, quindi, è chiamato a verificare se, nonostante l’avvenuta assoluzione in sede penale del dipendente licenziato, residuino o meno ulteriori profili disciplinarmente rilevanti.

Prosegue la Corte d’Appello, che in ogni caso, l’originario licenziamento, avendo esplicato ogni suo effetto interruttivo del rapporto di lavoro – in assenza di una espressa norma che lo stabilisca – non viene meno ex tunc, atteso che, per l’operatività dei principi generali dell’ordinamento, gli effetti di un atto annullabile restano efficaci sino alla dichiarazione giudiziale di annullamento. Ne consegue che l’eventuale modifica del precedente licenziamento, avendo efficacia ex nunc, non può travolgere gli effetti ormai intangibili dell’originario recesso (da ritenersi legittimo ed efficace sino alla sua modifica).

La Corte d’Appello, infine, ha escluso che, nella fattispecie, il premio di produttività potesse essere incluso nella retribuzione globale di fatto da prendere in considerazione per l’indennità risarcitoria.

6. Per la cassazione parziale della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando tre motivi di ricorso.

7. L’Amministrazione, a cui la notifica del ricorso è stata rinnovata presso l’Avvocatura generale dello Stato, si è costituita con controricorso resistendo all’impugnazione.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, comma 2.

Si contesta la statuizione della Corte d’Appello secondo cui l’originario licenziamento non viene meno ex tunc, qualora a seguito di impugnazione della conferma disposta in sede di riapertura se ne dichiari l’illegittimità.

La ricorrente ricorda di essere stata assolta per non aver commesso il fatto, con sentenza passata in giudicato, per i reati addebitatigli in ragione dei medesimi fatti posti a fondamento del procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione della sanzione espulsiva in data 8 agosto 2010.

Dopo l’assoluzione aveva chiesto la riapertura del procedimento disciplinare.

A seguito dell’impugnazione del provvedimento di conferma del licenziamento, lo stesso era stato dichiarato illegittimo. Espone, quindi, che, diversamente da quanto affermato dal giudice del reclamo, poichè si era in presenza di un procedimento disciplinare unitario iniziato nel 2010 e conclusosi nel 2015, dopo la riapertura, l’illegittimità della conferma doveva spiegare effetti dal 2010 e non dal 2015.

1.1. Il motivo è fondato.

1.2. Va premesso che come affermato dalla Corte d’Appello le modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, alla L. n. 300 del 1970, art. 18, non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicchè la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 st.lav. nel testo antecedente la riforma (Cass., n. 11868 del 2016).

Va, altresì premesso che nel pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass., n. 8410 del 2018).

1.3. Tale disposizione si applica alla fattispecie in esame.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, che reca “Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale”, in vigore dal 15 novembre 2009 al 21 giugno 2017, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, prevede, per quanto d’interesse nella specie: “1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale.(…).

2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale (n.d.r.: il testo vigente prevede “l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale”).

(…).

4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell’istanza di riapertura ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura. La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell’addebito da parte dell’autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell’art. 55 bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l’autorità procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell’art. 653 c.p.p., commi 1 ed 1 bis”.

1.4. L’efficacia delle sentenze penali nel giudizio disciplinare è regolata dall’art. 653 c.p.p., che attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna, rispettivamente quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso e quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Va rilevato, inoltre, che l’equiparazione della sentenza applicativa della pena patteggiata alla sentenza di condanna, espressamente prevista a determinati fini già dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, opera ora anche ai fini del procedimento disciplinare.

1.5. La lettera dell’art. 55 ter, comma 2 (riapertura per modificare o confermare l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale), e comma 4 (rinnovo della contestazione dell’addebito), del D.Lgs. n. 165 del 2001, e il più complesso quadro normativo di disciplina dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, in cui lo stesso si colloca, fanno ravvisare la ratio del citato art. 55 ter, nella volontà del legislatore di prevedere un meccanismo di raccordo per regolare possibili conflitti tra l’esito dei due procedimenti, pur nella rispettiva autonomia.

Dunque, con riguardo al procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, il venir meno della cd. pregiudiziale penale ha reso necessario regolare per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei due procedimenti, pur rimanendo l’Amministrazione libera di valutare autonomamente la rilevanza disciplinare dei fatti accertati.

1.6. Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, commi 1, 2 e 4, che qui vengono in rilievo, delinea un procedimento unitario, che si articola in due fasi, in cui il previsto rinnovo della contestazione dell’addebito deve essere effettuato pur sempre in ragione dei medesimi fatti storici già alla base della prima contestazione disciplinare, in relazione ai quali, in tutto in parte è intervenuta sentenza penale irrevocabile di assoluzione nei termini sopra ricordati.

1.7. Pertanto, la determinazione conclusiva – assunta a seguito della riapertura del procedimento disciplinare a fronte di sentenza irrevocabile di assoluzione – di conferma o modifica, in quest’ultimo caso ragionevolmente in senso favorevole al lavoratore, della sanzione già irrogata, ha effetti ex tunc, e l’accertamento dell’illegittimità della stessa non può che operare anch’essa ex tunc, risultando erronea l’interpretazione delle suddette disposizioni effettuata dalla Corte d’Appello, anche considerato il tendenziale effetto in bonam partem della riapertura del procedimento disciplinare a seguito di sentenza penale irrevocabile di assoluzione, propria della fattispecie in esame.

1.8. Va affermato il seguente principio di diritto: il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, commi 1, 2 e 4, nel regolare i possibili conflitti tra l’esito del procedimento penale concluso con sentenza irrevocabile di assoluzione e l’esito del procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione di una sanzione, prevede un procedimento unitario, articolato in due fasi, in cui il previsto rinnovo della contestazione dell’addebito deve essere effettuato pur sempre in ragione dei medesimi fatti storici già oggetto della prima contestazione disciplinare, in relazione ai quali, in tutto o in parte è intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso. La determinazione di conferma o modifica della sanzione già irrogata, ha effetti ex tunc, e l’accertamento in sede giurisdizionale dell’illegittimità della stessa non può che operare ex tunc. 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, in relazione alla statuizione che ha escluso il premio di produttività nella base di calcolo per determinare l’indennità, assumendosi la debenza dello stesso.

2.1. Il motivo non è fondato.

2.2. Come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n. 15066 del 2015), in tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 della legge n. 300 del 1970, la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonchè di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale.

La giurisprudenza precedente ha già chiarito (Cass., n. 19956 del 2009) che l’indennità risarcitoria di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, deve essere liquidata in riferimento alla retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore al tempo del licenziamento, comprendendo nel relativo parametro di computo non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento (con esclusione, quindi, dei soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali), in quanto altrimenti verrebbero ad essere addossate al lavoratore le conseguenze negative di un illecito altrui. Nella fattispecie oggetto della sentenza da ultimo richiamata, questa Corte, nell’enunciare l’anzidetto principio, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dalla base di calcolo dell’indennità risarcitoria l’indennità di mensa avente carattere convenzionale, l’indennità di rischio, il concorso nelle spese tranviarie, il premio di rendimento ed il premio di produttività, senza considerare che l’assenza del dipendente cui si ricollegava la mancata fruizione dei detti emolumenti era derivata dall’illegittima estromissione dello stesso dall’azienda.

2.3. Occorre precisare che la Corte d’Appello non ha errato nell’applicazione dei suddetti principi, poichè ha escluso il premio di produttività non in quanto non rientrante nella retribuzione globale di fatto da prendere come riferimento, ma perchè la F., al momento della conferma del licenziamento, che per il periodo pregresso nella decisione del giudice di secondo grado rimaneva fermo nonostante la ritenuta illegittimità, non godeva di alcun trattamento e quindi neppure del premio di produttività.

2.4. Dunque la statuizione della Corte d’Appello non è erronea quanto alla regola di diritto conforme alla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, ma nella premessa (efficacia ex nunc della illegittimità della conferma del precedente licenziamento) che ha già costituito oggetto di esame nella trattazione del primo motivo di ricorso esaminato ai punti nn. 1-1.8. ed accolto, ove si è già chiarito che la determinazione di conferma o modifica della sanzione già irrogata, ha effetti ex tunc, e l’accertamento in sede giurisdizionale dell’illegittimità della stessa non può che operare ex tunc. Dunque, è con riguardo al tempo del primo licenziamento poi confermato, che occorre determinare la retribuzione globale di fatto, secondo i principi sopra esposti, richiamati correttamente dalla Corte d’Appello sia pure su un erroneo presupposto, come sancisce l’accoglimento del primo motivo di ricorso.

3. Con gli altri motivi di ricorso, e cioè con il terzo motivo, si deduce la lesione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nella parte in cui la sentenza di appello ha confermato la compensazione delle spese di giudizio del grado precedente e quelle del reclamo. Il motivo è assorbito in ragione dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.

4. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo di ricorso accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione, che si atterrà al principio di diritto di cui la punto 1.8.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo di ricorso accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2018


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 12-10-2018) 13-11-2018, n. 29039

Se l’avvocato consegna tempestivamente un atto di impugnazione all’ufficiale giudiziario per la notifica, ma questi non esegue adeguatamente il suo compito, il legale non incorre in alcuna decadenza.

Significativa, in tal senso, è la soluzione data dalla Corte di cassazione alla vicenda decisa con l’ordinanza numero 29039/2018 qui sotto riportata.

La vicenda

Nel caso di specie, il difensore dell’appellante aveva indicato nel suo atto di impugnazione un certo indirizzo del difensore domiciliatario della controparte che però, all’atto della notifica, era risultato errato.

L’ufficiale giudiziario, tuttavia, dopo essersi recato in termini presso il predetto indirizzo, aveva immediatamente constatato che il destinatario aveva trasferito il proprio studio presso un altro numero civico. Invece di perfezionare subito la notifica presso il nuovo indirizzo, l’ufficiale giudiziario aveva fatto trascorrere sei giorni.

Colpa dell’ufficiale giudiziario

Per la Corte di cassazione si tratta di un comportamento contrastante rispetto a quanto disposto dagli articoli 141 e 138 del codice di procedura civile, che affidano all’ufficiale giudiziario l’accertamento del luogo ove reperire il destinatario. Questa circostanza, unitamente al principio generale che conferisce a tale soggetto il compito di fornire conoscenza legale di un atto al destinatario, determina che se egli rallenta l’iter procedimentale “per ragioni che sfuggono ai suoi doveri codificati” non è possibile far ricadere sul notificante che gli conferisce l’incarico le conseguenze negative del suo ritardo.

Impegno ragionevole

I giudici, insomma, hanno ritenuto che la contestuale prosecuzione del procedimento di notificazione nel luogo ove l’ufficiale giudiziario ha appreso che si trovi il notificatario rientra tra i compiti di tale soggetto ogniqualvolta essa comporti un impegno che “è del tutto ragionevole attendersi dal soggetto incaricato”.

In tali casi, il procedimento notificatorio non può ritenersi concluso e il notificante non incorre in alcuna decadenza se la mancata prosecuzione dell’attività dell’ufficiale giudiziario comporta che la notifica si perfeziona successivamente allo spirare del termine previsto per la stessa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12307/2015 proposto da:

IMMOBILIARE ITRI MARE SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore R.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI SAVORELLI 11, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO PEVERINI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANGELO CAVALIERE giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.F.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOMMASO SALVINI 55, presso lo studio dell’avvocato CARLO D’ERRICO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1992/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/10/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che:

1. La Itri Mare Srl ricorre, affidandosi a quattro motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione proposta avverso la pronuncia del Tribunale di Latina dichiarativa dell’estinzione del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso in favore di D.F.P. e L. per la restituzione delle somme da loro pagate all’Ufficio del Registro a seguito dell’avviso di accertamento di valore ai fini INVIM del contratto di compravendita di un terreno stipulato con la società.

2. L’intimata D.F.L., in proprio ed in qualità di erede della sorella P., nelle more deceduta, ha resistito con controricorso.

Considerato che:

1. Con il primo motivo, la società ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 139, 153, 160, 164, 327, 330 e 359 c.p.c., e degli artt. 2697 e 2700 c.c.; nonché, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in ordine alla valutazione delle prove documentali; lamenta, infine, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, per l’illegittima declaratoria di irregolarità della notifica e per difetto di motivazione della sentenza d’appello.

Con il secondo motivo, deduce la violazione di legge ex artt. 10, 156, 157 e 164 c.p.c., e vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui ha ritenuto inesistente e non nulla la notificazione della citazione dell’atto introduttivo del giudizio d’appello, in quanto nella relata di notifica si dava atto che lo studio fosse “trasferito” e non che il destinatario fosse “irreperibile”.

Con il terzo motivo, ancora, la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, degli artt. 101, 102, 291, 331, 347, 348, 350 e 354 c.p.c., e l’omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, su un fatto decisivo per il giudizio consistente nella dichiarazione resa dall’avvocato destinatario della notifica, nella relata del 30.5.2013, in ordine al decesso di una delle parti da lui rappresentata nel giudizio di prime cure e cioè la sig.ra D.F.P..

Con il quarto motivo, infine, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., per omessa pronuncia sul merito dei motivi d’appello proposti.

1.1. Il primo motivo è fondato ed assorbe gli altri tre.

Si osserva, al riguardo, quanto segue.

La Corte territoriale ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello assumendo che la notifica dell’atto di citazione introduttivo del secondo grado di giudizio fosse tardiva, in quanto si era perfezionata dopo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (alla quale, depositata il 29.11.2010 e non notificata, doveva applicarsi, ratione temporis, il c.d. termine lungo annuale vigente prima della modifica dell’art. 327 c.p.c., oltre a 46 giorni di sospensione, termine che andava complessivamente a spirare il 14.1.2012): in motivazione è stato evidenziato che l’atto d’appello era stato notificato con esito negativo il 12.1.2012 presso lo studio del difensore domiciliatario avv.to Francesco Lombardini, sito in (OMISSIS), ove, al primo tentativo, era risultato che si era trasferito al civico n. 37 della stessa strada; che solo in data 18.1.2012 l’atto era stato rinotificato al nuovo indirizzo, a seguito di altro accesso; e che doveva ritenersi imputabile alla parte notificante la tardività dell’incombente che da ciò conseguiva visto che era onerata, preventivamente, di verificare l’esattezza dell’indirizzo secondo le regole di ordinaria diligenza, tenuto conto, soprattutto, della circostanza che il termine annuale rendeva pienamente esigibile tale preliminare accertamento.

1.2. Il Collegio ritiene fondata la censura riferita al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa motivazione in ordine alle risultanze della relata di notifica prodotta in atti ed alla conseguente apparenza delle argomentazioni rese a sostegno della dichiarazione di inammissibilità.

I giudici d’appello, al riguardo, hanno richiamato Cass. SSUU 3819/2009.

1.3. Con tale pronuncia pur avendo affermato che “all’onere di verificare anteriormente alla notifica dell’impugnazione presso l’albo professionale il domicilio del procuratore presso il quale notificare l’impugnazione corrisponde l’assunzione da parte del notificante del rischio dell’esito negativo della notifica richiesta in un domicilio diverso da quello effettivo e sono manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità sollevati rispetto ad essi per l’impossibilità che ne deriverebbe al notificante di fruire per l’intero dei termini di impugnazione, sia perché l’effettività della tutela del diritto di agire e di difendersi nel processo è assicurata nelle forme e nei limiti ragionevolmente previsti dall’ordinamento processuale e sia in quanto l’accertamento del domicilio effettivo del procuratore risultante dall’albo professionale nessun significativo pregiudizio temporale può comportare alla parte, considerata c l’agevole consultazione degli albi ed, in particolare, la loro attuale informatizzazione ed accessibilità telematica” è giunta a ritenere che la notifica dell’impugnazione, nonostante l’erronea indicazione del domicilio del procuratore, possa completarsi per la diligenza dell’ufficiale giudiziario o postale nel ricercare il destinatario, e che “presuppongono, invece, il perfezionamento della notifica per il notificante, e la conseguente ammissibilità originaria dell’impugnazione, ed attengono al perfezionamento per il destinatario, le ipotesi in cui la notifica presso il procuratore non abbia raggiunto il suo scopo per caso fortuito o forza maggiore, come, ad esempio, per la mancata od intempestiva comunicazione del mutamento del domicilio all’ordine professionale o per il ritardo della sua annotazione, ovvero per la morte del procuratore e tutte le altre nelle quali l’ufficiale giudiziario o postale, nonostante la corretta indicazione del domicilio, non abbiano completato la notifica e ne abbiano attestato l’esito negativo per un fatto non imputabile al richiedente”.

La Corte, nello scrutinare il contrasto preesistente, ha conclusivamente chiarito che “fermo che non può parlarsi di nullità rispetto ad una notifica che, anche se correttamente attivata, non si sia perfezionata per l’interruzione del relativo procedimento, non possono che essere condivisi l’imposizione ravvisata in dette pronunce e gli argomenti che in ragione di essa hanno comportato nelle specifiche fattispecie esaminate l’affermazione, in ossequio ai principi di eguaglianza di difesa sanciti dagli artt. 3 e 24 Cost., della riattivabilità del procedimento di notificazione dell’impugnazione, nonostante il superamento dei relativi termini perentori e decadenziali e della perfezionabilità tardiva della notifica nei confronti del destinatario”. (cfr. Cass. SSUU 3819/2009 in motivazione).

1.4. La pronuncia richiamata dai giudici d’appello, dunque, lungi dal fissare automatiche e rigide conseguenze per i casi in cui una notifica tempestivamente affidata all’ufficiale giudiziario si fosse perfezionata oltre un termine perentorio, aveva lo scopo di valorizzare e far prevalere il principio, che successivamente è stato generalmente riconosciuto da questa Corte, della “riattivabilità del procedimento notificatorio” alla luce del principio di economia processuale e di conservazione degli atti.

Tanto che nella successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità è stato anche chiarito che “in tema di notificazione degli atti processuali, qualora essa, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di domandare all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, purché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (cfr. Cass. 17864/2017, preceduta, negli stessi termini da Cass. SSUU 14594/2016; nonché ex multis Cass. 24660/2017; Cass. 21819/2016; Cass. 5974/2017; Cass. 16943/2018): con ciò è stata esclusa, nei casi in cui la ripresa del procedimento intervenga in tempi brevi, la necessità del preventivo ricorso la giudice e si è, invece, ammessa la facoltà di far proseguire direttamente il procedimento dall’ausiliare originariamente officiato.

L’evoluzione della giurisprudenza, quindi, mostra una progressiva apertura alla valorizzazione della funzione e dei compiti dell’ufficiale giudiziario in funzione del principio del “raggiungimento dello scopo” in vista “della ragionevole durata del processo”.

1.5. Ma tanto premesso, si osserva che nel caso in esame il procedimento notificatorio non può neanche ritenersi interrotto.

Infatti, l’ufficiale giudiziario, si recò in termini (il 12.1.2012) presso l’indirizzo indicato dal difensore dell’appellante (via Statuto 24), e constatò immediatamente, dandone atto nella relata di notifica, che il destinatario aveva trasferito il proprio studio al numero civico 37 della stessa strada, indirizzo presso il quale egli, soltanto dopo sei giorni, provvide a perfezionare la notifica, espletando un incombente che, invero, ben poteva concludere contestualmente alla verificazione dell’avvenuto trasferimento.

L’interpretazione congiunta degli artt. 141 e 138 cpc – che affidano all’ufficiale giudiziario l’accertamento del luogo ove il destinatario può essere reperito – ed il principio (generale) secondo cui egli viene officiato del compito di fornire conoscenza legale di un atto al destinatario di esso consentono, infatti, di ritenere che, ove rallenti l’iter procedimentale per ragioni che sfuggono ai suoi doveri codificati, le conseguenza negative derivanti dal ritardo non possono essere fatte ricadere sul notificante che gli conferisce l’incarico.

1.6. Questa Corte ha avuto modo di chiarire, sulla specifica questione, che “in tema di notificazione di un atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per cause non imputabili al notificante (quale, in particolare, l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario, non conoscibile da parte del notificante) e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, non potendo ridondare su di lui la mancata immediata rinotifica dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario, non dipendente dalla sua volontà, ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la richiesta di notificazione, a nulla rilevando che quest’ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame.” (cfr. Cass. 19986/2011).

1.7. Va precisato, al riguardo, che il riferimento al mancato perfezionamento della notifica “per cause non imputabili al notificante” non contrasta, sul piano nomofilattico, con il principio generale del suo dovere di diligenza, in quanto il punto nodale del principio enunciato è che l’ufficiale giudiziario è tenuto alla immediata “rinotifica” dell’atto e che l’inerzia dello stesso non può ricadere sul notificante.

Invero, il riferimento alla “causa non imputabile” introduce un profilo affidato alla valutazione dell’ufficiale giudiziario in funzione del più celere ed efficace raggiungimento dello scopo: ragione per cui la contestuale prosecuzione del procedimento, presso il luogo ove egli abbia avuto modo di apprendere che si trovi il notificatario, rientra nei suoi compiti tutte le volte in cui – come nel caso in esame, caratterizzato dalla minima distanza fra l’indirizzo indicato e quello accertato – essa importi un impegno che è del tutto ragionevole attendersi dal soggetto incaricato.

1.8. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione perché riesamini la controversia alla luce del seguente preliminare principio di diritto: “In tema di notificazione di un atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, a nulla rilevando, in tali casi, che il perfezionamento della notifica intervenga successivamente allo spirare del termine, non potendo ridondare su di lui la mancata prosecuzione dell’attività da parte dell’ufficiale giudiziario. La contestuale prosecuzione del procedimento presso il luogo ove l’ufficiale giudiziario abbia avuto modo di apprendere che si trovi il notificatario rientra nei suoi compiti tutte le volte in cui – come nel caso in esame, caratterizzato dalla assoluta vicinanza fra l’indirizzo indicato e quello accertato – essa importi un impegno minimo che è del tutto ragionevole attendersi dal pubblico ufficiale al quale è stato affidato l’incarico”. La Corte di rinvio dovrà decidere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione per il riesame dell’intera controversia ed anche per la decisione in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 12 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 18/07/2018) 12/11/2018, n. 28872

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso iscritto al n. 16094/2017 R.G. proposto da:

R.P., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Benedetta PAONE, presso il cui studio legale sito in Roma, alla via del Vascello, n. 16, è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, in persona del Responsabile del Contenzioso Regionale Lazio, M.G.L., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al controricorso, dall’avv. Zosima VECCHIO, presso il cui studio legale sito in Roma, alla via Attilio Regolo, n. 12/D, è elettivamente domiciliata;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8546/08/2016 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata il 16/12/2016;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Lucio LUCIOTTI nella camera di consiglio non partecipata del 18/07/2018 e, a seguito di riconvocazione, in quella del 13/07/2018;

Svolgimento del processo
che:

1. In controversia relativa ad impugnazione di due intimazioni di pagamento notificate a R.P. sulla base di due cartelle di pagamento recanti l’iscrizione a ruolo di crediti tributari per IVA, IRAP ed IRPEF relativamente ai periodi d’imposta 2005 e 2007, emessi a seguito di controllo formale delle dichiarazioni, dal medesimo pure impugnati per difetto di notifica e conseguente prescrizione del credito erariale, il predetto contribuente ricorre per cassazione, sulla base di un unico motivo, nei confronti dell’Agenzia delle entrate e dell’agente della riscossione, che replicano con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata con la quale la CTR del Lazio rigettava l’appello proposto dal contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, rilevando la regolarità della notifica delle cartelle di pagamento in quanto effettuate direttamente a mezzo posta e con consegna a mani del portiere.

2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, u.p..

Motivi della decisione
che:

1. Con il motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c.; sostiene il ricorrente che la CTR era incorsa nella violazione della disposizione censurata, oltre che del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis), per avere escluso, nell’ipotesi – come quella in esame – di consegna al portiere della raccomandata postale contenete le cartelle di pagamento, la necessità dell’invio della raccomandata informativa.

2. Il motivo è manifestamente infondato.

3. Nella specie è pacifico, perchè costituente oggetto di specifico accertamento di fatto compiuto dai giudici d’appello, non contestato dal ricorrente, che l’agente della riscossione ha provveduto alla notifica diretta a mezzo del servizio postale, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, delle cartelle di pagamento prodromiche alle intimazioni di pagamento.

4. Al riguardo “Questa Corte è ferma nel ritenere che gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Ne consegue che, quando il predetto ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n 890 del 1992 cfr. Cass. n. 17598/2010; Cass. n. 911/2012; Cass. n. 14146/2014; Cass. n. 19771/2013; Cass. n. 16949/2014 con specifico riferimento a cartella notifica a mezzo portiere dal concessionario. Tale conclusione trova conforto nel chiaro tenore testuale della L. n. 890 del 1982, art. 14, come modificato dalla L. n. 146 del 1998, art. 20, dal quale risulta che la notifica degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari. La circostanza che tale disposizione faccia salve le modalità di notifica di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e delle singole leggi d’imposta non elide la possibilità riconosciuta agli uffici finanziari – e per quel che qui interesse alla società concessionaria – di utilizzare le forme semplificate a mezzo del servizio postale – con specifico riferimento all’inoltro di raccomandata consegnata al portiere v. D.M. 9 aprile 2001, art. 39 (cfr. Cass. n. 27319/2014) – senza il rispetto della disciplina in tema di notifiche a mezzo posta da parte dell’ufficiale giudiziario. In questa direzione, del resto, depone proprio il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, che consente anche agli ufficiali della riscossione di provvedere alla notifica della cartella mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, precisando che in caso di notifica al portiere la stessa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento da quest’ultimo sottoscritto, prevedendo lo stesso art. 26, il rinvio al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, unicamente per quanto non regolato nello stesso articolo (cfr. Cass. n. 14196/2014)” (Cass. ord. n. 3254/16)” (cfr. Cass. n. 802 del 2018; coni. Cass. n. 12083 del 2016 e n. 29022 del 2017).

5. Tale orientamento giurisprudenziale ha trovato recente autorevole avallo nella sentenza della Corte costituzionale n. 175 del 23/07/2018 che ha dichiarato la conformità a Costituzione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1.

5.1. Ha preliminarmente osservato la Corte “come il regime differenziato della riscossione coattiva delle imposte risponde all’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare con regolarità le risorse necessarie alla finanza pubblica, affermando che “da disciplina speciale della riscossione coattiva delle imposte non pagate risponde all’esigenza della pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (sentenze n. 90 del 2018 e n. 281 del 2011). In questo contesto, l’agente per la riscossione svolge una funzione pubblicistica finalizzata al raggiungimento di questo scopo. E’ questa particolare funzione svolta dall’agente per la riscossione a giustificare un regime differenziato, qual è la censurata previsione della speciale facoltà del medesimo di avvalersi della notificazione “diretta” delle cartelle di pagamento”.

5.2. Ha poi rilevato che “da semplificazione insita nella notificazione diretta”, consistente “nella mancanza della relazione di notificazione di cui all’art. 148 c.p.c. e L. n. 890 del 1982, art. 3” e nella “mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica (cosiddetta CAN)”, “anche se (…) comporta, in quanto eseguita nel rispetto del citato codice postale, uno scostamento rispetto all’ordinario procedimento notificatorio a mezzo del servizio postale ai sensi della L. n. 890 del 1982, non di meno (…) è comunque garantita al destinatario un’effettiva possibilità di conoscenza della cartella di pagamento notificatagli ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973. art. 26, comma 1”.

5.3. Ha precisato il Giudice delle leggi che, seppure non sia prevista la relata di notifica, nella notificazione “diretta” ai sensi del citato art. 26 “c’è il completamento dell’avviso di ricevimento da parte dell’operatore postale che, in forma sintetica, fornisce la prova dell’avvenuta consegna del plico al destinatario o al consegnatario legittimato a riceverlo”. Inoltre, la mancata previsione di un obbligo di comunicazione di avvenuta notifica (ma solo nel caso in cui il plico sia consegnato dall’operatore postale direttamente al destinatario o a persona di famiglia o addetto alla casa, all’ufficio o all’azienda o al portiere), “non costituisce nella disciplina della notificazione”, nonostante tale “obbligo vale indubbiamente a rafforzare il diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost., commi 1 e 2) del destinatario dell’atto”, “una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto”.

6. Da ultimo va rilevato che l’intervenuta pronuncia del Giudice delle leggi ha privato di rilevanza l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, u.p., con riferimento alla mancata previsione nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, dell’obbligo di invio della CAN in caso di consegna del plico al portiere.

7. Conclusivamente, con riferimento al caso concreto, in cui la CTR ha accertato che le cartelle di pagamento erano state notificate per posta ordinaria e correttamente consegnate al soggetto dichiaratosi “portiere”, va ribadito che non sussisteva alcun obbligo per l’agente postale di osservare le disposizioni di cui all’art. 139 c.p.c.. Pertanto, il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio di legittimità nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito, ed in favore dell’Agenzia delle entrate riscossione in Euro 5.600,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 18 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

T


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 14-09-2018) 30-10-2018, n. 27577

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4472/2013 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato OLINDO DI FRANCESCO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

INPA SPA CONCESSIONARIA COMUNE AGRIGENTO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 98/2012 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO, depositata il 26/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/09/2018 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
C.C. impugnò, sotto molteplici profili, l’avviso di accertamento, notificato in data 18/2/2008, con cui INPA s.p.a., Concessionaria delle entrate tributarie del Comune di Agrigento, aveva richiesto il pagamento della somma di Euro 501,99, per TARSU (anno 2002), interessi e spese, e l’adita Commissione tributaria provinciale di Agrigento, respinse il ricorso, con decisione confermata dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, giusta sentenza n. 98/01/12, depositata il 26/7/2012, sul rilievo che è ininfluente la circostanza che la società INPA, nell’anno di insorgenza del debito, non rivestisse ancora la qualità di concessionaria dell’ente comunale, che non hanno pregio i rilievi formali mossi all’atto impositivo, essendosi il contribuente difeso senza problemi dalla pretesa creditoria, che infondata è anche l’eccezione di decadenza, essendo stato notificato l’accertamento entro il termine quinquennale di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1.

Avverso la sentenza il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, illustrati con memoria, mentre la Concessionaria non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente deduce violazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, stante il principio per cui il giudice deve giudicare secondo quanto allegato e provato dalle parti, nonchè motivazione solo apparente, in quanto la sentenza impugnata avrebbe dovuto dichiarare la carenza di legittimazione attiva di INPA s.p.a. riguardo alla riscossione di un tributo risalente all’anno 2002, in quanto all’epoca la società non rivestiva ancora la qualità di Concessionaria del Comune di Agrigento e, comunque, in quanto non è stato prodotto in giudizio il relativo contratto (rep. n. 7568 del 27/4/2006).

Con il secondo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso, decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la sentenza impugnata non si sarebbe pronunciata sulla mancanza di sottoscrizione autografa dell’atto impositivo.

Con il terzo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 507, art. 73, L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 11 (Statuto del contribuente), L. n. 241 del 1990, artt. 4, 7, 11, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la sentenza impugnata non si sarebbe pronunciata sul mancato invio dell’avviso bonario, avendo il contribuente contestato la legittimità dell’atto impositivo, afferente un immobile inutilizzabile, non abitato e privo di luce ed acqua, dunque, inidoneo a produrre rifiuti.

Con il quarto motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 8, nonchè della L. n. 241 del 1990, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso, decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la sentenza impugnata non si sarebbe pronunciata sulla denunciata mancata indicazione dell’avvio del procedimento, del responsabile del procedimento, e dell’ufficio dal quale ottenere informazioni in merito all’atto notificato.

Con il quinto motivo, deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso, decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la sentenza impugnata esclude la eccepita decadenza quinquennale, senza considerare che la Concessionaria comunale aveva già acclarato, con l’avviso di accertamento per omessa denuncia n. 168, notificato il 21/11/2001, l’inizio della occupazione dell’immobile soggetto a TARSU, nel 2001, e che, per il successivo periodo d’imposta 2002, l’atto impositivo avrebbe dovuto essere notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui il versamento doveva essere effettuato (31/12/2007).

Con il sesto motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, L. n. 241 del 1990, art. 3, L. n. 212 del 2000, art. 7, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la sentenza impugnata trascurerebbe del tutto la circostanza che la Concessionaria comunale non ha posto in grado il contribuente di contestare an e quantum debeatur, riportando l’atto impositivo soltanto la somma da pagare.

Le censure vanno disattese per le ragioni qui di seguito esposte.

Il ricorrente, con il primo motivo d’impugnazione, si duole del fatto che la società INPA, Concessionaria del servizio di riscossione dei tributi locali, per conto del Comune di Agrigento, in forza del contratto rep. n. 7568 del 27/4/2006, non avrebbe potuto legittimamente richiedere il pagamento della TARSU relativa all’anno 2002 e, in tal modo sembra volere accreditare la tesi per cui l’esternalizzazione dell’accertamento, liquidazione e riscossione dei tributi, mediante l’affidamento in concessione ad uno dei soggetti previsti dalla legge (cfr., D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52) che regola la potestà regolamentare generale di Province e Comuni), incontrerebbe, nel caso di specie, un limite temporale, nel senso che il potere di accertamento del risalente tributo per cui è causa sarebbe spettato al Comune e non al Concessionario.

La fondatezza di siffatta tesi, non corroborata da alcun elemento di prova, è stata correttamente confutata dalla sentenza impugnata, la quale ha ritenuto il Concessionario legittimato, sostanzialmente e processualmente, stante il subentro in tutti i diritti ed obblighi dell’ente locale (Cass. n. 15079/2004).

Si tratta di accertamento di fatto, involgente l’interpretazione della relativa convenzione, riservato al giudice di merito, soltanto genericamente censurato con il motivo di ricorso per cassazione, che introduce un profilo, quello concernente la mancata produzione – in uno alla memoria difensiva depositata nel giudizio di prime cure – del predetto documento, apparentemente nuovo, atteso che non viene specificato dall’impugnante, in ossequio al principio di autosufficienza (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), se la questione sia stata originariamente formulata nel ricorso introduttivo, e poi riproposta in appello (Cass. n. 9108/2012; Cass. n. 1196/2007).

Il ricorrente, con il secondo motivo, si duole della omessa pronuncia, da parte del giudice di appello, circa le conseguenze della mancata sottoscrizione autografa dell’atto impositivo, ma la sentenza impugnata ha correttamente escluso la nullità dell’avviso di accertamento notificato al contribuente, e l’eventuale omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione in diritto risulta irrilevante, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la decisione adottata è in sè conforme al diritto.

Infatti, nel caso in cui l’avviso di accertamento sia prodotto mediante sistemi informativi automatizzati, la sottoscrizione dell’atto è legittimamente sostituita, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, modalità non incisa in parte qua dal successivo D.Lgs. n. 267 del 2000 (Cass. n. 90798/2015, Cass. n. 6736/2015), e, nella fattispecie in eame, l’avviso impugnato recava, come riferito nello stesso motivo di ricorso (pag. 5), l’indicazione del soggetto responsabile, legittimato, quindi, ad esprimere la volontà dell’ente al quale l’accertamento era attribuito.

Il ricorrente, con il terzo motivo, si duole del procedimento di accertamento seguito dal Concessionario, essendo mancato il preventivo contraddittorio con il contribuente, ma la sentenza impugnata, che anche su tale punto appare incensurabile, ha escluso la nullità dell’avviso di accertamento notificato al C., in quanto la pretesa contenuta nel suddetto atto impositivo contemplava, com’è dato ricavare da quanto esposto nel ricorso per cassazione, il mancato pagamento della TARSU (anno 2002) dovuta per l’immobile occupato, sito all’interno del territorio comunale, l’omessa presentazione della denuncia da parte del contribuente, nonchè gli accessori di legge. Va, al riguardo, rilevato che il D.Lgs. n. 507 del 1993, all’art. 70, pone a carico del contribuente l’obbligo di presentare una denuncia unica in ordine ai locali ed aree tassabili, nonchè, in generale, alle condizioni di tassabilità della TARSU (denuncia originaria od integrativa) ed in ordine alle eventuali variazioni di tali condizioni (denuncia di variazione), all’art. 71 prevede l’emissione di avviso di accertamento nel caso di denuncia infedele o incompleta (avviso di accertamento in rettifica) o nel caso di omessa denuncia (avviso di accertamento d’ufficio) e stabilisce, a proposito della motivazione dell’avviso, che questo debba indicare – tra l’altro – le ragioni dell’eventuale diniego della riduzione o agevolazione richiesta (D.Lgs. n. 32 del 2001, art. 6, comma 1, lett. e, ha poi introdotto, nel D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 71, il comma 2 bis, anch’esso relativo alla motivazione dell’avviso di accertamento, in sostanziale attuazione della L. n. 212 del 2000, art. 7), all’art. 72 stabilisce inoltre che l’ammontare del tributo ed addizionali, degli accessorie delle sanzioni (liquidato sulla base dei ruoli dell’anno precedente, delle denunce presentate e degli accertamenti notificati nei termini di cui all’art. 71, comma 1, del medesimo D.Lgs.) è iscritto in ruoli principali, ovvero (di regola, per gli importi od i maggiori importi derivanti dagli accertamenti nonchè per le partite comunque non iscritte nei ruoli principali) nei ruoli suppletivi.

Con riferimento a tale normativa, ed al rapporto tributario qui considerato, il legislatore non ha ritenuto di dover articolare l’istruttoria procedimentale prevedendo il contraddittorio preventivo con il contribuente, il quale ben può avvalersi, com’è accaduto nel caso di specie, degli strumenti di tutela (autotutela tributaria/difesa giurisdizionale) attivabili successivamente all’adozione dell’atto impositivo.

Quanto, poi, alla dedotta inutilizzabilità dell’immobile, trattandosi, in ipotesi, di esclusione dal pagamento del tributo (D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 2), e vigendo a carico dei possessori una presunzione legale relativa di produzione dei rifiuti solidi urbani in relazione alla superficie abitativa occupata, la prova contraria è senz’altro a carico del contribuente (Cass. n. 19496/2014; Cass. n. 37772/2013).

Il ricorrente, con il quarto motivo, deduce l’omissione di pronuncia in ordine alla denunciata mancata indicazione, nell’avviso di accertamento, dell’avvio del procedimento, del responsabile del procedimento, e dell’ufficio al quale chiedere informazioni in merito all’atto notificato, ma trascura di considerare che l’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazione finanziaria non è richiesta, dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, convertito, con modificazioni, nella L. n. 31 del 2008, applicabile peraltro soltanto alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008 (Cass. S.U. n. 11722/2010), e che gli unici requisiti richiesti per l’emissione dell’avviso di accertamento, atto impositivo mediante il quale viene formalmente azionata la pretesa nei confronti del contribuente, sono quelli che consentono alla parte incisa di prendere conoscenza degli elementi di fatto e di diritto sui cui il credito tributario si fonda, la cui rispondenza al modello legale è stata positivamente verificata dai giudici di primo e secondo grado.

Il ricorrente, con il quinto motivo, si duole, infondatamente, del fatto che la impugnata sentenza ha escluso la dedotta decadenza del potere impositivo, in quanto la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, prevede che “gli enti locali, relativamente ai tributi di propria competenza, procedono alla rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli o dei parziali o ritardati versamenti, nonchè all’accertamento d’ufficio delle omesse dichiarazioni o degli omessi versamenti, notificando al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, un apposito avviso motivato. Gli avvisi di accertamento in rettifica o d’ufficio devono essere notificati a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”.

Tale disciplina aumenta a cinque anni il termine di decadenza, essendo stato abrogato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 172, con decorrenza 1.7.2007, il previgente D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 71, comma 1, che prevedeva, invece, il termine triennale; L. n. 296 del 2006, medesimo art. 1, comma 171, inoltre, prevede che le nuove disposizioni, tra cui la nuova procedura di accertamento e i relativi termini si applicano anche ai rapporti di imposta precedenti al 1 gennaio 2007, data di entrata in vigore della legge finanziaria.

Essa, dunque, può applicarsi nel caso in esame, come ritenuto dal giudice di appello, secondo cui il termine di presentazione della denuncia scadeva il 20/1/2003, in quanto ad ogni anno solare corrisponde una obbligazione tributaria, sicchè, qualora la denunzia sia stata omessa, l’obbligo di formularla si rinnova di anno in anno, con la conseguenza che la protratta inottemperanza all’obbligo di presentare la denuncia non provoca la decadenza, per decorso del tempo, del potere dell’ente impositore di accertare le superfici non dichiarate che continuino ad essere occupate o detenute, ovvero gli altri elementi costituenti il presupposto della tassa, a nulla rilevando la pregressa conoscenza della occupazione della superficie abitativa (Cass. n. 26722/2016; Cass. n. 18122/2009; Cass. n. 21337/2008).

Il ricorrente, con il sesto motivo, intende confutare la correttezza dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il contribuente era stato posto in condizione di difendersi dalla pretesa impositiva, con conseguente irrilevanza degli astratti “rilievi formali mossi contro l’atto afflittivo”.

Si tratta di affermazione del tutto in linea con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità che richiede, ai fini qui considerati, la dimostrazione di un pregiudizio effettivo alle prerogative del contribuente, non essendo di per sè tutelato il generico interesse alla legittimità dell’azione amministrativa.

La censura, tuttavia, prima che infondata, è inammissibile, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), il quale opera anche nel giudizio tributario, atteso che l’esame del dedotto vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, richiede che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass. n. 16147/2017; Cass. n. 2928/2015).

Non v’è luogo a pronuncia sulle spese processuali in mancanza di attività difensiva dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 18/06/2018) 30/10/2018, n. 27561

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28055-2011 proposto da:

P. IMPIANTI ECOLOGICI S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione (C.F. (OMISSIS)), rapp. e dif., in virtù di procura speciale resa in forma di scrittura privata autenticata il 9.11.2011 dal Notaio B.A. di Siracusa, dal Prof. Avv. GIUSEPPE TINELLI, presso il cui studio è elett.te dom.to in Roma, alla Via delle Quattro Fontane, n. 15;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t. (C.F. (OMISSIS)), dom.to ope legis in Roma, alla Via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rapp. e dif.;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA NORD S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rapp. e dif., in virtù di procura speciale su foglio separato congiunto al ricorso, dagli Avv.ti MARIA ROSA VERNA e PAOLO BOER, presso il cui studio è elett.te dom.to in Roma, alla Via Cola di Rienzo, n. 69;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 44.49.11 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO, depositata il 01/04/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2018 dal Consigliere Dott. GIAN ANDREA CHIESI;

udito il Pubblico Ministero, nella persona della Dr.ssa MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per l’improcedibilità e, in subordine il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. MASSIMO RIDOLFI, per delega dell’Avv. GIUSEPPE TINELLI, per la parte ricorrente, l’Avv. ALESSANDRO MADDALO, per l’AGENZIA DELLE ENTRATE, nonchè l’Avv. CARLO DE ANGELIS, per delega dell’Avv. PAOLO BOER, per l’EQUITALIA NORD S.P.A..

Svolgimento del processo
1. La P. IMPIANTI ECOLOGICI S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (d’ora in avanti, breviter, P.) propose ricorso, innanzi alla C.T.P. di Milano, avverso la cartella di pagamento (OMISSIS) ed i ruoli ad essa sottesi, dell’importo complessivo di Euro 1.848.587,80, per omesso versamento di ritenute alla fonte, IRAP ed IVA, per l’anno 2005, somma così determinata a seguito di controllo automatizzato eseguito dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Roma, ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis.

2. Con sentenza 155/12/10 dell’1.6.2010, la C.T.P. di Milano rigettò il ricorso ed avverso tale decisione la P. propose appello innanzi alla C.T.R. di Milano che, con sentenza 44.49.11 dell’1.4.2011, confermò la gravata decisione, accertando, per quanto in questa sede ancora rileva, (a) la ritualità e validità della notifica della cartella di pagamento impugnata, siccome correttamente eseguita ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, (b) la regolarità dei ruoli sottesi alla cartella medesima, (c) l’irrilevanza, ai fini della legittimità della cartella, della previa notifica degli avvisi di irregolarità disciplinati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, (d) la regolarità della cartella di pagamento, siccome redatta in conformità del modello approvato con D.M. 28 giugno 1999 e D.M. 13 febbraio 2007, (e) nonchè la sussistenza del carico tributario contestato alla P..

3. Avverso tale sentenza la P. ha quindi proposto ricorso per cassazionE, affidato a 9 motivi. Si sono costituite ed hanno resistito, con controricorso, l’AGENZIA DELLE ENTRATE e l’EQUITALIA NORD S.P.A..

4. La P. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. In via del tutto preliminare vanno rigettate le eccezioni di improcedibilità del ricorso, rispettivamente sollevate, nel corso della discussione, dalla Procura Generale nonchè nel controricorso, dall’EgurrALIA: a) nel primo caso, giacchè risulta presente, agli atti, la copia autentica della sentenza notificata; b) nel secondo caso in quanto, a tutto volere, si verserebbe in presenza di una notifica nulla (e non già inesistente. Cfr. Cass., Sez. U, 20.7.2016, n. 14916, Rv. 640604-01), per ciò stesso sanata, con efficacia ex tunc, dalla costituzione in giudizio della stessa EQUITALIA NORD. 2. Passando, quindi, all’esame dei motivi di ricorso, con il primo di essi parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, commi 1 e 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, primo periodo, lett. f), e art. 148 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. ritenuto valida la notifica della cartella di pagamento impugnata, nonostante la stessa sia da qualificarsi come giuridicamente inesistente, per mancanza della relativa relata.

3. Con il secondo motivo, parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, commi 1 e 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, primo periodo, lett. f), e art. 156 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. ritenuto valida la notifica della cartella di pagamento impugnata, per raggiungimento dello scopo.

3.1. I motivi – che per identità di questioni agli stessi sottese, possono essere trattati congiuntamente – sono infondati e vanno rigettati.

3.2. Costituisce, infatti, principio consolidato – cui si intende dare continuità in questa sede – quello per cui la notificazione della cartella, emessa per la riscossione di imposte o sanzioni, può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso la notifica si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica. Tale soluzione, in particolare, risponde al disposto di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, che prescrive l’onere, per l’esattore, di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con l’avviso di ricevimento (cfr. Cass. 4567/2015 e Cass. 16949/2014): in tale sistema, infatti, è proprio l’ufficiale postale a garantire, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella (cfr. anche Cass., 6395/2014). Ai fini del perfezionamento della notifica opera, dunque, il D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39, secondo cui è sufficiente che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; con l’ulteriore precisazione che, persino se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato e/o la relativa sottoscrizione sia inintelligibile, l’atto è comunque valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 cod. civ. (cfr. Cass. 11708/2011; Cass. 14327/2009).

3.3. I medesimi principi sono stati recentemente confermati da Cass, Sez. 6-5, 21.2.2018, n. 4275, Rv. 647134-01, la quale ha ribadito che la notificazione della cartella di pagamento può essere eseguita anche mediante invio, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, (perfezionandosi, in tal caso, alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redazione di un’apposita relata di notifica, in quanto l’avvenuta effettuazione della notificazione, su istanza del soggetto legittimato, e la relazione tra la persona cui è stato consegnato l’atto ed il destinatario della medesima costituiscono oggetto di una attestazione dell’agente postale assistita dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c.), mentre la complessiva legittimità di tale forma di notifica (cd. diretta) è stata da ultimo confermata da Corte Cost., n. 175 del 2018, la quale ha osservato come, alla luce di una lettura combinata dell’art. 26 cit. e della L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), le regole semplificate (si discorre, nella motivazione del giudice delle leggi, di “scostamenti”) della notifica in commento rispetto al regime “ordinario” non integrano alcuna violazione dell’art. 24 Cost., art. 3 Cost., comma 1 e art. 111 Cost., commi 1 e 2.

3.4. Escluso, dunque, che si possa discorrere di inesistenza della notificazione (con ciò disattendendosi il primo motivo), ove anche si volesse ipotizzare la sussistenza di un vizio comportante la nullità della medesima, quest’ultima – come correttamente affermato dalla C.T.R. – dovrebbe considerarsi comunque sanata ex art. 156 c.p.c. a seguito della tempestiva proposizione dell’originario ricorso in opposizione ad opera della P. innanzi ala C.T.P..

In tal senso si è infatti già espressa questa Corte nelle sentenze n. 8321/2013 e 6613/2013, che hanno dato continuità al principio (già affermato da Cass. n. 2272/2011 e da Cass., SU n. 19854/2004 e che può estendersi al caso – oggi in esame – di cartella di pagamento emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis: cfr. anche, su tale aspetto specifico, Cass. n. 1109/2017) per cui la natura sostanziale e non processuale dell’avviso di accertamento tributario non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicchè il rinvio disposto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, (dettato in materia di notifica della cartella di pagamento), al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (dettato in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a propria volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile (con espressa esclusione di quelle di cui alla lettera “r” del primo comma, tra cui non è ricompreso l’art. 156 c.p.c.), comporta, quale logica conseguenza, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie dettato per la notifica dell’avviso di accertamento.

Conseguentemente, se la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c. (in tal senso cfr. anche Cass. n. 6613/2013 cit.), ad analoga conclusione deve pervenirsi con riguardo alla notificazione della cartella di pagamento.

4. Con il terzo motivo parte ricorrente censura la sentenza impugnata (in relazione al vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per avere ritenuto legittima, in violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, la cartella di pagamento impugnata, nonostante il difetto di sottoscrizione dei ruoli ad essa sottesi.

4.1. Il motivo è infondato e va rigettato.

4.2. Parte ricorrente non considera, infatti, che, secondo il costante insegnamento di questa Corte – cui ancora una volta si intende dare continuità in questa sede – il difetto di sottoscrizione del ruolo da parte del capo dell’ufficio non incide in alcun modo sulla validità dell’iscrizione a ruolo del tributo, poichè si tratta di atto interno e privo di autonomo rilievo esterno, trasfuso nella cartella da notificare al contribuente, per la quale ultima neppure è prescritta la sottoscrizione del titolare dell’ufficio (cfr. infra. Sul punto, ex multis, Cass. n. 26053/2015, Cass. n. 6199/2015 e Cass., n. 6610/2013), costituendo ius receptum il principio per cui la mancata sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto “quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacchè l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge” (cfr. Cass. n. 19761/2016, in motivazione. In senso conforme cfr., anche, Cass. n. 4555/2015, Cass. n. 25773/2014, Cass. n. 1425/2013, Cass. n. 11458/2012, Cass. n. 13461/2012, Cass. n. 6616/2011, Cass. n. 4283/2010, Cass. n. 4757/2009, Cass. n. 14894/2008, Cass. n. 4923/2007, Cass. n. 9779/2003, Cass. n. 2390/00, nonchè Corte Cost. n. 117/00).

4.3. A quanto detto deve inoltre aggiungersi (sulla scia di Cass. n. 19761/2016) che il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12 non prevede alcuna sanzione per l’ipotesi di mancata sottoscrizione del ruolo; sicchè non può che operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana, con onere della prova dell’insussistenza del potere e/o della provenienza a carico del contribuente (Cass. n. 24322/2014): il quale ultimo, peraltro, non può limitarsi ad una generica contestazione della insussistenza del potere e/o della provenienza dell’atto, ma deve allegare elementi specifici e concreti (Cass. n. 6616/2011), tenuto conto anche della “natura vincolata” degli atti meramente esecutivi, quali il ruolo e la cartella di pagamento, che non presentano in fase di formazione e redazione margini di discrezionalità amministrativa, con conseguente applicazione, nei loro confronti, del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, (che impedisce l’annullamento del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, il suo contenuto dispositivo non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Sul punto cfr. anche Cass. n. 2365/2013).

4.4. Tali principi ed elementi sono stati correttamente applicati e considerati dalla C.T.R. la quale, peraltro, ha rilevato che la regolarità del ruolo è stata comunque “assicurata dalla firma in via telematica del funzionario responsabile della trasmissione del ruolo stesso all’Agente della riscossione” (cfr. sentenza impugnata, pp. 5, ult. cpv. e 6, prime o righe).

4.5. Quanto precede determina, altresì, l’assorbimento del quarto e del quinto motivo di ricorso, con cui parte ricorrente si è doluta dell’erronea decisione della C.T.R. rispetto al medesimo motivo di impugnazione della cartella (per omessa sottoscrizione, cioè, dei ruoli alla stessa sottesi), da un lato, con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, del D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5-ter, lett. e), conv. con modif. dalla L. n. 156 del 2005 nonchè dell’art. 2697 c.c. e, dall’altro, con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’omessa motivazione circa la mancanza di sottoscrizione.

5. Con il sesto motivo la P. si duole (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) della violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 14 e art. 7, u.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e dell’art. 139 c.p.c., comma 4, per avere la C.T.R. ritenuto valida la notifica degli avvisi bonari ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, nonostante la mancata produzione, essendo tale notifica avvenuta a mezzo raccomandata A/R ricevuta dal portiere dello stabile, dell’avviso di ricevimento della “seconda” raccomandata contenente l’avviso di comunicazione dell’avvenuta notifica.

6. Con il settimo motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) della violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, nonchè del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2, per avere la C.T.R. ritenuto la cartella di pagamento legittima, nonostante la mancata notifica, anteriormente all’iscrizione a ruolo, dell’avviso bonario previsto dalle richiamate disposizioni.

6.1. I motivi, per identità di questioni loro sottese, possono essere trattati congiuntamente, pur dovendosi, per ordine logico, invertire il loro ordine di trattazione.

6.2. Muovendo, dunque, dall’esame del settimo motivo, osserva la Corte che la C.T.R., nello sviluppo delle proprie argomentazioni – volte a disattendere la tesi della nullità del ruolo per mancato previo (regolare) invio dell’avviso bonario si è sostanzialmente attenuta al principio, costantemente affermato da questa Corte regolatrice, per cui l’obbligo di instaurazione del contraddittorio anteriormente all’iscrizione a ruolo, a seguito di liquidazione in esito a controllo di dichiarazioni secondo procedure automatizzate, sussiste per l’Amministrazione finanziaria soltanto quando da quel controllo emergano “incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione” (cfr. la L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5) e non, invece, in presenza di meri errori materiali ovvero, come nella specie, di omessi o tardivi versamenti (cfr., ex multis, Cass. n. 12023/2015, Cass. n. 8342/2012).

6.3. La norma generale dello Statuto del contribuente (ai sensi della quale “prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta. La disposizione si applica anche qualora, a seguito della liquidazione, emerga la spettanza di un minor rimborso di imposta rispetto a quello richiesto. La disposizione non si applica nell’ipotesi di iscrizione a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto. Sono nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni di cui al presente comma”) è stata, infatti, successivamente riprodotta nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, comma 3 e nel D.P.R. n. 600 del 1973, all’art. 36-bis, comma 3, come modificati dal D.L. n. 203 del 2005, art. 2, conv. con modif. dalla L. n. 248 del 2005: tali disposizioni, però, non prevedono alcuna automatica sanzione di nullità in caso di generica inosservanza del previo contraddittorio con il contribuente. Da quanto precede, dunque, non può che trarsi la conclusione per cui, (a) essendo la sanzione di nullità comminata dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, della ben presente al Legislatore allorchè, nel 2005, ha novellato i richiamati artt. 36-bis e 54-bis (inserendo, per l’appunto, gli obblighi di comunicazione al contribuente in seguito ai controlli automatizzati) e (b) non essendosi in tale occasione prevista un’automatica nullità della cartella per l’inosservanza dell’obbligo di preventiva comunicazione al contribuente, ne discende (c) che la nullità dell’atto impositivo non può che essere ricondotta esclusivamente all’ipotesi “generale” contemplata dall’art. 6, comma 5, cit. che – si ribadisce limita l’obbligo di invitare il contribuente a fornire chiarimenti, prima di effettuare la iscrizione a ruolo, al caso in cui “sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”. (arg. da Cass. n. 8154/2015, in motivazione).

6.4. Nessuna comunicazione d’irregolarità era dunque dovuta nel caso in esame, neppure emergendo dalle difese della contribuente la sussistenza di margini di tipo interpretativo o comunque di errori o di altre irregolarità formali (cfr. anche, da ultimo, Cass., n. 1109/2017, cit. e Cass., n. 26511/2016).

6.5. Quanto precede determina il rigetto del settimo motivo e l’assorbimento del sesto.

7. Con l’ottavo motivo parte ricorrente censura – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la sentenza impugnata laddove, in violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4 e art. 25, comma 2, nonchè del D.M. Finanze n. 321 del 1999, artt. 1 e 6 e dell’art. 125 c.p.c., ha ritenuto legittima la cartella di pagamento impugnata, benchè priva di sottoscrizione, sostenendo, per un verso, che la cartella esattoriale è assimilabile all’atto di precetto, la cui sottoscrizione è espressamente prevista dall’art. 125 c.p.c. e, per altro verso, che il combinato disposto dagli artt. 1 e 6 del citato D.M., prevedendo una corrispondenza contenutistica tra ruolo e cartella, consente di ravvisare come necessaria la sottoscrizione della seconda al pari del primo, per il quale la sottoscrizione è requisito di validità previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4.

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. Questa Corte ha più volte ricompreso la cartella di pagamento nell’ambito di un processo di natura amministrativa dotato di una disciplina sua propria, con la conseguenza che, stante la specialità del rapporto tributario e delle regole che presiedono alla realizzazione della pretesa impositiva, non vi può essere totale coincidenza con le prescrizioni generali dettate per l’atto di precetto, di cui, pure, la cartella mutua la Sostanza (così da ultimo Cass. n. 21840 del 2016). Per la stessa ragione non è postulabile la tesi, pure sostenuta dalla ricorrente, dell’applicazione alla cartella di pagamento della disposizione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, che prevede la sottoscrizione del ruolo e che è riferibile solo ed esclusivamente a tale atto. Peraltro, la conclusione cui è pervenuto il giudice di appello è diretta derivazione del principio affermato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 117 del 2000 che, esaminando la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, denunziato in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., nella parte in cui omette di indicare la sottoscrizione autografa tra gli elementi costitutivi della cartella di pagamento, l’ha ritenuta infondata per palese erroneità del presupposto da cui essa muove, costituendo diritto vivente (come da ultimo ulteriormente ribadito da Cass. n. 20798 del 2016, Cass., n. 24492 del 2015, Cass., n. 26053 del 2015, Cass., n. 25773 del 2014 e Cass., n. 13461 del 2012) il principio secondo cui l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi previsti dalla legge, ed è regola sufficiente che dai dati contenuti nel documento sia possibile individuare con certezza l’autorità da cui l’atto proviene, che è questione che nel caso di specie non viene neanche prospettata dalla ricorrente. Pertanto – per concludere sul punto – sulla base dei principi sopra enunciati, correttamente il giudice di appello ha escluso la dedotta causa di nullità della cartella di pagamento.

8. Con il nono ed ultimo motivo, infine, la società ricorrente deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., sostenendo l’erroneità della decisione assunta dalla C.T.R., per non avere l’Agenzia delle Entrate non provato l’esistenza del debito tributario mediante la produzione delle dichiarazioni dei redditi presentate da essa contribuente e da cui dovevano risultare le somme dovute o non versate.

8.1. Anche tale motivo è infondato.

8.2. Invero, il debito tributario portato dalla cartella di pagamento deriva da una mera liquidazione di quanto esposto dalla stessa società contribuente nelle dichiarazioni all’epoca presentate, a seguito di semplice riscontro cartolare di queste ultime che evidenzino errori materiali o di calcolo oppure a seguito di verifica dell’omesso versamento, integrale o parziale, delle imposte dichiarate come dovute; di talchè, (a) considerato che il documento da cui sono tratti gli elementi posti a base della liquidazione è in possesso della contribuente e (b) questa già si trova, dunque, nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale (cfr., ex multis, Cass. n. 22402 del 2014; Cass. n. 15564 del 2016), ne discende che (c) la produzione in giudizio della dichiarazione verificata è del tutto superflua.

Pertanto, nell’ipotesi – quale quella in esame – in cui la contribuente contesti la non corrispondenza tra quanto liquidato dall’Ufficio e quanto da essa originariamente dichiarato, è onere della medesima (e non dell’Agenzia) fornire la relativa prova documentale, o mediante produzione di quella dichiarazione, al fine di dimostrare l’insussistenza dei rilevati errori materiali o di calcolo, oppure delle ricevute di versamento degli importi effettivamente dovuti (cfr., ex multis, Cass. 27140 del 2011; Cass., n. 1109 del 2017).

9. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna della P. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore delle controricorrenti.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la P. IMPIANTI ECOLOGICI S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, al pagamento, in favore dell’AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., nonchè dell’EQUTALIA NORD S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano, in favore di ciascun controricorrente, in Euro 18.000,00 (diciottomila/00) per compenso professionale, oltre: a) spese prenotate a debito, in favore dell’AGENZIA DELLE ENTRATE; b) rimborso forfettario nella misura del 15% ed accessori di legge, in favore di EQUITALIA NORD S.P.A..

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Civile Tributaria, il 18 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 07-06-2018) 24-10-2018, n. 27035

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12489/2017 R.G. proposto da:

SI.T.M.A.R. Società Incremento Turistico Marittimo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, M.P.G., rappresentata e difesa, per procura in calce al ricorso, dagli avv.ti Giorgio Pozzi e Giampiero Tasco ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via Antonio Gramsci, n. 54, presso lo Studio legale tributario “TASCO & ASSOCIATI”;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (già Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, per procura in calce al controricorso, dall’avv. Zosima VECCHIO, presso il cui studio legale sito in Roma, alla via Attilio Regolo, n. 12/d, è elettivamente domiciliata;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7485/04/2016 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata il 28/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 07/06/2018 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

– In controversia avente ad Oggetto l’impugnazione di un avviso di intimazione di pagamento notificato dall’agente della riscossione alla SI.T.M.A.R. s.p.a. per omessa notifica della prodromica cartella di pagamento recante l’iscrizione a ruolo dell’IVA dovuta a seguito di controllo automatizzato della relativa dichiarazione per l’anno di imposta 2003, la predetta società ricorre per cassazione, sulla base di un unico motivo, cui replicano le intimate con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata con cui la CIR aveva rigettato l’appello dalla medesima proposto avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, ritenendo regolare la notifica della cartella di pagamento in quanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 non prevede l’invio della raccomandata informativa nell’ipotesi, come quella nella specie verificatasi, di irreperibilità assoluta del destinatario.

2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Motivi della decisione
che:

1. Va preliminarmente rigettata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dall’Agenzia delle entrate posto che la stessa è stata parte nei giudizi di merito in cui la società contribuente aveva contestato anche la fondatezza della pretesa erariale.

2. -11 motivo di ricorso con cui la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 138, 139, 140, 141, 145 e 148 cod. proc. civ. e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 è fondato e va accolto.

2.1 La tesi sostenuta dalla CTR, secondo la quale in ipotesi di irreperibilità assoluta non è previsto l’invio della raccomandata informativa, sarebbe corretta in diritto se non fosse che nel caso di specie si verte in ipotesi di irreperibilità relativa, non avendo il messo notificatore svolto ricerche dirette a verificare l’irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest’ultima non avesse più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale, non potendosi ritenere sufficiente a quel fine la generica dichiarazione da quello acquisita dal portiere dello stabile.

2.1. Al riguardo deve ricordarsi che secondo Cass. Sez. 5, sentenza n. 16696 del 03/07/2013 (conf. Cass. n. 5374 del 18/03/2015), “La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60 va effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perchè questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all’art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perchè risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov’è situato il domicilio) fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune. Rispetto a tali principi, nulla ha innovato la sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2012, n. 258 la quale nel dichiarare “in parte qua”, con pronuncia di natura “sostitutiva”, l’illegittimità costituzionale (corrispondente all’attualmente vigente comma 4) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 3 ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica delle cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di svolgimento di detto procedimento a quelle già previste per la notificazione degli atti di accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non appariva assistita da alcuna valida “ratio” giustificativa e non risultava in linea con il fondamentale principio posto dall’art. 3 Cost.”.

2.2. Secondo Cass. Sez. 6 – 5, ordinanza n. 24260 del 13/11/2014, “l’illegittima la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di pagamento) effettuata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e) laddove il messo notificatore abbia arrestato la sola irreperibilità del destinatario nel comune ore è situato il domicilio fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di indirizzo) all’interno dello stesso comune, dovendosi procedere secondo le modalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ. quando non risulti un’irreperibilità assoluta del notificato all’indirizzo conosciuto, la cui attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio”.

2.3. Principio, questo, ribadito dalla recente ordinanza della Sez. 6 – 5 di questa Corte, n. 2877 del 07/02/2018 (in termini anche Cass. n. 12646 del 2018), che ha affermato a chiare lettere che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha cassato la decisione impugnata ritenendo insufficienti, per l’effettuazione della notifica D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, comma 1, lett. e), le generiche informazioni fornite dal custode dello stabile)”.

3. A tali principi giurisprudenziali non si è attenuta la CFR che ha ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla notifica a soggetto assolutamente irreperibile, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) la dichiarazione del portiere dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale della società contribuente, di non conoscere la predetta società, che, come si è detto sopra, era inidonea a quello scopo e che, anzi, avrebbe dovuto indurre l’ufficiale notificante a compiere le verifiche necessarie per accertare se l’indicazione del domicilio della società destinataria dell’atto era corretta o se lo stesso non fosse mutato. Verifiche nella specie del tutto omesse.

4. Sulla base di tali complessive considerazioni il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, senza rinvio, non ricorrendo l’esigenza del compimento di ulteriori accertamenti di fatto nè quella di procedere all’esame di altre questioni che la nullità (cfr. Cass. Sez. U., n. 14916 del 2016) della notifica dell’atto (cartella di pagamento) prodromico all’avviso di intimazione di pagamento, pure impugnato, rende del tutto superflue.

5. L’agente della riscossione controricorrente va condannato al pagamento) in favore della ricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo, mentre, avuto riguardo ai profili anche sostanziali della controversia, vanno compensate le spese processuali con l’Agenzia delle entrate e quelle dei giudizi di merito.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo merito, accoglie l’originario ricorso della società contribuente. Condanna l’agente della riscossione al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge, compensando le spese con l’Agenzia delle entrate e quelle dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 13-04-2018) 08-10-2018, n. 24681

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2755/2015 proposto da:

M.A., MU.AN., elettivamente domiciliati in CARINI, CORSO ITALIA 168, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO RUSSO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

A.F., A.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FOLIGNO 10 C/0 AVV. ERRANTE MASSIMO, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GARRAFFA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 745/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 05/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2018 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ritenuto che la Corte d’appello di Palermo con la sentenza di cui in epigrafe dichiarò inammissibile per tardività l’impugnazione proposta da Mu.An., Mo.An. e L.F.S. (successivamente deceduta) nei confronti di A.F. e A.A., avverso le sentenze nn. 32 e 95/2008 emesse dal Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Carini;

ritenuto che avverso la predetta determinazione Mu.An. e M.A. avanzano ricorso, prospettando unitaria censura;

ritenuto che i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 148, 325 e 326 c.p.c., per quanto appresso: la Corte d’appello aveva reputato tardiva l’impugnazione presupponendo che la notifica delle sentenze di primo grado fosse stata ritualmente effettuata, il che non era avvenuto poichè la relazione dava atto che la consegna degli atti era avvenuta a mani di soggetto diverso dal procuratore domiciliatario, qualificatosi collega di studio di quest’ultimo, senza che fosse stato attestato il luogo della notifica;

considerato che la doglianza è infondata per le ragioni di cui appresso:

1) La notificazione presso il procuratore domiciliatario della parte viene validamente eseguita con la consegna di copia dell’atto al collega di studio, considerato che l’art. 139 c.p.c., comma 2, nell’includere, fra i possibili consegnatari, l’addetto all’ufficio del destinatario, richiede una situazione di comunanza di rapporti che, quale quella del professionista che ha in comune col destinatario dell’atto lo stesso studio, faccia presumere che il primo porterà a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, senza comportare necessariamente un vincolo di dipendenza o subordinazione (S.U., n. 14792, 14/7/2005, Rv. 580909);

2) dopo un primo pronunciamento, rimasto isolato (Sez. 1, n. 2743, 27/4/1985, Rv. 440520), questa Corte ha condivisamente chiarito che la notificazione mediante consegna a una delle persone enumerate nell’art. 139 del codice di procedura civile, deve essere necessariamente eseguita nei luoghi nella norma stessa indicati, giacchè la certezza che la persona legata da rapporti di famiglia o di collaborazione con il destinatario provveda a trasmettergli l’atto ricevuto, può ritenersi pienamente raggiunta soltanto se la consegna avvenga in un luogo comune al consegnatario e al destinatario e nel quale, quindi, si presuma che costoro abbiano degli incontri quotidiani; consegue quindi la nullità della notificazione per mancanza di detta certezza, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario espressamente risulti che l’atto sia stato consegnato a una delle dette persone ma in un luogo diverso da quelli previsti dalla norma; per contro la mancata precisazione nella relata del luogo della consegna stessa, non determina la nullità della notificazione dovendo presumersi, in assenza di annotazioni contenute nella relata, che la notificazione sia stata eseguita in uno dei luoghi prescritti sicchè la omessa annotazione si risolve in una mera irregolarità formale non influente sulla validità della notifica, nè sulla efficacia (di atto pubblico) della relata con riguardo al luogo di consegna (Sez. 2, n. 737, 17/12/1986, Rv. 449624; conclusioni conformi si traggono pure da Sez. 5, n. 6923, 14/5/2002, Rv. 554385 e da Sez. 3, n. 5079, 373/2010, Rv. 611576);

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte dei ricorrenti, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 26-04-2018) 04-10-2018, n. 24212

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso 28926/2015 proposto da:

W.C. elettivamente domiciliato in Roma, Viale Angelico 36/b, presso lo studio dell’avv. Massimo Scardigli, che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Petrocchi Piero;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FIRENZE, in persona del sindaco pro tempore rappresentato e difeso dagli avvocati Debora Pacini e Andrea Sansoni;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1525/2015 del tribunale di Firenze, depositata il 05/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio del 26/04/2018 dal Consigliere Dr. Sabato Raffaele.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 05/05/2015 il tribunale di Firenze, rigettando l’appello proposto da W.C. avverso sentenza del giudice di pace di Firenze che aveva dichiarato inammissibile l’opposizione dello stesso nei confronti del comune di Firenze avverso verbale di accertamento di violazione del codice della strada (c.d.s.) per transito in zona a traffico limitato ((OMISSIS) in Firenze) senza autorizzazione, con applicazione della sanzione amministrativa di Euro 109.30, ha confermato la stessa richiamando il principio processuale della “ragione più liquida” in base a considerazioni diverse da quelle adottate dal giudice onorario.

2. Mentre il giudice di pace aveva dichiarato inammissibile il ricorso in quanto ritenuto proposto oltre i termini di cui all’art. 204 c.d.s., il tribunale ha ritenuto nulla la procura alle liti:

– in quanto carente della “specifica indicazione della causa per la quale il mandate è stato rilasciato”, non essendo peraltro la procura indicativa dell’oggetto della lite nè del numero di ruolo, nè “congiun(ta all’).. atto cui si riferisce”, in riferimento all’art. 83 c.p.c.,;

– per essere l’autentica da parte di notaio non congiunta alla procura;

– per essere l’autentica stessa redatta in lingua tedesca, non essendo condivisibile la giurisprudenza che esclude l’applicazione dell’art. 122 c.p.c., alla procura.

3. Avverso la sentenza del tribunale W.C. ha proposto ricorso per cassazione su sette motivi illustrati da memoria, cui il comune di Firenze ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 83 comma 1 e 2, c.p.c., in relazione all’affermazione da parte della sentenza impugnata che la procura per l’instaurazione di un giudizio di merito necessiti, oltre che dell’indicazione dei nomi delle Parti, anche dell’oggetto della lite e del numero di ruolo (quest’ultimo attribuito, peraltro, in sede di costituzione).

2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 157 c.p.c., comma 1, art. 112 c.p.c., per avere il giudice d’appello – investito di eccezione di nullità della procura alle liti – pronunciato tale nullità come insanabile, senza che l’insanabilità venisse dedotta.

3. Con il terzo motivo si indica poi violazione dell’art. 182 c.p.c., comma 2, per avere il giudice d’appello rilevato un vizio della procura senza aver prima provveduto, come imposto da detta norma, a formulare l’invito a produrre altra procura idonea a sanare ex tunc la costituzione.

4. I primi tre motivi, investendo profili strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente. Alla luce dell’inammissibilità di essi per le ragioni di cui in prosieguo, si determina assorbimento degli ulteriori profili in essi trattati, nonchè pari assorbimento degli altri motivi aventi ad oggetto, tra l’altro, le questioni concernenti la lingua e la congiunzione dell’autentica alla procura rispetto agli atti, oltre ad altro, prevalentemente a fine di riproposizione di aspetti non esaminati.

4.1. Appare, in argomento, necessario anzitutto richiamare che, come si evince da statuizione alla p. 3 dell’impugnata sentenza, il tribunale ha esaminato, sulla base di eccezione del comune di Firenze secondo cui “la procura …. (non) è materialmente unita al ricorso” (p. 2), la (procura in questione come “speciale” (p. 3) separata dal ricorso stesso. Trattasi di giudizio, seppur succinto, in fatto, derivante dall’esame degli atti quali sussistenti al momento, non riesaminabile in sede di legittimità. Peraltro, di tanto si dà atto anche in ricorso (p. 7) ove la procura è qualificata come “rilasciata con scrittura privata autenticata” da non “accosta(re) a quella… semplicemente autenticata dal difensore.

4.2. In secondo luogo, è necessario notare come – in evidente stretta interdipendenza rispetto al predetto accertamento in fatto – il tribunale abbia accertato che “effettivamente” (avverbio che si spiega in funzione dell’avere in precedenza la sentenza fatto riferimento a eccezione del comune sul punto – v. infra) “nella procura speciale… non vi è alcuna specifica indicazione della causa per la quale il mandato è stato rilasciato, la quale causa non viene indicata nè per l’oggetto, nè per numero di ruolo” (p. 3). Trattasi, anche in questo caso, di accertamento fattuale. Il comune di Firenze – come si dà atto nella sentenza – aveva eccepito che “la procura… non contiene gli estremi del procedimento/atto a cui si riferisce” (p. 2).

4.3. Ciò posto, nell’ambito del primo motivo in particolare (ove la procura è ritualmente trascritta), il ricorrente, oltre a diffondersi su una presunta – ma insussistente per quanto detto – confusione del tribunale tra procura in calce o a margine e procura speciale separata dall’atto processuale, richiama che, in applicazione dell’art. 83 c.p.c., comma 3, e consolidata giurisprudenza, la procura speciale debba contenere gli elementi identificativi della causa (p. 12) e deduce che la procura in questione li conterrebbe, affidandosi a un precedente in materia lavoristica (Cass. 14/9/2010 n. 20784) secondo cui sono speciali anche le procure che si riferiscono non a una sola causa ma a una “serie specifica di cause, caratterizzate dalla materia trattata o dalla sede territoriale o altrimenti” (così in ricorso p. 13); quanto ai rilievi del tribunale, secondo cui nel mandato “non vi è alcuna specifica indicazione della causa per la quale il mandato è stato rilasciato, la quale causa non viene indicata nè per l’oggetto, nè per numero di ruolo”, il ricorrente – oltre a stigmatizzare che il numero di ruolo non può essere noto prima della costituzione in giudizio – cita altra sentenza del tribunale di Firenze che, per diversa lite dello stesso trasgressore in cui si è utilizzata la medesima procura, ha ritenuto la indicazione inequivoca della controversia mediante l’indicazione dei nomi delle parti (in particolare, della controparte comune di Firenze).

4.4. Il motivo – al pari delle conseguenziali argomentazioni del secondo e terzo motivo – rinviene la sua inammissibilità nella circostanza che l’accertamento relativo al sussistere di una inequivoca indicazione di una controversia nella procura (o, se si vuole, di una serie di controversie, posto che il contravventore deduce di avere più pendenze nei confronti del comune) è un accertamento in fatto, non sindacabile in cassazione se non nei limiti dell’omesso esame di fatto storico dell’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 5, non predicabile nel caso di specie, in cui la procura risulta esaminata.

4.5. Solo per completezza – e a prescindere dalla questione relativa al numero di “ruolo”, ove probabilmente l’espressione potrebbe essere riferita al numero del verbale di contravvenzione – può, avendosi presente che il testo della procura di cui trattasi reca esclusivamente le indicazioni delle denominazioni delle parti “a tutti gli effetti del procedimento di cui sopra” (indicazione questa non riferita, come notato dal tribunale, ad alcunchè), richiamarsi che il precedente giurisprudenziale lavoristico anzidetto è citato impropriamente, posto che in quel caso “la procura speciale alle liti” era “rilasciata non per una singola causa ma per una serie di controversie… caratterizzate da unitarietà di materia o collegate tra loro da specifiche ed oggettive ragioni di connessione” (cosi nella massima ufficiale). Nel caso di specie, la procura e rilasciata per il solo “procedimento di cui sopra”, indicato soltanto quanto all’identità della controparte e, quindi, in assenza di indicazioni di materia o altra specificazione (quale avrebbe potuto essere, ad es., il riferimento a opposizioni a tutte le contravvenzioni riportate dal trasgressore alla guida di veicoli in (OMISSIS) a Firenze in un determinato periodo), onde si è del tutto al di fuori dell’ipotesi predetta.

4.6. Acclarato quanto innanzi, la complessiva inammissibilità dei primi tre motivi va chiarita alla luce di almeno taluni ulteriori profili sollevati con il secondo e il terzo motivo, relativi alla ritenuta insanabilità non dedotta e alla non attivazione della sanatoria ex art. 182 c.p.c.. Limitando ogni considerazione sul primo aspetto all’afferire al iura novit novit curia la statuizione circa la natura della nullità della procura comunque ritualmente eccepita, va nuovamente richiamato, in ordine al secondo aspetto, quanto esposto in premessa nel senso che, in sede di costituzione, appunto, il comune di Firenze ha dedotto specificamente la mancanza degli estremi della lite nella procura separata in violazione dell’art. 83 c.p.c., (cfr. sentenza p. 2).

4.7. Alla luce di ciò, quale che fosse la tipologia di nullità, ad avviso del ricorrente il giudice avrebbe dovuto attivare il disposto dell’art. 182 c.p.c., comma 2, nel testo in vigore dal 04/07/2009 e applicabile ratione temporis al procedimento avviato successivamente. Tale norma prescrive che, “quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

Il nuovo testo normativo ha effettivamente imposto una possibilità di sanatoria sia per il difetto sia per la nullità della procura al difensore, con un preciso dovere del giudice di assegnare alla parte interessata un termine perentorio per la sanatoria stessa, onde il rispetto del termine perentorio all’uopo assegnato dal giudice è idoneo a sanare retroattivamente sia la mancanza assoluta sia una qualunque difformità del mandato defensionale per il giudizio di merito rispetto al modello legale, superandosi in tal modo i precedenti orientamenti giurisprudenziali in tema di sanabilità soltanto di alcuni vizi e di incensurabilità, in sede di giudizio di legittimità, della mancata concessione del termine, non più configurabile come potere discrezionale del giudice. In tal senso questa corte ha affermato nell’interpretazione della predetta norma che il giudice non può dichiarare l’invalidità della costituzione di questa senza aver prima provveduto – in adempimento del dovere imposto dall’art. 182 c.p.c., comma 1, – a formulare l’invito a produrre il documento mancante (o a rinnovare quello viziato); tale invito, nel caso in cui non sia stato rivolto dal giudice istruttore, deve essere fatto dal collegio, od anche dal giudice dell’appello, poichè la produzione o rinnovazione, effettuata nel corso del giudizio di merito anche d’appello, sana ex tunc la irregolarità della costituzione (in questo senso v. tra le recenti, anche per richiami, Cass. n. 6041 del 13/03/2018 oltre che Cass. sez. U n. 26338 del 07/11/2017; per fattispecie rette dalla precedente formulazione dell’art. 182 c.p.c., peraltro, v. Cass. 22559 del 04/11/2015 – che tiene conto della novella – e Cass. n. 3181 del 18/02/2016, n. 4485 del 25/02/2009.e n. 8435 del 11/04/2006). Tale lettura soltanto dell’art. 182 c.p.c., del resto, rende la pronuncia di inammissibilità della domanda giudiziaria per mancanza di mandato a un legale abilitato, con conseguente restrizione all’accesso a un tribunale, proporzionata allo scopo avuto di mira dalla norma di assicurare la difesa tecnica e, quindi, coerente con l’art. 6 c.e.d.u.: gli organi giudiziari degli stati membri sottoscrittori della c.e.d.u., nell’interpretazione della legge processuale, infatti, devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 di detta convenzione (cfr. ad es. Corte e.d.u., Brualla Gomez de la Torre c. Spagna, 19/12/1997; Guerin c. Francia, 29/07/1998; Perez de Rada Cavanilles c. Spagna, 28/10/1998; Zednik c. Repubblica Ceca, 28/06/2005; oltre numerose altre più recenti; e v. Cass. sez. U cit.).

4.8. Fermo tutto quanto innanzi, i motivi di ricorso (il terzo, in particolare) non si fanno carico di considerare che, come emerge dallo stesso ricorso e dalla sentenza impugnata (p. 2), il comune di Firenze nel caso di specie aveva esso sollevato la questione di nullità della procura, nullità non rilevata d’ufficio e non sanata spontaneamente dalla parte privata nella successiva evoluzione processuale, essendosi l’odierno ricorrente limitato a discutere dei profili giuridici di cui innanzi. In tale situazione i predetti principi in tema di applicabilità dell’art. 182 c.p.c., vanno contemperati con l’altro principio (per cui v. Cass. n. 11898 del 28/05/2014 e sez. U n. 4248 del 04/03/2016) secondo il quale, mentre ai sensi dell’art. 182 c.p.c., il giudice che rileva d’ufficio un difetto di rappresentanza deve promuovere la sanatoria, assegnando alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale, nel diverso caso come quello in esame – in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza sia stata tempestivamente proposta da una parte, l’opportuna documentazione va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o comunque assegnato dal giudice, giacchè sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire.

4.9. Ne deriva che, nel caso in esame, non è legittimamente predicabile quanto sostenuto nel terzo motivo, con conseguente inammissibilità complessiva dell’argomento, essendo stato l’ordine ex art. 182 c.p.c., reso inutile dalla già chiaramente formulata eccezione del comune di Firenze, che imponeva al trasgressore di attivarsi per la sanatoria, in mancanza della quale la nullità diveniva insanabile, assumendo la parte che non abbia inteso adeguare tempestivamente la documentazione procuratoria all’eccezione della controparte il rischio che quest’ultima, in qualunque stato e grado del processo essa sia ancora esaminabile, possa essere condivisa in sede di decisione.

5. Stante l’assorbimento degli altri motivi, concernenti questioni in tema di autenticazione della procura e, altri profili sollevati dal tribunale ad abundantiam, inidonei a inficiare quanto innanzi, in definitiva il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente alle spese come in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, va dato atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 cit., comma 1 bis.

P.Q.M.
la corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione a favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100 per esborsi ed Euro 510 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 cit., comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della seconda sezione civile, il 26 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 31-05-2018) 02-10-2018, n. 23891

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28628-2016 proposto da:

RADIO DIMENSIONE SUONO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 1/E, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO RIZZO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato BRUNO DEL VECCHIO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4761/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/10/2016 R.G.N. 2914/2016.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato:

1. che con sentenza n. 4761 pubblicata il 12.10.2016, la Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo della società datoriale avverso la sentenza di primo grado, di rigetto dell’opposizione avverso l’ordinanza con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 24.10.14 al sig. D.S.;

2. che la Corte territoriale ha premesso come il lavoratore avesse diritto ad usufruire dei permessi di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, per assistere la madre e la sorella entrambe in condizioni di handicap grave;

3. che la società datoriale aveva contestato al predetto l’utilizzo dei permessi di cui al citato art. 33, concessigli nei giorni 16, 30 settembre e 3 ottobre del 2014, per fini estranei all’assistenza dei parenti disabili;

4. che secondo la Corte di merito, l’assistenza prevista dalla disposizione in esame e a cui sono finalizzati i permessi non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il predetto non sia in condizioni di compiere autonomamente, dovendosi configurare l’abuso del diritto ove il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza, da intendere in senso ampio, in favore del familiare;

5. che in base all’istruttoria svolta non risultavano dimostrati gli addebiti mossi con la lettera di contestazione in quanto il 16.9.14, nell’orario di fruizione del permesso (dalle 18.00 alle 20.00), il D.S. si era recato a fare la spesa che, dopo una sosta presso la propria abitazione, aveva portato a casa della madre, convivente con la sorella, come confermato. dalla teste P., moglie del D.S. e non smentito dalla deposizione dell’agente investigatore;

6. che il 30.9.14, nell’orario di fruizione del permesso (dalle 12.00 alle 13.15), il D.S. si era recato presso uno sportello Postamat e poi dal tabaccaio, e che la documentazione dal medesimo prodotta aveva confermato l’esistenza di libretti di risparmio postale intestati alla madre e alla sorella e, quindi, la plausibilità di operazioni svolte in favore delle stesse;

7. che, infine, il 3.10.14 il D.S., in permesso dalle 17.45 alle 24.00, aveva svolto attività in favore dei parenti disabili recandosi a fare la spesa per essi in norcineria e presso il supermercato, come confermato dalla teste P., ed aveva poi incontrato alle ore 21.00 il suo amico geom. Pi.Ro., unitamente all’arch. D.C., per discutere della perizia tecnica da quest’ultima redatta in relazione al ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. presentato nell’interesse della madre per problemi di infiltrazione nell’appartamento, circostanze confermate dal teste Pi. e dalla perizia tecnica depositata in atti unitamente al ricorso d’urgenza;

8. che peraltro, ha evidenziato la Corte, il procedimento penale a carico del D.S., instaurato su querela della società, era stato archiviato per assenza di specifici profili di responsabilità;

9. che avverso tale sentenza la società datoriale ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore;

10. che entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1.

11. che col primo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti;

12. che, in particolare, ha censurato come inesistente o meramente apparente la motivazione adottata nella sentenza impugnata che, in relazione al giorno 16.9.14, ha fatto leva sulla “complessiva istruttoria svolta”, senza indicare elementi di prova specifici da cui potesse desumersi la veridicità della deposizione rese dalla sig.ra P., moglie del D.S.;

13. che ha sottolineato come la documentazione prodotta dal lavoratore non supportasse ed anzi smentisse l’assunto del medesimo sulla finalità delle operazioni svolte presso lo sportello Postamat nell’interesse dei familiari disabili;

14. che, riguardo al giorno 30.9.14, gli elementi di prova raccolti (deposizione degli agenti investigatori) smentivano l’assunto secondo cui la madre del D.S. si sarebbe trovata presso l’abitazione del medesimo con la conseguenza che l’intero orario di permesso sarebbe risultato occupato da altre incombenze (accompagnamento del figlio, spesa, vista alla suocera), risultando del tutto apparente la motivazione sulla avvenuta assistenza fornita in quella giornata, nelle ore di permesso, alla madre e alla sorella;

15. che le medesime censure sono state riproposte dalla società ricorrente, col secondo motivo di ricorso formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729, 2730 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.;

16. che col terzo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. e degli artt. 115, 116 e 230 c.p.c., per l’erronea valutazione di attendibilità dei testimoni P.S. e Pi.Ro., rispettivamente moglie e amico del D.S.;

17. che col quarto motivo la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, degli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. e degli artt. 115, 116 e 230 c.p.c.;

18. che ha sostenuto l’erronea applicazione della disposizione in materia di permessi e dei criteri di prova presuntiva ed ha argomentato come, pur dilatando il concetto di assistenza, non potesse considerarsi tale quella posta in essere dal D.S. che, nei tre giorni esaminati, ha di fatto dedicato alla madre e alla sorella disabili una percentuale del tempo di permesso pari a zero;

19. che ha ritenuto non ammissibile che, in relazione all’attività svolta nell’interesse del disabile e che non richieda presenza fisica accanto al medesimo, si addossi a parte datoriale l’onere di provare che quelle attività esulino dalle finalità di cura e assistenza, risultando ciò contrario al principio di vicinanza della prova come sancito dalle Sezioni Unite con sentenze n. 13533 del 2001 e n. 10744 del 2009;

20. che sul primo motivo di ricorso occorre premettere come trovi applicazione alla fattispecie in esame la previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5, sulla c.d. doppia conforme, trattandosi di giudizio di appello (la medesima regola deve ritenersi operante per il reclamo) introdotto con ricorso depositato dopo il giorno 11 settembre 2012;

21. che pertanto il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3, convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);

22. che nel caso di specie tale allegazione manca del tutto sicchè risulta inammissibile il motivo formulato ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

23. che neanche appare configurabile un vizio di carenza assoluta di motivazione tale da integrare la violazione dell’art. 132 n. 4; le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014) hanno precisato che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionalè del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”;

24. che, come di recente stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 22232 del 2016), “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”, (cfr. anche Cass. n. 12351 del 2017);

25. che tali difetti non sono in alcun modo rinvenibili nella decisione impugnata che ha dato conto della insussistenza dell’addebito contestato al lavoratore attraverso la ricostruzione delle incombenze svolte dal predetto in coincidenza con i permessi goduti e riferibili all’assistenza in favore dei congiunti disabili, assistenza intesa in una accezione ampia, comprensiva del disbrigo di incombenze e pratiche di vario contenuto;

26. che sul secondo motivo di ricorso occorre considerare che, in base all’insegnamento di questa Corte, “il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007). Sicchè il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti, (Cass. n. 9217 del 2016);

27. che nel caso di specie, la società ricorrente non ha prospettato l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ma ha mosso censure tutte incentrate sull’errata valutazione delle prove e, in particolare, sulla inidoneità delle deposizioni testimoniali raccolte a dimostrare la finalizzazione dell’attività svolta dal lavoratore nelle ore in cui era in permesso, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, in favore della madre e della sorella disabili;

28. che tali censure attengono con evidenza alla motivazione della sentenza e non sono neanche formulate secondo lo schema legale richiesto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sicchè risultano inammissibili;

29. che ad analoga conclusione deve giungersi quanto al terzo motivo di ricorso che, sebbene formulato come violazione di legge, contiene censure che non sarebbero state ammissibili neanche in base al vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

30. che secondo principi consolidati, l’esame delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sulla attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova, con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, (Cass. n. 17097 del 2010, n. 27464 del 2006, n. 1554 del 2004, n. 11933 del 2003, n. 13910 del 2001);

31. che neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il mancato rispetto )-1 delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nell’ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale o inverta gli oneri di prova;

32. che nessuna di tali situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove non risulta neanche specificata la dedotta violazione dell’art. 230 c.p.c.;

33. che, in particolare, la Corte d’appello ha addossato al lavoratore l’onere di dimostrare il collegamento delle incombenze svolte durante i permessi con l’assistenza ai parenti disabili ed ha ritenuto assolto tale onere;

34. che neppure può trovare accoglimento il quarto motivo di ricorso atteso che la Corte territoriale non ha interpretato e applicato la L. n. 104 del 1992, art. 33, in difformità rispetto ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità;

35. che secondo l’orientamento di questa Corte, che si condivide e a cui si intende dare continuità, il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso di diritto, giacchè tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale (Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 4984 del 2014);

36. che è stato parimenti sottolineato il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali “scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa”, (Cass. n. 8784 del 2015);

37. che nel caso di specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto non censurabile in questa sede di legittimità, ha escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso di cui il sig. D.S. ha usufruito avendo ricollegato, in base alle prove raccolte, le attività poste in essere dal predetto, come il fare la spesa, l’usare lo sportello Postamat, incontrare il geometra e l’architetto, a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti;

38. che in base a tali premesse, il ricorso risulta inammissibile;

39. che al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente, secondo il criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo;

40. che ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.

Così deciso in Roma, nella udienza camerale, il 31 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 26-09-2017) 28-09-2018, n. 23620

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7486/2016 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA PROVINCIAE DI MESSINA, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Francesco Vitale, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n. 66; presso lo studio dell’avv. Francesco Consoli Xibilia;

– ricorrente –

contro

DISMED ONLUS, rappresentata e difesa dall’avv. Massimiliano Pantano, con domicilio eletto in Roma, via Pietro da Cortona, n. 8, scala B, presso lo studio dell’avv. Maurilio D’Angelo;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Messina n.96, depositata in data 12 febbraio 2015;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 26 settembre 2017 dal consigliere dott. Pietro Campanile;

sentito per la ricorrente l’avv. Vitale;

sentito per la controricorrente l’avv. Pantano;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale dott. FUZIO Riccardo, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1892 del 2010 il Tribunale di Messina accoglieva l’opposizione proposta dall’AUSL n. (OMISSIS) di Messina avverso il decreto ingiuntivo emesso, ad istanza di Dismed Onlus, relativo al pagamento delle somme (Euro 396.526,95 ed Euro 136.344,80) dovute per le prestazioni rese, rispettivamente, negli anni 2006 e 2007. A tale conclusione il Tribunale perveniva aderendo alla tesi, proposta dall’opponente, secondo cui anche per le prestazioni di natura riabilitativa, come quelle in esame, doveva intendersi operante il sistema della c.d. regressione tariffaria, già applicato, del resto, negli anni precedenti nei confronti della stessa Dismed.

2. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Messina, accogliendo il gravame proposto dalla predetta Onlus, ha dichiarato sussistente il credito vantato dall’appellante, così confermando il provvedimento monitorio opposto. In particolare, la corte distrettuale ha affermato che, pur dovendosi ritenere che il D. A. del 17 ottobre 2005 – con il quale si dettavano i “criteri di calcolo del budget per le strutture specialistiche convenzionate relativamente agli anni 2005 e 2006” – si applicasse anche nei confronti del centro ambulatoriale riabilitativo convenzionato, erano da condividere le eccezioni, già proposte in primo grado dalla Dismed, circa l’illegittimità di detto provvedimento.

In particolare, movendo dalla constatazione che il sistema operante per le strutture riabilitative era diverso da quello previsto per le altre convenzioni specialistiche, nel senso che, mentre per queste ultime il budget veniva determinato attraverso la fissazione di un importo massimo da liquidarsi annualmente, per le prime la predeterminazione della spesa avveniva tramite l’assegnazione di “moduli”, vale a dire l’indicazione del tipo e del numero delle prestazioni erogabili, si è ritenuto che, fissando un limite di spesa per le strutture riabilitative, si finiva con l’incidere sulle tariffe, riducendole in maniera illegittima.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina propone ricorso, affidato ad unico ed articolato motivo, illustrato da memoria, cui la Dismed Onlus resiste con controricorso.

Motivi della decisione
1. La ricorrente, denunciando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, violazione dell’art. 37 c.p.c., della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, All. E, nonchè dell’art. 133 cod. proc. amm., lett. c), sostiene che, avendo la corte distrettuale operato un sindacato di legittimità in ordine al provvedimento emesso in relazione alla fissazione del budget nei confronti della Dismed, avrebbe emesso una pronuncia viziata da un evidente difetto di giurisdizione, per aver fatto ricorso alla disapplicazione del suddetto atto amministrativo in un giudizio – nel quale la stessa P.A. rivestiva la qualità di parte – vertente sulla legittimità dell’atto stesso inteso non come antecedente logico del diritto vantato, bensì come suo fondamento.

2. Preliminarmente deve rilevarsi l’inammissibilità del ricorso – eccepita dalla controricorrente, ma, comunque, rilevabile d’ufficio – per mancato rispetto del termine previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2, decorrente, ai sensi del successivo art. 326, dalla notifica della sentenza al procuratore costituito dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina (d’ora in avanti, per brevità, Asp) in data 26 giugno 2015.

La tardività della proposizione dell’impugnazione in esame, invero non contestata – sotto tale profilo – neppure dalla ricorrente, è del tutto palese, per essere stato il procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016, ben oltre il termine di sessanta giorni previsto dalla richiamata norma.

3. Premesso che non può dubitarsi del perfezionamento, in data 26 giugno 2015, della notificazione della sentenza della Corte di appello di Messina oggetto dell’impugnazione in esame, come si desume dalle attestazioni depositate dalla parte controricorrente, e come, del resto, non è contestato neppure dall’Asp, deve rilevarsi come le deduzioni della stessa, intese a dimostrare la nullità di detta notificazione, tale da impedire la decorrenza del termine “breve” previsto dall’art. 325 c.p.c., non siano condivisibili.

3.1. Si sostiene, in primo luogo, che l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.

L’obiezione non coglie nel segno.

Il testè richiamato D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, risulta formulato nei seguenti termini: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale norma, dunque, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE. Non può omettersi di considerare, inoltre, che l’art. 5 della citata L. n. 53 del 1994 espressamente prevede che “.. l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.”.

Vale bene, del resto, richiamare il principio recentemente enunciato da questa Corte (Cass., 11 luglio 2017, n. 17048), secondo cui “in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

4. Deve pertanto ritenersi che, essendo stata effettuata nella vigenza del richiamato D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, la notificazione della sentenza impugnata risulta correttamente eseguita – con conseguente decorrenza del termine previsto dall’art. 325 c.p.c. – all’indirizzo di posta elettronica comunicato dal difensore della Dismed al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Messina.

5. Sostiene ancora la ricorrente che la notifica in esame sarebbe inficiata da ulteriori violazioni, quali l’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed Onlus e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5.1. Tali deduzioni non sono meritevoli di positivo apprezzamento.

Questa Corte ha di recente espresso un orientamento, in tema di notificazione in via telematica, inteso a privilegiare la funzione della stessa, con la conseguenza che il raggiungimento dello scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata, priva di significativo rilievo la presenza di meri vizi di natura procedimentale (come, ad esempio, l’estensione.doc in luogo del formato pdf), ove l’erronea applicazione della regola processuale non abbia comportato (ovvero, come nella specie, non sia stata neppure prospettata) una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665).

6. Nell’ambito di tale indirizzo si è affermato che la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituisce mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto (Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814).

6.1. Quanto all’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed, valgano le superiori considerazioni, dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dell’art. 13.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2018


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/09/2017) 28/09/2018, n. 23620

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7486/2016 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA PROVINCIAE DI MESSINA, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Francesco Vitale, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n. 66; presso lo studio dell’avv. Francesco Consoli Xibilia;

– ricorrente –

contro

DISMED ONLUS, rappresentata e difesa dall’avv. Massimiliano Pantano, con domicilio eletto in Roma, via Pietro da Cortona, n. 8, scala B, presso lo studio dell’avv. Maurilio D’Angelo;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Messina n.96, depositata in data 12 febbraio 2015;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 26 settembre 2017 dal consigliere dott. Pietro Campanile;

sentito per la ricorrente l’avv. Vitale;

sentito per la controricorrente l’avv. Pantano;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale dott. FUZIO Riccardo, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1892 del 2010 il Tribunale di Messina accoglieva l’opposizione proposta dall’AUSL n. (OMISSIS) di Messina avverso il decreto ingiuntivo emesso, ad istanza di Dismed Onlus, relativo al pagamento delle somme (Euro 396.526,95 ed Euro 136.344,80) dovute per le prestazioni rese, rispettivamente, negli anni 2006 e 2007. A tale conclusione il Tribunale perveniva aderendo alla tesi, proposta dall’opponente, secondo cui anche per le prestazioni di natura riabilitativa, come quelle in esame, doveva intendersi operante il sistema della c.d. regressione tariffaria, già applicato, del resto, negli anni precedenti nei confronti della stessa Dismed.

2. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Messina, accogliendo il gravame proposto dalla predetta Onlus, ha dichiarato sussistente il credito vantato dall’appellante, così confermando il provvedimento monitorio opposto. In particolare, la corte distrettuale ha affermato che, pur dovendosi ritenere che il D. A. del 17 ottobre 2005 – con il quale si dettavano i “criteri di calcolo del budget per le strutture specialistiche convenzionate relativamente agli anni 2005 e 2006” – si applicasse anche nei confronti del centro ambulatoriale riabilitativo convenzionato, erano da condividere le eccezioni, già proposte in primo grado dalla Dismed, circa l’illegittimità di detto provvedimento.

In particolare, movendo dalla constatazione che il sistema operante per le strutture riabilitative era diverso da quello previsto per le altre convenzioni specialistiche, nel senso che, mentre per queste ultime il budget veniva determinato attraverso la fissazione di un importo massimo da liquidarsi annualmente, per le prime la predeterminazione della spesa avveniva tramite l’assegnazione di “moduli”, vale a dire l’indicazione del tipo e del numero delle prestazioni erogabili, si è ritenuto che, fissando un limite di spesa per le strutture riabilitative, si finiva con l’incidere sulle tariffe, riducendole in maniera illegittima.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina propone ricorso, affidato ad unico ed articolato motivo, illustrato da memoria, cui la Dismed Onlus resiste con controricorso.

Motivi della decisione
1. La ricorrente, denunciando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, violazione dell’art. 37 c.p.c., della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, All. E, nonchè dell’art. 133 cod. proc. amm., lett. c), sostiene che, avendo la corte distrettuale operato un sindacato di legittimità in ordine al provvedimento emesso in relazione alla fissazione del budget nei confronti della Dismed, avrebbe emesso una pronuncia viziata da un evidente difetto di giurisdizione, per aver fatto ricorso alla disapplicazione del suddetto atto amministrativo in un giudizio – nel quale la stessa P.A. rivestiva la qualità di parte – vertente sulla legittimità dell’atto stesso inteso non come antecedente logico del diritto vantato, bensì come suo fondamento.

2. Preliminarmente deve rilevarsi l’inammissibilità del ricorso – eccepita dalla controricorrente, ma, comunque, rilevabile d’ufficio – per mancato rispetto del termine previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2, decorrente, ai sensi del successivo art. 326, dalla notifica della sentenza al procuratore costituito dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina (d’ora in avanti, per brevità, Asp) in data 26 giugno 2015.

La tardività della proposizione dell’impugnazione in esame, invero non contestata – sotto tale profilo – neppure dalla ricorrente, è del tutto palese, per essere stato il procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016, ben oltre il termine di sessanta giorni previsto dalla richiamata norma.

3. Premesso che non può dubitarsi del perfezionamento, in data 26 giugno 2015, della notificazione della sentenza della Corte di appello di Messina oggetto dell’impugnazione in esame, come si desume dalle attestazioni depositate dalla parte controricorrente, e come, del resto, non è contestato neppure dall’Asp, deve rilevarsi come le deduzioni della stessa, intese a dimostrare la nullità di detta notificazione, tale da impedire la decorrenza del termine “breve” previsto dall’art. 325 c.p.c., non siano condivisibili.

3.1. Si sostiene, in primo luogo, che l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.

L’obiezione non coglie nel segno.

Il testè richiamato D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, risulta formulato nei seguenti termini: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale norma, dunque, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE. Non può omettersi di considerare, inoltre, che l’art. 5 della citata L. n. 53 del 1994 espressamente prevede che “.. l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.”.

Vale bene, del resto, richiamare il principio recentemente enunciato da questa Corte (Cass., 11 luglio 2017, n. 17048), secondo cui “in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

4. Deve pertanto ritenersi che, essendo stata effettuata nella vigenza del richiamato D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, la notificazione della sentenza impugnata risulta correttamente eseguita – con conseguente decorrenza del termine previsto dall’art. 325 c.p.c. – all’indirizzo di posta elettronica comunicato dal difensore della Dismed al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Messina.

5. Sostiene ancora la ricorrente che la notifica in esame sarebbe inficiata da ulteriori violazioni, quali l’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed Onlus e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5.1. Tali deduzioni non sono meritevoli di positivo apprezzamento.

Questa Corte ha di recente espresso un orientamento, in tema di notificazione in via telematica, inteso a privilegiare la funzione della stessa, con la conseguenza che il raggiungimento dello scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata, priva di significativo rilievo la presenza di meri vizi di natura procedimentale (come, ad esempio, l’estensione.doc in luogo del formato pdf), ove l’erronea applicazione della regola processuale non abbia comportato (ovvero, come nella specie, non sia stata neppure prospettata) una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665).

6. Nell’ambito di tale indirizzo si è affermato che la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituisce mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto (Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814).

6.1. Quanto all’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed, valgano le superiori considerazioni, dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dell’art. 13.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2018


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 26-04-2018) 26-09-2018, n. 22892

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22186/2015 proposto da:

P.P., K.E.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE ANGELICO 36-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato P.P., anche quale difensore di se medesimo, giusta procura notarile in atti;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI FIRENZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE STUDIO LEGALE, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA SANSONI, DEBORA PACINI in virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 415/2015 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 10/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/04/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate da parte ricorrente.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. K.E.D. proponeva opposizione dinanzi al Giudice di Pace di Firenze avverso il verbale di contestazione di una contravvenzione al codice della strada del (OMISSIS) elevato dalla Polizia Municipale di Firenze, notificatogli tramite lettera raccomandata del 29/7/2008 dalla European Municipality Outsourcing, divisione della Nivi Credit S.r.l., lamentando la nullità della notifica del verbale per inesistenza della stessa notifica, la invalidità della comunicazione in quanto il verbale era redatto solo in lingua tedesca, la decorrenza dei termini di legge ai fini della decadenza della potestà impositiva, nonchè, nel merito, la mancata prova della commissione della violazione contestata e l’erroneità dell’importo richiesto a titolo di sanzione.

Il Giudice adito con la sentenza n. 8144/2012 del 10/12/2012 dichiarava il ricorso inammissibile in quanto tardivamente proposto.

Avverso tale sentenza proponeva appello il contravventore con atto di citazione notificato in data 10 giugno 2013 il Tribunale di Firenze con la sentenza n. 415 del 10/2/205 rigettava l’appello, condannando il difensore dell’appellante in proprio al rimborso delle spese del grado.

Osservava il giudice del gravame che il Comune già in primo grado aveva eccepito l’inesistenza della procura alle liti rilasciata dall’ E.D., eccezione che si rivelava fondata.

Infatti, la procura era stata rilasciata su foglio disgiunto dal ricorso originario, privo di elementi di congiunzione e nemmeno allegato in originale, e con un’indicazione del tutto generica che non soddisfaceva il requisito di specificità.

Inoltre in occasione della notifica del ricorso la procura non era stata notificata insieme all’atto di opposizione.

Mancava poi ogni certezza di autografia, in quanto sulla procura prodotta in fotocopia, sul retro, e non nello stesso foglio in cui è contenuto il mandato in senso sostanziale, compare, sempre in fotocopia, una sottoscrizione di un notaio con il sigillo, ma il testo è redatto in lingua tedesca, in contrasto con quanto prescritto all’art. 122 c.p.c., che impone l’utilizzo della lingua italiana nel processo.

Risultava, altresì, che mentre nella parte relativa al mandato alla lite redatta in italiano, era riportata la data del 28/5/2010, la diversa parte contenente una ulteriore parte redatta in tedesco e con firma e timbro notarile, reca la diversa data del 28/1/2011, il che induceva a dubitare circa il fatto che il notaio fosse effettivamente presente al momento della sottoscrizione della procura.

La discrasia tra le date lasciava quindi intendere che la procura non fosse stata autenticata in data certa.

Ne discendeva quindi che la procura andava dichiarata inesistente, con la conseguente condanna dello stesso difensore, quale falsus procurator al rimborso delle spese di appello.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione K.E.D. e l’avv. P.P. in proprio sulla base di otto motivi.

Il Comune di Firenze ha resistito con controricorso.

2. Preliminarmente deve essere disattesa la deduzione difensiva dei ricorrenti secondo cui la sentenza gravata sarebbe affetta da nullità in quanto pronunciata ex art. 281 c.p.c., mediante lettura alle parti non presenti.

Si deduce che erroneamente si è fatto riferimento all’art. 281 c.p.c., potendo al più intendersi il richiamo all’art. 281 sexies c.p.c..

Ma anche a voler superare tale profilo, il procedimento, attesa la sua introduzione in primo grado nella vigenza del D.Lgs. n. 150 del 2011, era sottoposto alle norme del processo del lavoro, sicchè la decisione andava adottata a norma dell’art. 429 c.p.c.. Peraltro stante la complessità della vicenda, il giudice avrebbe dovuto riservarsi il termine di sessanta giorni per il successivo deposito della sentenza.

Altro profilo di invalidità consiste nel fatto che la sentenza sia stata resa in assenza delle parti.

Le deduzioni da ritenersi costituire un autonomo motivo di ricorso, in quanto finalizzate a confutare la validità della decisione gravata per errores in procedendo, sono infondate.

In primo luogo si rileva che il giudizio di appello era stato erroneamente introdotto da parte dello stesso appellante con citazione, anzichè con ricorso, come invece imposto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, nè risulta che sia stato successivamente disposto il mutamento del rito, avendo pertanto correttamente il Tribunale fatto riferimento alla previsione di cui all’art. 281 sexies, come riportato all’ultimo rigo del verbale dell’udienza del 10 febbraio 2015, e come riportato anche nell’intestazione della sentenza impugnata (e ciò anche a voler prescindere dall’affermazione di compatibilità tra la previsione di cui all’art. 281 sexies c.p.c., con le norme del rito del lavoro, cfr. Cass. n. 20820/2014; Cass. n. 13708/2007).

A ciò deve aggiungersi che dal punto di vista procedurale non sussistono significative differenze tra la modalità di decisione della causa ex art. 281 sexies e quanto invece previsto dal novellato art. 429 c.p.c., sicchè anche a voler ravvisare un errore procedurale lo stesso appare del tutto privo di idoneità a determinare pregiudizio al diritto di difesa delle parti.

Insindacabile appare poi la scelta assolutamente discrezionale del giudice di avvalersi della modalità di decisione con pronuncia di sentenza contestuale ex art. 281 sexies c.p.c., non emergendo peraltro che le parti avessero inteso richiedere la concessione dei termini per gli scritti conclusionali, mancando del pari la stessa prospettazione di uno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa.

Quanto infine all’avvenuta lettura della sentenza in assenza delle parti, l’allontanamento delle stesse dopo la discussione orale, e nel periodo di tempo intercorso tra la chiusura della discussione e la deliberazione in camera di consiglio, non appare idoneo a precludere la possibilità di pronunciare sentenza ex artt. 281 sexies o 429 c.p.c., in quanto altrimenti opinando l’esercizio del potere decisionale sarebbe rimesso alla arbitraria decisione delle stesse parti di trattenersi o meno in udienza, essendo pertanto escluso che tale condotta possa condizionare il potere del giudice (si veda, sebbene in relazione alla pronunzia di ordinanze, Cass. n. 10539/2007, che proprio in relazione all’ipotesi di ritiro in camera di consiglio, ha escluso che la successiva assenza delle parti in occasione della pronuncia dell’ordinanza imponesse la comunicazione del provvedimento alle parti, ferma restando la piena validità del provvedimento emesso).

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c., commi 2 e 3.

Rileva parte ricorrente che il giudice di appello, erroneamente ritenendo che la procura rilasciata dal ricorrente al difensore fosse generica e precisando che non poteva essere superato il mancato riferimento ad uno specifico procedimento, in quanto la procura non risultava essere stata notificata unitamente al ricorso, ha compiuto un’indebita confusione tra la procura speciale di cui all’art. 83 c.p.c., comma 2 e quella invece contemplata dal terzo comma, pervenendo quindi ad erronee conclusioni in punto di determinatezza del suo contenuto.

In primo luogo, rileva il Collegio che non può in alcun modo condividersi l’assunto di parte ricorrente secondo cui il giudice di appello avrebbe confuso tra la procura speciale rilasciata per scrittura privata autenticata, quale quella in esame, con la procura speciale autenticata dallo stesso difensore atteso che in sentenza chiaramente si richiama la natura notarile della procura de qua, essendosi invece svolte le considerazioni in ordine alla assenza di una notifica della procura contestualmente alla notifica del ricorso, al solo fine di dare atto che la riscontrata carenza di determinatezza della procura, di cui si dirà in prosieguo, non poteva nemmeno ritenersi sanata per effetto della congiunzione materiale con l’atto introduttivo del giudizio in occasione della notificazione.

Il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di procura di cui dell’art. 83 c.p.c., comma 3, lungi dal denotare il convincimento del giudice di merito di trovarsi dinanzi ad una procura siffatta, rispondeva piuttosto all’esigenza di evidenziare le ragioni per le quali nemmeno era possibile superare il difetto di determinatezza della procura, avvalendosi dei criterio che la giurisprudenza di questa Corte ha utilizzato per ovviare, in relazione alla diversa ipotesi di cui al terzo comma della norma in esame, alla mancanza di specifici riferimenti al procedimento per il quale risulti essere stata rilasciata.

Orbene, e tornando alla valutazione compiuta dal giudice di appello circa la genericità della procura de qua, da farsi rientrare, come correttamente sostenuto dalla stessa parte ricorrente nella previsione di cui dell’art. 83 c.p.c., comma 2, va ricordato che il documento de quo, come precisato in sentenza, e come confermato dallo stesso contenuto del ricorso (pag. 7), presenta un’intestazione sia in italiano che in tedesco avente il seguente tenore “Procura speciale alle liti. Nella causa K.E.D. – Comune di Firenze – Prozessvollmacht. In sachen K.E.D. – Comune di Firenze”.

Il testo della procura, anche qui redatto sia in italiano che in tedesco, prevede la delega all’avv. P.P., ma con un rinvio al procedimento di cui sopra, e cioè semplicemente alla causa tra il ricorrente ed il Comune di Firenze.

La sottoscrizione della procura de qua risulta poi essere oggetto di autentica da parte del notatio G.G., con modalità che invece costituiscono oggetto di altri motivi di ricorso.

In relazione a quello invece in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto che la dicitura contenuta nell’intestazione della procura, alla quale, come visto faceva rinvio anche il testo della procura, fosse del tutto generica, in quanto si limitava ad indicare solo il nome del conferente e quello della controparte, senza quindi la possibilità di individuare con precisione a quale specifica controversia si riferisse.

Tale conclusione è oggetto della censura del ricorrente che viceversa ritiene che la riportata indicazione soddisfi il requisito di specificità previsto dalla legge.

Il motivo è infondato.

Va, a tal fine ribadito il principio più volte affermato da questa Corte per il quale (cfr. Cass. n. 4864/2007) l’interpretazione della procura al difensore, al fine di individuare l’ambito del mandato conferitogli dalla parte, costituisce valutazione riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata (conf. Cass. n. 21924/2006, che ribadisce che l’interpretazione datane dal giudice di merito è contestabile solo per eventuali omissioni ed incongruità argomentative, e non anche mediante la mera denunzia dell’ingiustificatezza del risultato interpretativo raggiunto, prospettante invece un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità; Cass. n. 1419/2011).

La censura formulata si limita nella sostanza unicamente a contestare l’esito dell’interpretazione offerta del documento in esame dal Tribunale, ma senza peritarsi di segnalare le regole ermeneutiche violate e come si sia concretato l’errore interpretativo, di tal che la stessa non può avere seguito in questa sede.

Nè la soluzione raggiunta appare connotata da incongruità o illogicità, dovendosi a tal fine avere riguardo agli approdi ai quali già è pervenuta in passato questa Corte che (cfr. Cass. n. 12486/2000) ha ritenuto che la procura notarile rilasciata con l’espressione ad litem (nella specie con l’espressione in lingua tedesca “gegen ananghing”) senza alcun riferimento specifico alla causa e alle generalità della controparte fosse radicalmente nulla, non potendo valere nè come procura generale, in mancanza di una esplicita volontà manifestata in tal senso, nè come procura speciale, per la carenza di riferimenti ad una specifica controversia, non palesandosi illogica l’affermazione secondo cui il solo riferimento alle parti, in assenza di diversi elementi per stabilire l’autorità giudiziaria da adire o il procedimento da promuovere, consentisse di riferire con certezza la procura alla causa poi successivamente introdotta.

4. Il secondo motivo di ricorso denuncia poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 182 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Assume parte ricorrente che ai sensi della norma invocata, e dovendosi nella specie ravvisare un’ipotesi di nullità della procura (in quanto essendo pacifico il rilascio della procura, la sua genericità ne avrebbe determinato la sola nullità e non anche l’inesistenza), il Tribunale, anche alla luce della novella dell’art. 182 c.p.c., frutto della L. n. 69 del 2009, avrebbe dovuto assegnare alla parte un termine entro il quale sanare la nullità.

Tale omissione determina quindi l’invalidità della decisione impugnata.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Ed, infatti, anche a voler accedere alla più recente opinione di questa Corte che (cfr. Cass. n. 22559/2015) anche in relazione al testo dell’art. 182 c.p.c., comma 2 (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2009, art. 46 e quindi a maggior ragione nel caso in esame, sottoposto alla disciplina della norma novellata), ritiene che nel caso di vizio della procura alle liti il giudice è tenuto a promuovere la sanatoria del vizio, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa (in senso conforme Cass. S.U. n. 283337/2011; Cass. n. 19169/2014), va richiamato anche quanto precisato da Cass. S.U. n. 4248/2016.

In tale occasione le Sezioni Unite hanno ritenuto che la norma de qua debba essere intesa nel senso che il difetto di rappresentanza processuale ovvero il vizio di invalidità o assenza della procura ad litem possa sì essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, ma laddove il rilievo del vizio in sede di impugnazione non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacchè sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire (conf. Cass. n. 17301/2013, a mente della quale la mancata assegnazione di un termine per la eventuale sanatoria della procura ritenuta invalida non comporta violazione dell’art. 182 c.p.c., se non in caso di diniego a fronte di una esplicita richiesta della parte, che ben può attivarsi per il rilascio di una nuova e valida procura laddove la questione del vizio di quella originaria sia stata oggetto dell’attività defensionale ed istruttoria).

Nel caso in esame, come si rileva dalla lettura della sentenza impugnata, il Comune di Firenze aveva già in primo grado eccepito l’inesistenza-nullità della procura in esame e l’eccezione era stata riproposta anche nel corso dell’udienza di discussione (cfr. pag. 1 della sentenza di appello che riporta la verbalizzazione delle conclusioni e richieste delle parti), sicchè a fronte di tale contestazione non risulta che la parte ricorrente abbia inteso attivarsi per provvedere alla sanatoria del vizio denunciato, nè che abbia chiesto la concessione del termine di cui all’art. 182 c.p.c., con la conseguenza che deve escludersi la fondatezza del motivo in esame.

5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2702 e 2703 c.c., nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che non vi fosse certezza circa l’autografia della procura in quanto la stessa risultava prodotta in fotocopia, posto che la sottoscrizione del notaio, con il sigillo, sempre in fotocopia, non risultavano apposti sul medesimo foglio in cui è collocato il mandato.

Si deduce che trattandosi di scrittura privata, ed in mancanza di disconoscimento della sua conformità all’originale, il documento de quo ha valore di piena prova, nemmeno potendo rilevare la circostanza che sì tratti di una fotocopia, in quanto il giudice avrebbe dovuto ordinare al ricorrente l’esibizione dell’originale.

Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 83 c.p.c., commi 2 e 3, art. 125 c.p.c., comma 2 e art. 2700 c.c., laddove il Tribunale ha ritenuto che fosse dubbia la presenza del notaio all’atto della sottoscrizione del mandato da parte del ricorrente. Infatti, oltre a reiterarsi la necessità di acquisire il documento in originale, la sentenza non si sarebbe avveduta che si trattava di una procura per scrittura privata autenticata da notaio, in relazione alla quale non è necessario che l’autentica della firma debba avvenire nella medesima data della sottoscrizione.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati sono assorbiti per effetto del rigetto del primo e del secondo motivo, altrimenti sono infondati.

6. Il rigetto del primo e del secondo motivo determina poi l’assorbimento del quarto motivo con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 122 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse necessario l’utilizzo della lingua italiana anche per la redazione della procura alle liti, e precisamente dell’autenticazione della firma, sostenendosi al contrario che laddove il Tribunale avesse nutrito dei dubbi sul contenuto dell’autentica della sottoscrizione, avrebbe dovuto nominare un interprete per la sua traduzione ex art. 123 c.p.c..

7. Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3, nella parte in cui il Tribunale, avendo ritenuto che la procura fosse inesistente, ha escluso che la costituzione della controparte possa avere avuto efficacia sanante del vizio della quale è affetta, trascurando altresì che si tratta di ipotesi di nullità suscettibile di sanatoria.

Il motivo è infondato.

Ed, invero, va in primo luogo osservato che come si ricava dalla lettura della sentenza impugnata, il Comune nel costituirsi in primo grado, ebbe immediatamente a rilevare la invalidità della procura alle liti dell’opponente, mostrando in tal modo di non avere inteso con la sua condotta attribuire efficacia sanante alla costituzione in giudizio.

Peraltro deve escludersi che il vizio di invalidità che colpisca la procura alle liti sia suscettibile di sanatoria per effetto della costituzione della controparte.

In tal senso si veda già in passato Cass. n. 16264/2004, secondo cui la questione della nullità dell’atto processuale in quanto compiuto in mancanza di una valida procura ad litem, costituisce una nullità assoluta ed insanabile, principio questo che deve ritenersi confermato anche da Cass. S.U. n. 4248/2016, cit., secondo cui la mancanza del potere di rappresentanza, per vizi anche della procura alle liti, essendo quest’ultima una delle condizioni di esistenza del potere di azione, giustifica il rilievo officioso in sede di legittimità anche se non vi sia stata contestazione nei gradi di merito, fatta salva la sola sanatoria conseguente al deposito di una valida procura, spontaneamente ovvero a seguito di concessione del termine di cui dell’art. 182 c.p.c., comma 2.

8. Il settimo motivo di ricorso lamenta poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e art. 94 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello, nel dichiarare l’inesistenza della procura, ha posto le spese di lite relative al giudizio di appello direttamente a carico del difensore dell’opponente.

Si sottolinea che ciò è possibile ex art. 94 c.p.c., solo in presenza di gravi motivi, nella specie non ricorrenti, e che il principio affermato da Cass. S.U. n. 10706/2006, che appunto permette la condanna alle spese dello stesso difensore, non è stato correttamente applicato in quanto non si verte in un’ipotesi di assenza assoluta di procura, ma di svolgimento di attività defensionale sulla base di una procura nulla.

Orbene, rileva il Collegio che nel presente giudizio hanno proposto ricorso congiuntamente ed a mezzo del medesimo difensore sia l’originario opponente che l’avv. P.P., quest’ultimo anche in proprio, ed al fine di contestare con il motivo ora in esame, la correttezza della condanna in proprio al rimborso delle spese del giudizio di appello.

Stante il rigetto dei precedenti motivi, e la conferma della valutazione in termini di invalidità della procura alle liti, ove anche il motivo in esame risultasse fondato, l’esito dell’accoglimento sarebbe quello di determinare lo spostamento del carico delle spese di lite dal P. all’ E.D., e cioè sulla stessa parte rappresentata dal primo (sebbene unitamente all’avv. Scardigli).

Tale situazione denota, ad avviso del Collegio, e con carattere di assoluta evidenza, un conflitto di interessi tra il P. ed il suo assistito, e, relativamente all’avv. Scardigli, tra le posizioni dei due suoi patrocinati.

Una volta quindi riscontrata, tra le parti che hanno conferito mandato al medesimo professionista una situazione di conflitto d’interessi, la quale secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 20950/2017) può essere non solo attuale, ma anche potenziale, intendendosi come tale quella non riferibile alla astratta eventualità, bensì in stretta correlazione con il concreto rapporto esistente tra le parti i cui interessi risultino suscettibili di contrapposizione, la risoluzione del conflitto non appare suscettibile di poter essere risolta in base al criterio, pur indicato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 14634/2015) la parte che abbia conferito per seconda la procura a quest’ultimo deve ritenersi non costituita in giudizio, perchè un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possono trovarsi in posizione di contrasto, ostando a tale soluzione il contestuale conferimento dell’incarico.

Per l’ipotesi di assistenza di due parti in conflitto di interessi, si è poi precisato che (cfr. Cass. n. 21350/2005) è inammissibile la loro costituzione in giudizio a mezzo di uno stesso procuratore, al quale sia stato conferito mandato con un unico atto, e ciò anche in ipotesi di “simultaneus processus”, dato che il difensore non può svolgere contemporaneamente attività difensiva in favore di soggetti portatori di istanze confliggenti, essendo siffatta violazione rilevabile di ufficio, anche in sede di appello, in quanto investe il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente garantiti (sempre per il rilievo d’ufficio del conflitto di interessi, si veda anche Cass. n. 15183/2005).

Inoltre ed avuto riguardo alla posizione del P., va richiamato il principio secondo cui (Cass. n. 13204/2012) l’attività processuale posta in essere da un difensore in conflitto di interesse col proprio assistito è nulla ed il relativo vizio è rilevabile d’ufficio, investendo la validità della procura e, quindi, il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente tutelati.

Tuttavia, va considerato che la situazione di conflitto di interessi non investe l’intero contenuto del ricorso, ma il solo motivo in esame, il cui accoglimento, come detto, riverserebbe i suoi effetti negativamente sulla posizione dell’opponente, sicchè reputa il Collegio che possa farsi applicazione di quanto già in passato affermato dal giudice di legittimità, e cioè che (cfr. Cass. n. 15183/2005), ferma restando l’impossibilità per il difensore di svolgere allegazioni, richieste e deduzioni nei reciproci rapporti a favore di taluno e contro altri, laddove si sia costituito in giudizio per più parti, eventualmente in conflitto tra loro, tuttavia ove ciò accada nel giudizio di impugnazione, ciò non necessariamente comporta la nullità dell’intero atto di gravame, ma solo di quei motivi che contengono censure svolte in maniera tale che il loro accoglimento comporterebbe un vantaggio per uno degli impugnanti a danno dell’altro (conf. Cass. n. 8842/2004, che ha ritenuto che le censure di due dei tre soggetti, difesi dal medesimo difensore, dirette, in sede di legittimità, contro il terzo soggetto non potessero essere prese in considerazione). Ritiene il Collegio di dover dare continuità a tali principi e che per l’effetto il motivo in esame, in quanto affetto da nullità per conflitto di interessi, non possa essere preso in considerazione.

9. L’ottavo motivo denuncia infine la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il Tribunale avrebbe rigettato l’appello sulla base di motivi diversi da quelli richiesti dalle parti, motivi che provvede a trascrivere nel motivo in esame.

La doglianza è del tutto priva di fondamento, in quanto non si avvede della circostanza che, avendo il giudice di appello ravvisato l’invalidità della procura alle liti e reputato che tale vizio fosse impeditivo della stessa disamina nel merito dell’opposizione, ha sostanzialmente confermato la valutazione di inammissibilità del giudice di prime cure (che aveva ritenuto che l’opposizione fosse tardiva) sebbene sulla base di una diversa motivazione, ma senza che ciò potesse in ogni caso permettere di accedere alla disamina nel merito dei motivi di opposizione, il che esclude del pari che la sentenza possa essere censurata per la pretesa violazione della previsione di cui all’art. 112 c.p.c..

10. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del Comune di Firenze, come liquidate in dispositivo.

11. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il primo, il secondo, il sesto e l’ottavo motivo di ricorso, dichiara la nullità del settimo motivo, assorbiti i restanti;

Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 745,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2018


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 17/07/2018) 24/09/2018, n. 22438

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di Sez. –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di Sez. –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7833-2017 proposto da:

GSA GRUPPO SERVIZI ASSOCIATI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato ROMANO VACCARELLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA DE PAULI, LUCA MAZZEO e LUCA PONTI;

– ricorrente –

contro

EVOLVE CONSORZIO STABILE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRINCIPESSA CLOTILDE 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO CLARIZIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LODOVICO VISONE;

– controricorrente –

EGAS – ENTE PER LA GESTIONE ACCENTRATA DEI SERVIZI CONDIVISI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 284, presso lo studio dell’avvocato CARLO MALINCONICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO BALDUCCI ROMANO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza 975/2017 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 2/03/2017.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/07/2018 dal Consigliere ENZO VINCENTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FINOCCHI GHERSI RENATO, che ha concluso per l’estinzione del ricorso;

uditi gli avvocati Gianluca Calderara per delega orale dell’avvocato Luca Mazzeo e Carlo Malinconico.

Svolgimento del processo
1. – Il Consiglio di Stato, con sentenza del 2 marzo 2017, ha accolto l’appello principale proposto da Evolve Consorzio Stabile avverso la sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia n. 345/2016 – che, a sua volta, ne aveva rigettato il ricorso per l’annullamento dell’aggiudicazione in favore di GSA-Gruppo Servizi Associati S.p.A. (di seguito anche GSA) della gara di affidamento del servizio di vigilanza continuativo antincendio per tre anni per l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) e l’Istituto (OMISSIS) – e, respinto l’appello incidentale proposto dalla GSA, ha annullato l’aggiudicazione, nonchè disposto il subentro di Evolve nel contratto di appalto, con limitazione dell’inefficacia del contratto attualmente in essere al solo periodo successivo al subentro.

2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso GSA-Gruppo Servizi Associati S.p.A. sulla base di due motivi, con i quali è dedotta la violazione dei limiti della giurisdizione di legittimità sia in danno dei poteri riservati dalla legge alla P.A., sia in danno del potere legislativo.

Hanno resistito con controricorso Evolve Consorzio Stabile e EGAS-Ente per la Gestione Accentrata dei Servizi Condivisi; quest’ultima ha proposto ricorso incidentale sulla base di tre motivi, con i quali sono dedotte le violazioni già postulate dal ricorrente principale, nonchè viene lamentato il diniego della tutela giurisdizionale.

3. – In data 9 luglio GSA S.p.A. ha depositato atto di rinuncia al ricorso sottoscritto dal proprio legale rappresentante e dai difensori nominati con procura speciale (e apposito mandato anche a rinunciare), notificato agli avvocati dei controricorrenti Evolve ed EGAS.

Motivi della decisione
1. – Alla rituale rinuncia al ricorso per cassazione da parte GSA S.p.A., che non richiede l’accettazione delle controparti per essere produttiva di effetti processuali, segue l’estinzione del giudizio di legittimità introdotto con il medesimo atto di impugnazione.

2. – Il ricorso incidentale di EGAS deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto non vi è contestazione sulla circostanza, dedotta nell’atto di rinuncia al ricorso principale, che Evolve e GSA “hanno definito transattivamente” le rispettive “posizioni… che le vedono contrapposte” (da intendersi, quindi, con diretta incidenza sui rapporti sostanziali inter partes), e la stessa EGAS “ha manifestato la propria adesione alla transazione”.

3. – La definizione transattiva della lite, nei termini anzidetti, consente di ritenere sussistenti le ragioni di cui all’art. 92 c.p.c. per compensare interamente tra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.

4. – Il Collegio reputa, tuttavia, di doversi soffermare su una questione di particolare importanza che trova origine proprio dalla proposizione del ricorso principale e di utilizzare, così, il potere, che l’art. 363 c.p.c. assegna alla Corte di Cassazione, di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge; ciò che la declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso non impedisce (Cass., S.U., 6 settembre 2010, n. 19051).

5. – Si tratta della questione che investe il profilo della procedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del ricorso predisposto in originale telematico e così notificato a mezzo posta elettronica certificata (p.e.c.).

5.1. – Il ricorso di GSA S.p.A. è stato, infatti, redatto in originale telematico e sottoscritto digitalmente, per essere poi, come tale, notificato a mezzo p.e.c..

Ciò risulta non solo dalla copia stampata del messaggio di p.e.c. depositato dalla società ricorrente che indica come gli atti allegati (ricorso, procura e relata di notifica) siano file con estensione “.p7m.” e, dunque, sottoscritti con firma digitale tipo CAdES (cfr. Cass., S.U., 27 aprile 2018, n. 10266), ma, in via dirimente, dalla attestazione di conformità del difensore del controricorrente EGAS S.p.A. relativa al messaggio di p.e.c. ricevuto e della copia degli atti allegati – tra cui, per l’appunto, il ricorso – tutti “firmati digitalmente”.

Del ricorso in originale telematico e sottoscritto digitalmente è stata depositata (nel termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c.) copia analogica informe, non sottoscritta con firma autografa dei difensori, insieme alle copie cartacee del messaggio di p.e.c. e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna prive dell’attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter.

6. – La fattispecie materiale concernente la formazione dell’atto ricorso (nativo digitale e sottoscritto con firma digitale), la sua notificazione (in originale telematico, sottoscritto digitalmente, a mezzo p.e.c.) e il suo deposito presso la cancelleria di questa Corte (in copia analogica dell’originale telematico priva di sottoscrizione autografa dei difensori, unitamente al deposito dei messaggi di p.e.c. riguardanti la notificazione del ricorso in originale telematico e della allegata procura, in copia informatica autenticata con firma digitale, senza che vi sia l’attestazione di conformità) è, dunque, sovrapponibile a quella esaminata da questa Corte con l’ordinanza n. 30918 del 22 dicembre 2017 (pronunciata dalla Sesta Sezione nella composizione stabilita dal par. 4.2. delle tabelle della Corte di Cassazione).

7. – In detta occasione, la ratio decidendi e il principio di diritto che hanno giustificato e sorretto l’esito dell’impugnazione in una declaratoria di improcedibilità del ricorso sono compendiati nella seguente massima ufficiale:

“Il deposito in cancelleria di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo posta elettronica certificata, con attestazione di conformità priva di sottoscrizione autografa del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter,ne comporta l’improcedibilità rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 369 c.p.c., a nulla rilevando la mancata contestazione della controparte ovvero il deposito di copia del ricorso ritualmente autenticata oltre il termine perentorio di venti giorni dall’ultima notifica, non essendo ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso”.

8. – Giova riportare, in sintesi, i passaggi argomentativi dell’ordinanza n. 30918/2017, che segnano in modo chiaro i termini della questione e dell’attuale approdo della giurisprudenza di legittimità:

a) il processo telematico non è stato esteso al giudizio di cassazione, per cui il ricorso per cassazione può essere depositato nella cancelleria della Corte esclusivamente in modalità analogica (cartacea), sebbene ciò non escluda che il ricorrente possa notificare il ricorso (nativo analogico o nativo digitale; nella specie, trattasi di questa seconda ipotesi) con modalità telematiche;

b) il codice dell’amministrazione digitale (c.a.d., D.Lgs. n. 82 del 2005) riconosce un potere di attestazione di conformità di copie analogiche di atti digitali ai pubblici ufficiali a ciò autorizzati (art. 23), là dove un tale potere, nell’ambito del processo civile, è attribuito all’avvocato (così qualificato pubblico ufficiale) ai fini delle notificazioni (L. n. 53 del 1994 e successive modificazioni, artt. 6 e 9, commi 1-bis e 1-ter), concernendo il messaggio di posta elettronica certificata, i suoi allegati (nella specie e segnatamente, ricorso, procura alle liti e relazione di notifica), le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna;

c) il deposito di ricorso analogico quale mera copia di quello informatico priva della necessaria attestazione di conformità sottoscritta dal difensore, non è idoneo ad integrare quanto richiesto dall’art. 369 c.p.c., comma 1, ed è quindi improcedibile;

d) in particolare, la sanzione della improcedibilità scatta allorquando sia stata depositata, nel termine di venti giorni dalla notificazione, soltanto una copia non autenticata e non già originale del ricorso (Cass., sez. un., 10 ottobre 1997, n. 9861) e, analogamente, deve ritenersi per il deposito, nel predetto termine, della relazione di notifica ed del relativo messaggio attestante il tempo della notifica dal quale decorre il termine per il deposito in cancelleria (Cass. 19 dicembre 2016, n. 26102, Cass. 28 luglio 2017, n. 18758);

e) l’improcedibilità del ricorso deve essere rilevata d’ufficio senza che sia necessaria un’eccezione della controparte (tra le tante, Cass., 18 settembre 2012, n. 15624 e Cass., 7 febbraio 2017, n. 3132), nè, in contrario, può avere rilievo la non contestazione della controparte in applicazione dell’art. 2719 c.c. (Cass., 1 dicembre 2005, n. 26222; Cass., 18 settembre 2012, n. 15624; Cass., 8 ottobre 2013, n. 22914; Cass., 26 maggio 2015, n. 10784), quale regola che attiene all’ambito probatorio inter partes e non invoca bile là dove si devono effettuare verifiche, come quelle relative alla procedibilità del ricorso, che hanno implicazioni pubblicistiche e non sono nella disponibilità delle parti. Di qui, anche la ragione del mancato richiamo del comma 2 dell’art. 23 del c.a.d. (norma ritenuta omologa al citato art. 2719 c.c.) ad opera della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter;

f) non è consentito il deposito dell’attestazione di conformità del ricorso (e anche della relata di notificazione e dei messaggi di p.e.c.) oltre il termine di venti giorni dall’ultima notificazione, non essendo ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità mancante dopo la scadenza del termine per il deposito del ricorso (Cass., 20 gennaio 2015, n. 870 e Cass., 7 febbraio 2017, n. 3132; Cass., S.U., 2 maggio 2017, n. 10648, che, tuttavia, ha escluso l’applicabilità della sanzione dell’improcedibilità quando il documento mancante sia nella disponibilità del giudice perchè prodotto dalla controparte o perchè presente nel fascicolo d’ufficio).

9. – Con la successiva citata sentenza n. 10266/2018, di queste Sezioni Unite, si è ribadito (sebbene, poi, il relativo intervento nomofilattico abbia riguardato una diversa questione, pur sempre attinente al ricorso predisposto in originale telematico) che nel giudizio di cassazione, cui – ad eccezione delle comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012 – non è stato ancora esteso il processo telematico (p.c.t.), è necessario estrarre copie analogiche degli atti digitali ed attestarne la conformità, in virtù del potere appositamente conferito al difensore dalla L. n. 53 del 1994, art. 6 e art. 9, commi 1-bis e 1-ter.

10. – E’ opportuno premettere che non viene qui in discussione la diversa questione della improcedibilità dell’impugnazione in difetto di attestazione di conformità della copia analogica della sentenza notificata con modalità telematiche, di cui all’arresto dell’ordinanza n. 30765 del 22 dicembre 2017 della Sesta Sezione (anche in tale occasione nella composizione stabilita dal par. 4.2. delle tabelle della Corte di Cassazione).

Sebbene possano ravvisarsi punti di contatto, trattasi di fattispecie differente da quella in esame.

11. – Ritengono, invece, le Sezioni Unite che sussistano valide ragioni per rimeditare, sia pure solo in parte, l’orientamento anzidetto, in tema di procedibilità del ricorso per cassazione notificato come documento informatico nativo digitale.

Ragioni che muovono da una prospettiva convergente con l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), che guarda come obiettivo al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione Europea, art. 6 CEDU).

12. – Del resto, l’esigenza anzidetta è già stata coltivata dalle pronunce sopra richiamate (Cass. n. 30918/2017 e Cass., S.U., n. 10266/2018) allorquando – in un contesto quale quello del giudizio di cassazione, in cui l’impianto e lo svolgersi della relativa disciplina processuale è, ancora oggi, ancorato ad una dimensione analogica (ossia cartacea) degli atti e dove, pertanto, non trovano applicazione le regole sul p.c.t. (salva l’eccezione cui sopra si è fatto cenno) – hanno ritenuto ammissibile la formazione digitale del ricorso e il suo deposito in copia analogica autenticata. Atto ed attività processuali che, di certo, non trovano immediata corrispondenza nel paradigma segnato dal combinato disposto dell’art. 365 c.p.c. e art. 369 c.p.c., comma 1, ossia di norme la cui originaria formulazione non è stata mai interessata da modifiche legislative dall’epoca, ormai risalente, della promulgazione del codice di rito.

Ed è evidente che tanto è potuto avvenire tramite una interpretazione evolutiva, in consonanza con il già citato valore (principio) “obiettivo” dell’effettività della tutela giurisdizionale, che, proprio in ambito sovranazionale, ha trovato coerente sponda anche nel principio di “non discriminazione” (quanto agli effetti giuridici) del documento digitale espresso dall’art. 46 del regolamento UE n. 910 del 2014 (eIDAS).

13. – E’, quindi, un terreno già arato e reso fertile quello sul quale si viene ad innestare questo ulteriore intervento nomofilattico, la cui vocazione ancor più “liberale” (Cass., S.U., n. 10648/2017) rimane anch’essa particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale (art. 6 p. 1 CEDU: tra le altre, Corte EDU, 16 giugno 2015, ric. n. 20485/06 e Corte EDU 15 settembre 2016, ric. n. 32610/07; ma anche, più di recente, seppure con accenti diversi: Cass., S.U., 13 dicembre 2016, n. 25513; Cass., S.U., 29 maggio 2017, n. 13453; Cass., S.U., 7 novembre 2017, n. 26338; Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199), trovando rinnovata vitalità nel principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, siccome prescritte dalla legge non per la realizzazione di un valore in sè o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (cfr. anche Cass., 12 maggio 2016, n. 9772).

E in tale quadro – come messo in risalto ancora dalla citata Cass., S.U., n. 10648/2017 – cooperano, intrecciati tra loro, ulteriori aspetti, “portatori di altrettanti valori interni al sistema”, come: “l’ordinato svolgersi del giudizio di legittimità, con la possibilità di avviare sollecitamente le verifiche di rito; il controllo sulla tempestività dell’impugnazione e sul conseguente formarsi del giudicato; il diritto della parte resistente di far constare i vizi del ricorso; la necessaria proporzionalità tra la sanzione irrimediabile dell’improcedibilità (art. 387 c.p.c.) e la violazione processuale commessa;… la giustizia della decisione (SU 10531/13; 26242/14; 12310/15) quale scopo dell’equo processo”.

Sono, tutti, principi immanenti al “giusto processo”, che non possono essere recessivi rispetto alle forme e alle modalità, contingenti, nei quali il processo stesso viene ad essere configurato in base all’esercizio, ragionevole, della discrezionalità di cui gode il legislatore nel plasmarne gli istituti (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 243 del 2014 e n. 216 del 2013).

E tanto non trova deroghe nel caso del processo telematico, sebbene costituisca, oggi e, presumibilmente, ancor più nel prossimo futuro, lo strumento più duttile e funzionale in un’ottica di semplificazione ed efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso, come reso palese dai plurimi interventi legislativi di questi ultimi anni, investenti quasi tutti i plessi giurisdizionali.

14. – In questa luce va affermato, anzitutto, il superamento della sanzione dell’improcedibilità del ricorso notificato a mezzo p.e.c. come originale telematico e depositato in copia analogica (unitamente alle copie dei messaggi di p.e.c., della relata di notificazione e della procura) priva di attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9 nell’ipotesi (che ricorre nella specie) di deposito della copia notificata del ricorso da parte del controricorrente ritualmente autenticata proprio ai sensi della L. n. 53 del 1994, citato art. 9.

Anche in questo caso, insistere nella sanzione di improcedibilità, nonostante che l’adempimento della controparte abbia consentito l’attivazione della sequenza procedimentale senza ritardi apprezzabili (“l’esame del fascicolo non può aver luogo se non si è atteso il tempo utile per il deposito del controricorso”: così la citata Cass., S.U., n. 10648/2017) e che il documento sia esibito “dalla stessa parte interessata a far constare la violazione processuale” (ancora Cass., S.U., n. 10648/2017), condurrebbe ad un vulnus di quei parametri normativi (art. 6 p. 1 CEDU, ma anche art. 47 della Carta di Nizza e art. 111 Cost.) che impongono di valutare in termini di ragionevolezza e proporzionalità gli impedimenti al pieno dispiegarsi della tutela giurisdizionale, la quale, nella declinazione del “giusto processo”, è presidiata dall’effettività dei mezzi di azione e difesa, che tale è anche nel preservare al giudizio la sua essenziale tensione verso la decisione di merito (tra le altre, Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144).

15. – Ma vi sono ragioni ulteriori che consentono di sussumere come ipotesi fisiologica nell’ambito della fattispecie processuale dell’art. 369 c.p.c. anche quella del deposito in copia analogica del ricorso in forma di documento informatico notificato a mezzo p.e.c. in assenza della attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9 dando rilievo, questa volta, al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione, della conformità di detta copia all’originale telematico, in applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2.

Del resto, è l’espresso disposto dell’art. 2, comma 6, del c.a.d., inserito dal D.Lgs. n. 179 del 2016, a rendere manifesto che “le disposizioni del presente Codice si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”. E, peraltro, ad analoghe conclusioni era giunta la giurisprudenza di questa Corte (Cass., 10 novembre 2015, n. 22871) là dove aveva affermato che i principi generali del D.Lgs. n. 82 del 2005 sono resi applicabili al processo civile dal D.L. n. 193 del 2009, art. 4 convertito dalla L. n. 24 del 2010; art. 4 che ha rappresentato, altresì, la base legale per l’adozione, da parte del Ministro della Giustizia, delle “regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” e ciò proprio “in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82”.

16. – Va, anzitutto, rammentato che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, in più di un’occasione e già da tempo risalente (Cass., S.U., 2 febbraio 1976, n. 323), che “il deposito nella cancelleria della Corte di Cassazione di una copia informe del ricorso, anzichè, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 1, dell’originale, non determina improcedibilità del ricorso medesimo, qualora non vi siano dubbi sulla conformità all’originale della copia; in tal caso, infatti, viene soddisfatta la finalità, perseguita dalla suddetta norma, di radicare, con il deposito del ricorso, il procedimento di impugnazione, e di consentire alla Corte la preliminare verifica, senza possibilità di contestazioni, sulla regolarità della costituzione del contraddittorio, nonchè sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità e procedibilità dell’impugnazione”.

Tale principio trovò applicazione in un caso in cui il ricorso era stato depositato in copia, con la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario attestante l’avvenuta notifica, avendo poi la Corte rilevato che l’originale del ricorso medesimo risultava inserito nel fascicolo del resistente.

Il principio è stato, poi, ribadito da Cass., 26 giugno 2008, n. 17534, ritenendosi procedibile il ricorso in quanto l’unica difformità fra la relativa copia e l’originale del ricorso (quest’ultimo depositato ben oltre il termine di venti giorni e senza che vi fosse stata costituzione dell’intimato con controricorso) era rappresentata dal fatto che la copia non recava la procura, sicchè si trattava di difformità la quale, afferendo ad un atto diverso dal ricorso e materialmente inserito nello stesso documento che conteneva il ricorso medesimo, non determinava alcun dubbio di conformità della copia all’originale.

17. – Il medesimo principio di diritto è stato confermato anche da quelle pronunce (tra le altre, Cass., 1 dicembre 2005, n. 26222; Cass., 18 settembre 2012, n. 15624; Cass., 26 maggio 2015, n. 10784), che hanno, poi, ritenuto di dover dichiarare l’improcedibilità del ricorso depositato soltanto in copia fotostatica, escludendo di poter ravvisare quella necessaria ragionevole certezza della conformità della copia all’originale, in quanto non rinvenuto agli atti e insistendo sulla inderogabilità (assoluta) del termine di venti giorni stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

Questi stessi precedenti hanno, altresì, vagliato negativamente la possibilità di fare applicazione del disposto del citato art. 2719 c.c., adducendo quelle stesse ragioni poi riprese dall’ordinanza n. 30918/2017 (e innanzi richiamate) e affermando, quindi, che, nella specie, ciò che occorre garantire è l’accertamento, in capo alla Corte e indisponibile per le parti, dell’esistenza, o meno, di un ricorso redatto nelle forme previste dall’art. 365 c.p.c. e ciò, dunque, “a prescindere dalla mancata espressa contestazione della controparte che, non essendo mai stata in possesso dell’atto originale, non è in grado di valutare la conformità all’originale della fotocopia”.

18. – Prescindendo per ora dal profilo della tempestività del deposito del ricorso (come detto, esaminato sotto una prospettiva di “apertura” dalla sentenza n. 10648/2017 di queste Sezioni Unite), è necessario soffermarsi sulla ragione decisiva che, secondo la richiamata giurisprudenza, porta ad escludere rilevanza alla “non contestazione” del controricorrente.

La certezza della conformità della copia all’originale – che consente “alla Corte la preliminare verifica, senza possibilità di contestazioni, sulla regolarità della costituzione del contraddittorio, nonchè sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità e procedibilità dell’impugnazione” (Cass., S.U., n. 323/1976, citata) – non potrebbe, dunque, essere data dalla mancata contestazione di controparte perchè si tratta di verifica ad essa sottratta (indisponibile), per essere riservata (stante la rilevanza pubblicistica degli interessi) alla Corte di Cassazione; in ogni caso, non essendo la parte in possesso dell’originale del ricorso, la stessa sarebbe impossibilitata ad operare detta valutazione di conformità.

19. – Tuttavia, l’apparato argomentativo che sorregge il consolidato orientamento restrittivo della giurisprudenza di questa Corte, formatosi in ambiente di ricorso analogico (e di norme processuali calibrate su tale forma atto), non risulta altrettanto dirimente, se traguardato sotto la lente dei principi, costituzionali e sovranazionali, sopra ricordati, nell’ipotesi di ricorso nativo digitale e come tale notificato a mezzo p.e.c..

20. – Giova premettere che in tale ipotesi il ricorso dovrà essere il documento informatico originale sottoscritto con firma digitale, conformemente a quanto stabilito dall’art. 20 del c.a.d., quale norma generale (come chiarito sub p. 15) che, nell’attribuire al documento così sottoscritto “l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile”, viene, quindi, ad individuare, in armonia con quanto puntualizzato dalla citata sentenza n. 10266/2018 di queste Sezioni Unite, i caratteri del documento informatico, nella specie di natura processuale, in grado di soddisfare il requisito della sottoscrizione di cui all’art. 365 c.p.c. o, comunque, della sottoscrizione dell’atto processuale che, in base alle regole del codice di rito (e, dunque, in base alla legge del processo), si rende necessaria.

A tanto si conforma, quindi, la specifica tecnica dettata, per il p.c.t. nei gradi di merito ai fini del deposito telematico, dall’art. 12 del decreto dirigenziale del 16 aprile 2014 e aggiornato il 28 dicembre 2015 (in forza di quanto consentito dal D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 34).

Sicchè, ai fini del rispetto delle regole tecniche per le notificazioni telematica, eseguite dagli avvocati, dell’atto processuale redatto e sottoscritto in formato digitale, l’art. 19-bis di detto decreto, in attuazione del citato D.M. n. 44 del 2011, art. 18 coerentemente stabilisce, al comma 3, che la notificazione dell’atto processuale da trasmettere telematicamente all’ufficio giudiziario deve riguardare il documento originale informatico (nel formato e secondo le modalità dettate dal precedente comma 1).

Pertanto, là dove lo stesso art. 19-bis, al comma 4, prevede che si applichi l’art. 12 del medesimo decreto “Qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con forma digitale o firma elettronica qualificata”, non sottintende la facoltà di notificare l’atto processuale in copia informatica e senza firma digitale, bensì individua sul piano tecnico soltanto la regola sul tipo di firma digitale apponibile al documento informatico che tale firma deve possedere (giacchè, ben possono esserci documenti informatici che non sono atti processuali, come, ad es., quelli probatori) e, tra questi, certamente l’atto processuale.

Non può, quindi, sostenersi (come invece affermato da Cass., 28 giugno 2018, n. 17020) che, in ambiente di processo telematico, il deposito in cancelleria deve avvenire in riferimento ad atto nativo originale con firma digitale, mentre la notificazione alla controparte può avere ad oggetto lo “stesso” atto nativo originale privo di firma digitale, poichè si tratterebbe, in realtà, di due atti nativi digitali diversi e non dello stesso unico atto sottoscritto con firma digitale.

Del resto, nel giudizio di cassazione (cui si riferisce il precedente appena richiamato), in cui, non essendo operante il sistema del p.c.t. (salva l’eccezione in precedenza indicata), non è possibile dare prova della notificazione in modalità telematica (come invece previsto dal comma 5 del citato art. 19-bis), ove si accedesse all’interpretazione che ammette la notificazione di un ricorso in originale informatico privo di firma digitale verrebbe, addirittura, a mancare un originale sottoscritto, giacchè a tanto non potrebbe sopperire l’attestazione di conformità della copia analogica del ricorso depositata in luogo dell’originale digitale; attestazione che postula, per l’appunto, che l’originale digitale sia stato, a sua volta, ritualmente sottoscritto.

Di qui, pertanto, la rilevanza del vizio di sottoscrizione digitale dell’atto nativo digitale notificato, che, come detto, è l’originale; vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo.

21. – Dunque, l’originale del ricorso nativo digitale – in quanto atto processuale – è unico e per essere valido, alla luce di quanto dispone la legge processuale (che è fonte condizionante, anche in via interpretativa, la portata stessa della disciplina recata dalle disposizioni regolamentari e tecniche sul p.c.t.), deve essere sottoscritto con firma (ovviamente) digitale; l’atto così formato e sottoscritto è, quindi, l’atto che l’avvocato provvede a notificare, a mezzo p.e.c., all’indirizzo p.e.c., risultante da pubblici registri, della controparte.

La parte destinataria della notificazione sarà, quindi, in possesso proprio dell’originale del ricorso notificato, sottoscritto con firma digitale, sicchè sarà posta nella condizione di operare una verifica di conformità all’originale (in suo possesso) della copia analogica del ricorso che è stata già depositata in cancelleria.

22. – Invero, e come del resto è già emerso in precedenza, nel giudizio di cassazione – che vede ancora in fieri l’operatività a regime del sistema p.c.t. (salva l’eccezione di cui si è detto) -, stante l’impossibilità di procedere al deposito telematico del ricorso, la Corte non è affatto in grado di verificare, essa stessa, la conformità all’originale nativo digitale della copia analogica del ricorso depositata.

Di qui, pertanto, l’applicazione della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter (e successive modificazioni), quali disposizioni che, proprio nell’ipotesi in cui non si possa depositare l’atto processuale originale telematico notificato, affidano alla parte l’onere di attestare la conformità all’originale della copia analogica depositata.

Si tratta di assunzione di responsabilità specifica e suscettibile di sanzioni extraprocessuali (L. n. 53 del 1994, art. 6) e, tuttavia, costituisce pur sempre un affidamento al depositante di ciò che, in ambito di verifica imposta dal combinato disposto dell’art. 365 c.p.c. e art. 369 c.p.c., comma 1, si afferma essere alla parte stessa sottratto e, dunque, indisponibile.

Del resto, come già posto in risalto, nel quadro attuale della disciplina del giudizio di cassazione si è resa necessaria, proprio al fine di consentire il deposito di copia analogica di ricorso notificato come documento nativo digitale, quell’interpretazione evolutiva che è transitata attraverso l’applicazione, come regola (necessitata) per la verifica della procedibilità del ricorso nativo digitale, del citato art. 9, commi 1-bis e 1-ter, ossia di norme che, di certo, non sono state ispirate dalle esigenze proprie, e strutturali, del giudizio di cassazione, bensì da quelle concernenti il sistema del p.c.t. in essere presso gli uffici giudiziari di merito.

Ed è proprio in un siffatto contesto che la regola di verifica della procedibilità del ricorso nativo digitale così notificato – che non risponde al paradigma originario della disciplina del codice di rito deve, quindi, misurarsi con la radicalità della sanzione dell’improcedibilità recata dall’art. 369 c.p.c., secondo quel test di ragionevolezza e proporzionalità che si impone nella configurazione di impedimenti all’accesso alla tutela giurisdizionale nella sua effettività.

23. – Ne consegue che il punto di equilibrio può spostarsi in avanti, tenendo conto (non solo dell’ipotesi considerata al p. 14, ma anche) dello stesso comportamento concludente della parte destinataria della notificazione, che esprime una saldatura concettuale, in termini di affidamento nella verifica della condizione di procedibilità, con la condotta asseverativa imposta al notificante (ciò che, del resto, costituisce orizzonte traguardato anche da Cass., 20 agosto 2018, n. 20818 e da Cass., S.U., 11 settembre 2018, n. 22085).

E questo proprio perchè il destinatario della notificazione è in possesso dell’originale del ricorso in formato digitale e, quindi, è in grado di valutarne appieno la conformità alla copia analogica informe (ossia priva di attestazione L. n. 53 del 1994, ex art. 9) che sia stata tempestivamente depositata (nei venti giorni prescritti dall’art. 369 c.p.c.) dal ricorrente, attestando l’esito di una siffatta verifica tramite il mancato disconoscimento di detta conformità.

Ciò, peraltro, senza determinare, come già rammentato in forza del richiamo a Cass., S.U., n. 10648/2017, “ritardi apprezzabili” nell’attivazione della sequenza procedimentale ed essendo coinvolta, per l’appunto, la “stessa parte interessata a far constare la violazione processuale”.

24. – In tal senso, quindi, trova peculiare valorizzazione l’art. 23, comma 2, del c.a.d., quale norma che, pur non essendo richiamata dalla L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis e 1-ter, è suscettibile di essere applicata (secondo quanto messo in luce al p. 15) in ragione del disposto di cui all’art. 2, comma 6, del c.a.d. (cfr. anche Cass., 2 marzo 2018, n. 4932, sebbene la pronuncia postuli solo in astratto la praticabilità di tale soluzione), in quanto opera – già ora, nel contesto della disciplina del giudizio di legittimità non ancora inserito nel sistema del p.c.t. – da norma di chiusura sul duplice presupposto (anzitutto materiale, prima ancora che giuridico) della impossibilità per la Corte di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale e della possibilità, invece, della parte destinataria dell’atto processuale nativo digitale, debitamente sottoscritto con firma digitale, di poterne operare, o meno, il disconoscimento rispetto alla copia analogica che non sia stata autenticata dal difensore autore dell’atto notificato, in quanto in possesso proprio del suo originale.

25. – Peraltro, in armonia con quanto già complessivamente evidenziato, l’art. 23, comma 2, c.a.d. potrà ben trovare applicazione ai fini della prova della tempestività della notificazione, in riferimento al mancato disconoscimento ad opera del controricorrente dei messaggi di p.e.c. e della relata di notifica depositati in copia analogica non autenticata dalla parte ricorrente, così come, del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, in più di un’occasione, in riferimento alla produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell’atto processuale spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., in applicazione dell’art. 2719 c.c. (Cass., 27 luglio 2012, n. 13439; Cass., 8 settembre 2017, n. 21003).

26. – Ovviamente, al di là di quelle sopra evidenziate (p.p. 14 e 23), possono darsi ulteriori eventualità nella vicenda processuale che attiene alla procedibilità del ricorso, con l’avvertenza che, ove necessario, occorrerà fare applicazione calibrata del principio (più volte ricordato) di sterilizzazione della sanzione dell’improcedibilità in assenza di “ritardi apprezzabili” nell’attivazione della sequenza procedimentale enunciato da Cass., S.U., n. 10648/2017, attingendo, quanto alla scansione temporale di definizione di detta sequenza, alle indicazioni provenienti da Cass., S.U., 14 gennaio 2008, n. 627 (concernente fattispecie in tema di notificazione a mezzo posta).

Tanto è dato ritenere, anzitutto, in ragione del contesto normativo e materiale, più volte rammentato, nel quale si cala, a tutt’oggi, il ricorso per cassazione notificato come documento informatico nativo digitale e come tale non depositabile nella cancelleria della Corte di Cassazione, per non essere ancora attivato, presso la Cassazione stessa, il sistema del p.c.t..

Contesto, dunque, affatto peculiare e tuttavia intermedio, perchè destinato ad essere superato con l’immissione nel circuito del predetto sistema anche del giudizio di legittimità, come prefigurato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 6, – convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012 -, inserito dalla L. n. 228 del 2012.

In questo attuale e particolare ambito occorre, quindi, dare specifico rilievo, nell’ottica sopra delineata, al presupposto, indefettibile, della iniziale tempestività (nei venti giorni stabiliti dall’art. 369 c.p.c.) del deposito del ricorso seppure in copia informe, che come in precedenza evidenziato – ha comunque consentito alla giurisprudenza di questa Corte (per tutte le già citate Cass., S.U., n. 323/1976 e Cass. n. 17534/2008) di dichiarare, una volta acquisita certezza circa la conformità della copia all’originale, procedibile l’impugnazione nonostante l’acquisizione dell’originale oltre il termine anzidetto.

Del pari, il tempestivo deposito della sola copia analogica del ricorso notificato come documento informatico nativo digitale consente di configurare, là dove se ne presenti l’eventualità, una fattispecie a formazione progressiva, che viene ad esaurirsi in un lasso temporale da reputarsi proporzionato e ragionevole.

L’eventualità è riferita ai casi di seguito indicati.

26.1. – Anzitutto, nell’ipotesi in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi tardivamente il controricorso e, comunque, non disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata), troverà applicazione lo stesso principio che regola il caso del controricorrente tempestivamente costituitosi e che non abbia operato il disconoscimento ai sensi dell’art. 23, comma 2, del c.a.d..

26.2. – Nell’ipotesi in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale rimanga, invece, solo intimato, il ricorrente potrà depositare, in base all’art. 372 c.p.c. (e senza necessità di notificazione ai sensi del secondo comma dello stesso art. 372), l’asseverazione di conformità all’originale (L. n. 53 del 1994, ex art. 9) della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata) sino all’udienza di discussione (art. 379 c.p.c.) o all’adunanza in camera di consiglio (art. 380 bis c.p.c., art. 380 bis c.p.c., comma 1 e art. 380 ter c.p.c.). In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

26.3. – Ove il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi il controricorso e disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata), sarà onere del ricorrente, nei termini anzidetti (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), depositare l’asseverazione di legge di conformità della copia analogica all’originale notificato. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

26.4. – Nel caso in cui vi siano più destinatari della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale e non tutti depositino controricorso, in assenza di disconoscimento ex art. 23, comma 2, c.a.d., il ricorrente – posto che detto comportamento concludente ex lege impegna solo la parte che lo pone in essere – sarà onerato di depositare (ove abbia già tempestivamente depositato la copia analogica informe del ricorso), nei termini sopra precisati (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), l’asseverazione di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 9. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

27. – Vanno, quindi, enunciati, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., i seguenti principi di diritto:

“Il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo posta elettronica certificata, senza attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ai sensi dell’art. 369 c.p.c. sia nel caso in cui il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica di detto ricorso autenticata dal proprio difensore, sia in quello in cui, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2, non ne abbia disconosciuto la conformità all’originale notificatogli.

Anche ai fini della tempestività della notificazione del ricorso in originale telematico sarà onere del controricorrente disconoscere la conformità agli originali dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente.

Ove, poi, il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato, il ricorrente potrà depositare, ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (e senza necessità di notificazione ai sensi del secondo comma della medesima disposizione), l’asseverazione di conformità all’originale (ex art. 9 della legge n. 53 del 1994) della copia analogica depositata sino all’udienza di discussione (art. 379 c.p.c.) o all’adunanza in camera di consiglio (art. 380 bis c.p.c., art. 380 bis c.p.c., comma 1 e art. 380 ter c.p.c.). In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

Nel caso in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi il controricorso e disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso depositata, sarà onere del ricorrente, nei termini anzidetti (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), depositare l’asseverazione di legge circa la conformità della copia analogica, tempestivamente depositata, all’originale notificato. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

Nell’ipotesi in cui vi siano più destinatari della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale e non tutti depositino controricorso, il ricorrente – posto che il comportamento concludente ex art. 23, comma 2, c.a.d. impegna solo la parte che lo pone in essere – sarà onerato di depositare, nei termini sopra precisati, l’asseverazione di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 9. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile”.

P.Q.M.
dichiara estinto per rinuncia il processo introdotto con il ricorso principale;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale;

compensa interamente le spese del giudizio di legittimità tra tutte le parti.

enuncia, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., i principi di diritto di cui al p. 27 della motivazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2018