Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 13-11-2018) 29-03-2019, n. 8814

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 13349/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

EDILCLIMATIC S.R.L.;

– intimata –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 6634/5/16, depositata il 4 novembre 2016.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 novembre 2018 dal Presidente Dott. Campanile Pietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Zeno Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento dei ricorso; udito per la ricorrente l’Avv. dello Stato Gianmario Rocchitta.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata in data 27 marzo 2014 la Commissione Tributaria provinciale di Latina, in accoglimento del ricorso proposto dalla S.r.l Ediclimatic, ha annullato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, ritenendo invalida la sottoscrizione dell’atto da parte di un funzionario, Dott. C.U., capo dell’Ufficio Controlli, in assenza di una delega nominativa da parte del direttore provinciale.

2. Con la sentenza indicata in epigrafe la CTR del Lazio ha rigettato l’appello proposto dall’Ufficio, richiamando il principio espresso da questa Corte con la decisione n. 22803 del 2015, secondo cui la delega di firma o di funzioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, deve necessariamente indicare, a pena di nullità, il nominativo del delegato.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto unico ed articolato motivo, illustrato da memoria.

4. La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

5. Con ordinanza depositata in data 17 maggio 2018 la sesta sezione civile ha rimesso la causa alla pubblica udienza.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va constatata la tempestività del ricorso, proposto entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c., così come prorogato di mesi sei in forza del D.L. n. 24 aprile 2017, n. 50, art. 11, comma 9, convertito nella L. 21 giugno 2017, n. 96.

2. Con l’unico motivo di ricorso, denunciando violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, nonchè della L. n. 241 del 1990, artt. 21 septies, 21 octies e 21 nonies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Amministrazione deduce, citando specifici arresti di questa Corte e della giurisprudenza amministrativa, una serie di rilievi critici nei confronti dell’orientamento giurisprudenziale, al quale la sentenza impugnata si è conformata, che afferma, ai fini della validità della delega, l’insufficienza della mera indicazione del ruolo rivestito dal soggetto delegato e la necessità, quindi, della specificazione del nominativo del soggetto delegato. Viene richiamata la distinzione fra delegazione amministrativa di competenze e “delega di firma”, espressione di atti interni di organizzazione, che non comporta alcun problema in relazione alla riferibilità dell’avviso di accertamento all’Ufficio, in quanto comunque proveniente dal dirigente delegante, a meno che non venga “specificamene dedotta e dimostrata la non appartenenza del firmatario all’ufficio che si assume la paternità dell’atto, o addirittura, l’usurpazione del relativo potere”.

2. La questione che il ricorso in esame pone riguarda l’incidenza sulla validità dell’avviso di accertamento dei requisiti della delega rilasciata dal dirigente dell’ufficio al funzionario che, in sua sostituzione, sottoscriva l’avviso stesso.

In linea generale, la funzione della sottoscrizione dell’atto impositivo, che sottende la tematica degli aspetti di natura probatoria, nel giudizio, in caso di contestazione, da parte del contribuente, della legittimità della sottoscrizione stessa, non trova una disciplina uniforme. Non mancano, invero, ipotesi in relazione alle quali opera il principio secondo cui deve presumersi che l’atto sia riferibile all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso sia stato adottato, come affermato da questa Corte in riferimento alla cartella esattoriale, al diniego di condono, all’avviso di mora e all’attribuzione di rendita catastale (cfr., per tutte, la recente Cass., 31 ottobre 2018, n. 27871).

Ad avviso del Collegio in tale prospettiva deve essere valutata la portata della prescrizione contenuta nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, secondo cui “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”.

3. La norma non contiene alcuna specificazione in ordine alle modalità di rilascio della delega, alla sua funzione e ai requisiti di validità, dovendosi per altro rilevare che al successivo comma 3 è prevista la nullità dell’avviso qualora non rechi, tra l’altro, “la sottoscrizione”.

Appare dunque necessario, per quanto maggiormente rileva in questa sede, un approfondimento della questione che prenda le mosse non tanto dalla funzione dell’avviso di accertamento quale atto impositivo, quanto dalla sua natura di atto amministrativo. Se, invero, come è stato già rilevato, gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo, incidendo con particolare profondità nella realtà economica e sociale, deve ritenersi che la loro sottoscrizione da parte del capo dell’ufficio, o da funzionario da lui delegato, sia stata prevista come essenziale garanzia per il contribuente (Cass. n. 1875 del 2014 e, da ultimo, Cass. n. 22800 del 2015). Sotto tale profilo, appare evidente come il dato fondante sia costituito dal superamento di quella generale presunzione, sopra richiamata, di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo dotato del potere di emanarlo, richiedendosi, al contrario, che tale provenienza sia avvalorata dalla sottoscrizione del capo dell’ufficio, o del funzionario da lui delegato. Giova sin d’ora evidenziare, ancorchè il rilievo sia privo, di per sè, di un decisivo valore argomentativo, non attenendo specificamente al tema della delega, come lo stesso riferimento al soggetto che riveste il ruolo apicale sia del tutto “impersonale”: a tale riguardo vale bene richiamare l’orientamento secondo cui l’avviso di accertamento è valido ove sia sottoscritto dal ” reggente”, ossia dal soggetto chiamato, ai sensi del D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20, comma 1, lett. a) e b), a sostituire temporaneamente il dirigente assente per cause improvvise in tutte le funzioni svolte dallo stesso ai fini della direzione dell’Ufficio (Cass., 7 novembre 2018, n. 28335; Cass., 5 settembre 2014, n. 18758).

4. In relazione alla prescrizione contenuta nel citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, questa Corte ha posto in evidenza come, trattandosi di un atto esterno al giudizio, la presenza o meno della sottoscrizione dell’avviso di accertamento non attiene alla legittimazione processuale: in caso di contestazione, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega, potendo produrla anche nel secondo grado del giudizio. Deve altresì ribadirsi che se l’avviso di accertamento non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio “incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio” (Cass., nn. 14626/00, 14195/00; 17044/13, 12781/16; cfr. Cass. sez. 6-5, nn. 19742/12, 332/16; 12781/16; 14877/16; 15781/17; 5200/18), poichè il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio (Cass. n. 17400 del 2012). E’ stato quindi precisato che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3 del citato D.P.R. n. 600 del 1973 (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24492, in cui l’onere probatorio facente capo all’Amministrazione, in caso di contestazione, viene giustificato anche con riferimento a principi di leale collaborazione e di vicinanza della prova).

5. Quanto ai requisiti della delega, questa Corte, con la nota decisione n. 22803 del 9 novembre 2015, ha affermato il seguente principio di diritto, al quale si è conformata la sentenza impugnata:”In tema di accertamento tributario, la delega di firma o di funzioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, deve necessariamente indicare il nominativo del delegato, pena la sua nullità, che determina, a sua volta, quella dell’atto impositivo, sicchè non può consistere in un ordine di servizio in bianco, che si limiti ad indicare la sola qualifica professionale del delegato senza consentire al contribuente di verificare agevolmente la ricorrenza dei poteri in capo al sottoscrittore”.

Tale indirizzo, confermato in varie decisioni successive (per tutte, Cass., ord., 6 marzo 2018, n. 5200), si fonda sul rilievo che il D.L. 15 giugno 2015, n. 78, art. 4 bis, conv. in L. n. 125 del 2015, ancorchè non applicabile alla fattispecie, disciplina l’istituto della “delega” sancendo che la stessa sia nominativa, prevedendo che “in relazione all’esigenza di garantire il buon andamento e la continuità dell’azione amministrativa, i dirigenti delle Agenzie fiscali, per esigenze di funzionalità operativa, possono delegare, previa procedura selettiva con criteri oggettivi e trasparenti, a funzionari della terza area, con un’esperienza professionale di almeno cinque anni nell’area stessa, in numero non superiore a quello dei posti oggetto delle procedure concorsuali indette ai sensi del comma 1 e di quelle già bandite e non annullate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le funzioni relative agli uffici di cui hanno assunto la direzione interinale e i connessi poteri di adozione di atti, escluse le attribuzioni riservate ad essi per legge, tenendo conto della specificità della preparazione, dell’esperienza professionale e delle capacità richieste a seconda delle diverse tipologie di compiti, nonchè della complessità gestionale e della rilevanza funzionale e organizzativa degli uffici interessati, per una durata non eccedente l’espletamento dei concorsi di cui al comma 1 e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2016…”.

6. La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda, come sopra evidenziato, esclusivamente le modalità di individuazione del soggetto delegato ai fini della sottoscrizione dell’avviso di accertamento, non essendo posti in discussione i principi relativi alla necessità di una delega scritta e agli oneri probatori come sopra evidenziati. Trattasi, per altro, di tematica sotto molti profili speculare rispetto a quella, già esaminata da questa Corte, in relazione alla sottoscrizione di atti processuali da parte di un funzionario a tanto delegato (Cass., 4 ottobre 2015, n. 20628), risolta in virtù del richiamo alla nota distinzione, operata dalla dottrina nonchè dalla giurisprudenza amministrativa, fra “delega di funzioni” e “delega di firma”.

6.1. La seconda ipotesi si verifica quando un organo, pur mantenendo la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo, ma anche a funzionario non titolare di organo, il compito di firmare gli atti di esercizio dei potere stesso: in questi casi l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze” (Cass., n. 6113/2005).

6.2. Al contrario, l’istituto di diritto pubblico della “delegazione amministrativa” di competenze assume rilevanza esterna, ragion per cui si richiede che sia disciplinato per legge attuandosi, mediante adozione di un formale atto di delega, l’attribuzione ad un diverso ufficio od ente di poteri in deroga alla disciplina normativa delle competenze amministrative (c.d. delega di funzioni).

7. Appare evidente la differenza fra le due figure: la “delega di firma” realizza un mero decentramento burocratico: il “delegato alla firma” non esercita, infatti, in modo autonomo e con assunzione di responsabilità i poteri inerenti alle competenze amministrative riservate al delegante, ma agisce semplicemente come “longa manus” – e dunque in qualità di mero sostituto materiale – del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza. L’atto di “delegazione della competenza” ha, al contrario, rilevanza esterna, essendo suscettibile di alterare il regime della imputazione dell’atto, al contrario di quanto si verifica nell’ipotesi della mera delega di firma, nella quale il delegante rimane l’unico ed esclusivo soggetto dal quale l’atto proviene e del quale si assume la piena responsabilità verso l’esterno.

8. Sulla base delle superiori considerazioni va osservato come non sia condivisibile l’affermazione (v. la citata Cass. n. 22803 del 2015) secondo cui, ai fini di valutare la portata della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, debba prescindersi dalla natura della delega, sia essa di funzioni o di firma, dovendo in ogni caso essere nominativa. In tal modo, oltre ad operarsi una sovrapposizione fra le figure in esame, si contraddice la portata della norma testè richiamata, che chiaramente, anche in base al tenore letterale, è riferibile a una delega per la sottoscrizione, e, soprattutto, viene ad applicarsi a una figura, quale la delega di firma, la disciplina dettata per la delega di funzioni. Sotto tale profilo deve osservarsi che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17, comma 1 bis, si riferisce espressamente ed inequivocabilmente alla “delega di funzioni”, laddove prescrive che i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze ad essi riservate, a dipendenti che ricoprono le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidate.

Tale rigore non si addice alla delega di firma, nella quale, come è stato già rilevato, il delegato non esercita alcun potere o competenza riservata al delegante (cfr. la citata Cass. n. 20628 del 2015) e che trova titolo nei poteri di ordine e direzione, coordinamento e controllo attribuiti al dirigente preposto all’ufficio (Statuto Ag. Entrate approvato con Delib. 13 novembre 2000, n. 6, art. 11, comma 1, lett. c) e d); reg. amm. n. 4 del 2000, art. 14, comma 2,) nell’ambito dello schema organizzativo della subordinazione gerarchica tra persone appartenenti al medesimo ufficio.

9. Ne consegue che, pur dovendosi ribadire l’orientamento, sopra richiamato, in relazione agli oneri probatori in capo all’amministrazione in caso di contestazione della sottoscrizione dell’avviso di accertamento, deve affermarsi che non è richiesta alcuna indicazione nominativa della delega, nè la sua temporaneità, apparendo conforme alle esigenze di buon andamento e della legalità della pubblica amministrazione ritenere che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione della c.d. delega di firma possa avvenire, come nella specie, attraverso l’emanazione di ordini di servizio che abbiano valore di delega (Cass., 20 giugno 2011, n. 13512) e che individuino il soggetto delegato attraverso l’indicazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale parimenti consente la successiva verifica della corrispondenza fra il sottoscrittore e il destinatario della delega stessa.

10. L’accoglimento del ricorso, per le indicate ragioni, comporta la cassazione dell’impugnata decisione, con rinvio alla C.T.R. del Lazio, che, in diversa composizione, applicherà il principio sopra enunciato, provvedendo, altresì, in merito alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa l’impugnata decisione e rinvia, anche per le spese, alla C.T.R. del Lazio, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2019


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 03-07-2018) 26-03-2019, n. 8416

Le Sezioni Unite rammentano che, prima delle modifiche operate dalla L. 124/2017, il monopolio di Poste Italiane era limitato solo a notifiche di atti giudiziari e violazioni del Codice della Strada.

A far data dal 10 settembre 2017, è venuto meno il monopolio di Poste Italiane in materia di notificazioni. Tuttavia, già dal 2011, la riserva in favore di Poste era limitata alla sola notifica degli atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada. Di conseguenza la notifica di un’ordinanza ingiunzione emanata dalla autorità amministrativa ben poteva essere effettuata (nel 2014) da un servizio privato.

Tanto è stato precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 8416/2019 (qui sotto riportata) accogliendo il ricorso dell’Assessorato alle Infrastrutture della Regione Sicilia contro un condominio di Messina.

L’autorità amministrativa era intervenuta per sanzionare l’utilizzo, a fini irrigui, delle acque di un fondo di proprietà di terzi. Il Condominio, invece, interponeva con successo ricorso al Tribunale delle Acque ritenendo inesistente la notifica del verbale in quanto effettuata a mezzo di servizio di posta privata e non utilizzando quello universale (affidato, nella specie, alla s.p.a. Poste italiane).

La Cassazione, accogliendo il ricorso dell’autorità amministrativa, evidenzia che nel 2014 (anno in cui è stato notificato il provvedimento) vigeva la regola di cui all’art. 4 del d.lgs. 261/1999, come modificato dal d.lgs. 58/2011. In sostanza, un provvedimento avente natura di atto amministrativo, e non giudiziario o riguardante violazioni del CdS, poteva legittimamente essere notificato tramite posta privata.

Notifica tramite Poste Italiane: lo sviluppo normativo

Gli Ermellini richiamano i passaggi più importanti in materia, partendo dal d.lgs. n. 261/1999, di recepimento della Direttiva 97/67/CE, il quale, nel quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali, ha mantenuto un servizio postale universale, includendo tra i servizi ad esso riservati gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie.

Il successivo d.lgs. n. 58/2011, intervenuto per recepire la Direttiva 2008/6/CE, ha stabilito che al fornitore del servizio universale sono affidati in via esclusiva i servizi inerenti le notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari, ai sensi della L. n. 890/1982, nonché i servizi inerenti le notificazioni delle violazioni al Codice della Strada ai sensi dell’art. 201 d.lgs. n. 285/1992.

Da ultimo, l’art. 1, comma 57 lett. b), L. n. 124/2017, ha invece espressamente abrogato l’art. 4 del d.lgs. n. 261/99, con decorrenza dal 10/9/2017, facendo venir meno definitivamente l’attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane s.p.a. dei servizi di notificazione e aprendo il mercato anche agli operatori privati.

Atto amministrativo: legittima la notifica ante 2017 con poste private

Nel periodo che interessa il caso in esame, dunque, era riservata a Poste Italiane la sola notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada. Invece il provvedimento di ordinanza-ingiunzione emanato dall’autorità amministrativa competente, secondo le previsioni della L. n. 689/1981, è ritenuto dagli Ermellini avere natura di atto amministrativo.

Non trattandosi di atto giudiziario né di atto concernente le violazioni al CdS, concludono le Sezioni Unite, risultava pertanto legittima la relativa notificazione effettuata tramite un servizio di posta privata.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di Sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21933-2016 proposto da:

ASSESSORATO INFRASTRUTTURE E MOBILITA’ DELLA REGIONE SICILIA, in persona dell’Assessore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 214/2016 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 27/06/2016.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2018 dal Consigliere LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Pietro Garofoli per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 27/6/2016 il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha respinto il gravame interposto dall’Assessorato alle infrastrutture e mobilità della Regione Sicilia in relazione alla pronunzia Trap Palermo 15/6/2015, di accoglimento dell’impugnazione proposta dal Condominio (OMISSIS) del “processo verbale di contestazione del 28 maggio 2014 n. 94390… con il quale gli era stata contestata la violazione dell’art. 17 del t.u. 11 dicembre 1933, n. 1775, per aver utilizzato a fini irrigui le acque di un fondo di proprietà di terzi, e gli era stata contestualmente ordinata la cessazione della condotta illecita, con obbligo di pagamento della relativa sanzione amministrativa e dei canoni non corrisposti”.

Accoglimento fondato sulla ravvisata inesistenza della notifica del suindicato p.v., “in quanto effettuata a mezzo di servizio di posta privata”.

Avverso la suindicata pronunzia del Tsap l’Assessorato alle infrastrutture e mobilità della Regione Sicilia propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo, illustrato da memoria.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Con unico motivo il ricorrente denunzia violazione del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole essersi dal Tsap erroneamente affermato che “la notifica del provvedimento amministrativo dovesse necessariamente essere eseguita per il tramite del servizio universale… in ragione della ritenuta prevalenza della disposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 6, come modificata dalla L. 3 agosto 1999, n. 265, entrata in vigore successivamente al D.Lgs. n. 261 del 1999”, laddove quest’ultimo è stato “invero modificato in parte qua da legge ancora successiva – il D.Lgs. n. 58 del 2011”.

Lamenta che il provvedimento amministrativo de quo è stato “notificato in data 5 giugno 2014”, allorquando la regula iuris ratione temporis applicabile era quella di cui “al D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal D.Lgs. n. 58 del 2011”, a tale stregua invero “successiva e non precedente alla disposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 6, come modificata dalla L. 3 agosto 1999, n. 265”.

Si duole non essersi considerato come, pur essendo vero “che la previsione di cui al D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 richiama la notificazione a mezzo posta ex L. n. 890 del 1982”, tale rinvio sia comunque limitato esclusivamente “agli atti giudiziari e non anche ad altri atti che siano notificati a mezzo posta”.

Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito indicati.

La vicenda attiene a notificazione, effettuata il 5/6/2014, di processo verbale del 28 maggio 2014 emesso dall’odierno ricorrente Assessorato alle infrastrutture e mobilità della Regione Siciliana, con il quale è stata all’odierno intimato Condominio contestata la violazione dell’art. 17 T.U. n. 1775 del 1933 per avere utilizzato a fini irrigui acqua di fondo di proprietà di terzi, con contestuale ordine di cessazione della condotta illecita e di pagamento dell’irrogata relativa sanzione amministrativa, oltre ai canoni di utenza non corrisposti per il periodo dal 1976 al 2014.

Nell’impugnata sentenza si è dato atto che “nella versione attuale, applicabile nella fattispecie ratione temporis, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale (cioè, nella specie, alla s.p.a. Poste italiane) i servizi di notificazione in materia di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modifiche, e i servizi relativi alle notifiche a mezzo posta in materia di sanzioni amministrative connesse alle violazioni del codice della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201)”.

Si è quindi escluso che la notificazione del p.v. di contestazione della violazione e irrogazione della sanzione ex art. 17 T.U. n. 1775 del 1933 in argomento, “ancorchè non rientrante tra quelle previste per le violazioni del codice della strada”, possa essere effettuata da gestore privato del servizio di posta, trovando comunque “applicazione la disposizione speciale di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 18, comma 6, in base alla quale la notifica dell’ordinanza-ingiunzione può essere eseguita dall’ufficio con le modalità di cui alla L. n. 890 del 1992, cioè col sistema delle notifiche a mezzo posta”, giacchè tale disposizione “è stata inserita nel corpo dell’art. 18 cit. dalla L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 10, comma 6, entrata in vigore successivamente al D.Lgs. n. 261 del 1999 nella sua versione originaria e, come tale, doveva senza dubbio essere applicata in relazione alla notifica dell’ordinanza-ingiunzione per cui è causa”.

Orbene, siffatto assunto è erroneo.

Il D.Lgs. n. 261 del 1999, di recepimento della Direttiva 97/67/CE (emanata con il preciso scopo di dettare “regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio”), ha, nel quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali, mantenuto un servizio postale universale, includendo tra i servizi ad esso riservati “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.

Il servizio postale universale è espletato, all’esito della trasformazione in società per azioni dell’Ente Poste, dalla società Poste Italiane s.p.a. (v. Cass., Sez. Un., 29/5/2017, n. 13452, ove si pone in rilievo come, nonostante la trasformazione, permanga tuttora in capo all’agente postale l’esercizio di poteri certificativi propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione della connotazione pubblicistica della disciplina normativa che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse finalità pubbliche).

Alla L. n. 689 del 1981, art. 18 è stato dalla L. n. 265 del 1999, art. 10 inserito il comma 6, ove si stabilisce che “La notificazione dell’ordinanza ingiunzione può essere eseguita dall’ufficio che adotta l’atto, secondo le modalità di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890”.

Alla suindicata Direttiva del 1997 è seguita la Direttiva 2008/6/CE, recepita con D.Lgs. n. 58 del 2011, che ha modificato il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 stabilendo che “Per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201” (cfr. Cass., 19/12/2014, n. 27021).

La L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 57 lett. b), ha quindi espressamente abrogato il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, con soppressione pertanto dell’attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane s.p.a., quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti le notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari ai sensi della L. n. 890 del 1982, nonchè dei servizi inerenti le notificazioni delle violazioni al codice della strada ai sensi del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 201 (v. Cass., 11/10/2017, n. 23887, e, conformemente, da ultimo, Cass., 7/9/2018, n. 21884).

Detta abrogazione opera, peraltro, come dalla suindicata norma espressamente indicato, con decorrenza dal 10/9/2017, sicchè non assume nella specie rilievo, essendo stato -come detto- l’impugnato atto de quo notificato in data 5 giugno 2014.

A tale stregua, con riferimento alla disciplina ratione temporis nella specie applicabile va osservato che la riserva della notifica a mezzo posta all’Ente Poste (poi società Poste Italiane s.p.a.), pur se posteriore (L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 6, che ha modificato la L. n. 689 del 1981, art. 18) al D.Lgs. n. 261 del 1999 di liberalizzazione (nel più ampio quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali) delle notificazioni, è stata successivamente limitata alla notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari e alla notificazione a mezzo posta delle violazioni al Codice della strada per effetto del disposto di cui al D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal D.Lgs. n. 58 del 2011, vigente alla data di notifica del verbale di contestazione di cui trattasi.

Atteso che, diversamente da quanto affermato dal TSAP nell’impugnata sentenza, il riferimento alle “modalità di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890” va invero inteso quale mera previsione di un ulteriore strumento di notificazione di cui i soggetti al riguardo abilitati (e pertanto anche quello gestore del servizio privato) possono avvalersi, decisivo rilievo assume la circostanza che il provvedimento di ordinanza-ingiunzione emanato dall’autorità amministrativa competente secondo le previsioni della L. n. 689 del 1981 ha natura di atto amministrativo (cfr. Cass., 20/9/2006, n. 20401; Cass., 1/6/1993, n. 6088), e non già giudiziario, e non concerne violazioni al Codice della strada, risultando pertanto legittima la relativa notificazione a mezzo servizio di posta privata.

Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione alla censura accolta.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa in relazione alla censura accolta l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al TSAP, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2019


Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., (ud. 06-12-2018) 20-03-2019, n. 7892

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24901-2017 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA SPA, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI 113, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ODDO, rappresentata e difesa dall’avvocato LICIA TAVORMINA;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (OMISSIS), in persona del legale rappresentante in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI I.N.P.S. (S.C.C.I.) S.p.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, GIUSEPPE MATANO, ESTER ADA VITA SCIPLINO;

– controricorrente –

Contro

M.M., ASSESSORATO REGIONALE DEL LAVORO- ISPETTORATO PROVINCIALE DEL LAVORO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 506/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 20/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/12/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA.

Svolgimento del processo
Che: con sentenza in data 8 -20 giugno 2017 numero 506 la Corte d’Appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede e, per l’effetto, accoglieva parzialmente l’opposizione proposta da M.M. nei confronti dell’INPS, della SOCIETA’ PER LA CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (in prosieguo: SCCI) spa DELL’ASSESSORATO REGIONALE DEL LAVORO- ISPETTORATO PROVINCIALE e di RISCOSSIONE SICILIA S.p.A. avverso il fermo amministrativo iscritto dall’agente della riscossione per il mancato pagamento di 29 cartelle esattoriali;

che a fondamento della decisione la Corte territoriale premetteva che l’oggetto del contendere era limitato ad un numero di sette cartelle esattoriali relative a contributi INPS ed a sanzioni amministrative e che il Tribunale aveva accolto l’opposizione per sei di esse. RISCOSSIONE SICILIA S.p.A. aveva proposto appello limitatamente a cinque cartelle, con esclusione della cartella (OMISSIS), rispetto alla quale era intervenuto il giudicato interno.

Quanto alle cartelle oggetto di appello, doveva essere respinto il motivo di impugnazione con il quale si deduceva la tardività del ricorso introduttivo per mancato rispetto del termine di quaranta giorni. Assorbente era la circostanza che RISCOSSIONE SICILIA S.p.A. non aveva dimostrato l’epoca in cui il M. aveva avuto conoscenza dell’esistenza a suo carico di un fermo amministrativo.

Erano del pari infondati gli ulteriori motivi di impugnazione.

Per tre delle cartelle (numeri (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)) era decisiva la prescrizione del credito per effetto del decorso del termine quinquennale successivamente alla notifica, quand’anche regolarmente perfezionatasi (in data 9 marzo 2006 le prime due, in data 4 febbraio 2005 la terza).

In ogni caso, le cartelle erano state consegnate al portiere senza procedere all’invio della raccomandata informativa ex art. 139 c.p.c., comma 4 (o, comunque, in assenza della prova di tale adempimento).

Residuava l’esame di due cartelle (numeri (OMISSIS) e (OMISSIS), notificate rispettivamente il 18 aprile 2007 ed il 2 luglio 2009).

In ordine alla prima, era accertato documentalmente che l’agente notificatore aveva consegnato l’atto al portiere dello stabile di abitazione del M. senza darne notizia al destinatario mediante lettera raccomandata, come prescritto dall’art. 139 c.p.c., comma 4. Con riferimento alla seconda, RISCOSSIONE SICILIA S.p.A. aveva prodotto per documentare il perfezionamento della notifica una copia della distinta di accettazione di raccomandata in data 23 luglio 2009 formata dal Consorzio Olimpo.

Il giudice di prime cure aveva ritenuto, con argomentazione condivisibile e neppure oggetto di censura, che non era provato l’invio della raccomandata al M., difettando persino l’indicazione dell’indirizzo del destinatario;

che avverso la sentenza ha proposto ricorso RISCOSSIONE SICILIA S.p.A, articolato in tre motivi, cui ha opposto difese con controricorso l’INPS, anche in nome e per conto di SCCI SpA; M.M. e l’ASSESSORATO REGIONALE sono rimasti intimati;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione dell’udienza- ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

che la parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Che: la parte ricorrente ha dedotto:

– con il primo motivo: ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e/o falsa applicazione del D.L. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – nullità del procedimento; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Ha censurato la sentenza d’appello per avere respinto l’eccezione di inammissibilità della opposizione. Ha dedotto che la Corte territoriale aveva omesso di esaminare la circostanza che il ricorso era stato proposto avverso il “preavviso di fermo”, atto anteriore alla iscrizione del fermo. Il fermo amministrativo era stato iscritto in data 19-26 settembre 2011: pertanto il ricorso (depositato il 2 gennaio 2012), era sicuramente tardivo, anche rispetto alla successiva data di iscrizione del fermo;

– con il secondo motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., comma 4. Con il motivo, proposto in via gradata, si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto nulla la notifica delle cartelle esattoriali per la mancata spedizione della raccomandata informativa prescritta dalla norma;

– con il terzo motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., per avere la corte territoriale ritenuto estinto per prescrizione il credito riportato nelle tre cartelle esattoriali notificate in data 9 marzo 2006 e 4 febbraio 2005 per decorso del termine quinquennale laddove in caso di mancata opposizione avverso la cartella di pagamento trovava applicazione il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c.;

che ritiene il collegio si debba rigettare il ricorso;

che, invero:

– con il primo motivo si assume la tardività della opposizione avverso le cartelle esattoriali per decorso del termine di quaranta giorni di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24.

Per censurare l’accertamento di tempestività della opposizione compiuto nella sentenza impugnata la parte ricorrente avrebbe dovuto allegare specificamente- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – un fatto storico risultante dagli atti di causa (ed avente rilievo decisivo) non esaminato nella sentenza impugnata.

Il motivo, come precisato nella memoria, evoca un ragionamento presuntivo, nei seguenti termini:

– il contribuente aveva sicuramente ricevuto il preavviso di fermo anteriormente alla data di iscrizione del fermo (il 19-26 settembre 2011);

– tale fatto era dimostrato dal deposito del ricorso introduttivo del giudizio “in opposizione al preavviso di fermo”;

– il termine di 40 giorni, dunque, cominciava a decorrere in epoca anteriore alla iscrizione del fermo.

La censura così proposta sollecita questa Corte ad un inammissibile riesame del merito.

Il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, concerne infatti l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali; nella fattispecie di causa la parte ricorrente non espone da quali atti di causa emergeva che il preavviso di fermo era stato comunicato al M. in data anteriore alla iscrizione del fermo. Il mero fatto del deposito del ricorso introduttivo avverso il preavviso di fermo prova, infatti, la comunicazione del preavviso impugnato soltanto alla stessa data del ricorso e non rispetto ad un momento anteriore.

Le censure proposte sotto il profilo della violazione di legge e della nullità del procedimento non sono invece pertinenti al contenuto della impugnazione, che non pone in questione la interpretazione ed applicazione da parte del giudice dell’appello di norme di diritto, sostanziali o processuali;

– quanto al secondo motivo, correttamente la sentenza ha ritenuto la nullità della notifica delle cartelle esattoriali sulla base del preliminare accertamento in fatto che le stesse erano state consegnate al portiere, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3, e che non era seguita la spedizione della raccomandata informativa di cui al successivo comma 4 (o comunque non era stata raggiunta la prova di tale spedizione).

La statuizione è conforme al principio espresso dalle sezioni Unite di questa Corte nell’arresto del 31 luglio 2017 n. 18992, essendosi ivi ritenuto che “nella notificazione eseguita ex art. 139 c.p.c., comma 3, l’omessa spedizione della raccomandata prescritta dal comma 4 della disposizione cit., costituisce un vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale giudiziario medesimo, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario”. Nel citato arresto si è valorizzata la funzione dell’avviso nella struttura complessiva di una notificazione che si perfeziona a persona non legata da quei particolari vincoli evidenziati nell’art. 139 c.p.c cit., comma 2, sicchè l’atto entra a far parte della sfera di effettiva conoscibilità del destinatario ma in una sua porzione connotata da un grado minore di possibilità di prendere immediata conoscenza dell’atto rispetto alle altre fattispecie indicate dal comma 2, per le quali è assai stretta la natura del vincolo che lega il consegnatario dell’atto al destinatario. Un tale minor grado di conoscibilità- se non degrada la consegna al punto di rendere necessario lo spostamento ulteriore del momento di perfezionamento della notifica (come accade per l’ipotesi contemplata dall’art. 140 c.p.c.)- esige però almeno di essere colmato con quel quid pluris costituito dalla spedizione dell’ulteriore avviso, sia pure ex post e non incidente sul tempo in cui l’attività notificatoria si è svolta e compiuta. A tale principio deve assicurarsi in questa sede continuità;

– il terzo motivo, con cui si assume la durata decennale del termine di prescrizione a seguito della mancata proposizione della opposizione avverso le cartelle esattoriali notificate, è inammissibile, tanto alla luce della definitività della statuizione di nullità della notifica delle cartelle esattoriali che a tenore dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, essendo consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, all’esito dell’arresto delle Sezioni Unite del 17 novembre 2016 n. 23397, il principio, applicato dalla sentenza impugnata, secondo cui la prescrizione dei contributi previdenziali, nel caso di mancata o tardiva opposizione a cartella esattoriale, rimane quinquennale e non si converte in decennale ai sensi dell’art. 2953 c.c. che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere respinto con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. che le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti dell’INPS, che ha concluso per la inammissibilità o il rigetto del ricorso;

che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 2.500 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 6 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 18-12-2018) 19-03-2019, n. 7641

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEONE Maria Margherita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26944-2017 proposto da:

R.A., domiciliato ope legis presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO CAROZZA, LUCA CITARELLA;

– ricorrente –

contro

UNILEVER ITALIA MANUFACTURING S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE ROBERTO ARDIGO’ 42, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO BRAGAGLIA, rappresentata e difesa dagli avvocati EMANUELE ANTONIO NATALE, GIULIO GOMEZ D’AYALA;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 1350/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 28/06/2017 R.G.N. 4557/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 18/12/2018 del Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO CARMELO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DOMENICO CAROZZA;

udito l’Avvocato EMANUELE ANTONIO NATALE.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1350/2017, pubblicata il 28 giugno 2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, in accoglimento del ricorso proposto da Unilever Italia Manufacturing S.r.l., aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad R.A., con lettera del 3/3/2010, per avere svolto, in periodo di assenza per infortunio, attività lavorativa consistita nella guida di automezzi e in operazioni di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture, tale da compromettere o ritardare la guarigione.

2. La Corte ha rilevato a sostegno della propria decisione che i fatti contestati, giunti a conoscenza della società attraverso un’indagine investigativa, avevano trovato conferma nelle dichiarazioni degli investigatori e che la consulenza d’ufficio disposta in primo grado aveva consentito di accertare la potenzialità dannosa del comportamento addebitato, il quale, pertanto, integrando un inadempimento degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e la violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, era da ritenersi di gravità tale da giustificare il recesso datoriale, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.

3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito la società con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5 nonchè dell’art. 24 Cost., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto accertati i fatti descritti nella relazione investigativa prodotta in giudizio dalla società, sebbene tali fatti fossero stati puramente confermati “in blocco” dai testimoni escussi e la relazione, in quanto documento di parte, non avesse ex se efficacia probatoria.

2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2106, 1175, 1375 e 1455 c.c., nonchè dell’art. 70 c.c.n.l. Industria Alimentare, il ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto che anche una condotta potenzialmente idonea a compromettere o ritardare la guarigione, quale delineata dal consulente d’ufficio in esito alle proprie indagini, potesse integrare la giusta causa di recesso, di conseguenza trascurando, su tale premessa, di ricercare e di accertare i fatti che potessero dimostrare la sussistenza, in concreto (e non solo in astratto), di tale nesso di causalità.

3. Con il terzo motivo, deducendo il vizio di cui all’art. 360, n. 5, il ricorrente si duole del fatto che la Corte non abbia preso in esame le deduzioni e i rilievi critici formulati con il ricorso in appello e che, con il supporto della relazione medico-legale allegata, avrebbero consentito di smentire la validità delle conclusioni raggiunte dal consulente d’ufficio.

4. Il primo motivo è inammissibile.

5. Come più volte precisato da questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 13395/2018), “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove” – come con il motivo ora in esame “oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5)”.

6. E’ altresì consolidato il principio, secondo il quale “la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale” (Cass. n. 4699/2018).

7. Il secondo motivo è infondato.

8. La Corte di appello ha invero correttamente richiamato l’orientamento, per il quale “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonchè dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sè, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio” (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 10416/2017).

9. La Corte ha peraltro positivamente accertato come la condotta imputata al lavoratore fosse stata tale, anche in concreto, da ritardare la guarigione, avendo osservato che egli “guidando autovetture e sollevando cerchi in lega nei giorni (OMISSIS)” aveva “disatteso la prescrizione medica” in data (OMISSIS) (e cioè “ulteriori 17 giorni di cure e riposo”) e che “ai successivi controlli medici non veniva riscontrata la guarigione, tanto che la riammissione in servizio poteva avvenire soltanto” il successivo 28 gennaio 2010 (cfr. sentenza impugnata, p. 4).

10. Il terzo motivo è inammissibile, in forza della preclusione (c.d. “doppia conforme”) di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato il 14 dicembre 2015 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della novella (11 settembre 2012).

11. Nè il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).

12. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 29-09-2017) 28-02-2019, n. 5902

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18637-2010 proposto da:

C.A., C.L., elettivamente domiciliati in ROMA VIA F. OZANAM 69, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BATTISTA PERCACCIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato SALVATORE PETILLO;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE CENTRALE NORMATIVA CONTENZIOSO in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE;

– intimato – avverso la decisione n. 3050/2010 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE di ROMA, depositata il 18/05/2010; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/09/2017 dal Consigliere Dott. GRECO ANTONIO.

Svolgimento del processo
C.L. e C.A., nella qualità di eredi di C.A., propongono ricorso per cassazione con tre motivi nei confronti della sentenza della Commissione tributaria centrale di Roma che, nel giudizio promosso con l’impugnazione dell’iscrizione a ruolo di IRPEF e ILOR per il 1980 a carico del de cuius, perché non preceduta da regolare notifica dell’avviso di accertamento, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate.

La CTC ha infatti rilevato come l’avviso di accertamento non era stato emesso nei confronti del de cuius, bensì, legittimamente, intestato agli eredi presenti e futuri, in mancanza della comunicazione prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, a tenore del quale gli eredi hanno l’onere di comunicare all’ufficio delle imposte dirette le loro generalità e il domicilio, comunicazione in difetto della quale, come nella specie, l’atto di accertamento va eseguito in forma impersonale e collettiva presso l’ultimo domicilio del contribuente defunto.

Così era avvenuto nel caso in esame, come risultava dall’avviso di affissione all’albo comunale: in tal caso, qualora nel comune in cui deve eseguirsi la notificazione non esiste abitazione, ufficio o azienda del contribuente, trova applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), per effetto del quale non vi è necessità che all’affissione all’albo segua la raccomandata, equiparandosi a tale caso quello in cui, come per i contribuenti, la notificazione, per mancata comunicazione degli stessi circa il proprio recapito, deve eseguirsi all’ultimo domicilio del de cuius, costituendo lo stesso – presso il quale essi non vivevano – una sorta di domicilio ex lege.

La notificazione del prodromico avviso di accertamento conclude la CTC – era stata pertanto validamente eseguita, dando luogo ad un valido rapporto d’imposta con i contribuenti.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso mentre il Ministero dell’economia e delle finanze non ha svolto attività nella presente sede.

Motivi della decisione
Va anzitutto disattesa l’istanza di estinzione della lite pendente ai sensi del D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 2 bis, lett. b), convertito nella L. 22 maggio 2010, n. 73, depositato dai contribuenti il 19 luglio 2010.

Ciò in quanto alla definizione agevolata sono ammesse dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 2 bis, le controversie “per le quali risulti soccombente l’Amministrazione finanziaria nei primi due gradi di giudizio”. Questa Corte ha infatti in proposito chiarito come “presupposto per la definizione agevolata delle liti pendenti innanzi alla Corte di cassazione, come prevista dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 2-bis, (convertito con modificazioni nella L. 22 maggio 2010, n. 73), è la soccombenza dell’Amministrazione finanziaria nei precedenti gradi di giudizio; il riferimento normativo ai “primi due gradi di giudizio” va, invero, interpretato con riguardo all’intera vicenda processuale, nella quale l’Ufficio tributario deve essere stato costantemente soccombente, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il giudizio di cassazione sia stato preceduto – in applicazione del rito previgente – da tre gradi di giudizio, è necessario, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di definizione, che si sia verificato un triplice esito sfavorevole per l’Amministrazione (come invece, nella specie, non avvenuto, avendo la Commissione tributaria centrale accolto il ricorso dell’Amministrazione), atteso che la “ratio” delle norme è quella di deflazionare il contenzioso pendente da oltre dieci anni, confidando sull’elevata probabilità di un esito sfavorevole in sede di legittimità” (Cass. n. 15634 del 2013, n. 21714 del 2010).

E nella specie il ricorso dell’amministrazione era stato accolto dalla Commissione tributaria centrale.

Col primo motivo, denunciando violazione dell’art. 140 c.p.c., assume che nel caso di assenza, incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la notifica andrebbe effettuata, a norma del successivo art. 140, eseguendo esattamente la procedura ivi indicata (deposito di copia, affissione di avviso di deposito e invio di raccomandata); col secondo motivo, denunciando violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, assume che, affisso l’avviso di deposito del piego nell’albo comunale, la notificazione si avrebbe per eseguita otto giorni dopo: nella specie, l’avviso di accertamento sarebbe stato notificato al de cuius ed agli eredi il 30 dicembre 1986, e si sarebbe perfezionato il 7 gennaio 1987, quindi oltre il termine decadenziale di cinque anni fissato dalla disposizione in rubrica; col terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 2, e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, censura la sentenza della CTC per non essersi pronunciata su un punto decisivo della controversia, vale a dire sulla legittimità o meno dell’avviso di accertamento notificato al C. con particolare riguardo all’ILOR. Il primo motivo è infondato.

Con riguardo alla notificazione del prodromico avviso di accertamento la CTC non è incorsa nell’errore addebitato, avendo rilevato che essa era stata validamente eseguita, dando luogo ad un valido rapporto d’imposta con i contribuenti: l’avviso di accertamento non era stato emesso nei confronti del de cuius, bensì, legittimamente, intestato agli eredi presenti e futuri, in mancanza della comunicazione prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, a tenore del quale gli eredi hanno l’onere di comunicare all’ufficio delle imposte dirette le loro generalità e il domicilio, comunicazione in difetto della quale, come nella specie, l’atto di accertamento va eseguito in forma impersonale e collettiva presso l’ultimo domicilio del contribuente defunto. Così era avvenuto nel caso in esame, come risultava dall’avviso di affissione all’albo comunale: in tal caso, qualora nel comune in cui deve eseguirsi la notificazione non esista abitazione, ufficio o azienda del contribuente, trova applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), per effetto del quale non vi è necessità che all’affissione all’albo segua la raccomandata, equiparandosi a tale caso quello in cui, come per i contribuenti, la notificazione, per mancata comunicazione degli stessi circa il proprio recapito, deve eseguirsi all’ultimo domicilio del de cuius, costituendo lo stesso – presso il quale essi non vivevano – una sorta di domicilio ex lege.

Questa Corte ha chiarito infatti che “la notificazione dell’avviso di accertamento al contribuente del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. e) – il quale deroga, in materia, all’art. 140 c.p.c. -, è ritualmente eseguita, quando nel comune nel quale deve eseguirsi non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, mediante affissione dell’avviso del deposito prescritto dal citato art. 140 nell’albo comunale, senza necessità di spedizione della raccomandata e senza che l’ufficio sia tenuto ad espletare ricerche, in particolare anagrafiche, essendo un tale obbligo configurabile soltanto nel caso di intervenuto spostamento di residenza nell’ambito dello stesso” (Cass. n. 7120 del 2003).

Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili, in quanto, una volta accertata la validità della notificazione dell’avviso di accertamento, prodromico all’iscrizione a ruolo, è preclusa, a fronte della definitività discendente dalla mancata tempestiva impugnazione, ogni domanda avente oggetto diverso dall’impugnazione della cartella per vizi propri, come la decadenza in cui sarebbe incorso l’avviso e la natura dell’imposta pretesa con l’avviso stesso.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate in Euro 3.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 06-12-2018) 21-02-2019, n. 5077

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5243/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente – contro

G.D., elett.te domiciliata in Roma alla via delle Quattro Fontane n. 15, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Tinelli da cui è rapp.ta e difesa, unitamente all’avv. Maurizio De Lorenzi come da procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n.144/22/13 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, depositata in data 8/7/2013, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6 dicembre 2018 dalla dott.ssa Milena D’Oriano.

Svolgimento del processo
CHE:

1. con sentenza n. 144/22/13, depositata in data 8 luglio 2013, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Puglia accoglieva l’appello proposto da G.D., avverso la sentenza n. 443/4/11 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, con condanna al pagamento delle spese di lite;

2. il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di una cartella di pagamento, relativa ad Irpef e relative addizionali per gli anni dal 2005 al 2007, che seguiva l’emissione di tre avvisi di accertamento relativi agli stessi anni, di cui la contribuente aveva eccepito l’omessa notifica, con conseguente decadenza dal potere impositivo per il periodo di imposta 2005, e contestato la legittimità per difetto del presupposto della disponibilità finanziaria rispetto alla quale era stato determinato il reddito con metodo sintetico;

3. il giudice di appello, in riforma della sentenza della CTP di Lecce, aveva accolto il gravame, e dichiarato la nullità della cartella, rilevando che l’Agenzia procedente non aveva fornito la prova della corretta notifica degli avvisi di accertamento presupposti, effettuata ai sensi della L. n. 890 del 1992, art. 8, non avendo prodotto in giudizio la cartolina di ritorno degli avvisi di avvenuto deposito, esibizione ritenuta indispensabile ai fini della prova della ritualità del procedimento di notifica a mezzo posta;

4. avverso la sentenza di appello, l’Ufficio ha proposto ricorso per cassazione, consegnato per la notifica alla contribuente in data 24 febbraio 2014, affidato ad un unico motivo; la contribuente ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1. con l’unico motivo di ricorso, l’Ufficio lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, e dell’art. 2700 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendo che ai fini della regolarità della notifica a mezzo posta è sufficiente che l’Ufficiale postale dia atto di aver effettuato i prescritti adempimenti, e che sia fornita la prova della spedizione della raccomandata di avviso dell’avvenuto deposito (cd. C.A.D.), senza che sia necessaria anche l’esibizione in giudizio del secondo avviso di ricevimento relativo a tale comunicazione;

2. con il controricorso la contribuente ha chiesto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Equitalia Sud S.p.A., litisconsorte processuale in quanto parte del giudizio di 1 grado, seppure contumace del giudizio di appello, ed a cui non risulta effettuata la notifica del ricorso per cassazione; ha altresì eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza.

OSSERVA CHE:

1. preliminarmente va rigettata la richiesta di integrazione del contraddittorio: risulta dagli atti, oltre che ampiamente scaduto il termine per impugnare per la parte pretermessa, anche l’estraneità della società concessionaria ai motivi di impugnazione, in quanto le questioni controverse non sono attinenti alla fase della riscossione, bensì alla notifica degli accertamenti, notifica pacificamente avvenuta a cura dell’Ufficio finanziario.

Ritiene quindi il Collegio che nella specie, anche in considerazione dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, non sia necessario disporre l’integrazione del contraddittorio, trovando applicazione quanto già più volte affermato da questa Corte nel senso che “In tema di contenzioso tributario, del D.Lgs. 546 del 1992, l’art. 53, comma 2, secondo cui l’appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili, ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., con la conseguenza che, in presenza di cause scindibili, la mancata proposizione dell’appello nei confronti di tutte le parti presenti in primo grado non comporta l’obbligo di integrare il contraddittorio quando, rispetto alla parti pretermesse, sia ormai decorso il termine per l’impugnazione.” (Cass. n. 25588 del 2017 e n. 24083 del 2014);

2. va ritenuta infondata anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza, in quanto la parte ricorrente, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., ha indicato tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto.

Con il motivo di ricorso si pone infatti un’unica questione giuridica, per la cui soluzione non è necessario accedere ad altre fonti ed atti del processo, se non la sentenza stessa, a cui è stato fatto ampio ed esaustivo riferimento.

3. L’unico motivo di ricorso non merita accoglimento.

3.1 Nel caso di cui si controverte è incontestato che gli avvisi di accertamento, che costituiscono gli atti presupposti della cartella esattoriale impugnata, siano stati notificati a mezzo del servizio postale ai sensi della L. n. 890 del 1992.

In base a tale legge, art. 14, “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonchè, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26, 45 e seguenti e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonchè le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta.” 3.2 E’ altresì pacifico tra le parti che per tutti e tre gli avvisi, il piego che li conteneva non sia stato consegnato per temporanea assenza del destinatario, o di altre persone abilitate a riceverlo, e quindi depositato presso l’ufficio postale, ove non risulta ritirato.

Trova pertanto applicazione la L. n. 890 del 1982, art. 8, nel testo modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità di cui alla sentenza della Corte Cost. 22 settembre 1998, n. 346, che in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario (o per mancanza, inidoneità od assenza delle persone sopra menzionate), prevede l’obbligo per l’ufficiale postale di dare notizia, al destinatario medesimo, del compimento delle relative formalità e del deposito del piego, con raccomandata con avviso di ricevimento.

3.3 In quanto modalità espressamente prevista dalla legge, è indubbio che l’omesso invio dell’avviso di deposito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, sia in caso di mancato invio sia in caso di invio con affrancatura o raccomandata semplice, comporti la nullità della notifica.

Questione controversa è se, in caso di contestazione in giudizio della legittimità della notifica effettuata a mezzo posta, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 8, ai fini della prova della sua regolarità sia sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della seconda raccomandata di cui al comma 2, che contiene la comunicazione di avvenuto deposito, generalmente desumibile dall’avviso di ricevimento dell’atto ove viene riportato il numero della raccomandata, o sia necessaria la produzione in giudizio anche di tale secondo avviso di ricevimento per verificarne l’effettività e regolarità dell’invio.

3.4 Giova a questo punto ricostruire quale sia il procedimento previsto per la notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità relativa, e quale la funzione della comunicazione di avvenuto deposito da esso previsto.

Va precisato che tali regole valgono per la notifica di tutti gli atti in materia civile, amministrativa e penale per i quali, ai sensi della L. n. 890 del 1992, art. 1, l’ufficiale giudiziario scelga di avvalersi del servizio postale (possibilità che gli viene preclusa solo se l’autorità giudiziaria disponga o la parte richieda che la notificazione sia eseguita personalmente), e per la notifica degli atti in materia civile ed amministrativa da eseguirsi fuori del comune ove ha sede l’ufficio per i quali l’ufficiale giudiziario è obbligato ad avvalersi del servizio eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita di persona.

L’art. 14 della I. n. 890 del 1992 si limita infatti ad estendere alla notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, e di cui si controverte nel presente giudizio, le stesse modalità previste dalla legge per la notifica a mezzo posta degli atti giudiziari, in considerazione della pari rilevanza degli effetti conseguenti alla piena conoscibilità di entrambe le tipologie di atti.

Ebbene, in caso di notifica a mezzo del servizio postale, nell’ipotesi di irreperibilità relativa è prevista la compilazione di due avvisi di ricevimento: il primo, di colore verde, conforme al modello di cui alla L. n. 890 del 1992, art. 2, relativo alla raccomandata che contiene l’atto, viene presentato dall’ufficiale giudiziario all’ufficio postale, ai sensi della stessa legge, art. 3, comma 3, unitamente alla busta chiusa contenente l’atto da notificare di cui al comma 2, e poi completato dall’addetto al recapito in base agli esiti della notifica; il secondo, relativo alla comunicazione di avvenuto deposito (C.A.D.), viene redatto, ai sensi dell’art. 8 cit., comma 4, a cura dell’agente postale all’atto dell’invio della raccomandata spedita quando non sia stato possibile notificare l’atto giudiziario per assenza del destinatario o di altre persone idonee al ritiro.

3.5 La comunicazione di avvenuto deposito ha un ruolo centrale per tale modalità di notifica in quanto ha la finalità di dare notizia al destinatario del tentativo di notifica del piego e del suo deposito a cura dell’operatore postale presso il punto di deposito più vicino.

Ai sensi dell’art. 8, comma 4, va inviato in busta chiusa, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d’ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda; deve contenere l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell’ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell’indirizzo del punto di deposito, nonchè l’espresso invito al destinatario a provvedere al ritiro del piego entro il termine massimo di sei mesi, con l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita per “compiuta giacenza” trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui sopra e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l’atto sarà restituito al mittente.

Come è noto la Corte Cost., con sentenza n. 346 del 23 settembre 1998, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevedeva che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego fosse data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento.

La decisione si fonda sul rilievo che l’omessa previsione di tale formalità aggiuntiva, quindi quella della seconda raccomandata con avviso di ricevimento, risultava priva di ragionevolezza, lesiva della possibilità di conoscenza dell’atto da parte del notificatario e del suo diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost..

A tale conclusione il Giudice delle leggi giunge dopo aver rilevato che per l’ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario, l’art. 140 c.p.c., impone a quest’ultimo di dare comunicazione al destinatario, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del compimento delle formalità indicate (deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio). E ciò allo scopo di garantire che il notificatario abbia una effettiva possibilità di conoscenza dell’avvenuto deposito dell’atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l’affissione del relativo avviso alla porta d’ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito.

Osserva la Corte che “se rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato dal diritto di difesa del notificatario. Deve pertanto escludersi che la diversità di disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione delle garanzie del destinatario delle prime”.

3.6 Ritenere o meno necessaria l’esibizione in giudizio anche dell’avviso di ricevimento relativo alla raccomandata contenente la cd. CAD, in assenza di un dato normativo testuale, costituisce indubbiamente una questione interpretativa.

Rileva il Collegio che un’interpretazione costituzionalmente orientata del dettato normativo impone di ritenere tale esibizione imprescindibile, in considerazione del fatto che solo la verifica dell’effettivo e corretto inoltro di tale avviso di ricevimento a cura dell’ufficiale postale consente di acquisire la prova che sia stata garantita al notificatario l’effettiva conoscenza dell’avvenuto deposito dell’atto presso l’ufficio postale, e quindi tutelato il suo diritto di difesa, e questa verifica non può che essere effettuata attraverso la disamina di tale atto, da cui risulta che effettivamente la comunicazione di avvenuto deposito sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario, perchè sia assicurata una reale tutela al diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost., devono essere ispirate ad un criterio di effettività, e ciò può avvenire solo valorizzando tutti gli elementi ritenuti idonei e necessari dalla legge per perseguire il detto criterio di effettività.

Nel procedimento di cui si discute occorre la prova dell’inoltro dell’avviso di ricevimento, mentre non è sufficiente la prova della spedizione di una raccomandata semplice, e tale prova può essere data solo con la sua allegazione.

L’allegazione dell’avviso di ricevimento non è un adempimento privo di rilevanza: in primo luogo, perchè se la Corte Cost. prima, ed il legislatore dopo, non lo avessero considerato rilevante, non avrebbero richiesto che la raccomandata di cui al comma 4 ne fosse corredata; in secondo luogo perchè, quando la legge, in base ad una scelta operata nell’ambito della discrezionalità legislativa, ha ritenuto sufficiente che la notizia di una avvenuta notificazione fosse data a mezzo di raccomandata semplice, ha disposto in tal senso (v. art. 139 c.p.c., comma 3, in caso di consegna della copia a mani del portiere o del vicino di casa, che è formalità ben più affidabile dell’affissione di un avviso alla porta, onde si spiega il minor rigore della modalità di trasmissione della “notizia”, nonchè della L. n. 890 del 1992, art. 7, comma 3, anche come modificato dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 813, lett. c)).

Dall’avviso di ricevimento, e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, può emergere che la raccomandata non è stata consegnata perchè il destinatario risulta trasferito, oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni le quali comunque rivelano che l’atto in realtà non è pervenuto nella sfera di conoscibilità dell’interessato e che, dunque, l’effetto legale tipico, a tale evento ancorato, non si è prodotto.

Si tratta, dunque, di una verifica ulteriore, ritenuta necessaria dalla previsione normativa nel momento in cui richiede che la spedizione della raccomandata abbia luogo con avviso di ricevimento; ne consegue che quest’ultimo deve essere allegato all’originale dell’atto e che la sua mancanza, rendendo impossibile il suddetto controllo, determina la nullità della notificazione, certamente sanabile ai sensi dell’art. 156 c.p.c. 3.7 Si impone inoltre all’interprete un’esegesi omogenea in termini di garanzie tra la notifica a mezzo posta e quella diretta a mezzo ufficiale giudiziario: alla base della valutazione di irragionevolezza del vecchio testo dell’art. 8 compiuta dalla Corte Cost. vi era, infatti, proprio l’insufficienza di garanzie di conoscibilità che presentava per il notificatario la notificazione a mezzo del servizio postale, rispetto all’ipotesi della notifica eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 140 c.p.c., in quanto, evidenziava la Corte, tale insufficienza deriva, “in ultima analisi, dalla scelta del modo di notificazione effettuata da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario” Proseguendo pertanto in tale equiparazione si osserva che, con riferimento alla raccomandata informativa prevista di cui all’art. 140 c.p.c., è stato più volte affermato che “In tema di notificazione dell’accertamento tributario, qualora la notificazione sia stata effettuata nelle forme prescritte dall’art. 140 c.p.c., ai fini della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio, è necessaria la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata atteso che il messo notificatore, avvalendosi del servizio postale ex art. 140 c.p.c., può dare atto di aver consegnato all’ufficio postale l’avviso informativo ma non attestare anche l’effettivo inoltro dell’avviso da parte dell’Ufficio postale, trattandosi di operazioni non eseguite alla sua presenza e non assistite dal carattere fidefacente della relata di notifica. (vedi Cass. n. 21132 del 2009 e n. Cass. n. 25985 del 2014, ove ampi riferimenti alla giurisprudenza formatasi sia prima che dopo l’intervento della sentenza della Corte Cost. n. 3 del 2010, e la precisazione che gli elementi perfezionativi del procedimento notificatorio ex art. 140 c.p.c., non si atteggiano in diverso modo nel caso in cui oggetto della notifica sia un atto giudiziario o un provvedimento amministrativo (nella specie un atto impositivo), atteso che la maggiore garanzia voluta dal Legislatore, prescrivendo che. la notifica degli atti tributari avvenga nelle forme previste dal codice di rito per notifica degli atti giudiziari, implica in assenza di deroghe espresse – l’applicazione del procedimento di notifica conforme al modello legale dell’art. 140 c.p.c., richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1).

Si è ritenuto ancora che “In tema di notifica della cartella di pagamento, nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario, all’esito della sentenza della Corte Cost. n. 258 del 22 novembre 2012, va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), sicchè è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione (vedi Cass. n. 25079 del 2014; n. 27825 e 9782 del 2018), mentre l’esibizione dell’avviso di ricevimento costituisce il presupposto per la verifica richiesta da Cass. n. 2683 del 2019 secondo cui per in tema di adempimenti prescritti dall’art. 140 c.p.c., nei casi di irreperibilità relativa, ai fini del perfezionamento del procedimento notificatorio, è necessario che l’avviso di ricevimento, relativo alla raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, rechi l’annotazione da parte dell’agente postale dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, senza che sia sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale.

3.8 Non ignora il Collegio quanto di recente statuito da altra giurisprudenza di questa Corte che, partendo dal condiviso presupposto secondo cui la notifica a mezzo posta, ove l’agente postale non possa recapitare l’atto, si perfeziona per il destinatario trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata, contenente l’avviso della tentata notifica e del deposito del piego presso l’ufficio postale, in quanto in base alla disposizione introdotta, nel testo della norma, dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, “la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore (su cui Cass. n. 26088 del 30/12/2015), conclude che, ai sensi dell’invocata L. n. 890 del 1992, art. 8, per la ritualità della notificazione, è richiesta solo la prova della spedizione della raccomandata contenente la cosiddetta CAD (comunicazione avvenuto deposito) e non anche della sua avvenuta ricezione. (cfr. ex multis Cass. n. 4043/2017; n. 6242 del 2017 e n. 2638 del 2019).

In ordine a quanto affermato nelle suindicate pronunce, si osserva che non può non convenirsi che nel procedimento disciplinato dalla L. n. 890 del 1992, art. 8, come in quello di cui all’art. 140 c.p.c., dopo l’intervento della sentenza n. 3 del 2010 della Corte Cost., che procede nella linea della omogeneizzazione dei due tipi di notifica, in caso di mancato ritiro del piego la notificazione si compie comunque per il destinatario con il decorso di dieci giorni dalla spedizione della raccomandata, che, come atto della sequenza del processo, perfeziona l’effetto di conoscibilità legale nei confronti del destinatario.

Tuttavia, non diversamente da quanto avviene per il perfezionamento della notificazione nei confronti del notificante, anche per il destinatario si tratta di un effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l’allegazione dell’avviso di ricevimento le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata.

Ne consegue che la data di spedizione della raccomandata rileva indubbiamente ai fini dell’individuazione del momento di perfezionamento della notifica, ma il perfezionamento della notifica dipende dall’inoltro dell’avviso di ricevimento, il cui deposito è indispensabile ai fini di provare la regolarità della notifica, senza che la prima affermazione si trovi in contraddizione con la seconda, in quanto la data di spedizione può costituire il momento di perfezionamento solo di una notifica regolarmente effettuata.

3.9 Si precisa infine che, in assenza di diverse previsioni, il regime applicabile alla seconda raccomandata relativa alla CAD, al fine di verificare la regolarità della sua ricezione, analogamente a quanto ritenuto per la raccomandata informativa di cui all’art. 140 c.p.c., è certamente quello ordinario.

Sul punto si è già ritenuto che “In tema d’imposte del reddito, la nullità della notificazione dell’atto impositivo, eseguita ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 140 c.p.c., che consegue alla mancata affissione dell’avviso di deposito presso la casa comunale, è sanata, per raggiungimento dello scopo, dal ricevimento della raccomandata con la quale viene data notizia del deposito, la quale, avendo finalità informativa e non tenendo luogo dell’atto da notificare, non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazione a mezzo posta ma solo al regolamento postale, sicchè è sufficiente che il relativo avviso di ricevimento sia sottoscritto dalla persona rinvenuta dall’ufficiale postale, non dovendo risultare da esso la qualità del consegnatario o la sua relazione con il destinatario” (vedi Cass. n. 27479 del 2016); ed ancora che “In tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, l’avviso di accertamento o liquidazione senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla legge citata attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.. Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione. (Cass. n. 14501 del 2016); e da ultimo che “In tema di notificazione della cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali, eseguita ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 140 c.p.c., la raccomandata con la quale viene data notizia del deposito nella casa comunale, avendo finalità informativa e non tenendo luogo dell’atto da notificare, non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazione a mezzo posta ma solo alle disposizioni relative alla raccomandata ordinaria disciplinate dal regolamento postale; pertanto, fatta salva querela di falso, non sussiste alcun profilo di nullità ove essa venga consegnata nel domicilio del destinatario e l’avviso di ricevimento venga sottoscritto dalla persona rinvenuta dall’ufficiale postale senza che risulti da esso la qualità del consegnatario o la sua relazione con il destinatario, con superabilità della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., solo se il destinatario provi di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del plico.” (vedi Cass. n. 24780 del 2018).

Le due affermazioni, quella della necessità del deposito dell’avviso di ricevimento relativo alla comunicazione di avvenuto deposito e quella dell’applicabilità del regime ordinario del regolamento postale alla raccomandata con cui tale comunicazione viene inviata, non sono in contrasto ma anzi complementari.

Un conto è la procedura notificatoria prevista dall’art. 8, per la prova della cui regolarità è necessario il deposito dell’avviso di ricevimento, che ne costituisce un presupposto di legittimità per espressa previsione normativa in quanto solo dalla disamina di tale atto è possibile evincere che la raccomandata sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario, altro discorso è quello relativo alle regole che attengono la ricezione di tale raccomandata, è evidente che la regolarità della recezione, secondo le regole per essa previste, potrà essere verificata solo dalla visione dell’avviso di ricevimento.

4. In conclusione, rilevato che la comunicazione di avvenuto deposito, ai sensi della L. n. 890 del 1992, art. 8, comma 4, deve essere inviata con lettera raccomandata con avviso di ricevimento;

che tale adempimento è stato ritenuto indispensabile sia dalla Corte Cost., che dal legislatore al fine di assicurare la effettiva conoscibilità da parte del destinatario dell’avvenuto deposito dell’atto presso l’ufficio postale;

che secondo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale si impone una lettura omogenea del sistema di notificazione a mezzo ufficiale giudiziario diretta o a mezzo del servizio postale;

va ritenuto che, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio di cui alla L. n. 890 del 1992, art. 8, sia necessario che la parte fornisca la prova dell’effettivo e regolare invio dell’avviso di ricevimento relativo alla raccomandata di inoltro della comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), verifica che presuppone l’esibizione in giudizio del relativo avviso, fermo restando che, risultando tale seconda raccomandata regolata dalle norme relative al regime postale ordinario, la regolarità delle modalità di invio e di ricezione dello stesso andranno verificate secondo le norme del regolamento postale applicabile.

5. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi ritenendo indispensabile, ai fini del corretto espletamento della procedura notificatoria, la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento relativo alla raccomandata prevista dalla L. n. 890 del 1992, art. 8.

6. Il ricorso va quindi rigettato.

7. La complessità della questione impone la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

rigetta il ricorso;

compensa tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2019


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 21-11-2018) 15-02-2019, n. 4538

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10242/2017 proposto da:

900 SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, sig. S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, P.LE CLODIO 14, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GRAZIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO ROTA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

O. IMMOBILIARE SRL, in persona del suo legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TAZIO NUVOLARI 252, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE NARDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato RENATO DE PONTI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4014/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/11/2018 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

Svolgimento del processo
La società 900 s.r.l. era stata immessa, nel febbraio 2008, in un immobile di proprietà della O. Immobiliare s.r.l., in forza di un contratto di comodato ed opzione di cessione di azienda stipulato con Arcadia Service, a sua volta promissaria cessionaria dell’azienda di cui era titolare la Finalmente s.r.l., locataria dei locali in forza di contratto stipulato nell’anno 2000; successivamente, esercitata l’opzione da parte della 900 s.r.l., la Arcadia Service non aveva ceduto ad essa l’azienda, ma aveva risolto il proprio contratto preliminare con la Finalmente s.r.l., che, nel maggio 2008, aveva ceduto l’azienda alla A Livella di P.D.; la 900 s.r.l., che in data 8.8.2008, aveva stipulato con la O. Immobiliare un contratto di locazione relativo all’immobile, vi svolse attività di somministrazione di alimenti e bevande fino al 17.11.2012, quando ne venne estromessa dall’ufficiale giudiziario in forza della sentenza n. 423/2012 del Tribunale di Lecco che aveva condannato la 900 s.r.l. a consegnare l’azienda alla A Livella di P.D..

Con ricorso depositato nel marzo 2013, la 900 s.r.l. agì nei confronti della O. Immobiliare per sentirla condannare alla restituzione della somma di 19.676,72 a titolo di canoni versati senza causa, nonchè al pagamento delle indennità di cui della L. n. 392 del 1978, art. 34, commi 1 e 2, al risarcimento dei danni commisurati alla perdita dei futuri introiti, alla perdita di chance e alla lesione del diritto all’immagine e, altresì, alla restituzione delle maggiori somme versate a titolo di oneri condominiali dal 2007 fino al rilascio dell’immobile; chiese inoltre che venisse dichiarata l’inefficacia del contratto autonomo di garanzia stipulato con la Intesa San Paolo e/o la condanna della O. Immobiliare alla restituzione dell’originale del contratto di garanzia.

Il Tribunale di Lecco rigettò tutte le domande.

La Corte di Appello, dato atto dell’offerta banco judicis della somma di 19.676,72 Euro e della restituzione dell’originale della fideiussione, ha rigettato il gravame della 900 s.r.l., con condanna al pagamento delle spese del grado e affermazione della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

Più precisamente, la Corte ha affermato che correttamente il primo giudice aveva ritenuto insussistente l’inadempimento della convenuta, sottolineando la buona fede che aveva connotato la condotta della O. e la “tutela dalla stessa approntata per garantire il godimento della conduttrice 900”; che altrettanto correttamente non era stata riconosciuta l’indennità L. n. 392 del 1978, ex art. 34, “perchè la perdita dei locali era riconducibile piuttosto alla stessa 900, in quanto costretta al rilascio dell’azienda dall’acquirente effettivo P., e quindi a fatto estraneo all’area di responsabilità del locatore O.”; che, inoltre, la domanda concernente gli oneri condominiali era “infondata in quanto non provata, atteso che le richieste istruttorie formulate dall’appellante (richiesta di ordini di esibizione dei giustificativi di spesa relativi agli esercizi condominiali in oggetto, di ctu contabile volta ad accertare il dovuto in relazione al periodo in esame 2007-2012) appaiono, in difetto di significativa allegazione al riguardo, meramente esplorative, dunque inammissibili”.

Ha proposto ricorso per cassazione la 900 s.r.l., affidandosi a nove motivi illustrati da memoria; ha resistito l’intimata con controricorso.

Motivi della decisione
1. Col primo motivo (“violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1575-1585 c.c.”), la ricorrente ribadisce come la O. Immobiliare “non abbia fatto tutto ciò che era in suo potere (e quindi dovere) onde garantire alla propria conduttrice il pacifico godimento del bene locato”; evidenzia che “la dedotta estraneità di O. srl al giudizio che ha condotto 900 srl a perdere l’azienda (…) è palesemente inconferente coll’oggetto del presente procedimento e con le domande in esso svolte”, “giacchè, al contrario, nella presente sede, si discute dell’inadempimento contrattuale che” la O. “ha posto in essere con riferimento al contratto stipulato l’8 agosto 2008 con 900 srl: contratto che – a prescindere dalle vicende di cui sopra – poteva e doveva essere considerato come autonoma fonte obbligatoria nei rapporti tra O. s.r.l. e la ricorrente anche a prescindere dalle vicende intercorse con soggetti diversi dai contraenti”.

2. Il secondo motivo (“sulla ulteriore violazione/falsa applicazione degli artt. 1575-1585 c.c.”) contesta l’assunto della Corte secondo cui la O. aveva adempiuto gli obblighi scaturenti dagli artt. 1575 e 1585 c.c., proponendo una domanda di risoluzione del contratto previgente con Finalmente s.r.l., opponendosi al subentro della P. ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 36 e costituendosi ad adiuvandum in un procedimento ex art. 700 c.p.c., proposto dal P.; evidenzia che la garanzia prevista dagli artt. 1575 e 1585 c.c., non contempla una mera obbligazione di mezzi, ma comporta la necessità di consentire l’effettivo godimento del bene locato.

3. Il terzo motivo (“violazione/falsa applicazione dell’art. 1337 c.c.”) contesta l’affermazione della Corte circa la buona fede della O., rilevando che la Corte ha evidenziato “la sussistenza di un requisito che nulla comporta, ai fini dell’invocata tutela, essendo lo schema di cui all’art. 1337 c.c., destinato a sanzionare la mala fede (se presente) di un contraente e non certo a premiare la buona fede dell’altro”.

4. Col quarto motivo, viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il contendere, individuato nella “denuncia di mancato inoltro a Finalmente s.r.l. (ovvero al sig. P. dopo il suo subentro contrattuale) di una rituale disdetta (in seconda scadenza) a tutela delle ragioni locatizie di 900 s.r.l.”.

5. Col quinto motivo (“ulteriore violazione/falsa applicazione art. 1337 c.c.”) si contesta nuovamente l’affermazione della buona fede contrattuale della O. s.r.l. rilevandosi che tale società, “prima della stipula del contratto di locazione qui censurato, era perfettamente cosciente dell’esistenza di un contendere giudiziale e che, se avesse davvero voluto interagire “in buona fede” con la scrivente, avrebbe conseguentemente dovuto astenersi da qualsiasi negoziazione in attesa che gli assetti proprietari dell’azienda giungessero ad un effettivo chiarimento processuale”.

6. Col sesto motivo (“sulla violazione/falsa applicazione art. 1218 c.c.”), ricollegandosi alle considerazioni svolte nel precedente, la ricorrente assume che “il Giudice a quo (…) appare avere clamorosamente errato nel ritenere sussumibili nei concetti di buona fede o di inadempimento incolpevole contegni che, già a prima vista, costituiscono al contrario sintomi di imperizia (…), negligenza (…) ed addirittura di abuso”.

7. I sei motivi – che possono essere esaminati congiuntamente – sono tutti inammissibili.

In primo luogo, in quanto non spiegano quale concreta utilità sarebbe derivata alla 900 s.r.l. dalla persistente disponibilità dei locali dopo essere stata privata – a seguito dello “sloggio” effettuato dall’ufficiale giudiziario in forza della sentenza del Tribunale di Lecco – della disponibilità dell’azienda che in quei locali veniva esercitata; dal che consegue un difetto di prospettazione dell’interesse a coltivare motivi volti a suffragare l’assunto dell’inadempimento della locatrice all’obbligo di consentire il perdurante godimento dell’immobile (e ciò anche in relazione all’omesso esame di un fatto decisivo dedotto col quarto motivo).

In secondo luogo, perchè non individuano effettivi errores iuris, ma li postulano sull’assunto di una diversa ricostruzione e valutazione della vicenda, rispetto alla quale la Corte ha chiaramente escluso l’esistenza di inadempimenti da parte della O. s.r.l., evidenziando che la stessa era in buona fede al momento della stipula del contratto di locazione e che, successivamente al mancato trasferimento dell’azienda in favore della 900 s.r.l., aveva “cercato di tutelarne il godimento dell’immobile”; le censure in iure risultano pertanto volte a veicolare inammissibili istanze di rivalutazione del merito funzionali all’affermazione di una responsabilità contrattuale della locatrice;

le censure concernenti la violazione dell’art. 1337 c.c., sono eccentriche rispetto al contenuto della decisione che non verte (e non le affronta) su questioni di responsabilità precontrattuale.

8. Il settimo motivo (“Sulla violazione/falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 34”) censura la Corte perchè – come già il primo giudice – aveva ritenuto infondate le richieste L. n. 392 del 1978, ex art. 34, “pur prendendo atto del termine della locazione tra 900 srl e O. srl per fatto diverso dalla disdetta da parte del conduttore ovvero dalla risoluzione per inadempimento di quest’ultimo, ovvero infine dal suo assoggettamento a procedure concorsuali”; contesta la correttezza del richiamo a Corte Cost. n. 542/1989 (dichiarativa della illegittimità costituzionale della L. n. 392 del 1978, art. 34, “nella parte in cui non prevede i provvedimenti della pubblica Amministrazione tra le cause di cessazione del rapporto di locazione che escludono il diritto del conduttore all’indennità per la perdita dell’avviamento”), rilevando che la questione esaminata dalla Corte Costituzionale atteneva ad un provvedimento amministrativo che comportava “contestualmente una sostanziale incommerciabilità giuridico-economica dell’immobile locato, unico elemento in grado di elidere la funzione riequilibratrice delle indennità”; ipotesi non ricorrente nel caso in esame giacchè, dopo lo sloggio della 900 s.r.l., la locazione era proseguita senza soluzione di continuità col P..

8.1. Il motivo è infondato.

La Corte ha osservato (con richiamo della pronuncia di primo grado) che “nel caso in esame il rilascio dell’immobile non è imputabile alla condotta di parte locatrice, essendo avvenuto a seguito di riconsegna dell’azienda, vicenda cui (…) è estranea O. s.r.l., che si è limitata a prendere atto della situazione”, sottolineando che “la perdita dei locali era riconducibile piuttosto alla stessa 900, in quanto costretta al rilascio dell’azienda dall’acquirente effettivo P., e quindi a fatto estraneo all’area di responsabilità del locatore O.”.

Siffatta conclusione appare condivisibile alla luce della ratio sottesa a Corte Cost. n. 542/1989 che – pur pronunciata con riferimento ad un’ipotesi in cui il bene aveva perso concreta utilità locativa anche per il locatore – è basata su una valutazione di analogia (“analogamente”) rispetto “a quanto è espressamente contemplato in caso di cessazione del rapporto di locazione per risoluzione da inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o per una delle procedure previste dalla legge fallimentare”; una siffatta analogia esiste – con tutta evidenza – in relazione all’ipotesi ricorrente nella specie, in cui la cessazione del rapporto con l’azienda (e con l’immobile in cui la stessa era esercitata) è stata determinata da una pronuncia giudiziale che ha accertato la mancanza di titolarità dell’azienda in capo alla 900 s.r.l., comportandone l’estromissione in favore del P., e quindi da un fatto riferibile alla posizione della 900 s.r.l..

9. Con l’ottavo motivo (“Sulla violazione dell’art. 9 legge n. 392/1978”), la ricorrente, premesso che della L. n. 392 del 1978, art. 9, richiamato per le locazioni commerciali dall’art. 41, prevede il diritto del conduttore di prendere visione dei documenti giustificativi delle spese effettuate, censura la sentenza nella parte in cui ha affermato che “la domanda dell’appellante è infondata in quanto non provata, atteso che le richieste istruttorie formulate dall’appellante” (richiesta di ordini di esibizione dei giustificativi di spesa relativi agli esercizi condominiali e c.t.u. contabile) “appaiono, in difetto di significativa allegazione al riguardo, meramente esplorative, dunque inammissibili”; la ricorrente trascrive osservazioni svolte nel ricorso introduttivo in merito alle spese accessorie relative agli anni 2009 e 2010 e aggiunge che nel medesimo ricorso aveva lamentato “l’assoluta assenza di giustificativi con conseguente richiesta di ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., nonchè di ctu contabile”; evidenzia conclusivamente che, avendo pagato somme a titolo di oneri condominiali ed avendo diritto “di conoscere le ragioni per le quali siano state (…) richieste somme a titolo di oneri accessori, andrà da sè che tutti i presupposti previsti dalla normativa di riferimento per la concessione di un ordine di esibizione fossero pacificamente presenti nella fattispecie. Sicchè, una volta di più il giudice a quo ha decisamente errato nel ritenere strumentali e quindi inammissibili le istanze istruttorie in tal senso formulate”.

9.1. Il motivo è inammissibile in quanto le deduzioni della ricorrente non valgono a superare il duplice rilievo della Corte circa il difetto di “significativa allegazione” e circa la natura meramente esplorativa delle richieste istruttorie, se si considera che le osservazioni relative agli anni 2009 e 2010 sono state svolte con richiamo a plurimi documenti effettuato senza ottemperare alla prescrizione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e che le contestazioni relative alle ulteriori annualità si limitano a dedurre una “assoluta assenza di giustificativi” senza indicare le ragioni per cui non sarebbero stati dovuti gli oneri pagati dalla ricorrente e senza indicare lo specifico oggetto dell’ordine di esibizione e della c.t.u. contabile.

10. Il nono motivo deduce la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, sul rilevo che la sentenza di appello aveva affermato la sussistenza delle condizioni per il versamento dell’ulteriore contributo unificato senza considerare che la Corte aveva dichiarato “non luogo a provvedere in ordine alle domande (…) sub D) ed F) ed ai relativi motivi di gravame, avuto riguardo all’avvenuta restituzione in udienza, ad opera dell’appellata, e della somma e dell’originale della fideiussione in oggetto”, di talchè non vi era stato un integrale rigetto del ricorso tale da giustificare l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

10.1. Il motivo è inammissibile, alla luce del principio – cui il Collegio intende dare continuità – secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicchè l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione” (Cass. n. 22867/2016), considerato anche che)”trattandosi di un’obbligazione tributaria, il credito ed il procedimento per la sua riscossione spettano all’Erario che non è parte in causa, mentre la controparte del giudizio di merito è, rispetto a tale obbligazione, del tutto indifferente” (Cass. n. 15166/2018).

11. Le spese di lite seguono la soccombenza.

12. Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 10.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2019


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 23-11-2018) 12-02-2019, n. 4107

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

(ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.) sul ricorso (iscritto al N.R.G. 30263/’14) proposto da:

FERRARI IMMOBILI REAL ESTATE S.R.L., (P.I.: (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura speciale apposta a margine del ricorso, dagli Avv.ti Laura Salvaneschi, Alberto Villa e Marco Passalacqua ed elettivamente domiciliata presso lo studio del terzo, in Roma, v. salaria, n. 259;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ IMMOBILIARE 21 MONTEBELLO S.R.L., (P.I.: (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale apposta a margine del controricorso, dagli Avv.ti Fabio Emilio Ziccardi e Tommaso Manferoce ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, p.zza Vescovio, n. 21;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2119/2014, depositata il 10 giugno 2014 (e non notificata).

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 81060/2005 il Tribunale di Milano rigettava la domanda della s.r.l. Ferrari Immobiliare Real Estate come proposta nei confronti di Alota Corrado ma l’accoglieva nei riguardi della s.r.l. Immobiliare 21 Montebello, con riferimento al pagamento del compenso per l’attività di mediazione espletata in ordine alla vendita di un intero edificio sito in (OMISSIS), di cui si era resa acquirente la s.r.l. “Il Balcone Fiorito”, poi trasformatasi in s.r.l. Immobiliare 21 Montebello.

Decidendo sull’appello avverso la suddetta sentenza, la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2472/2008, dichiarava prescritto il diritto della società mediatrice, la quale, a sua volta, proponeva ricorso per cassazione nei confronti della indicata sentenza di secondo grado, a cui resisteva con controricorso la Immobiliare 21 Montebello s.r.l..

Con sentenza n. 13600/2011, questa Corte, in accoglimento del primo motivo avanzato dalla ricorrente (con assorbimento del secondo), cassava la sentenza impugnata con rinvio alla stessa Corte di appello di Milano, ma in diversa composizione, che avrebbe dovuto conformarsi al principio di diritto secondo cui: “costituisce efficace atto di costituzione in mora della società che sia stata parte del contratto di compravendita di un immobile, come tale idoneo ad interrompere il corso della prescrizione, la richiesta di pagamento della provvigione mediatoria rivolta a chi ne sia amministratore, se nell’intimazione di pagamento sia contenuto il riferimento alla società che ha acquistato l’immobile ed alla qualità di amministratore del destinatario della missiva”.

Riassunto il giudizio dinanzi alla Corte di rinvio da parte della Ferrari Immobili Real Estate s.r.l., nella resistenza della convenuta in riassunzione, detta Corte, con sentenza n. 2119/2014 (depositata il 10 giugno 2014), respingeva la domanda proposta dalla stessa riassumente Ferrari Immobili Real Estate s.r.l., che condannava alle spese di tutti i gradi del giudizio di merito e di quelle del giudizio di cassazione.

A sostegno dell’adottata pronuncia il giudice di rinvio, preso atto che la Immobiliare 21 Montebello s.r.l. aveva rinunciato all’eccezione di prescrizione sulla scorta dell’esito del ricorso per cassazione, rigettava la domanda della Ferrari Immobili Real Estate s.r.l., sul presupposto che – alla stregua degli esperiti accertamenti istruttori – non era emersa la circostanza che il “Balcone Fiorito s.r.l.” (parte acquirente) fosse a conoscenza dell’esistenza di un mediatore, ove anche si fosse voluto ritenere che la riassumente avesse svolto tale ruolo, senza che quest’ultima avesse provato il contrario (come le incombeva ai sensi dell’art. 2697 c.c.) per il riconoscimento del diritto alla provvigione.

Nei confronti della suddetta sentenza emessa all’esito del giudizio di rinvio ha proposto ricorso per cassazione – riferito a tre motivi – la Ferrari Immobili Real Estate s.r.l., al quale ha resistito con controricorso l’intimata Immobiliare 21 Montebello s.r.l..

Le difese di entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto – in virtù dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione dell’art. 1755 c.c., sul presupposto dell’asserita erroneità dell’impugnata sentenza laddove aveva subordinato il riconoscimento del diritto alla provvigione al necessario contatto con entrambe le parti concludenti il contratto di compravendita immobiliare e all’indispensabilità dello svolgimento di assistenza nella trattativa.

2.- Con la seconda doglianza la ricorrente ha denunciato – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – una falsa applicazione dello stesso art. 1755 c.c., perchè, nell’escludere il riconoscimento del diritto alla provvigione nei confronti della parte che abbia incolpevolmente ignorato l’attività del mediatore, la Corte di rinvio non aveva tenuto che, nel caso di specie, non si ci era venuti a trovare di fronte ad un acquisto posto in essere da una parte (la s.r.l. Balcone Fiorito) che, inconsapevolmente, aveva ignorato la presenza di un mediatore (nota invece ad un soggetto estraneo all’operazione, il sig. A.), ma del medesimo soggetto (e cioè lo stesso sig. A.) che, avendo conosciuto l’esistenza dell’affare, e intendendo sottrarsi al proprio obbligo di pagamento della provvigione, aveva fatto ricorso ad un “veicolo societario”, ovvero assumendo, subito dopo l’operazione, la qualità di amministratore e proprietario della s.r.l. “Balcone Fiorito”, titolare dell’immobile.

3.- Con la terza censura la ricorrente ha prospettato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, avuto riguardo alla circostanza che il mediatore – sig. C.C. – non ebbe ad occuparsi dell’affare per la parte acquirente.

4.- Rileva il collegio che il primo motivo è infondato e deve, perciò, essere respinto.

Infatti, la Corte di appello di Milano ha escluso il preteso diritto alla provvigione reclamato dalla ricorrente sulla base dell’accertata mancata conoscenza incolpevole dell’esercizio della mediazione da parte dell’acquirente s.r.l. Balcone Fiorito (poi divenuta Immobiliare 21 Montebello s.r.l.), ritenendo comprovata tale circostanza procedendo alla valutazione selettiva delle risultanze delle prove orali considerate maggiormente attendibili, sulla scorta del riscontro dell’assenza di qualsiasi idonea prova ulteriore, in forma scritta, circa lo svolgimento della suddetta attività, in tal senso giungendo alla corretta conclusione del mancato assolvimento dell’onere probatorio che incombeva alla stessa odierna ricorrente.

Tali accertamenti implicano chiaramente una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità, siccome rispondente a criteri di logicità ed adeguatezza.

In particolare, la Corte di rinvio – sulla scorta delle deposizioni testimoniali ravvisate come maggiormente probanti e convincenti – ha escluso il riscontro di un preteso collegamento, come prospettato dalla Ferrari Immobili Real Estate s.r.l., riferito ai contatti tra la sig.ra F., il teste C. e tale A.C., che la stessa società F. Immobiliare riteneva rappresentasse gli interessi della s.r.l. “Balcone Fiorito”, nel mentre era rimasto accertato che l’ A. – al tempo della trattativa culminata nella stipula del rogito avvenuta in data 30 novembre 2011 – non aveva alcun rapporto con quest’ultima società (parte acquirente), della quale era divenuto legale rappresentante solo successivamente, assumendone la funzione gestoria in data 24 aprile 2012, per poi trasferirne l’intero capitale alla s.r.l. Alcorinvest di cui era socio unico.

In virtù di tale motivato convincimento la Corte di appello di Milano ha, di conseguenza, applicato correttamente – in punto di diritto – l’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 6004/2007 e Cass. n. 12390/2011) secondo cui il rapporto di mediazione non può configurarsi – e non sorge quindi il diritto alla provvigione – qualora le parti, pur avendo concluso l’affare grazie all’attività del mediatore, non siano state messe in grado di conoscere (ed abbiano pertanto potuto ignorare incolpevolmente) l’opera di intermediazione svolta dal predetto, e non siano perciò messe in condizione di valutare l’opportunità o meno di avvalersi della relativa prestazione e di soggiacere ai conseguenti oneri. Ciò si verifica nel caso in cui il mediatore abbia, con il suo comportamento, potuto ingenerare nelle parti una falsa rappresentazione della qualità attraverso la quale egli si è ingerito nelle trattative che hanno condotto alla conclusione dell’affare, con la precisazione che la prova della menzionata conoscenza incombe, ai sensi dell’art. 2697 c.c., al mediatore che voglia far valere in giudizio il diritto alla provvigione (onere che, nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto non assolto dall’odierna ricorrente).

In altri termini (v. anche Cass. n. 11521/2008), affinchè sorga il diritto del mediatore alla provvigione è necessario che l’attività di mediazione sia da questi svolta in modo palese, e cioè rendendo note ai soggetti intermediati la propria qualità e la propria terzietà; ove, per contro, il mediatore celi tale sua veste, presentandosi formalmente come mandatario di una delle parti (cosiddetta “mediazione occulta”) egli non ha diritto alla provvigione e l’accertamento della relativa circostanza è demandato al giudice di merito che è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato (come avvenuto nella fattispecie, risultando, peraltro, inconferente il precedente richiamato dalla difesa della ricorrente di cui a Cass. n. 5766/2005, riguardante l’ipotesi relativa alle forme di riconoscimento della provvigione nell’ipotesi di una pluralità di mediatori).

5.- Anche la seconda censura – correlata alla prima – è destituita di fondamento, donde il suo rigetto.

Essa, invero, si basa sulla supposizione che essendo l’ A. divenuto, successivamente, legale rappresentante della società oggi controricorrente, egli avrebbe dovuto considerarsi consapevole della pregressa trattativa intercorsa con la s.r.l. “Balcone Fiorito” (potenziale acquirente) per la quale la ricorrente aveva svolto la mediazione. Tale supposizione – per quanto già evidenziato in risposta al primo motivo – è, però, rimasta tale ed è stata smentita dalla Corte territoriale sulla base della pluralità di elementi prima richiamati e riportati globalmente nell’impugnata sentenza in virtù di un percorso argomentativo completo e logicamente congruo.

In special modo la Corte di rinvio ha adeguatamente (e ancora una volta insindacabilmente in sede di legittimità) e risolutivamente motivato – al di là della ipotetica relazione tra l’ A. e la s.r.l. “Il Balcone Fiorito” – che era risultata difettante qualsiasi prova (sia documentale che orale) tale da riscontrare i presunti contatti con le parti alienanti dell’immobile (ovvero con le società Sica e Ferfin) così come non era stato prodotto alcun documento riconducibile alla trattativa assunta come intercorsa tra le parti: in tal senso il giudice di rinvio ha valorizzato l’univocità di plurime circostanze, consistenti (nella mancata acquisizione di un’apposita offerta scritta da parte dell’ A.; l’assenza di qualsiasi proposta irrevocabile o della stipula di un contratto preliminare; nella mancanza di un’attestazione idonea a dimostrare l’avvenuta consegna, durante il periodo dell’assunto espletamento dell’attività di mediazione, di atti relativi alla provenienza dell’immobile poi venduto o di certificati riguardanti la situazione catastale dello stesso.

6. L’ultimo motivo è manifestamente infondato (v., per tutte, da ultimo Cass. n. 29404/2017) poichè, con lo stesso, lungi dal prospettare un’effettiva omissione di un fatto decisivo, la ricorrente risollecita una valutazione delle prove costituende assunte e dei relativi esiti che, invece, la Corte di rinvio ha come posto in risalto – più che bastevolmente compiuto sulla base degli elementi istruttori ritenuti maggiormente attendibili, donde l’insindacabilità in sede di legittimità di siffatta valutazione, risolvendosi, peraltro, la censura in una confutazione della motivazione della sentenza di appello siccome insufficiente, vizio non più ammissibile dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile nel caso di specie “ratione temporis”.

7. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 23 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2019


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 07-11-2018) 08-02-2019, n. 3732

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22836-2013 proposto da:

L.E., L.R., L.G., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DI VILLA SEVERINI 54, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE TINELLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CONTESTABILE giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

EQUITALIA SUD SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA PIEMONTE 39, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE VARI’, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 376/2012 della COMM.TRIB.REG. di ROMA, depositata il 16/10/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2018 dal Consigliere Dott. CASTORINA ROSARIA MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l’Avvocato CONTESTABILE che ha chiesto l’accoglimento e deposita a fine discussione il ricorso memorie di replica;

udito per il controricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto il rigetto;

è comparso l’Avvocato VARI’ difensore del resistente che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo
E., G. e L.R. impugnavano la cartella di pagamento recante l’iscrizione a ruolo di Euro 192.558,26 pretesi a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale in conseguenza della registrazione della sentenza n. 6232/07 emessa dal Tribunale di Roma.

La CTP accoglieva il ricorso.

Avverso al sentenza proponeva appello l’ufficio.

La CTR del Lazio con sentenza n. 376/01/12 depositata il 16.10.2012 accoglieva il ricorso su presupposto che gli atti prodromici alla cartella fossero stati regolarmente notificati al portiere e nessun vizio proprio fosse ravvisabile nella cartella impugnata.

Nei confronti della suddetta pronuncia i contribuente propongono ricorso per cassazione affidato a 11 motivi.

Resistono Equitalia Sud s.p.a. e Agenzia delle Entrate con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti deducono la violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, art. 139 c.p.c., commi 3 e 4, e art. 148 c.p.c. nonché del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 54, commi 3 e 5, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. 2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

3. Con il terzo e quinto motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, art. 139, commi 3 e 4, nonché del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 54, commi 3 e 5, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5. con il sesto motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 139 c.p.c., commi 2 e 3 e art. 148 c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, nonchè del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 54, commi 3 e 5 e del D.Lgs n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Nei sei motivi i ricorrenti lamentano che la CTR abbia erroneamente ritenuto regolare la notifica di tre avvisi di accertamento, presupposti della cartella impugnata consegnati al portiere dello stabile in busta chiusa, sebbene non si fosse dato atto dell’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 c.p.c., comma 2, nè vi fosse prova della spedizione della raccomandata informativa, ritenendo prova idonea a quest’ultimo fine l’indicazione del numero di raccomandata trascritto su ciascun avviso di liquidazione.

Le censure possono essere trattate congiuntamente in quanto strettamente connesse.

Esse sono fondate.

La notifica è stata eseguita tramite messo notificatore.

6.1. La Corte di legittimità ha più volte affermato che, in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto; ed il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 c.p.c., comma 2, secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. Ne discende che deve ritenersi nulla la notificazione nelle mani del portiere, allorquando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga – come nel caso di specie l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma succitata (Cass. Sez. U, n. 8214 del 20/04/2005; Cass. n. 4627 del 16/12/2013 dep. il 26/02/2014 2014; Cass. n. 22151 del 27/09/2013). La Corte di legittimità ha, poi, affermato che l’omissione dell’avviso a mezzo di invio di lettera raccomandata non è una mera irregolarità ma è causa di nullità della notificazione per vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario notificante, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale stesso, secondo un principio esteso pure alla notifica a mezzo posta. Ciò attesa la funzione dell’avviso nella struttura complessiva di una notificazione che si perfeziona a persona non legata da quei particolari vincoli evidenziati nel medesimo art. 139 c.p.c., comma 2, ma pur sempre da altri di peculiare intensità: l’atto entra a far parte della sfera di effettiva conoscibilità del destinatario, ma in una sua porzione connotata da un grado minore di possibilità di prendere immediata conoscenza dell’atto, rispetto a quelle altre fattispecie indicate dal comma 2 per la natura assai stretta del vincolo che lega al destinatario il consegnatario dell’atto; ed un tale minor grado di conoscibilità, se non la degrada al punto di rendere necessario lo spostamento ulteriore del momento di perfezionamento della notifica come accade appunto per l’ipotesi contemplata dall’art. 140 c.p.c., esige però almeno di essere colmato con quel quid pluris costituito dalla spedizione dell’ulteriore avviso, sia pure ex post e appunto non incidente sul precedente tempo in cui l’attività notificatoria si è svolta e compiuta (Cass., Sez. U, n. 18992 del 31/07/2017Cass. n. 1366 del 25/01/2010; Cass. n. 19366 del 21/08/2013; Cass. 8293/2018).

6.2. Il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, per le notifiche degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente fa espresso rinvio alle norme stabilite dagli artt. 137 e ss. c.p.c., ma ha previsto specifiche modifiche, nel caso in cui la notifica venga eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte prevedendo che il messo deve fare sottoscrivere dal consegnatario l’atto o l’avviso ovvero deve indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto e, nel caso il consegnatario non sia il destinatario dell’atto o dell’avviso, prevedendo alla lett. b) bis, che il messo consegni o depositi la copia dell’atto da notificare in busta sigillata, su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso.

Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo deve dare notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata. Il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica: tale è l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte che, tenuto conto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 258 del 22 novembre 2012 relativa al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, n. 3 del 2010, comma 3 (ora 4), – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione – ha deciso che nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del cit. art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea, sicché è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione (Cass. 2868/17; Cass. 25079/14).

Nella specie la CTR ha rilevato che l’Ufficio aveva prodotto le relazioni di notifica dei tre atti presupposti indirizzati ai contribuenti “dalle quali risulta che in data 24.9.2007 i medesimi atti venivano consegnati in busta sigillata, con indicazione del numero cronologico e senza altre indicazioni al portiere dello stabile, firmatario per ricevuta. La notifica veniva, pertanto eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis e dell’art. 139 c.p.c. con il rispetto di tutti gli adempimenti previsti dalla norma, ivi compreso la comunicazione informativa a mezzo lettera raccomandata con l’indicazione del numero trascritto su ciascun avviso di liquidazione avvalorato dal timbro, in originale, della data e dell’ufficio postale di spedizione”.

La CTR non ha valorizzato, tuttavia, come si evince dalla motivazione della sentenza e dalla copia della relazione della notifica come trascritta nel ricorso che il messo pur avendo consegnato la copia dell’atto da notificare in busta sigillata, su cui ha trascritto il numero cronologico della notificazione, non ha dato atto dell’indefettibile requisito, ai fini della validità della notificazione dell’invio della raccomandata informativa. Non è stata, inoltre, pacificamente, fornita prova dell’invio della raccomandata informativa, nè della ricezione della stessa.

L’accoglimento dei primi sei motivi di ricorso, fa ritenere assorbita la trattazione degli altri motivi.

Il ricorso deve essere, conseguentemente, accolto e la sentenza cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in punto di fatto la controversia può essere decisa nel merito, con accoglimento dell’originario ricorso dei contribuenti.

Le spese del giudizio di merito devono essere compensate in considerazione dell’evoluzione nel tempo della giurisprudenza in materia di notifica dell’atto impositivo.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte accoglie i primi sei motivi di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo dei contribuenti.

Condanna le parti resistenti al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 7.300,00 oltre accessori e rimborso spese forfettarie Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2019


Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., (data ud. 19/12/2018) 24/01/2019, n. 2102

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16795-2016 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 238/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 04/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/12/2018 dal Consigliere Dott. DORONZO ADRIANA.

Svolgimento del processo
che:

M.S. ha adito il Tribunale di Roma chiedendo la condanna del Ministero della Giustizia a corrispondergli le differenze retributive derivanti dallo svolgimento di mansioni di natura dirigenziale, superiori all’inquadramento impiegatizio riconosciutogli dall’amministrazione penitenziaria datrice di lavoro, per il periodo tra il 22 gennaio 2002 e il 7 febbraio 2008;

il Tribunale di Perugia, dinanzi al quale la causa è stata riassunta successivamente alla declaratoria d’incompetenza territoriale pronunciata dal Tribunale romano, ha accolto parzialmente la domanda riconoscendo al ricorrente le differenze retributive conseguenti allo svolgimento di mansioni corrispondenti alla qualifica di dirigente di seconda fascia per il periodo dal 24 luglio 2002 al 7 febbraio 2008, mentre ha dichiarato estinto per prescrizione il diritto alle differenze retributive per il periodo precedente al 24 luglio;

la Corte d’appello di Perugia ha accolto parzialmente l’appello del Ministero, rideterminando la somma dovuta al M. sulla base della quantificazione, effettuata dal Ministero e accettata dal lavoratore; ha rigettato nel resto il gravame, accertando che il ricorrente aveva di fatto svolto compiti propri delle mansioni superiori e richiamando il precedente di questa Corte n. 22438/2011;

contro la sentenza il Ministero propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo; il M. non svolge attività difensiva;

la proposta del relatore è stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata.

Motivi della decisione
che:

con il motivo di ricorso il Ministero della Giustizia denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e assume che la decisione della Corte è in contrasto con l’orientamento della Corte costituzionale che, con la sentenza del 17/3/2015, n. 37, ha ritenuto che il modello disciplinato dal D.Lgs. cit., art. 52, risulta applicabile solo nell’ambito di classificazione del passaggio dei livelli, non già delle qualifiche, e non è applicabile (ed è illegittimo se applicato) nella parte in cui è necessario il passaggio dalla qualifica di funzionario a quello di dirigente, potendo la sostituzione di un dirigente assente avvenire solo ricorrendo all’istituto della reggenza, regolato in generale dal D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20;

il motivo è inammissibile, perchè in contrasto con l’orientamento consolidato di questa Corte espresso in casi analoghi (v. Cass. 4/6/2014, n. 12561; Cass. S.U. 11/12/2007 n. 25837, Cass. 17/9/2008 n. 23741; Cass. n. 5401/2013);

posto che nella fattispecie si discute soltanto del mero diritto alle differenze economiche rivendicate nel periodo de quo (e non dell’attribuzione della qualifica dirigenziale) va richiamato il principio più volte affermato da questa Corte (Cass. 4/6/2014, n. 12561), secondo cui “nel pubblico impiego contrattualizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, la cui portata retroattiva risulta conforme alla giurisprudenza della Corte costituzionale che ha ritenuto l’applicabilità, anche nel pubblico impiego, dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere, con la menzionata disposizione correttiva, una norma in contrasto con i principi costituzionali” (v. Cass. 23-2-2010 n. 4382, Cass. 17-4-2007 n. 9130, cfr. Cass. 6-6-2011 n. 12193);

è stato pure precisato che “in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.” (v. Cass. 18-6-2010 n. 14775, Cass. 7-8-2013 n. 18808);

in tale quadro ed in casi analoghi, questa Corte ha accolto la tesi dei dipendenti (v. Cass. 12-10-2011 n. 20978, Cass. 27-10- 2011 n. 22438) e disatteso quella del Ministero (Cass. 5-3-2013 n. 5401, Cass. 15-112012 n. 20028), rilevando che l’argomento del Ministero, fondato sulla circostanza che il dipendente ha continuato a svolgere le stesse mansioni con le stesse caratteristiche e responsabilità, è irrilevante ai fini della diretta applicazione della norma in esame, giacchè proprio il fatto che le aree cui era preposto il ricorrente sia stata elevata a livello dirigenziale di seconda fascia dimostra che il prosieguo di quelle stesse mansioni già non era più consono alle attribuzioni di un funzionario di fascia C;

va poi ricordato che, in tema di reggenza da parte del personale appartenente alla qualifica C3, del pubblico ufficio sprovvisto, temporaneamente, del dirigente titolare, il D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20, deve essere interpretato, ai fini del rispetto del canone di ragionevolezza e dei principi generali di tutela del lavoro (artt. 35 e 36 Cost.; art. 2103 c.c. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata dalla straordinarietà e temporaneità (“in attesa della destinazione del dirigente titolare”), con la conseguenza che a tale posizione può farsi luogo in virtù della suddetta specifica norma regolamentare, senza che si producano gli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura, cosicchè, al di fuori di tale ipotesi, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali (Cass. Sez. Un., 16/2/2011, n. 3814; Cass. 17/4/2007, n. 9130);

del tutto inconferente è il richiamo alla sentenza della Corte cost. n. 37/2015, la quale ha dichiarato illegittimo per violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost., il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, art. 1, comma 1, nella parte in cui consente alle Agenzia delle dogane il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato a funzionari privi della relativa qualifica, nelle more dell’espletamento delle procedure concorsuali, protraendo un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori in maniera indefinita nel tempo in conseguenza delle reiterate proroghe del termine previsto per l’espletamento del concorso per dirigenti;

la illegittimità è stata dichiarata perchè la disposizione impugnata viola la regola del pubblico concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, in quanto, pur avendo cura di esibire il carattere della temporanietà, consente il ricorso alla descritta modalità di copertura delle posizioni vacanti sino all’assunzione dei vincitori delle procedure concorsuali, così protraendo in modo indefinito l’assegnazione di posizioni dirigenziali senza limiti di tempo;

nessuna affermazione si rinviene nella sentenza in ordine alla interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, nei sensi su richiamati, mentre l’ulteriore affermazione secondo cui l’assegnazione di posizioni dirigenziali a un funzionario può avvenire solo ricorrendo al secondo modello, cioè all’istituto della reggenza, regolato in generale dal D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, non rileva nel caso di specie in cui la Corte territoriale ha espressamente escluso che il profilo lavorativo relativo alla posizione C3 ricomprendeva tra le proprie funzioni l’espletamento della reggenza della posizione lavorativa dirigenziale superiore per vacanza del posto (pag. 6 della sentenza: v. pure Cass. n. 5892/2005), e tale affermazione non è stata affatto censurata dall’amministrazione ricorrente;

in conclusione il ricorso deve essere rigettato;

nessun provvedimento sulle spese deve essere adottato, in mancanza di attività difensiva svolta dall’intimato;

non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, poichè, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, le dette amministrazioni sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (da ultimo Cass. 29/01/2016, n. 1778; Cass. 14/03/2014, n. 5955).

P.Q.M.
La corte dichiara il ricorso inammissibile. Nulla sulle spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 19 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2019


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 11-09-2018) 22-01-2019, n. 1644

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8805/2014 R.G. proposto da:

T.F., P.P., C.F., rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dagli avv. Filippo Neri e Roberta Chimenti, con domicilio eletto in Roma, via dei Gracchi 130 presso lo studio dell’avv. Filippo Neri;

– ricorrenti –

contro

CU.Ro., T.M., quale eredi di G.D., B.L., M.L., S.A., TE.Fa., TE.My., BE.CA.Lu., R.F., rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in calce al controricorso, dagli avv. Edoardo Pontecorvo e Luciano Albertini, con domicilio eletto in Roma, viale Carso 77, presso lo studio dei difensori;

RU.QU.Ma.Ga., rappresentata e difesa dall’avv. Lucio De Angelis, con domicilio eletto in Roma, via Val Gardena 3, presso lo studio del difensore;

I.E., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall’avv. Claudio Conti, con domicilio eletto in Roma, via Manfredi 17, presso lo studio del difensore;

– controricorrenti –

Soc. S.A.F.I. South American Financing Inc.; + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 853, depositata il 15 febbraio 2013;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 luglio 2018 dal Consigliere Dott. Giuseppe Tedesco.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado, che, accogliendo la domanda di alcuni dei proprietari di unità immobiliari site nell’edificio condominiale in Roma, viale Bruno Buozzi 109/A, ha dichiarato che le tabelle originarie non rispecchiavano i reali valori delle porzioni di proprietà esclusiva, in quanto le stesse era state interessate nel corso del tempo da rilevanti modifiche; conseguentemente ha disposto l’adozione di nuove tabelle conformi a quelle elaborate dal consulente tecnico nominato nel corso della istruzione.

Con la stessa pronuncia, poi confermata in appello, il tribunale ha indicato la decorrenza della modifica dalla data di deposito della sentenza e ha condannato i soccombenti al pagamento delle spese di lite.

Per la cassazione della sentenza T.F., P.P., C.F. hanno proposto ricorso affidato a sei motivi.

Hanno resistito con controricorso Cu.Ro., T.M., quale eredi di G.D., B.L., M.L., S.A., Te.Fa., Te.My., Be.Ca.Lu., R.F..

Hanno altresì resistito, con separati controricorso, Ru.Qu.Ma.Ga. e I.E..

Gli altri soggetti a cui il ricorso è stato notificato sono rimasti intimati.

I ricorrenti e la controricorrente Ru.Qu.Ma.Ga. hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 violazione dell’art. 307 c.p.c., commi 3 e 4 e art. . 100 c.p.c. All’udienza del 30 aprile 1998 il processo era dichiarato interrotto per la morte dell’attore Fi.Ro., dichiarata dal difensore.

Con ricorso depositato il 21 ottobre 1998 gli attori provvedevano alla riassunzione.

Il giudice assegnava termine per la notificazione fino al 15 gennaio 1999.

Tuttavia con riferimento a Sa.Ni. e Ma.Gi. i plichi, spediti il 14 gennaio 1999, furono ricevuti dai destinatari successivamente, a termine oramai scaduto.

Il che comportava l’estinzione del processo, erroneamente negata dal primo giudice.

La Corte d’appello di Roma ha rigettato la relativa ragione di censura contro la sentenza in base a un duplice rilievo: a) nel caso di litisconsorzio necessario (quale quello in esame), la irritualità della notificazione non comporta l’estinzione del processo, ma esclusivamente il dovere del giudice di disporne la rinnovazione, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c.; b) l’eccezione di estinzione non è proponibile da parte diversa da quella nei cui confronti la stessa estinzione si è verificata: quindi sarebbe stata teoricamente proponibile solo da coloro per il quali la notificazione era tardiva.

Con il motivo in esame, inoltre, si deducono ulteriori questioni procedurali, attinenti all’integrità del contraddittorio, su cui la corte non ha pronunciato.

Il secondo motivo denuncia nullità del procedimento per violazione dell’art. 268 c..p.c., comma 2, e art. 354 c.p.c., u.c. P.P., litisconsorte necessaria originariamente non citata, è intervenuta volontariamente nel corso del giudizio di primo grado, chiedendo che venisse ritenuta invalida l’istruzione svolta in suo assenza.

Il tribunale non ha pronunciato su tale eccezione, mentre la corte d’appello, con la sentenza impugnata, l’ha rigettato, argomentando: a) che l’omessa chiamata nel giudizio di uno dei litisconsorti non determina la nullità del processo, ma solo l’obbligo del giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio: b) che pure in assenza di ordine giudiziale, la originaria omissione rimane superata se il pretermesso interviene spontaneamente, cosi come è avvenuto nel caso in esame.

A tali rilievi della sentenza i ricorrenti replicano che la corte di merito non ha compreso il senso della eccezione, intesa non a far valere la nullità del giudizio, ma la nullità dei soli atti di istruzione e la conseguente esigenza della loro rinnovazione.

Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sotto il seguente profilo.

Gli appellanti avevano denunciato la sentenza di primo grado per difetto di motivazione.

La corte di merito ha superato la censura incorrendo a sua volta nella medesima carenza riscontrabile nella decisione del tribunale.

Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Gli attori, al fine di giustificare la richiesta di revisione delle tabelle millesimali, avevano inizialmente denunciato, oltre alle modifiche intervenute nella consistenza delle singole unità immobiliari, anche un errore nella stima iniziale degli appartamenti.

Essi hanno poi abbandonato la questione dell’errore di stima, concentrandosi esclusivamente sulle innovazioni di vasta portata che sarebbero state realizzate in secondo tempo.

I ricorrenti sostengono, in considerazione di tale contenuto della domanda, che era essenziale stabilire l’epoca delle innovazioni, in particolare se esse risalivano a epoca anteriore al 29 gennaio 1970, data in cui erano state adottate tabelle sostitutive di quelle originarie.

La corte d’appello ha rigettato l’eccezione, assumendo erroneamente che il punto, e cioè che le innovazioni fossero successive al 29 gennaio 1970, era stato accertato dal giudice di primo grado, che invece non si era pronunciato.

Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che la corte d’appello ha confermato la sentenza del tribunale, anche nella parte in cui l’efficacia della modifica delle tabelle millesimali è stata fatta decorrere dalla data deposito della decisione, laddove occorreva invece il passaggio in giudicato, in conformità al carattere costitutivo della relativa pronuncia.

Il sesto motivo denuncia la violazione dell’art. 92 con riguardo alle statuizioni sulle spese di lite del doppio grado del giudizio.

2. Il primo motivo, nella parte in cui censura la sentenza d’appello per avere rigettato l’eccezione di estinzione del processo, è infondato.

I ricorrenti non negano che il ricorso per la riassunzione del processo, a seguito della interruzione dichiarata per la morte di F.R., sia stato depositato tempestivamente.

L’eccezione è, infatti, giustificata sotto altro profilo, e cioè che a due dei convenuti la notificazione, eseguita a mezzo posta, non è stata fatta nel termine concesso dal giudice con il decreto con il quale ha fissato l’udienza per la riassunzione, ma dopo il decorso del termine stesso, fissato al giorno 15 settembre 1999.

Essi evidenziano che i plichi sono stati spediti il 14 gennaio 1999, ma ricevuti dai destinatari in data successiva al 15 gennaio 1999.

Ma è chiaro che, in questi termini, la censura non tiene conto del fin troppo noto principio della scissione del momento di perfezionamento della notificazione per il richiedente e per il destinatario: “In tema di notificazione, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 – dichiarativa della sentenza della illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevede che la notificazione di atti a mezzo posta si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario – deve ritenersi operante nell’ordinamento vigente un principio generale secondo il quale, qualunque sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale, almeno quando debba compiersi entro un determinato termine, si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell’affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario, che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento” (v. fra le tante pronunce anteriori alla L. n. 263 del 2005, che ha codificato il principio della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e i notificato, inserendo nell’art. 149, un comma 3, Cass. S.U., n. 13970/2004).

Nella fase di merito i ricorrenti avevano obiettato che la sentenza della Corte Costituzionale, sulla scissione degli effetti della notifica, non poteva operare nel caso di specie, perchè la decadenza si era già verificata al momento della pronuncia di incostituzionalità.

E’ chiaro che il principio, sotteso a tale obiezione, è quello secondo cui l’efficacia retroattiva delle sentenze della Corte Costituzionale trova limite nelle intervenute decadenze.

L’obiezione, non riproposta in questa sede dai ricorrenti e valutata solo per completezza di esame, trascura però l’ulteriore principio, applicabile nel caso in esame, che il limite all’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte Costituzionale “non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza, o quella che aveva precluso l’esercizio di tale facoltà” (Cass. n. 5240/2000).

2.1. Il motivo censura inoltre la decisione per aver negato che l’eccezione di tardività della notificazione, e conseguentemente l’eccezione di estinzione del processo, fossero proponibili da soggetti diversi da quelli per i quali la notificazione è stata tardiva.

La censura è inammissibile, sia perchè rivolta contro affermazione teorica priva di incidenza sulla decisione, che ha negato che vi fossero i presupposti per l’estinzione, sia perchè evidentemente correlata e consequenziale alla censura sulla tardività della notificazione dell’atto di riassunzione.

Infondata tale prima censura, che costituiva l’evidente substrato fattuale e giuridico della seconda censura, questa è evidentemente inammissibile per carenza di interesse.

3. Il secondo motivo è fondato.

La corte ha fatto applicazione del principio che l’omessa citazione di taluno dei litisconsorti necessari non produce di per sè l’inammissibilità della domanda, ma fa sorgere soltanto l’obbligo, per il giudice, di disporre e, per le parti, di eseguire l’integrazione del contraddittorio nel termine perentorio stabilito dal primo; l’inammissibilità è ugualmente esclusa, per l’identità degli effetti prodotti, nel caso di intervento volontario nel giudizio del litisconsorte pretermesso, purchè tale intervento non avvenga successivamente alla data dell’udienza fissata nell’ordinanza di integrazione (Cass. n. 26156/2006).

La correttezza del principio è fuori discussione; tuttavia, la corte non ha considerato che, nella specie, non si discuteva della mancata integrazione del contraddittorio a norma dell’art. 102 c.p.c., ma della sorte degli atti di acquisizione delle prove raccolte prima dell’integrazione del contraddittorio o dell’intervento.

Si sa che il procedimento di acquisizione delle prove nel processo deve rispettare il principio del contraddittorio: le parti debbono essere messe in condizione di interloquire sul meccanismo dell’acquisizione, se esso si risolve nella compressione del loro diritto di difesa.

La violazione di tale regola dà luogo a una nullità posta nell’interesse della parte interessata, che deve essere fatta valere nei modi indicati nell’art. 157 c.p.c., comma 2 opportunamente adattati al sistema dell’assunzione del mezzo istruttorio.

Ciò significa che, quando sia stata raccolta una prova anteriormente all’integrazione del contraddittorio di una delle parti necessarie, solo questa può far valere la nullità dell’assunzione della prova e lo potrà fare nel suo primo atto di difesa, cioè non appena interviene nel giudizio, perchè la sua costituzione è il mezzo attraverso il quale essa ha notizia dell’avvenuta raccolta delle prove (Cass. n. 16034/2002; n. 8878/1998; n. 1757/1974).

Nel caso in esame risulta che la P., con il medesimo atto con il quale è intervenuta nel processo (e quindi tempestivamente), ha chiesto che fosse ritenuta invalida e di nessun effetto l’attività istruttoria eseguita in suo assenza, consistente nella consulenza tecnica.

Posto che su tale eccezione il tribunale ha omesso di pronunciare, al vizio di nullità dell’atto compiuto prima della costituzione della litisconsorte, originariamente non chiamata nel giudizio, avrebbe dovuto “porre rimedio il giudice d’appello” (Cass. n. 13185/1992).

I rilievi dei controricorrenti, secondo cui il principio della nullità degli atti processuali compiuti prima della chiamata o dell’intervento del litisconsorte necessario, non opera per la consulenza tecnica, che non è un mezzo di prova, non sono fondati.

Il principio, infatti, è applicabile anche alla consulenza tecnica: “Qualora il chiamato in causa, per ragioni di litisconsorzio necessario, od anche facoltativo, eccepisca un pregiudizio del diritto di difesa, non avendo partecipato alle operazioni svolte nel corso di consulenza disposta ed espletata prima della chiamata, il giudice deve provvedere alla rinnovazione della consulenza medesima, non potendo, in difetto, decidere nei confronti del chiamato sulla base di quella compiuta in sua assenza” (Cass. n. 131/1977: n. 13185/1992 cit.).

Il secondo motivo, pertanto, va accolto e il suo accoglimento determina l’assorbimento di tutte le altre censure.

4. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che provvederà a porre rimedio al vizio incorso nella istruzione della causa e valuterà le altre censure proposte con il primo motivo di ricorso.

Il giudice di rinvio provvederà inoltre sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
rigetta, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2019


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 15-11-2018) 08-01-2019, n. 207

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22262/2014 proposto da:

Medifarma di M.G. & C S.a.s., in persona legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Roma, Via Andrea Doria n. 16 C, presso lo studio dell’avvocato Mafrici Consolato, rappresentata e difesa dall’avvocato Battaglia Demetrio, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.C.E. Bank PLC, in persona del Procuratore Speciale Avv. A.R., elettivamente domiciliata in Roma, Via Piemonte n. 39 presso lo studio dell’avvocato Grieco Antonio che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Autorità Garante per la protezione dei dati personali;

– intimata –

avverso la sentenza n. 7087/2014 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 27/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/11/2018 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.

Svolgimento del processo
che:

La società Medifarma di M.G. SAS aveva proposto ricorso ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 156, art. 152, depositato il 7/12/2009, sulla scorta della seguente esposizione di fatti.

Nel giugno del 2007 era stato richiesto ed ottenuto dalla società FCE Bank plc la concessione di un leasing finanziario per l’acquisto di un autoveicolo; tuttavia a ciò era conseguita la apertura di due posizioni contrattuali e di due posizioni debitorie a cui era seguito il prelievo dal conto corrente bancario di M.G. di due ratei ogni mese. La società, accortasi di ciò, in data 18/10/2007 aveva chiesto la restituzione delle somme indebitamente prelevate ed il trasferimento delle rate di addebito sul proprio conto corrente attraverso uno scambio di missive con la finanziaria, volte a chiarire le differenti posizioni contrattuali.

Successivamente, nei primi giorni del dicembre 2007 il M., quale legale rapp. p.t. della Medifarma, chiedeva un finanziamento di Euro 25.000,00 presso l’Istituto San Paolo Banco di Napoli, che gli veniva negato, nonostante il rapporto fiduciario con la banca, sul presupposto che risultava segnalato alla CRIF; le richieste di chiarimenti rivolte sia alla CRIF che alla FCE Bank avevano ottenuto risposta solo in data 28/3/2008, quando la FCE aveva riconosciuto l’errore, ed in data 4/4/2008 quando la CRIF aveva comunicato l’aggiornamento dati.

In seguito, anche la richiesta di finanziamento per Euro.13.000,00 avanzata dalla società alla banca Unicredit in data 27/2/2009 aveva sortito esito negativo a causa dell’esistenza di informazioni negative al CRIF; anche la Banca Nova aveva negato la concessione di un mutuo per l’acquisto di un immobile a causa della segnalazione negativa del CRIF. La FCE interpellata in proposito aveva sostenuto che la segnalazione negativa era conseguita al mancato pagamento della rata relativa al mese di agosto 2008, che a dire della società era stata regolarmente adempiuta.

A fronte di queste vicende, la società si era rivolta, senza esito, al Garante per la protezione dei dati personali richiedendo i provvedimenti del D.Lgs. n. 142 del 2003, ex art. 143.

Quindi la società aveva proposto il ricorso giurisdizionale dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo che fosse accertato e dichiarato che la FCE Bank aveva erroneamente ed illegittimamente segnalato una posizione di sofferenza alla CRIF, con conseguente condanna al risarcimento di Euro 240.000,00 a titolo di danni patrimoniali e di Euro 18.000,00 a titolo di danni non patrimoniali, oltre alla pubblicazione della sentenza ed alle spese. La FCE resisteva con controricorso e chiedeva il rigetto delle avverse domande.

Il Tribunale ha parzialmente accolto la domanda.

Segnatamente, ha respinto la domanda riferita all’iscrizione del dicembre 2007, affermando, sulla scorta della disamina del compendio probatorio, che la Medifarma non aveva provato, nemmeno in via presuntiva, la iscrizione negativa del presunto inadempimento per la rata del contratto attivato erroneamente e che non aveva nemmeno depositato un resoconto del CRIF relativo alla situazione registrata nel mese di dicembre 2007, dalla quale si sarebbe potuta desumere l’iscrizione, altrimenti non provata, documentazione acquisibile a cura della stessa parte presso il CRIF del D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 7.

Ha, quindi, accolto in parte la domanda riferita all’iscrizione del febbraio 2009. Sulla premessa che era incontestata tra le parti l’avvenuta iscrizione nel sistema CRIF di informazioni creditizie relative al mancato adempimento della società di una rata del contratto di leasing, ha ritenuto che la FCE Bank plc non avesse adempiuto agli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11 e 12 e dall’art. 4, comma 7, del “Codice di deontologia e di buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti”, non avendo provato di avere comunicato alla società titolare dei dati l’imminente registrazione dell’informazione “negativa” nel sistema informatico CRIF. Passando quindi alla disamina della richiesta risarcitoria, ricondotta nell’alveo applicativo del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, in combinato disposto con l’art. 2050 c.c., il Tribunale ha ritenuto raggiunta la prova che finanziamento e mutuo richiesti dalla società alla Unicredit banca ed alla Banca Nova non furono concessi a causa dell’iscrizione negativa al CRIF. Ha tuttavia escluso che fosse stato provato dalla società il danno patrimoniale, come danno emergente e come lucro cessante, derivante dalla mancata concessione di finanziamento e mutuo. Ha riconosciuto invece il danno non patrimoniale, liquidato equitativamente in Euro 6.000,00, ed accessori, avendo accertato la violazione dell’art. 11 del codice della privacy per violazione del diritto alla reputazione, con la precisazione che lo stesso, pur previsto per legge, non poteva ritenersi sussistente in re ipsa e che la prova era stata integrata dalla circostanza che il rifiuto del credito era conseguito all’essere stata considerato la società “cattivo pagatore”.

La società ricorre per cassazione con quattro mezzi, corredati da memoria, ai quali replica con controricorso la FCE Bank; il Garante è rimasto intimato.

Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1.1. Con il primo motivo si denuncia l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’episodio del dicembre 2007, rispetto al quale il Tribunale ha ritenuto non assolto l’onere probatorio gravante sulla ricorrente in merito al fatto oggetto di contestazione, a causa della mancata produzione del resoconto della situazione registrata nel mese di dicembre al CRIF: segnatamente, viene sostenuto che la società – contrariamente a quanto affermato dal Tribunale – aveva avanzato richiesta al CRIF ai sensi dell’art. 7 cit. in data 2/1/2008 e dal CRIF riscontrata in data 14/1/2008 e 28/1/2008 con cui aveva comunicato l’attivazione di un procedimento di verifica urgente con gli enti che avevano trasmesso ad Eurisc i dati contestati, provvedendo contestualmente a sospendere la visibilità di dette informazioni, e ne deduce la rilevanza ai fini della prova della prima violazione contestata.

Si duole anche della riduzione dei capitoli di prova e lista testi, in relazione al primo episodio.

1.2. Con il secondo motivo, sempre relativo all’episodio del 2007, si denuncia violazione, erronea ed omessa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, comma 9, lamentando che il giudice di primo grado non avrebbe fatto buon uso degli ampi poteri istruttori in materia di ricerca della prova riconosciutigli dalla norma in premessa; assumendo la sostanziale identità degli elementi probatori offerti in relazione ai due episodi, si duole della mancata ammissione – per il primo – delle prove testimoniali articolate, rimarcando di avere reiterato le richieste istruttorie disattese anche nelle note conclusive; si lamenta altresì del fatto che la persona fisica del giudice che aveva assistito all’assunzione delle prove testimoniali non era la stessa che aveva deciso la controversia.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia la falsa applicazione degli artt.2724, 2729, 2732 e 2735 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., in relazione alla statuizione con cui è stata negata la sussistenza del primo episodio di trattamento illegittimo dei dati personali e si duole della mancata ammissione di una testimonianza e della mancata valutazione della nota del 28/3/2008 con cui la FCE aveva riscontrato la diffida con cui la società la accusava della segnalazione negativa, nota alla quale la società assume che dove attribuirsi il valore di “confessione stragiudiziale”.

1.4. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per evidente connessione, risultano per un verso infondati e per l’altro inammissibili e vanno respinti.

Innanzi tutto non può condividersi l’assunto della ricorrente secondo il quale per i due episodi in causa il compendio probatorio offerto era il medesimo, atteso che per il secondo ricorreva la “non contestazione” del fatto, come accertato dal Tribunale.

Va, quindi, osservato che mentre il primo motivo denunzia espressamente in rubrica il vizio di motivazione, il secondo, pur formulato come violazione di legge, implicitamente lo evoca sui medesimi temi.

In particolare con riferimento ai primi due motivi, va considerato che non viene dedotto alcun fatto decisivo rispetto all’accertata assenza di prova in merito all’esistenza di una iscrizione al CRIF di dati negativi sulla morosità e, quindi, di un illecito rilevante ai fini delle regole privacy.

Invero, lo scambio epistolare intercorso tra la società ed il CRIF nell’immediatezza dei fatti relativi al primo episodio, è stato preso in considerazione dal Tribunale che ha rimarcato come dallo stesso non si evincesse, nemmeno in via presuntiva, la ricorrenza di iscrizioni negative quanto al presunto inadempimento, sulla scorta dell’analisi dello specifico contenuto delle missive, di guisa che non si ravvisa affatto un omesso esame di fatti ed il motivo si palesa come una richiesta di rivalutazione delle emergenze istruttorie inammissibile in sede di legittimità, attesa la puntuale disamina delle stesse compiuta dal giudice del merito. Non risulta inoltre illustrata la decisività delle deposizioni testimoniali non ammesse su questo specifico profili, con evidente carenza di specificità.

1.5. Risulta infine inammissibile il terzo motivo laddove introduce il tema della confessione stragiudiziale, attesa la evidente carenza di autosufficienza in merito al contenuto – non trascritto – dei documenti in ragione dei quali si prospetta la doglianza (diffida della società e risposta della FCE Bank).

2.1. Con il quarto motivo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e per la valutazione della domanda risarcitoria, nonchè la omessa e falsa applicazione dell’art. 2050 c.c. e del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, in tema di riconoscimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla ricorrente.

La ricorrente sostiene che il Tribunale ha erroneamente ritenuto indimostrata la sussistenza del danno patrimoniale ed ha applicato falsamente le disposizioni in materia di distribuzione dell’onere della prova ex art. 2050 c.c., in relazione alle contestazioni mosse all’operato della FCE Bank.

Lamenta inoltre la errata quantificazione del danno non patrimoniale.

2.2. Osserva la Corte che il Tribunale non si è affatto pronunciato sulla domanda risarcitoria afferente al primo episodio, avendolo ritenuto non provato, di guisa che il motivo, in parte qua, è inammissibile perchè non vi è alcun accertamento della relativa condotta lesiva.

2.3. Il motivo quanto alla doglianza proposta avverso il mancato riconoscimento del danno patrimoniale è infondato.

Va ricordato, quanto all’onere della prova, che, alla stregua del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’ art. 2050 c.c., su colui che agisce per l’abusiva utilizzazione dei suoi dati personali incombe soltanto – seppure in via preliminare rispetto alla prova, da parte del danneggiante della mancanza di colpa – l’onere di provare il danno subito, siccome riferibile al trattamento del suo dato personale (Cass. 23/05/2016, n. 10638), tuttavia il danno, ed in particolare la “perdita”, deve essere sempre oggetto di proporzionata ed adeguata deduzione da parte dell’interessato.

Come chiarito da questa Corte “In caso di illecito trattamento dei dati personali per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi, il danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, non può essere considerato “in re ipsa” per il fatto stesso dello svolgimento dell’attività pericolosa. Anche nel quadro di applicazione dell’art. 2050 c.c., il danno, e in particolare la “perdita”, deve essere sempre allegato e provato da parte dell’interessato.” (Cass. 25/1/2017, n. 1931) ed inoltre “In caso di illecito trattamento dei dati personali, nella fattispecie per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi,… il pregiudizio non patrimoniale non può mai essere “in re ipsa”, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dall’onere della prova più favorevole, come descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonchè dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità” (Cass. 5/3/2015, n. 4443).

Ciò posto – puntualizzando che non vi è stata alcun alleggerimento, da parte del Tribunale, dell’onere probatorio a carico della FCE Bank nel rispetto del dettato dell’art. 2050 c.c., ed atteso che la prova del pregiudizio in concreto sofferto grava esclusivamente su colui che ne chiede il ristoro – va osservato che nel caso in esame ciò che la società risulta aver dedotto, dalla lettura del ricorso e della sentenza del Tribunale, è la compromissione dell’accesso al credito, con conseguente impossibilità di dare seguito ai propri progetti di espansione e consolidamento aziendale.

Orbene a fronte di tale assunto, il Tribunale ha ritenuto che non fosse stata data la prova del pregiudizio patrimoniale subito, anche osservando che nemmeno in sede di libero interrogatorio del legale rappresentante erano emersi elementi a conforto.

La ricorrente sostiene che le dichiarazioni del legale rappresentante sarebbero state malamente interpretate. Orbene la doglianza si limita a proporre una diversa interpretazioni delle dichiarazioni, senza trascriverle nei passaggi essenziali, mancando quindi di assolvere all’onere di autosufficienza, con evidenti ricadute di inammissibilità.

Va tuttavia rimarcato che la censura non coglie nel segno, soprattutto perchè la statuizione impugnata si fonda sulla rilevata completa carenza probatoria circa la ricorrenza del danno emergente e del lucro cessante, a conforto della quale sono state valutate anche le dichiarazioni del legale rappresentante – ma non solo – con l’effetto che, ove anche avessero avuto il contenuto propugnato dalla ricorrente, le stesse sarebbero state inidonee – in quanto provenienti dalla stessa parte – ad integrare un elemento di prova in assenza di ulteriori ed autonomi elementi probatori anche indiziari- che non sono stati evidenziati nemmeno nel motivo di ricorso – di guisa che sotto tale aspetto la censura è anche priva di decisività.

La ricorrente sostiene che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto, sulla scorta delle dichiarazioni del legale rappresentante, che la società aveva avuto accesso al credito in quel periodo, ma anche tale passaggio motivazionale è privo di decisività, rispetto alla autonoma e principale ratio decidendi costituita dall’assenza di prove sul pregiudizio patrimoniale subito: anche accedendo alla tesi della ricorrente, secondo la quale il legale rapp. p.t. non avrebbe affermato ciò, non è dato comprendere alla stregua del motivo, attesa la netta e decisa statuizione di mancanza di prova del Tribunale, come potrebbe dirsi raggiunta la prova circa la sussistenza del danno patrimoniale, prova positiva che incombeva alla ricorrente.

Va da sè che del tutto plausibilmente il giudice di merito ha giudicato non provato il danno sotto tale profilo lamentato.

2.4. Il motivo è manifestamente infondato anche per quanto attiene alla liquidazione del danno non patrimoniale, riconosciuto dal Tribunale.

Il giudice di merito ha fatto concreta applicazione dei condivisibili principio secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del codice della privacy, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicchè determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del medesimo codice ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva; il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito (Cass. 15/7/2014, n. 16133) che, nella specie, lo ha espresso con motivazione adeguata, mentre la censura sostanzialmente sollecita un riesame delle stesse emergenze istruttorie già considerate dal giudice del merito (Cass. 08/02/2017, n. 3311).

3. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso;

Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00, per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge;

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2019


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 16/01/2019) 05/03/2019, n. 6417

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3621-2018 proposto da:

ADER – AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ DI COSTRUZIONI NUOVO SVILUPPO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI, 17, presso lo studio dell’avvocato ORESTE CANTILLO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5143/9/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA SEZIONE DISTACCATA di SALERNO, depositata l’08/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 16/01/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO DELLI PRISCOLI.

Svolgimento del processo
Rilevato che la società contribuente impugnava l’atto di pignoramento presso terzi notificatole tramite posta elettronica certificata (PEC) in data 4 maggio 2015;

che la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva nel merito il ricorso;

che la Commissione Tributaria Regionale respingeva l’appello ritenendo non valida la notifica effettuata mediante PEC contenente il file della cartella con estensione “.pdf” anzichè con estensione “.p7m” atteso che soltanto quest’ultima estensione garantisce l’integrità e l’immodificabilità del documento informatico e, quanto alla firma digitale, l’identificabilità del suo autore e conseguentemente la paternità dell’atto;

che l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso affidato a tre motivi mentre la società contribuente si costituiva con controricorso chiedendone il rigetto.

Motivi della decisione
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26, perchè l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non determina l’invalidità dell’atto, la cui esistenza dipende dalla circostanza che sia riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo e perchè un atto può essere notificato anche tramite PEC, a nulla rilevando se il file della cartella abbia estensione “.pdf” anzichè “.p7m”;

considerato che con il secondo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’Agenzia delle entrate denuncia nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19, 21 e 53, in quanto la domanda con cui la società chiedeva dichiararsi la nullità della cartella a causa della natura del file allegato è stata formulata per la prima volta nelle controdeduzioni in appello;

considerato che con il terzo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’Agenzia delle entrate denuncia nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19, 21 e 53, in quanto in ogni caso dalla nullità della notifica discenderebbe al più l’illegittimità del pignoramento ma non anche della cartella;

ritenuto che il primo motivo è fondato perchè:

per quanto riguarda la riferibilità della cartella alla pubblica amministrazione è stato statuito che l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (Cass. 5 dicembre 2014 n. 25773): tale principio è stato ribadito da questa Corte la quale ha affermato che in tema di requisiti formali del ruolo d’imposta, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, non prevede alcuna sanzione per l’ipotesi della sua omessa sottoscrizione, sicchè non può che operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana, con onere della prova contraria a carico del contribuente, che non può limitarsi ad una generica contestazione dell’esistenza del potere o della provenienza dell’atto, ma deve allegare elementi specifici e concreti a sostegno delle sue deduzioni. D’altronde, la natura vincolata del ruolo, che non presenta in fase di formazione e redazione margini di discrezionalità amministrativa, comporta l’applicazione del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27561);

per quanto riguarda invece la possibilità di notificare un atto mediante PEC è stato affermato dalle sezioni unite sia che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. 28 settembre 2018 n. 23620) sia che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nel caso affrontato dalla Cassazione il file era in “estensione.doc”, anzichè “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. 18 aprile 2016, n. 7665), sia ancora che in tema di processo telematico, a norma del D. Dirig. 16 aprile 2014, art. 12, di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 34 – Ministero della Giustizia -, in conformità agli standard previsti dal Reg. UE n. 910 del 2014, ed alla relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015, le firme digitali di tipo “CAdES” e di tipo “PAdES” sono entrambe ammesse e equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “.p7m” e “.pdf”. Tale principio di equivalenza si applica anche alla validità ed efficacia della firma per autentica della procura speciale richiesta per il giudizio in cassazione, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3, del D.M. n. 44 del 2011, art. 18, comma 5 e del cit. D. Dirig., art. 19 bis, commi 2 e 4 (Cass. 27 aprile 2018, n. 10266), dovendosi altresì tenere conto che è stato affermato che la natura sostanziale e non processuale della cartella di pagamento non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicchè il rinvio disposto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, (in tema di notifica della cartella di pagamento) al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di nullità della notificazione della cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c. (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27561);

ritenuto pertanto che, una volta ritenuta la fondatezza del primo motivo di ricorso e ritenuti assorbiti i restanti motivi, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2019


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 24-04-2018) 28-12-2018, n. 33563

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 8430/2011 R.G. proposto da:

P.G., rappresentato e difeso dall’avv. Bartolomeo Malfatto, con domicilio eletto presso il suo studio in Assisi, S. Maria degli Angeli, via Raffaello, int. 15;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA POLIS S.P.A., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avv. Arturo Maresca, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Faravelli, n. 22;

– controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 85/33/10 della Commissione Tributaria regionale del Veneto depositata il 5 agosto 2010;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24/4/2018 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. Del Core Sergio, che ha concluso chiedendo il rigetto del quarto motivo e l’accoglimento dei restanti motivi ed il rigetto del ricorso incidentale; in subordine il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Gaetano Giarri, per delega dell’avv. Arturo Maresca.

Svolgimento del processo
P.G. impugnava con ricorso il ruolo e la cartella di pagamento emessa dal Concessionario ai fini Iva e Irap per l’anno d’imposta 2003, eccependo il difetto della notifica del ruolo perchè avvenuta tramite la notifica della cartella di pagamento, la inesistenza della notifica della cartella, in quanto il plico consegnato, spedito a mezzo raccomandata, conteneva solo le prime due pagine della cartella, la nullità della cartella per omessa sottoscrizione, nonchè il difetto di motivazione della cartella di pagamento.

La Commissione Tributaria provinciale, rilevando che il ricorso non era stato notificato all’Ente impositore, dichiarava inammississibile il ricorso in ordine ai vizi concernenti la iscrizione a ruolo e lo respingeva per il resto.

Avverso la suddetta decisione il contribuente proponeva appello, che veniva respinto dalla Commissione Tributaria regionale, la quale osservava preliminarmente che l’omessa notifica dell’atto di appello all’Ente Concessionario, che aveva proceduto alla formazione del ruolo, determinava la inammissibilità della impugnazione per quanto riguardava gli eccepiti vizi del ruolo; aggiungeva che nessun rilievo poteva essere attribuito alla dedotta incompletezza della notifica della cartella di pagamento, poichè l’assunto non era stato provato dal contribuente, e, quanto alla censura della mancata sottoscrizione della cartella, che la sottoscrizione dell’atto amministrativo costituiva elemento essenziale nei soli casi espressamente previsti dalla legge.

Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo ad otto motivi.

L’Ente Concessionario Equitalia Polis s.p.a resiste con controricorso e propone ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

Motivi della decisione
1. Con il ricorso incidentale, che, per la questione proposta, deve essere esaminato con priorità, il Concessionario deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che i giudici di secondo grado avrebbero omesso di pronunciarsi sulla richiesta, avanzata sia in primo che in secondo grado, di chiamata in giudizio dell’Agenzia delle Entrate, formulata ai sensi del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 39, nelle controdeduzioni.

1.1. La censura è inammissibile.

Va, in primo luogo, rilevato che il motivo difetta di autosufficienza, in quanto la controricorrente non ha indicato in modo puntuale, nè tanto meno ha trascritto nel ricorso, lo scritto difensivo nel quale avrebbe avanzato la richiesta di chiamata in causa, limitandosi ad affermare che la istanza sarebbe stata formulata “nelle controdeduzioni avanti la Commissione tributaria provinciale e regionale”, impedendo in tal modo a questa Corte di poter esaminare e valutare la doglianza.

Per altro verso, non può ravvisarsi il supposto vizio di omessa motivazione, atteso che il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale, quale, nella specie, quella della chiamata in causa dell’ente creditore, non è suscettibile di dar luogo ad un vizio motivazionale.

In ogni caso, va ricordato che nella fattispecie in esame deve escludersi la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra l’Ente creditore ed il Concessionario del servizio di riscossione e si pone piuttosto una questione di legittimazione, la cui soluzione non impone la partecipazione al giudizio dell’Ente creditore; ne consegue che la chiamata in causa dell’Ente creditore, prevista dal cit. art. 39, deve essere ricondotta all’art. 106 c.p.c., ed è come tale rimessa all’esclusiva valutazione discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio non è censurabile, nè sindacabile in sede di impugnazione (Cass. n. 9016 del 5/5/2016; n. 11616 del 11/5/2017).

Il ricorso incidentale deve, quindi, essere respinto.

2. Con il primo motivo del ricorso principale, il contribuente censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 laddove il giudice di appello ha affermato che “l’omessa notifica dell’appello all’Ufficio impositore che (ha) proceduto alla formazione del ruolo, determina l’inammissibilità dell’appello per quanto riguarda gli eccepiti vizi del ruolo”, facendo rilevare che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, impone la notifica dell’appello solo nei confronti delle parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado e che, secondo consolidato orientamento di questa Corte (Cass. Sez. U., n. 22939 del 2007), non ricorrendo una ipotesi di litisconsorzio necessario tra l’esattore e l’ente impositore, spetta al Concessionario, destinatario della impugnazione con la quale si facciano valere vizi non inerenti la regolarità o la validità degli atti esecutivi, chiedere la chiamata in causa dell’Ente impositore del D.Lgs. n. 112 del 1999, ex art. 39, se non vuole rispondere dell’esito della lite.

2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c., ponendo in rilievo che la cartella di pagamento, riproducendo parzialmente il ruolo, non prova la sottoscrizione prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, presupposto necessario per la validità ed efficacia del titolo per procedere in executivis.

3. Con il terzo motivo ha parimenti denunciato la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sottolineando che in appello aveva proposto motivo di gravame avverso la pronuncia di inammissibilità del ricorso in ordine alle eccezioni riguardanti la validità ed efficacia del ruolo, facendo rilevare che, secondo i principi espressi dalla Corte di Cassazione, l’avere individuato il contribuente l’Ente impositore o il Concessionario quale soggetto passivo nei cui confronti dirigere la propria impugnazione non determinava la inammissibilità della domanda, ma poteva comportare la chiamata in causa dell’Ente creditore, nell’ipotesi di azione svolta nei confronti del Concessionario, onere che gravava sullo stesso Concessionario.

Lamenta, quindi, che il giudice di appello ha omesso di pronunciarsi sul motivo di appello formulato.

4. Il primo motivo dedotto dal contribuente è fondato, con assorbimento degli altri due motivi.

4.1. Il D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 39, stabilisce che, nelle cause attinenti alla validità degli atti di riscossione, nel caso di specie il ruolo, di cui il contribuente abbia avuto comunicazione mediante la cartella di pagamento, grava sul Concessionario l’onere di chiamare in causa l’Ente impositore in presenza di contestazioni diverse dalla mera regolarità formale della cartella ed attinenti al ruolo o comunque alla pretesa impositiva, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile nella specie una ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. U., n. 16412 del 25/7/2007; Cass., ord. n. 21220 del 28/11/2012; n. 14486 del 15/7/2016).

Ne consegue l’erroneità della decisione della Commissione tributaria regionale che ha ritenuto inammissibile la proposizione, da parte del contribuente, delle eccezioni di nullità del ruolo nei confronti del Concessionario che non aveva chiamato in causa l’Ente impositore.

5. Con il quarto motivo censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 2697 c.c., nella parte in cui la Commissione regionale ha ritenuto che era onere del contribuente provare che la cartella di pagamento notificata conteneva solo le prime due pagine delle otto componenti l’atto, assumendo che il giudice di appello non avrebbe fatto corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio.

5.1. Il motivo è infondato.

Sul tema si registrano, invero, due diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità, ma questo Collegio intende aderire all’orientamento che risulta prevalente, in base al quale, ove il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della notificazione è sufficiente – anche alla luce della disciplina dettata dal D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39 – che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento a carico dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; ai predetti fini non si ritiene invece necessario che l’agente della riscossione dia la prova anche del contenuto del plico spedito con lettera raccomandata, dal momento che l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 5397 del 18/3/2016; n. 15315 del 4/7/2014; n. 9111 del 6/6/12; n. 20027 del 30/9/2011).

5.2. In altri termini, la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere l’invio e la conoscenza dell’atto, mentre l’onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l’atto spetta non già al mittente (in tal senso, Cass. ord. n. 9533 del 12/5/2015; n. 2625 del 11/2/2015; n. 18252 del 30/7/2013; n. 24031 del 10/11/2006; n. 3562 del 22/2/2005), bensì al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. 22 maggio 2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322 del 14/11/2014; n. 15315 del 4/7/2014; n. 23920 del 22/10/13; n. 16155 del 8/7/2010; n. 17417 del 8/8/2007; n. 20144 del 18/10/2005; n. 15802 del 28/7/2005; n. 22133 del 24/11/2004; n. 771 del 20/1/2004; n. 11528 del 25/7/2003; n. 4878/1992; 4083/1978; cfr. Cass., ord. n. 20786 del 2/10/2014, per la quale tale presunzione non opererebbe con inversione dell’onere della prova – ove il mittente affermasse di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contestasse tale circostanza).

5.3. L’orientamento prevalente risulta peraltro conforme al principio generale di c.d. “vicinanza della prova”, poichè la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato) che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto.

Merita dunque di essere confermato il principio per cui, in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26 (così come, più in generale, in caso di spedizione di plico a mezzo raccomandata), la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta dal notificante mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, poichè, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui all’art. 2729 c.c.) della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione, come nel caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un atto diverso da quello che si assume spedito).

Ne consegue che, nel caso di specie, non avendo il contribuente fornito la prova dell’asserita assenza, all’interno della busta notificatagli, di parte delle pagine che componevano la cartella di pagamento impugnata, detta notifica deve ritenersi validamente perfezionata.

6. Con il quinto motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c., per avere i giudici di appello omesso di pronunciarsi sulla eccepita nullità della notifica del ruolo, limitandosi a dichiarare la inammissibilità dell’appello.

7. Con il sesto motivo il contribuente lamenta che il giudice di appello, in violazione delle medesime disposizioni di legge richiamate con il quinto motivo, non si è pronunciato in merito alla denunciata violazione dell’art. 24 Cost., nonostante egli avesse fatto presente che la notifica del solo contenuto della cartella di pagamento, non consentendo di conoscere il ruolo, gli impediva una verifica piena della sua legittimità formale e sostanziale.

8. Con il settimo motivo il ricorrente deduce che la Commissione regionale neppure si è pronunciata in merito alla eccezione di violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 4, concernente la mancanza di sottoscrizione del ruolo.

8.1. L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento del quinto, del sesto e del settimo motivo, trattandosi di doglianze volte a far valere vizi del ruolo che, per le ragioni già esposte con riguardo al primo motivo, possono essere proposte nei confronti del Concessionario che non ha chiamato in causa l’Ente impositore.

9. Con l’ottavo motivo il contribuente censura ulteriormente la sentenza per omessa pronuncia in ordine al motivo di appello con cui aveva eccepito, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, il difetto di motivazione della cartella di pagamento perchè non indicava la data di consegna del ruolo al concessionario e non consentiva, conseguentemente, di controllare la richiesta di pagamento degli interessi dovuti D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 20.

9.1. Il motivo è infondato.

La L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, il quale prevede che “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione…”, si riferisce esclusivamente agli atti dell’Amministrazione finanziaria e non agli atti del Concessionario, che, ai sensi del cit. art. 7, comma 2, devono tassativamente indicare gli elementi specifici previsti dal medesimo comma, lett. a), b) e c).

In conclusione, deve essere rigettato il ricorso incidentale, deve essere accolto il primo motivo del ricorso principale, assorbiti il secondo, il terzo, il quinto, il sesto ed il settimo motivo, e devono essere rigettati i(quarto e l’ottavo motivo del ricorso principale; la sentenza va cassata con rinvio alla Commissione tributaria del Veneto, in diversa composizione, per il riesame, oltre che per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta i(ricorso incidentale, accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il secondo, il terzo, il quinto, il sesto ed il settimo motivo e rigetta il quarto e l’ottavo motivo del ricorso principale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria del Veneto, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2018


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 26-04-2018) 29-11-2018, n. 30927

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21398/2016 proposto da:

R.E., rappresentato e difeso da se medesimo;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO “(OMISSIS)”, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato difeso dall’avvocato RAFFAELE SALZANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 237/2016 del TRIBUNALE di NAPOLI NORD, depositata il 24/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/04/2018 dal Consigliere ROSSANA GIANNACCARI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO CELESTE che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
R.E. proponeva opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al Giudice di Pace di Casoria avente ad oggetto il pagamento di oneri condominiali, contestando la sua qualità di condomino per non essere proprietario di una porzione dell’area facente parte del “(OMISSIS)” ma di esercitare su tale striscia di terreno una servitù di passaggio.

Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione.

Proponeva appello innanzi al neo costituito Tribunale di Napoli Nord; si costituiva il Condominio, resistendo al gravame.

Il Tribunale di Napoli Nord, con sentenza del 3.2.2016, dichiarava inammissibile l’impugnazione.

Rilevava il tribunale che il R. aveva erroneamente notificato l’atto di appello al condominio personalmente ad al suo difensore, Avv. Ricca, mediante deposito in cancelleria ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82. Osservava che il decreto ingiuntivo era stato emesso dal Giudice di Pace di Casoria in data 8.1.2010, e nello stesso anno era stata proposta l’opposizione, che si era conclusa con sentenza del 2.12.2013. A quella data era già stato istituito il Tribunale di Napoli Nord in virtù del D.Lgs. n. 155 del 2012, che aveva soppresso la Sezione Distaccata di Casoria del Tribunale di Napoli. Secondo il giudice d’appello, poichè al momento dell’instaurazione del giudizio il difensore del Condominio aveva sede a Napoli, nella medesima circoscrizione in cui si era svolto il giudizio di primo grado, in assenza di norme transitorie, doveva applicarsi la normativa che regolava il giudizio di primo grado. Di conseguenza l’atto d’appello doveva essere notificato presso lo studio dell’Avv. Ricca e non attraverso il deposito in cancelleria.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.E. sulla base di due motivi, cui ha resistito con controricorso il Condominio (OMISSIS).

Disposta l’assegnazione alla Sesta Sezione Civile di questa Corte, il relatore ha formulato proposta di inammissibilità del ricorso per acquiescenza ex art. 329 c.p.c..

Il ricorrente ha depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c..

La Sesta Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria del 26.10-22.12.2017, ha ritenuto non sussistenti le condizioni di cui all’art. 375 c.p.c., ed ha rimesso la causa alla pubblica udienza.

Le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di nullità del controricorso, che è stata avanzata dal ricorrente sotto diversi profili.

E’ stato, in primo luogo eccepita l’inesistenza e/o la nullità del controricorso, della relata di notifica e dell’attestazione di conformità degli atti notificati in forma telematica agli originali, per violazione dell’art. 3 bis comma 1 e 2 L. 53/94; deduce il ricorrente che i file pdf sarebbero firmati in formato “pades” e con “cades” e privi dell’estensione “p7m”, come previsto dalla legge; mancherebbe la firma digitale dell’attestazione di conformità con conseguente nullità della procura, insuscettibile di sanatoria ex art. 156 c.p.c..

Il motivo non è fondato.

La questione sollevata dal ricorrente è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria della Sesta Sezioni Civile del 31.8.2017 n.20672, con cui si chiedeva al Supremo collegio di stabilire se la firma CADES del documento informatico, contenente anche la procura speciale indispensabile per la ritualità del ricorso o del controricorso in sede di legittimità, fosse una prescrizione sulla forma dell’atto indispensabile al raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite riguardava un controricorso recante il medesimo caso posto all’esame del collegio, ovvero di una procura speciale e relazione di notifica firmati digitalmente e notificati mediante un rapporto PEC contenente gli estremi identificativi di tre allegati con suffisso PADES, vale a dire sottoscritti con “firma PDF”. Secondo il Collegio rimettente, tale modalità dovrebbe ritenersi invalida, trattandosi di un documento, non creato interamente e ab origine su supporto informatico, ma articolato anche su di una parte analogica.

Inoltre, tali prescrizioni, secondo il collegio remittente, andavano esaminate considerata le peculiarità del giudizio di cassazione, che è ancora un processo essenzialmente analogico, con la sola eccezione delle comunicazioni e notificazioni da parte delle cancellerie delle sezioni civili, secondo quanto previsto dal D.M. 19 gennaio 2016, emesso ai sensi del D.L. 18 ottobre 2012, art. 16, comma 10. Ciò, comporta la necessità di estrarre copie analogiche degli atti digitali, riconoscendo all’avvocato il potere di attestare la conformità agli originali digitali delle copie del messaggio di posta elettronica certificata inviato all’avvocato di controparte, delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna, nonchè degli atti allegati, compresivi dalla relazione di notificazione. La risposta delle Sezioni Unite si snoda attraverso un’attenta e dettagliata ricostruzione della normativa Europea, con il recente Regolamento 910/2014, e nazionale, che prende le mosse sin dalla delibera CNIPA/4/2005, e che conduce all’affermazione del principio di diritto, secondo cui la struttura del documento firmato può essere indifferentemente PAdES o CAdES, tenuto conto che il certificato di firma, inserito nella busta crittografica, è presente in entrambi gli standards, parimenti abilitati.

Pertanto, è escluso che le disposizioni vigenti comportino in via esclusiva l’uso della firma digitale in formato CAdES, laddove, al contrario il formato PAdES è da ritenersi equivalente ed egualmente ammesso dall’ordinamento, sia pure con differente estensione.

La firma digitale in formato PAdES, più nota come “firma PDF”, è un file con normale estensione “.pdf”, leggibile con i comuni readers disponibili per questo formato. Vi è quindi, secondo le norme Euro unitarie, la piena equivalenza delle firme digitali nei formati CAdES e PAdES. Si deve escludere che le disposizioni tecniche tuttora vigenti, anche a livello di diritto dell’UE, comportino in via esclusiva l’uso della firma digitale in formato CAdES, rispetto alla firma digitale in formato PAdES. La Corte ha, inoltre, osservato, che non vi sono elementi obiettivi per poter ritenere che solo la firma in formato CAdES offra garanzie di autenticità, tanto che nel processo amministrativo telematico, per ragioni legate alla piattaforma interna, è stato adottato il solo standard PAdES. Ne consegue la piena validità dell’atto e, conseguentemente, della procura alle liti, controfirmate dal difensore con firma digitale in formato PAdES, con la consueta estensione “.pdf”.

Il secondo profilo di inammissibilità del controricorso riguarda la sua notifica a mezzo pec per violazione della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, comma 4, e art. 11, poichè non sarebbe indicato nell’oggetto” notifica ai sensi della L. n. 53 del 1994″.

Anche tale eccezione è infondata trattandosi di mera irregolarità; la notifica è avvenuta, indipendentemente dalla dicitura “notifica controricorso in cassazione”, ai sensi della L. n. 53 del 1994; nella certificazione della conformità delle copie all’originale, il difensore ha fatto esplicito riferimento alla “relazione di notifica a mezzo di posta elettronica certificata L. 21 gennaio 1994, n. 53, ex art. 3 bis “.

L’ultimo profilo di inammissibilità del controricorso attiene all’omessa indicazione dell’elenco dal quale è estratto l’indirizzo di posta elettronica ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, comma 1, lett. f, e art. 11.

Il motivo è infondato considerando che l’atto ha raggiunto lo scopo cui era destinato, essendo stato notificato presso l’indirizzo di posta elettronica del ricorrente, che ha replicato al controricorso.

Va quindi esaminata l’eccezione di inammissibilità proposta dal controricorrente per acquiescenza alla sentenza impugnata.

L’eccezione di inammissibilità è fondata.

Il R. ha proposto, prima del ricorso per cassazione un giudizio ex art. 702 bis c.p.c., innanzi al Tribunale di Napoli Nord, avente ad oggetto l’accertamento ed il riconoscimento della servitù di passaggio e la restituzione di somme incassate dal condominio ex art. 2041 c.c..

Nel ricorso ex art. 702 bis c.p.c., il R., difensore di se medesimo, ammette di introdurre gli stessi temi sottesi all’opposizione a decreto ingiuntivo – la contestazione della sua qualità di condomino – e di aver ottemperato alla sentenza, anche in previsione dell’introduzione di autonomo giudizio, fondato sullo stesso petitum ma su una diversa causa petendi.

L’azione di indebito arricchimento, proposta dal R. con il ricorso ex art. 702 bis c.p.c., ha, infatti, carattere residuale.

La proposizione di un’autonoma azione giudiziaria, peraltro antecedente alla proposizione del ricorso per cassazione, rientra nelle previsioni dell’art. 329 c.p.c. quale atto incompatibile con la volontà di avvalersi delle impugnazioni.

L’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione consiste nell’accettazione della sentenza e cioè nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare. Essa può avvenire sia in forma espressa che tacita, ovvero attraverso un comportamento dal quale sia possibile desumere in maniera precisa e univoca il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè in presenza di atti assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi della impugnazione.

Nella specie, l’acquiescienza è avvenuta attraverso l’espresso adeguamento alle statuizione della sentenza impugnata e l’instaurazione di un autonomo giudizio avente la medesima pretesa.

Il ricorso va, pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di lite che liquida in Euro 1500,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge nella misura del 15%, iva e cap come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 26 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018