Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-10-2019) 10-01-2020, n. 299

“In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla L. n. 124 del 2017”.

“La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario, eseguita dall’operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, perché sprovvisto di titolo abilitativo”. …

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di sez. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di sez. –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14331-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliatosi in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

INDUSTRIE RIUNITE società consortile a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, R.G., elettivamente domiciliatisi in (OMISSIS), presso ANTONIA DE ANGELIS, rappresentati e difesi dall’avvocato MAURIZIO COPPA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 135/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della Campania, depositata il 18/04/2012;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2019 dal consigliere ANGELINA-MARIA PERRINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per affermarsi che: “la notifica eseguita da servizi postali gestiti da licenziatari privati è affetta da nullità assoluta ex art. 156 c.p.c., comma 3”;

udita l’Avvocato Alessia Urbani Neri per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Svolgimento del processo
La società consortile a r.l. Industrie Riunite e R.G. impugnarono con ricorso notificato nel 2008 a mezzo di servizio postale privato l’avviso di liquidazione col quale, in relazione all’anno d’imposta 2007, l’amministrazione finanziaria aveva rettificato ai fini dell’imposta di registro il valore dell’immobile in (OMISSIS) compravenduto con atto notarile del 29 gennaio 2007 e ne ottennero l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta.

Quella regionale della Campania ha respinto l’appello dell’Agenzia delle entrate perchè ha ritenuto tardiva l’eccezione d’inammissibilità per tardività del ricorso introduttivo, e comunque ha considerato sanata la nullità della notificazione di quel ricorso, per effetto della costituzione in primo grado dell’Agenzia; nel merito, ha affermato la nullità dell’avviso, perchè dotato di motivazione apparente.

Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia per ottenerne la cassazione, che affida a un unico motivo, cui reagiscono con controricorso la società e R.G..

La sezione tributaria di questa Corte ha ravvisato una questione di massima di particolare importanza in quella concernente il regime della notificazione del ricorso introduttivo, avvenuta a mezzo di servizio postale privato, e ha prospettato al Primo Presidente l’opportunità di devolverla alla cognizione di queste sezioni unite.

Ne è seguita la fissazione dell’udienza odierna, in vista della quale l’Agenzia ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1.- Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia, nel lamentare la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 20, commi 1 e 2, art. 21, comma 1 e art. 22, comma 2, si duole del rigetto dell’eccezione preliminare d’inammissibilità del ricorso introduttivo dei contribuenti, formulata in sede di appello.

1.1.- L’Agenzia sostiene, a tal fine, che l’eccezione sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e che sia fondata, poichè la propria costituzione in giudizio non poteva aver sanato l’inammissibilità derivante dalla tardiva notificazione del ricorso introduttivo, a essa pervenuto quando il termine perentorio di sessanta giorni previsto per l’impugnazione dell’avviso era ormai decorso.

E sul punto era irrilevante, ad avviso della ricorrente, ai fini della verifica del rispetto di tale termine, la data in cui i contribuenti hanno consegnato l’atto al gestore di posta privata; data che, come affermato dai contribuenti, rientrerebbe entro il sessantesimo giorno dalla notificazione dell’avviso impugnato. Questo perchè l’operatore delle poste private non era legittimato a eseguire la notificazione del ricorso introduttivo e comunque non era abilitato a certificare la tempestività; per cui ininfluente è la consegna a lui del ricorso da notificare.

2.- Il ricorso, diversamente da quanto si sostiene in controricorso, è ammissibile, benchè l’Agenzia non abbia censurato la statuizione di nullità dell’avviso e abbia eccepito l’inammissibilità per tardività del ricorso introduttivo soltanto in appello.

Per un verso, la decadenza del contribuente dal diritto di agire in giudizio, per inosservanza dei termini previsti dalla legge, è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’art. 2969 c.c., poichè si tratta di materia sottratta alla disponibilità delle parti (Cass. 13 settembre 2013, n. 20978): sicchè è ininfluente la scelta processuale dell’Agenzia di eccepirla soltanto in appello.

Per altro verso, la questione dell’inammissibilità del ricorso introduttivo precede nell’ordine l’esame del merito della domanda: per conseguenza l’impugnazione della statuizione di ammissibilità non può che coinvolgere quella di fondatezza, senza necessità di apposito motivo di ricorso che aggredisca la seconda.

3.- Il tema posto col ricorso è direttamente dipendente da quello oggetto dell’ordinanza interlocutoria, che concerne la sorte della notificazione degli atti processuali eseguita a mezzo di posta privata nel regime antecedente all’emanazione del D.Lgs. n. 24 febbraio 2011, n. 58.

E’ difatti la ricostruzione di quella sorte a incidere sulla rilevanza della costituzione in giudizio della controparte, nonchè sugli effetti da essa scaturenti.

4.- La questione è importante, perchè presenta molteplici profili problematici.

Il primo, di minor rilievo, è posto in controricorso, là dove si sostiene che “le notificazioni di atti giudiziari”, contemplate dal D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 4 come modificato dal D.Lgs. n. 31 marzo 2011, n. 58, non si riferiscano ai ricorsi tributari notificati a mezzo posta senza l’ausilio di un ufficiale notificatore: ciò perchè la norma, là dove richiama i “servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni”, riserverebbe in via esclusiva alle Poste italiane i soli servizi concernenti le notificazioni di atti giudiziari eseguiti a norma della L. n. 890 del 1982.

4.1.- L’obiezione si supera agevolmente.

Nel processo tributario le notificazioni sono eseguite, in primo luogo, secondo le norme degli artt. 137 e seguenti c.p.c. (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16, comma 2), tra le quali v’è l’art. 149 c.p.c., che consente la notificazione a mezzo del servizio postale, in base alle regole dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890; in secondo luogo, la notificazione può essere eseguita – oltre che mediante consegna diretta all’impiegato dell’amministrazione finanziaria o dell’ente locale – a mezzo del servizio postale raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3, nel testo applicabile ratione temporis). Qualora la notificazione sia eseguita a mezzo posta, “…il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione nelle forme sopra indicate” (art. 20, comma 2), ossia in quelle richiamate dall’art. 16, commi 2 e 3.

4.2.- Quanto al tenore letterale della norma invocata, il testo del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 applicabile all’epoca dei fatti di causa riservava al fornitore del servizio universale, con ampia dizione, “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.

4.3.- Sul piano logico la tesi proposta dai contribuenti comporterebbe, irragionevolmente, l’assoggettamento a disciplina più rigorosa proprio dell’attività più affidabile gestita da soggetto notificatore abilitato.

4.4.- A ogni modo, la corretta lettura della locuzione “notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni” implica la riserva di tutte le notificazioni concernenti atti giudiziari eseguite a mezzo posta, senza distinzione in base al richiedente (come emerge da Cass., sez. un., 26 marzo 2019, n. 8416, secondo cui la novella introdotta dal D.Lgs. n. 58 del 2011 ha determinato la limitazione della riserva a s.p.a. Poste italiane, per il profilo d’interesse, “alla notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari”).

4.5.- In definitiva, hanno ulteriormente sottolineato queste sezioni unite, facendo leva sulla previsione della Legge Delega 30 dicembre 1991, n. 413, art. 30 di adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile, non v’è alcuna ragione logica e giuridica per distinguere il regime della notificazione diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale (Cass., sez. un., 29 maggio 2017, nn. 13452 e 13453, punto 3.8).

4.6.- Indubbio è, quindi, che le notificazioni dirette a mezzo raccomandata postale dei ricorsi in materia tributaria rientrano nell’ambito della riserva al fornitore del servizio universale contemplata dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4.

5.- La questione, peraltro, eccede i confini del processo tributario e anche quelli del diritto nazionale, in quanto coinvolge i temi unionali della libertà di concorrenza e della graduale eliminazione degli ostacoli frapposti al mercato unico, che hanno trovato un complesso articolato di principi nella direttiva n. 97/67/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997, poi modificata dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 febbraio 2008, progressivamente attuate dal diritto interno.

Il che comporta la necessità di coordinare la giurisprudenza nazionale con quella unionale, di segno prevalente rispetto alla prima.

6.- Il profilo problematico di maggior rilievo concerne, difatti, l’influenza sul regime delle notificazioni dei principi posti dalle direttive in questione.

Non è valso osservare dinanzi alla Corte di giustizia, per escluderne la rilevanza, che la direttiva n. 97/67/CE, la quale non contempla la procedura civile tra le materie enumerate nel proprio campo di applicazione, fissato dall’art. 1, è stata adottata sul fondamento dell’art. 95 TCE (divenuto art. 114 del TFUE), che costituisce la base giuridica per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali destinate ad assicurare il funzionamento del mercato interno, e non già in base all’art. 65 del TCE (divenuto art. 81 del TFUE), base giuridica per l’armonizzazione delle norme di procedura civile.

6.1.- Seguendo quest’impostazione, ha replicato la Corte di giustizia (con sentenza 27 marzo 2019, causa C-545/17, Pawlak, punto 30), non si riuscirebbe a scongiurare gli ostacoli posti dalla disciplina nazionale del processo civile al percorso di apertura alla concorrenza nel settore in esame.

7.- Il percorso in questione, va detto, non è stato di segno univoco e la vicenda in esame si colloca quando esso non era ancora completo: la notificazione della quale si discute, risalente al 2008, si situa prima dell’adozione del D.Lgs. n. 58 del 2011, ma dopo la pubblicazione della direttiva n. 2008/6/CE. 7.1.- La direttiva n. 97/67/CE, pur avviando la graduale liberalizzazione del mercato dei servizi postali, riconosceva agli Stati membri la possibilità di riservare al fornitore o ai fornitori del servizio universale “…la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii di corrispondenza interna” (art. 7); consentiva, per ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, di scegliere “…gli organismi responsabili per il servizio di corrispondenza registrata cui si ricorre nell’ambito di procedure giudiziarie o amministrative conformemente alla legislazione nazionale (…)” (considerando 20); prevedeva, e tuttora prevede, che “Le disposizioni dell’art. 7 lasciano impregiudicato il diritto degli Stati membri di provvedere… al servizio di invii raccomandati utilizzato nelle procedure amministrative e giudiziarie conformemente alla loro legislazione nazionale” (art. 8).

La riserva era funzionale al mantenimento del servizio universale (art. 7), del quale costituiva il principale canale di funzionamento in condizione di equilibrio finanziario) (considerando 16).

7.2.- Con la direttiva n. 2008/6/CE v’è stata una virata (in parte anticipata dalla direttiva n. 2002/39/CE), poichè il legislatore dell’Unione, mutando prospettiva, ha ritenuto “opportuno porre fine al ricorso al settore riservato e ai diritti speciali come modo per garantire il finanziamento del servizio universale” (considerando 25).

Sicchè, con l’art. 7 della direttiva n. 97/67/CE, radicalmente novellato, il legislatore dell’Unione ha stabilito che “Gli Stati membri non concedono nè mantengono in vigore diritti esclusivi o speciali per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali…”.

La concessione di questi diritti all’operatore designato è quindi scomparsa dal novero delle opzioni esplicitamente autorizzate per il finanziamento del settore universale (lo sottolinea Corte giust. 2 maggio 2019, causa C-259/18, Sociedad Estatal Correos y Telègrafos SA, punto 34).

8.- Il legislatore italiano ha dato attuazione con ritardo alla normativa unionale.

In esecuzione della direttiva n. 97/67/CE il D.Lgs. n. 22 luglio 1999, n. 261 ha riconosciuto come fornitore del servizio universale, nel testo applicabile all’epoca dei fatti di causa, “l’organismo che gestisce l’intero servizio postale universale su tutto il territorio nazionale” (art. 1, comma 2, lett. o); ha affidato il servizio universale alla società Poste italiane per un periodo comunque non superiore a quindici anni dalla data di entrata in vigore del decreto (art. 23, comma 2); ha ammesso la possibilità di riservare al fornitore del servizio universale “…la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii di corrispondenza interna e transfrontaliera, anche tramite consegna espressa” (art. 4, comma 1), indicandone limiti di peso e prezzo e ha previsto che “Indipendentemente dai limiti di prezzo e di peso, sono compresi nella riserva di cui al comma 1 gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie…” (art. 4, comma 5).

La riserva è espressamente volta al “mantenimento” del fornitore del servizio universale, ossia a finanziarlo; tanto che il fondo di compensazione degli oneri del servizio universale istituito dall’art. 10 è “…alimentato nel caso e nella misura in cui i servizi riservati non procurano al fornitore del predetto servizio entrate sufficienti a garantire l’adempimento degli obblighi gravanti sul fornitore stesso”.

8.1.- In seguito, nel dettare i principi e i criteri generali per il recepimento della direttiva n. 2008/6/CE, il legislatore delegante ha stabilito che, nel contesto di piena apertura al mercato, “…a far data dal 31 dicembre 2010 non siano concessi nè mantenuti in vigore diritti esclusivi o speciali per l’esercizio e la fornitura di servizi postali” (art. 37, comma 2, lett. a), della Legge delega 4 giugno 2010, n. 96, pur facendo salvo l’art. 8 della direttiva n. 97/67).

8.2.- Ma il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, comma 1, come novellato dal D.Lgs. n. 58 del 2011, ha stabilito che per esigenze di ordine pubblico fossero riservati in via esclusiva al fornitore del servizio universale, ossia a Poste italiane (alle quali il servizio è stato nuovamente affidato per quindici anni a decorrere dal 30 aprile 2011, giusta il D.Lgs. n. 58 del 2011, art. 1, comma 18), tra l’altro, i servizi concernenti le notificazioni a mezzo posta di atti giudiziari.

8.3.- Soltanto la L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 57, ha comportato, per i profili d’interesse, l’abrogazione del suddetto art. 4 a decorrere dal 10 settembre 2017, l’aggiunta in fine al comma 2 del successivo art. 5 del seguente periodo:

“Il rilascio della licenza individuale per i servizi riguardanti le notificazioni di atti a mezzo della posta e di comunicazioni a mezzo della posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, nonchè per i servizi riguardanti le notificazioni a mezzo della posta previste dall’art. 201 C.d.S., di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, deve essere subordinato a specifici obblighi del servizio universale con riguardo alla sicurezza, alla qualità, alla continuità, alla disponibilità e all’esecuzione dei servizi medesimi” e, finalmente, la soppressione del riferimento, contenuto nell’art. 10 a proposito del fondo di compensazione, ai servizi in esclusiva di cui all’art. 4.

9.- Nel contesto così delineato la giurisprudenza civile di questa Corte sottolinea che, nel regime precedente alla novella del 2017, l’operatore di posta privata non riveste, a differenza del fornitore del servizio postale universale, la qualità di pubblico ufficiale, sicchè gli atti da lui redatti non godono di alcuna presunzione di veridicità fino a querela di falso (Cass. 30 gennaio 2014, n. 2035).

La necessità di assicurare l’effettività della funzione probatoria dell’invio raccomandato, presidiata dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 1, comma 2, lett. i), rappresenterebbe l’esigenza di ordine pubblico che sostiene la scelta di riservare in via esclusiva al fornitore del servizio universale gli invii raccomandati concernenti le procedure giudiziarie – nonchè pure quelle amministrative, prima del D.Lgs. n. 58 del 2011 – (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26704).

Sicchè si è ritenuta inesistente e non sanabile la notificazione di atti processuali eseguita mediante servizio postale non gestito da Poste italiane, ma da un operatore di posta privata (tra varie, Cass. 31 gennaio 2013, n. 2262; 19 dicembre 2014, n. 29021; 30 settembre 2016, n. 19467; 10 maggio 2017, n. 11473; 5 luglio 2017, n. 16628).

9.1.- Nè alla L. n. 124 del 2017, art. 1 si può riconoscere efficacia retroattiva: non si tratta di norma interpretativa, in quanto l’operatività della disciplina da essa delineata presuppone il rilascio delle nuove licenze individuali relative allo svolgimento dei servizi già oggetto di riserva, sulla base delle regole da predisporsi da parte dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Cass. 11 ottobre 2017, n. 23887; 3 aprile 2018, n. 8089; 31 maggio 2018, n. 13855; 7 settembre 2018, n. 21884).

Sull’irretroattività della novella convengono anche queste sezioni unite (con la sentenza n. 8416/19, cit.), che hanno riconosciuto, in relazione al regime normativo successivo al D.Lgs. n. 58 del 2011, la legittimità della notificazione a mezzo operatore di posta privata dei soli atti di natura amministrativa.

10.- Con l’ordinanza interlocutoria la sezione tributaria esprime perplessità sulla tenuta dell’orientamento concernente la qualificazione d’inesistenza della notificazione di atti giudiziari eseguita da un operatore di poste private in relazione al periodo precedente all’entrata in vigore della novella del 2017.

Anzitutto, rileva che la tesi dell’inesistenza della notificazione dell’atto processuale eseguita a mezzo posta dall’operatore in questione si potrebbe porre in contrasto con la possibilità di assimilare la notificazione in questione a quella eseguita mediante consegna diretta, contemplata dalla combinazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3 e art. 20, comma 1: l’operatore di poste private ben potrebbe essere equiparato a un vettore che provvede alla consegna a mani dell’atto introduttivo della lite, con l’unica particolarità che in tal caso la notificazione si dovrebbe reputare eseguita nella data di ricezione e non già in quella di spedizione dell’atto.

10.1.- La sezione rimettente dubita, inoltre, della coerenza dell’indirizzo con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che ricostruisce la notificazione non come requisito di esistenza e di perfezionamento dell’atto che ne è oggetto, ma come condizione integrativa dell’efficacia di esso: ne conseguirebbe che anche l’inesistenza della notificazione non comporterebbe quella dell’atto che ne è oggetto, quando ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere dell’amministrazione finanziaria, sulla quale grava il relativo onere probatorio (tra varie, Cass. 15 gennaio 2014, n. 654; 24 aprile 2015, n. 8374; 30 gennaio 2018, n. 2203; 24 agosto 2018, n. 21071).

10.2.- E, ancora, la sezione tributaria sospetta della compatibilità, in chiave di sistema, dell’indirizzo in questione col radicale ridimensionamento, dovuto all’elaborazione di queste sezioni unite (Cass., sez. un., 20 luglio 2016, nn. 14916 e 14917, seguite, tra varie, da Cass., sez. un., 13 febbraio 2017, n. 3702, da Cass. 7 giugno 2018, n. 14840 e da Cass. 8 marzo 2019, n. 6743), della categoria dell’inesistenza della notificazione, ridotta, in base al carattere strumentale delle forme degli atti processuali, ai soli casi in cui l’attività svolta sia priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto come notificazione; di modo che ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale ricade nella categoria della nullità.

11.- Qualche spiraglio per una soluzione diversa affiora dall’indirizzo che ammette la validità della notificazione eseguita dall’agenzia privata, alla quale però il plico sia stato affidato dalle Poste, nonchè, viceversa, di quella compiuta dalle Poste, alle quali l’atto sia stato veicolato dall’operatore di poste private: nel primo caso, si sostiene, l’attività di recapito rimane all’interno del rapporto tra le Poste e l’agenzia di recapito, e in capo alle Poste permane la piena responsabilità per l’espletamento del servizio (Cass. 6 giugno 2012, n. 9111); nel secondo, si specifica che una tale modalità operativa rispetta la riserva in via esclusiva prevista a favore del fornitore del servizio universale e, quindi, l’esigenza di garantire l’attestazione fidefaciente della puntualità e regolarità degli adempimenti (Cass. 21 luglio 2015, n. 15347; conf., Cass. 13 settembre 2017, n. 21251).

11.1.- Attestata su una soluzione diversa da quella prevalente si pone pure parte della giurisprudenza penale, anch’essa menzionata nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui i servizi riservati in via esclusiva a Poste italiane dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 non contemplano la mera spedizione di un atto d’impugnazione, che sarebbe concettualmente diversa dalla “notificazione a mezzo posta di atti giudiziari”, perchè volta a far pervenire l’atto che ne è oggetto non a una controparte, bensì a un ufficio giudiziario (Cass. pen., 28 novembre 2013/22 gennaio 2014, n. 2886; 6 novembre 2014/18 maggio 2015, n. 20380; 3 maggio/1 agosto 2017, n. 38206).

12.- La giurisprudenza nazionale non tiene adeguato conto della normativa e della giurisprudenza unionali.

Anzitutto l’opzione della giurisprudenza penale trova espressa smentita in quella della Corte di giustizia.

La direttiva modificata n. 97/67/CE definisce i “servizi postali” come i servizi che includono la raccolta, lo smistamento, il trasporto e la distribuzione degli invii postali (art. 2, punto 1, che non è sensibilmente diverso dal testo previgente, che li definiva come “servizi che includono la raccolta, lo smistamento, l’instradamento e la distribuzione degli invii postali”).

L’”invio postale” è, da parte sua, definito come l’invio, nella forma definitiva al momento in cui viene preso in consegna, dal fornitore di servizi postali (art. 2, punto 6, che, nella versione antecedente alla modifica disposta dalla direttiva n. 2008/6, si riferiva all’invio nella forma definitiva al momento in cui viene preso in consegna dal fornitore del servizio universale).

Sicchè l’invio per posta di atti processuali è un invio postale e il servizio relativo entra nel novero dei servizi postali (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 40, che si riferisce, peraltro, giustappunto all’invio per posta agli organi giurisdizionali presi in considerazione dalle suddette pronunce penali di questa Corte; in termini anche Corte giust. 31 maggio 2018, cause C-259/16 e C-260/16, Confetra, punto 33).

12.1.- Non è quindi possibile distinguere, all’interno della nozione di “invio postale” rilevante ai fini del diritto unionale, il segmento della spedizione rispetto a quello del recapito.

13.- Ma ciò che qui preme soprattutto rilevare e valutare è il rapporto della giurisprudenza civile di questa Corte con il diritto dell’Unione.

A seguito della direttiva n. 2008/6/CE, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 27 febbraio 2008, il diritto unionale è di ostacolo al riconoscimento di diritti speciali o esclusivi a un operatore postale (in termini, Corte giust. in causa C-545/17, cit., punti 67-68); sicchè non può essere riconosciuta a un operatore una tutela particolare idonea a incidere sulla capacità delle altre imprese di esercitare l’attività economica consistente nell’instaurazione e nella fornitura di servizi postali nello stesso territorio, in circostanze sostanzialmente equivalenti.

Il principio ha portata generale: “il fatto che uno Stato membro riservi un servizio postale, che questo rientri o no nel servizio universale, a uno o a più fornitori incaricati del servizio universale costituisce un modo vietato per garantire il finanziamento del servizio universale” (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 53).

13.1.- Ne consegue che l’art. 8 della direttiva, che non è stato novellato, va interpretato restrittivamente (con riferimento, peraltro, ai soli invii raccomandati e non già a quelli ordinari), perchè introduce una deroga al principio.

In questa logica non incide la circostanza che il diritto esclusivo o speciale per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali sia concesso a un fornitore del servizio universale nel rispetto dei canoni di obiettività, di proporzionalità, di non discriminazione e di trasparenza. Si arriverebbe, altrimenti, a circoscrivere la portata del divieto posto dall’art. 7, paragrafo 1, prima frase, della direttiva modificata e, pertanto, a compromettere la realizzazione dell’obiettivo, ivi perseguito, di completare il mercato interno dei servizi postali.

13.2.- Ora, nel regime nazionale successivo alla direttiva n. 2008/6/CE e anteriore a quello introdotto dalla novella del 2011, applicabile all’epoca dei fatti di causa, così come nel regime successivo a tale novella e antecedente alla L. n. 124 del 2017, a s.p.a. Poste Italiane resta riservato in via esclusiva, per il profilo d’interesse, il servizio della notificazione a mezzo posta degli atti processuali; e ciò si correla all’esclusivo riconoscimento del diritto speciale in virtù del quale la veridicità dell’apposizione della data mediante proprio timbro è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, giacchè la si riferisce all’attestazione di attività compiute da un pubblico agente nell’esercizio delle proprie funzioni (tra varie, Cass. 4 giugno 2018, n. 14163 e 19 luglio 2019, n. 19547).

14.- A sostegno di tale regime, e, in particolare, dei vantaggi in cui esso si esprime, non sono dimostrate le ragioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza idonee a derogare, a norma dell’art. 8 della direttiva n. 97/67/CE, alla norma generale prevista all’art. 7 della direttiva modificata, nell’accezione che ne fornisce il diritto unionale.

14.1.- Per ricorrere alla deroga occorre difatti che lo Stato membro dimostri “l’esistenza di un interesse pubblico” (Corte giust. in causa C-545/17, Pawlak, punto 73). Quest’interesse, ha ammonito la Corte di giustizia (con la medesima sentenza, punto 74), si deve esprimere in una giustificazione oggettiva della deroga.

15.- La giurisprudenza di questa Corte assume, invece, si è visto, che nel diritto interno l’interesse pubblico consista nella forza fidefaciente degli atti redatti dall’operatore postale di Poste italiane, che si riverbera sulla funzione probatoria ancorata all’invio raccomandato.

Questa nozione d’interesse pubblico si risolve in una petizione di principio, perchè identifica la conseguenza dello status di una categoria di operatori postali e, quindi, il vantaggio loro attribuito, con la giustificazione oggettiva dell’attribuzione.

15.1.- Nè maggiori lumi si ricavano dalla relazione che ha accompagnato il D.Lgs. n. 58 del 2011, in cui si legge che le ragioni di ordine pubblico sono relative “al contenuto degli invii”, ricorrendo, anche in tal caso, a una mera tautologia.

15.2.- Non è quindi chiarito quali fossero le esigenze di ordine pubblico richiamate dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4; quel che è chiaro è che la riserva risponde ancora all’esigenza di finanziare il servizio postale universale. Di là da un mero maquillage, difatti, il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 10 continua a stabilire, anche dopo la novella del 2011, che il fondo di compensazione, che è volto a garantire l’espletamento del servizio postale universale, è alimentato nel caso in cui il fornitore del predetto servizio non ricava “dalla fornitura del servizio universale e dai servizi in esclusiva di cui all’art. 4 entrate sufficienti a garantire l’adempimento degli obblighi gravanti sul fornitore stesso”.

Sicchè è ragionevole ritenere che le ragioni poste a sostegno della riserva siano ancora quelle del finanziamento del fornitore del servizo universale, benchè vietate dalla direttiva n. 2008/6/CE. 15.3.- La Corte di giustizia, del resto, facendo leva sulla considerazione che gli altri operatori “…dispongano dei mezzi organizzativi e personali adeguati” a recapitare gli atti processuali, ha ritenuto che mancasse la giustificazione oggettiva inerente a ragioni di ordine pubblico o di sicurezza pubblica a fronte di una norma di diritto nazionale -in quel caso, polacco- che riconosceva come equivalente alla presentazione di un atto processuale dinanzi all’organo giurisdizionale interessato soltanto il deposito di un simile atto presso un ufficio postale dell’unico operatore designato per fornire il servizio postale universale (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 77).

16.- Da quanto sopra discende che, al momento dell’esecuzione della notificazione della quale si discute, la vigente direttiva n. 2008/6/CE imponeva già al legislatore italiano l’abolizione di qualsiasi riconoscimento, salvo il ricorrere di determinate, restrittive e rigorose condizioni, di diritti speciali o esclusivi a taluni operatori del servizio postale.

L’obbligo di adeguamento al diritto unionale così imposto era già incluso, per conseguenza, tra i principi del diritto nazionale e, con esso, la generale potenziale idoneità dell’operatore di poste private a compiere l’attività di notificazione di atti processuali, indipendentemente dal fatto che ancora pendesse per lo Stato italiano il termine, fissato al 31 dicembre 2010 dall’art. 2 della direttiva n. 2008/6/CE, per mettere “…in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi…” alla direttiva.

La circostanza che il diritto interno non si è compiutamente adeguato, fino alla L. n. 124 del 2017, a tale impostazione e ha mantenuto in capo a s.p.a. Poste italiane i suddetti diritti esclusivi e speciali non può conferire loro la forza di “sistema”, nel senso di far considerare radicalmente estranea a esso l’attività di notificazione postale di atti giudiziari da parte dell’operatore postale privato.

16.1.- La prevista astratta possibilità di tale attività rende di per sè riconoscibile la fattispecie della notificazione in quella eseguita da quell’operatore, anche sotto il profilo soggettivo (in base alle precisazioni di Cass., sez. un., nn. 14916 e 14917/16, cit., che ha esaminato il regime della notificazione del ricorso per cassazione, ma che ha dettato principi di chiaro valore espansivo). Non v’è quindi quella completa esorbitanza dallo schema generale degli atti di notificazione che ne sostanzia l’inesistenza giuridica (Cass., sez. un., 4 luglio 2018, n. 17533, punto 9.1.5), perchè l’attività svolta appartiene al tipo contemplato dal complessivo sistema normativo.

17.- Resta, tuttavia, la difformità di tale attività dalla concreta regolazione interna vigente. E, sotto tale profilo, rileva in particolare la mancata adozione, con riferimento all’operatore di posta privata, della disciplina inerente al necessario titolo abilitativo (di cui, quindi, il soggetto operante nel caso di specie era sicuramente sprovvisto).

Il titolo abilitativo comporta la soggezione a un regime giuridico particolare, fonte di conferimento di diritti, ma anche di assunzione di obblighi specifici. Sicchè è la soggezione a tale regime che determina l’acquisizione dello status che fonda la distinzione tra operatori postali.

17.1.- Il che assume, ha precisato ancora la Corte di giustizia, una particolare valenza proprio con riguardo alle attività di notificazione di atti giudiziari, mediante le quali l’operatore è investito di prerogative inerenti ai pubblici poteri al fine di poter rispettare gli obblighi che incombono su di lui; “tali servizi mirano non già a rispondere a particolari esigenze di operatori economici o di taluni altri utenti particolari, bensì a garantire una buona amministrazione della giustizia, nella misura in cui essi permettono la notifica formale di documenti nel quadro di procedimenti giurisdizionali o amministrativi” (Corte giust. 16 ottobre 2019, cause C-4/18 e C5/18, Winterhoff e altro, punto 58).

Conforme è la giurisprudenza costituzionale, che ha fatto leva sul particolare statuto di regole al quale è assoggettato l’agente per la riscossione al fine di giustificare in relazione a esso il regime differenziato rispettivamente previsto per la notificazione diretta delle cartelle di pagamento, degli atti impositivi e dei ruoli dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14 e della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 161, (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175 e 24 aprile 2019, n. 104).

17.2.- Tutto ciò peraltro si risolve in una violazione di specifici vincoli normativi, che configura una mera nullità dell’attività notificatoria in questione; laddove l’astratta compatibilità della medesima col complessivo sistema normativo esclude che si possa parlare di inesistenza.

18.- In quanto nulla, la notificazione è sanabile e nel caso in esame è stata sanata per effetto della costituzione dell’Agenzia sin dal primo grado.

19.- Questa circostanza, tuttavia, non è risolutiva, perchè manca certezza legale della data di consegna del plico all’operatore di posta privata, che, nella prospettazione dei contribuenti, rientrerebbe nel termine previsto per l’impugnazione dell’avviso. E la certezza manca, appunto perchè l’operatore che ha proceduto alla notificazione della quale si discute è privo di titolo abilitativo, ossia della licenza individuale, e, quindi, delle prerogative inerenti ai pubblici poteri.

19.1.- Perchè l’indicazione di data, ufficio e numero di spedizione dell’atto in plico raccomandato (senza busta) assuma connotazione di atto pubblico, pur in assenza di sottoscrizione, occorre che vi sia una precisa sequenza procedimentale diretta a documentare le attività compiute in relazione all’accettazione del plico da spedire e, quindi, a identificare la certa provenienza delle attestazioni su giorno e numero della raccomandata (Cass., sez. un., nn. 13452 e 13453/17, cit.).

19.2.- Di contro, la mancanza della licenza, e del correlativo status, come la giurisprudenza di questa Corte sottolinea, non consente di riconoscere la forza di atto pubblico all’attestazione della data di consegna all’operatore dell’atto processuale da notificare, perchè l’operatore che non ne sia munito non è dotato di poteri certificativi.

20.- Nè rileva che l’Agenzia non abbia contestato la data di consegna dell’atto da notificare all’operatore di posta privata.

Anzitutto l’Agenzia ha contestato in radice la possibilità stessa per l’operatore in questione di notificare atti processuali.

Inoltre, il soggetto destinatario della notificazione non ha la possibilità di verificare e controllare quando l’atto sia stato consegnato all’operatore, in modo da poterne contestare la data.

Ma, e soprattutto, occorre considerare che le notificazioni processuali incidono su interessi di rango costituzionale (presidiati dagli artt. 24 e 111 Cost.), sicchè necessitano di quella certezza pubblica che è propria degli atti fidefacienti, non altrimenti surrogabile (ancora Cass., sez. un., nn. 13452 e 13453, cit.).

21.- La mancanza di certezza legale della data di consegna all’operatore di poste private dell’atto da notificare comporta quindi l’impossibilità di ancorare, nel caso in esame, la proposizione del ricorso “…al momento della spedizione nelle forme sopra indicate” (giusta il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 20, comma 2).

21.1.- L’impossibile valorizzazione del momento di consegna dell’atto all’agente notificatore si unisce, nella specie, al sicuro pervenimento dell’atto al destinatario quando il termine di decadenza dall’impugnazione era ormai inutilmente spirato.

La sanatoria determinata dal raggiungimento dello scopo della notifica nulla non può quindi rilevare al fine di poter ritenere tempestivo il ricorso.

22.- Risulta per conseguenza irrilevante altresì l’esame dell’ulteriore questione, sulla quale pure v’è difformità di orientamenti di questa Corte, concernente l’estensione, o l’esclusione, dell’effetto sanante rispetto alle decadenze di natura sostanziale nel frattempo maturate.

23.- Il ricorso va quindi accolto e la sentenza impugnata cassata, perchè, nel momento in cui si è prodotto l’effetto sanante dovuto al raggiungimento dello scopo dell’atto, era maturata la decadenza dei contribuenti dal diritto d’impugnazione dell’avviso.

24.- Poichè non sussiste necessità di ulteriori accertamenti di fatto, il giudizio va deciso nel merito, con la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso introduttivo e l’applicazione dei seguenti principi di diritto:

“In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla L. n. 124 del 2017”.

“La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario, eseguita dall’operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, perchè sprovvisto di titolo abilitativo”.

25.- Le oscillazioni della giurisprudenza e la particolarità della questione comportano, tuttavia, la compensazione di tutte le voci di spesa.

P.Q.M.
la Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile il ricorso introduttivo.

Compensa tutte le voci di spesa dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2020


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 28-05-2019) 07-01-2020, n. 93

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28880/2017 proposto da:

D.H., elettivamente domiciliato in Roma Via Pompeo Magno n. 10 B presso lo studio dell’avvocato Laviensi Maria Assunta e rappresentato e difeso dall’avvocato Petrucci Ameriga, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 288/2017 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 05/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/05/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

Svolgimento del processo
1.Con sentenza n. 288/2017 depositata il 5-6-2017, la Corte d’appello di Potenza ha dichiarato inammissibile l’appello di D.H., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Potenza con la quale era stata rigettata la domanda avente ad oggetto, in via gradata, il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Il richiedente, nel riferire la propria vicenda personale, aveva dichiarato di essere fuggito dal Paese di origine dopo la morte, avvenuta durante il parto del loro primogenito, della sua fidanzata, figlia di un potente uomo politico che voleva convertirlo alla religione islamica. La Corte territoriale, rilevato che, per affermazione dello stesso appellante, l’ordinanza impugnata era stata depositata e comunicata il 27-10-2015 e che la comunicazione del testo integrale del provvedimento era avvenuta in data 28-10-2015 alle ore 11,37, come da attestazione contenuta nel fascicolo di primo grado, ha dichiarato inammissibile per tardività l’appello, proposto con citazione notificata il 9/12/2016 e depositata in cancelleria il 16-2-2016, ossia oltre il termine perentorio di trenta giorni, previsto dal combinato disposto dell’art. 702 quater c.p.c. e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 decorrente dalla comunicazione dell’ordinanza.

2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a un solo motivo, nei confronti del Ministero dell’Interno, che è rimasto intimato.

Motivi della decisione
1. Il ricorrente lamenta “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione all’art. 702 ter c.p.c., art. 702 quater c.p.c., art. 327 c.p.c., art. 133 c.p.c. così come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45 convertito con modificazioni nella L. n. 114 del 2014”. Denuncia il vizio di nullità dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Potenza, comunicata a mezzo pec il 28-10-2015, in quanto priva della firma digitale del cancelliere. Ad avviso del ricorrente, dal difetto di detta firma deriva la nullità dell’ordinanza e la proponibilità dell’appello entro il termine di sei mesi ai sensi dell’art. 327 c.p.c.. Il ricorrente adduce altresì che ai sensi dell’art. 133 c.p.c. così come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45 convertito con modificazioni nella L. n. 114 del 2014, la comunicazione da parte del cancelliere del testo integrale del provvedimento non è idonea a far decorrere il termine di impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c.. Sottolinea che si tratta di norma di carattere generale, applicabile a qualsiasi provvedimento di natura decisoria, sia esso sentenza oppure ordinanza, e che si applica anche alle comunicazioni a mezzo pec. 2. Il motivo è infondato.

2.1.La giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con un orientamento a cui il Collegio intende dare continuità, che “Ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 bis, conv. in L. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, le copie informatiche del fascicolo digitale equivalgono all’originale, anche se prive della firma del cancelliere, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 bis, conv. in L. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, disposizione applicabile a tutti gli atti digitalizzati, come si desume dal tenore letterale della norma, riferito all’intero contenuto del fascicolo informatico”(Cass. n. 26479/2017).

Non ricorrono pertanto nel caso di specie, a cui si applica la disciplina sopra indicata (l’ordinanza appellata è stata comunicata il 28-102015), le violazioni di legge denunciate, in base ai principi appena esposti. Poiché non è affetta da nullità, in quanto priva della firma digitale del cancelliere, l’ordinanza emessa dal Tribunale di Potenza, comunicata a mezzo pec, restano superate le consequenziali argomentazioni svolte dal ricorrente sull’inidoneità di detta comunicazione a far decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione dell’appello.

3. Nulla si dispone per le spese del presente giudizio, essendo rimasto intimato il Ministero.

4. Poichè il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 03-10-2019) 18-12-2019, n. 33611

È dirimente, in primo luogo, che il ricorso non coglie la ratio della decisione, la quale ha rilevato, con accertamento in fatto, che la notificazione degli avvisi era stata regolarmente effettuata presso l’indirizzo del domicilio fiscale indicato dal contribuente, senza che di esso fosse mai stata inviata alcuna comunicazione in rettifica

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28068/2012 R.G. proposto da:

C.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Angelozzi, con domicilio eletto presso l’Avv. Massimo Gizzi in Roma via Anapo n. 29, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche n. 29/02/12, depositata il 2 luglio 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 3 ottobre 2019 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Svolgimento del processo
che:

C.B. impugna per cassazione, con quattro motivi, la decisione della CTR in epigrafe che, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittime le cartelle di pagamento emesse dall’Agenzia delle entrate e regolare la notificazione dei pregressi avvisi di accertamento, effettuata presso il coniuge da cui era separato.

L’Agenzia delle entrate resiste, depositando atto di costituzione ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
che:

1. Il primo motivo denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in relazione all’art. 157 c.p.c., e ss.”.

Il contribuente deduce, in particolare, che la CTR ha omesso di motivare sull’esistenza di un provvedimento di separazione personale con la coniuge, cui erano stati consegnati gli avvisi notificati, neppure considerando che essa, nell’apporre la propria firma sulla dizione moglie convivente, non comprendeva appieno la lingua italiana.

1.1. Il secondo motivo denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 157 c.p.c. e ss., all’art. 149 c.p.c. ed alla L. n. 890 del 1982, art. 3”.

Il contribuente deduce che la CTR ha omesso di motivare “sul contenuto della memoria 23/03/2011”, con cui era dedotta la nullità delle notifiche degli avvisi in quanto carenti dei requisiti formali necessari.

1.2. Il terzo motivo denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 149 c.p.c., u.c. ed alla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, u.c.”.

Il contribuente deduce l’omesso invio dell’avviso per esser stata la notifica effettuata a persona diversa dal destinatario e l’omessa motivazione da parte della CTR in ordine alla contestata violazione.

1.3. Il quarto motivo denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 24 Cost., comma 2” per aver la CTR omesso di motivare sulla violazione del diritto di difesa.

2. I motivi, che possono essere valutati unitariamente per connessione, sono tutti inammissibili e per più ragioni.

2.1. E’ dirimente, in primo luogo, che il ricorso non coglie la ratio della decisione, la quale ha rilevato, con accertamento in fatto, che la notificazione degli avvisi era stata regolarmente effettuata presso l’indirizzo del domicilio fiscale indicato dal contribuente, senza che di esso fosse mai stata inviata alcuna comunicazione in rettifica.

Presso lo stesso indirizzo, del resto, era stata inviata l’invito per la comparizione al contraddittorio (trattandosi di accertamento scaturito dall’applicazione degli studi di settore), contraddittorio che – come pure accertato dalla CTR – era stato pienamente instaurato dal contribuente stesso.

Da ciò, dunque, la CTR ha tratto la conclusione della regolarità e ritualità della notifica degli avvisi di accertamento, esito che, oltre ad essere in linea con la giurisprudenza della Corte (v. Cass. n. 25680 del 14/12/2016; Cass. n. 15258 del 21/07/2015), non è stato in alcun modo censurato.

2.2. Quanto al primo motivo, inoltre, la censura è altresì del tutto carente in punto di autosufficienza, introduce profili di novità e, comunque, è del tutto inammissibilmente formulata, neppure sussistendo la lamentata omessa motivazione poichè la CTR non ha affatto trascurato l’avvenuta separazione, ritenendola ininfluente ai fini della regolarità della notifica.

2.3. Quanto al secondo motivo, la doglianza è parimenti carente di autosufficienza sia con riguardo alle asserite nullità della notifica, sia alla dedotta contestazione in giudizio (asseritamente introdotta con memoria), nulla sul punto essendo stato riprodotto, essendo ignoto l’esatto tenore della questione, nonchè la regolare e tempestiva introduzione sia in primo grado che in appello, nè, comunque, risultando dalla stessa sentenza.

2.4. Analoghe considerazioni rilevano quanto al terzo motivo, neppure essendo chiaro, sul punto, se sia stata contestata una violazione di legge o un vizio motivazionale (entrambi inammissibili perchè inosservanti del principio di autosufficienza, nulla essendo stato riprodotto, nè la relata di notifica, nè la memoria in cui la questione sarebbe stata posta, sicchè la stessa questione non si sottrae all’ulteriore rilievo di inammissibilità per novità) ovvero di omessa pronuncia (comunque insussistente).

2.5. Il quarto motivo, infine, è inammissibile perchè, oltre a non cogliere la ratio della decisione, è del tutto generico e indeterminato, neppure censurando, in realtà, la sentenza, della quale non specifica i passaggi oggetto di contestazione, sicchè, in conclusione, è un “non motivo”.

3. Il ricorso va pertanto rigettato per inammissibilità dei motivi. Nulla per le spese attesa la mancata costituzione dell’Ufficio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 3 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 25-06-2019) 03-12-2019, n. 31479

La C.T.R. pare equiparare l’indirizzo indicato da Poste Italiane e individuato per il servizio “seguimi” (di natura contrattuale e finalizzato a far pervenire la corrispondenza – diversa dagli atti giudiziari – all’indirizzo indicato dal richiedente) al domicilio eletto.

Al contrario, l’attivazione del servizio “seguimi” non assume alcuna rilevanza giuridica ai fini della validità delle notificazioni, né l’indicazione di un indirizzo al quale recapitare la corrispondenza può assurgere ad elezione di domicilio ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), difettando i requisiti formali prescritti dalla citata disposizione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA E. Luigi – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18779-2012 proposto da:

O.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VANNICELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICA PEZZATO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

CONCESSIONARIA BRESCIA EQUITALIA ESATRI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5/2012 della COMM. TRIBUTARIA II GRADO di TRENTO, depositata il 23/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/06/2019 dal Consigliere Dott. FANTICINI GIOVANNI.

Svolgimento del processo
CHE:

– O.F. impugnava innanzi alla C.T.P. di Trento la cartella di pagamento n. (OMISSIS) notificatagli da Equitalia Esatri S.p.A. per il pagamento di sanzioni in materia di IVA (2003) contestate a società di persone di cui il ricorrente era legale rappresentante (considerato alla stregua di autore materiale dell’illecito); lamentava il ricorrente (tra l’altro) che gli avvisi di accertamento, atti prodromici all’emissione della cartella, non gli erano stati notificati;

– la C.T.P. di Trento accoglieva il ricorso affermando la nullità della cartella per omessa indicazione del nominativo del responsabile del procedimento;

– la C.T.R. del Trentino, con la sentenza n. 5/02/12 del 23/1/2012, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate e respingeva l’appello incidentale di O.F.; nella parte che ancora qui rileva la C.T.R. affermava: “Le notifiche degli avvisi sono state ritualmente effettuate dall’Ufficio in conformità con quanto previsto dalla normativa. Infatti l’Ufficio ha consegnato alle poste le raccomandate degli avvisi indirizzati al domicilio fiscale del rag. O. come dai dati dell’anagrafe tributaria (Manerba del Garda). I plichi sono stati restituiti dalle poste con la scritta “seguimi” ed inoltrati al nuovo indirizzo di cui il contribuente aveva chiesto l’attivazione (Solano del Lago – via Portole 2). Tale documentazione è stata consegnata alla signora F.B. quale “persona delegata al ritiro”. Ne consegue che le notifiche dei due avvisi di accertamento, prodromici alla cartella cartella impugnata, sono state correttamente perfezionate.”;

– avverso tale decisione O.F. propone ricorso per cassazione articolato in quattro motivi, al quale resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate;

– l’intimata Equitalia Esatri non ha svolto difese.

Motivi della decisione
CHE:

1. Col primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) dell’art. 139 c.p.c. e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per avere la C.T.R. ritenuto che la notificazione degli avvisi di accertamento fosse stata correttamente eseguita in luogo diverso dal domicilio fiscale.

2. Il motivo è fondato.

Risulta dalla sentenza impugnata che gli avvisi di accertamento, dapprima inviati al domicilio fiscale di O.F., sono stati restituiti con la scritta “seguimi” e che l’Agenzia ha quindi provveduto ad un successivo inoltro degli stessi al nuovo indirizzo, in un comune diverso rispetto a quello dove si trovava il domicilio fiscale del destinatario.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 stabilisce che “c) salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario; d) è in facoltà del contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano. In tal caso l’elezione di domicilio deve risultare espressamente da apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate; e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione…”.

E’ pacifico che la notificazione degli atti presupposti alla cartella esattoriale non sia avvenuta nel domicilio fiscale.

La C.T.R. pare equiparare l’indirizzo indicato da Poste Italiane e individuato per il servizio “seguimi” (di natura contrattuale e finalizzato a far pervenire la corrispondenza – diversa dagli atti giudiziari – all’indirizzo indicato dal richiedente) al domicilio eletto.

Al contrario, l’attivazione del servizio “seguimi” non assume alcuna rilevanza giuridica ai fini della validità delle notificazioni, nè l’indicazione di un indirizzo al quale recapitare la corrispondenza può assurgere ad elezione di domicilio ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), difettando i requisiti formali prescritti dalla citata disposizione.

La notificazione degli avvisi di accertamento, dunque, è stata compiuta in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nè può reputarsi sanata dal raggiungimento dello scopo in mancanza di elementi atti a far ritenere che i plichi siano stati comunque consegnati a O.F..

Ne consegue la cassazione della decisione impugnata e, non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. la controversia può essere decisa nel merito accogliendo l’originario ricorso del contribuente.

3. Restano assorbiti gli ulteriori motivi del ricorso.

4. Ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 2, occorre provvedere sulle spese di tutti i gradi del giudizio.

L’Agenzia delle Entrate deve essere condannata alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente per il giudizio di cassazione.

Ritiene il Collegio di compensare le spese dei gradi di merito in ragione delle alterne vicende processuali.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il primo motivo di ricorso;

dichiara assorbiti gli altri motivi;

cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., accoglie il ricorso originario;

condanna l’Agenzia delle Entrate a rifondere a O.F. le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.600,00, oltre a spese forfettarie e accessori di legge;

compensa le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 25 giugno 2019.

Depositato in cancelleria il 3 dicembre 2019


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 16/10/2019) 27/11/2019, n. 30948

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PUTATURO Maria Giulia – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9513/2018 R.G. proposto da EEMS Italia s.p.a. (C.F. (OMISSIS)), in persona legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Romano Carlo e Longobardi Marco, elettivamente domiciliata presso il loro studio, in Roma largo Angelo Fochetti 29;

– ricorrente –

contro

ADER Agenzia delle Entrate Riscossione (C.F (OMISSIS)), in persona del presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 5543/15/2017 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, depositata il giorno 26 settembre 2017.

Sentita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 16 ottobre 2019 dal Consigliere Fichera Giuseppe.

Svolgimento del processo
EEMS Italia s.p.a. impugnò una cartella di pagamento notificata da Equitalia Sud s.p.a. relativa ad accise per l’anno 2014, assumendo l’inesistenza della relativa notifica.

Il ricorso venne respinto integralmente in primo grado; proposto appello dalla contribuente, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza depositata il 26 settembre 2017, lo respinse assumendo che la notifica della cartella era avvenuta correttamente.

Avverso la detta sentenza, EEMS Italia s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste con controricorso ADER Agenzia delle Entrate Riscossione s.p.a., già Equitalia Sud s.p.a.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso EEMS Italia s.p.a. lamenta la violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 2, del D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 14 e art. 16, comma 4, e del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 20 (il CAD), poichè la commissione tributaria regionale ha ritenuto valida la notifica, a mezzo posta elettronica certificata, di una cartella in origine in formato cartaceo che era stata copiata per immagini su supporto informatico.

1.2. Il motivo non ha fondamento.

Com’è noto, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, come aggiunto dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. b), convertito con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, nel testo applicabile ratione temporis, prevede che la notifica della cartella di pagamento “può essere eseguita, con le modalità di cui al D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all’indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge. Tali elenchi sono consultabili, anche in via telematica, dagli agenti della riscossione. Non si applica l’art. 149-bis c.p.c.”.

A sua volta il D.P.R. n. 68 del 2005, art. 1, lett. f), definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come “un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati”.

La lett. i-ter), dell’art. 1 del CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), -, poi, definisce “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” come “il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico”, mentre la lett. lett. i-quinquies), dell’art. 1 del medesimo CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), -, nel definire il “duplicato informatico” parla di “documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

1.2. Dunque, alla luce della disciplina surriferita, la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”), come è avvenuto pacificamente nel caso a mano, dove il concessionario della riscossione ha provveduto a inserire nel messaggio di posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (portable document format) – cioè il noto formato di file usato per creare e trasmettere documenti, attraverso un software comunemente diffuso tra gli utenti telematici -, realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di pagamento composta in origine su carta.

Va esclusa, allora, la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, per la decisiva ragione che era nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico.

1.3. Inammissibile, poi, perchè formulata per la prima volta nel processo con la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., si palesa la doglianza concernente l’omessa sottoscrizione, con firma digitale o firma elettronica qualificata, della cartella di pagamento allegata al messaggio di PEC. 1.4. La censura peraltro risulta manifestamente infondata, per l’assorbente ragioni che nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale.

1.5. Può soggiungersi, per completezza, che ai sensi dell’art. 22 CAD, comma 3 – come modificato dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 1, – “Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle Linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta”. E nella vicenda che ci occupa, giammai, la ricorrente nel corso del processo ha disconosciuto espressamente la conformità della copia informatica della cartella di pagamento, allegata alla PEC ricevuta, all’originale cartaceo in possesso dell’amministrazione.

2. Con il secondo motivo eccepisce la violazione degli artt. 156 c.p.c., comma 3, e art. 160 c.p.c., avendo ritenuto il giudice di merito comunque sanata, per raggiungimento dello scopo, una notifica che era invece inesistente.

2.1. Il motivo, che resterebbe inammissibile avuto riguardo al rigetto del primo motivo, è comunque manifestamente infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno già affermato in tema che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna in via telematica del’atto ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. S.U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. S.U. 18/04/2016, n. 7665).

E proprio con riferimento alla notifica di una cartella di pagamento, si è chiarito che la natura sostanziale e non processuale dell’atto non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicchè il rinvio operato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di irritualità della notificazione della cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria del vizio dell’atto per raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c. (Cass. 05/03/2019, n. 6417).

3. Le spese seguono la soccombenza; sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della ricorrente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente, liquidate in complessivi Euro 10.000,00, oltre alle spese generali al 15% e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 28-05-2019) 26-11-2019, n. 30787

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28160-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

BI KIRA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA E.Q. VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PETRONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIO MODESTO MARIA ROSSI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5120/2014 della COMM. TRIB. REG. della Campania, depositata il 23/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/05/2019 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.

Svolgimento del processo
CHE:

– la Bi-Kira S.r.l. impugnava la cartella di pagamento con cui, a seguito di revisione della dichiarazione doganale, l’Agenzia delle Dogane di Napoli (OMISSIS), a mezzo dell’agente della riscossione, chiedeva il pagamento della somma di Euro 112.763,25 per imposte doganali e IVA su importazione; in particolare, la ricorrente eccepiva l’invalidità della cartella in ragione della mancata notifica del presupposto avviso di accertamento;

– la C.T.P. di Napoli respingeva il ricorso affermando che, essendo stata dimostrata la consegna di una busta raccomandata proveniente dall’Agenzia, sarebbe stato onere del destinatario dimostrare che il plico non conteneva alcun atto o che ne conteneva uno diverso;

– la C.T.R. della Campania, con la sentenza n. 5120/32/14 del 23/5/2014, accoglieva l’appello della Bi-Kira; in particolare, il giudice d’appello rilevava che l’onere probatorio, in caso di contestazione del contenuto dell’involucro, spettava al mittente e che, perciò, “era il mittente, cioè l’ente impositore, a dover provare di avere inserito nella busta, oltre al processo verbale di revisione (la cui ricezione è pacifica), anche l’avviso di rettifica contenente l’invito al pagamento a cui si riferiva la cartella di pagamento impugnata”;

– avverso tale decisione l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli propone ricorso per cassazione (affidato a due motivi), al quale resiste con controricorso la Bi-Kira S.r.l..

Motivi della decisione
CHE:

1. Col primo motivo la ricorrente Agenzia deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), degli art. 1335 e 2697 c.c., per avere la C.T.R. ritenuto che spettasse al mittente l’onere di dimostrare che l’atto notificato – unitario, pur se costituito da diversi documenti (segnatamente l’avviso di rettifica e l’allegato processo verbale di constatazione) – fosse stato inserito nella busta notificata alla società.

2. Il motivo è fondato.

La C.T.R. richiama nella motivazione il principio espresso da Cass., Sez. 5, Sentenza n. 20027 del 30/09/2011, Rv. 619195-01 secondo cui “la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere, ex art. 1335 c.c., l’invio e la conoscenza dell’atto, spettando al destinatario l’onere eventuale di provare che il plico non conteneva l’avviso. Tale presunzione, però, opera per la sola ipotesi di una busta che contenga un unico atto, mentre ove il mittente affermi di averne inserito più di uno (come nella specie, gli avvisi di accertamento per più annualità) ed il destinatario contesti tale circostanza, grava sul mittente l’onere di provare l’intervenuta notifica e, quindi, il fatto che tutti gli atti fossero contenuti nel plico e ciò in quanto, secondo l’id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione” – ma ne fa erronea applicazione alla fattispecie de qua.

Infatti, come rilevato nel ricorso della difesa erariale, l’avviso di rettifica dell’accertamento e il processo verbale di constatazione non costituiscono atti distinti – per i quali si deve presumere la notificazione mediante singola spedizione – bensì un atto unitario posto che il processo verbale è parte integrante dell’avviso e ne costituisce allegato ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, l’onere di provare che il plico non conteneva l’atto stesso, ovvero che ne conteneva uno diverso da quello spedito, grava sul destinatario in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale. Tale conclusione discende altresì dal cosiddetto “principio di vicinanza della prova” poichè, una volta effettuata la consegna del plico per la spedizione, esso fuoriesce dalla sfera di conoscibilità del mittente e perviene in quella del destinatario, il quale può dunque dimostrare che al momento del ricevimento il plico era privo di contenuto (o ne aveva uno diverso).

In altri termini, conformemente a quanto statuito da questa stessa Sezione (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 16528 del 22/6/2018; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 33563 del 28/12/2018), “la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere l’invio e la conoscenza dell’atto, mentre l’onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l’atto spetta non già al mittente (in tal senso, Cass. ord. n. 9533 del 12/5/2015; n. 2625 del 11/2/2015; n. 18252 del 30/7/2013; n. 24031 del 10/11/2006; n. 3562 del 22/2/2005), bensì al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. 22 maggio 2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322 del 14/11/2014; n. 15315 del 4/7/2014; n. 23920 del 22/10/13; n. 16155 del 8/7/2010; n. 17417 del 8/8/2007; n. 20144 del 18/10/2005; n. 15802 del 28/7/2005; n. 22133 del 24/11/2004; n. 771 del 20/1/2004; n. 11528 del 25/7/2003; n. 4878/1992; 4083/1978; cfr. Cass., ord. n. 20786 del 2/10/2014, per la quale tale presunzione non opererebbe con inversione dell’onere della prova – ove il mittente affermasse di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contestasse tale circostanza). L’orientamento prevalente risulta peraltro conforme al principio generale di c.d. “vicinanza della prova”, poichè la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato) che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto.”.

3. Resta assorbito il secondo motivo del ricorso dell’Agenzia.

4. In conclusione, il ricorso è accolto e la sentenza cassata con rinvio alla C.T.R. della Campania, in diversa composizione, per l’ulteriore esame e anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il primo motivo del ricorso di Agenzia delle Dogane e dei Monopoli;

cassa la decisione impugnata con rinvio alla C.T.R. della Campania, in diversa composizione, anche per la statuizione spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2019


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 31-01-2019) 15-11-2019, n. 29729

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20865-2017 R.G. proposto da:

B.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Mauro Mercadante ed elettivamente domiciliato in Roma, Via Giovanni Nicotera 29, presso lo studio dell’avvocato Maria Teresa Pagano;

– ricorrente –

contro

FINO 1 SECURITISATION s.r.l. e per essa DOBANK s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Claudio Luca Migliorisi ed elettivamente domiciliata in Roma, Via Isonzo 42/A, presso lo studio dell’avvocato Achille Reali;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3370/2017 della Corte d’appello di Milano, depositata il 17 luglio 2017;

letta la proposta formulata dal Consigliere relatore ai sensi degli artt. 376 e 380-bis c.p.c.;

letti il ricorso, il controricorso e le memorie difensive;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 31 gennaio 2019 dal Consigliere Dott. Cosimo D’Arrigo.

Svolgimento del processo
B.S. ha proposto opposizione avverso l’atto di precetto con il quale Unicredit s.p.a. gli intimava il pagamento della somma di Euro 437.701,51, oltre spese interessi ed accessori, indicando quale titolo esecutivo un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Monza. A sostegno dell’opposizione deduceva una serie di vizi del titolo, fra i quali l’incertezza circa l’identificazione dell’Ufficio giudiziario emittente (il ricorso era stato presentato al Tribunale di Monza e il decreto risultava sottoscritto da un giudice in servizio presso tale ufficio, ma nell’intestazione del provvedimento e quale luogo di sottoscrizione era riportata la dicitura “Milano”) e l’invalidità della notificazione.

Il Tribunale di Milano ha rigettato l’opposizione. La sentenza è stata appellata dal B., che ha riproposto le medesime censure. La corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame, condannando l’appellante alle spese di lite.

Avverso tale decisione il B. ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. Unicredit s.p.a. ha resistito con controricorso.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

Il B. ha depositato memorie difensive ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.

Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 131 e 132 c.p.c., consistita nella violazione della forma legale prescritta per il decreto ingiuntivo.

In realtà, si tratta della riproposizione della censura già disattesa nei gradi di merito circa l’impossibilità di individuare con certezza l’ufficio giudiziario emittente il decreto ingiuntivo, a causa di un errore contenuto nell’intestazione del provvedimento e nell’indicazione del luogo di emissione. Ma, lo stesso ricorrente dà atto della circostanza che il provvedimento è sottoscritto da un magistrato certamente in servizio, a quella data, presso il Tribunale di Monza, cui era rivolto il ricorso. Si è in presenza, pertanto, come già correttamente rilevato dalla Corte d’appello, di un mero errore materiale, che non inficia l’esistenza del titolo esecutivo.

Il motivo è quindi inammissibile.

Con il secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2719 c.c. e degli artt. 115, 116, 140 e 215 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1341 c.c., comma 2, e dell’art. 140 c.p.c.. Con il quarto motivo si prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2700 c.c. e degli artt. 115, 116 e 140 c.p.c. Le tre censure, largamente sovrapponibili, riguardano la notificazione del titolo esecutivo, che, a parere del ricorrente, sarebbe invalida in quanto eseguita presso un luogo ove egli non era più residente, in violazione delle norme sostanziali e processuali in tema di elezione di domicilio, di notificazione e di onere della prova.

I motivi possono essere unitariamente disattesi, in quanto, nel loro complesso, non denunciano un’ipotesi di radicale inesistenza della notificazione, specialmente nei termini puntualizzati dalle Sezioni Unite. Infatti, l’inesistenza della notificazione di un atto giudiziario è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603 – 01).

Pertanto, i vizi denunciati dal ricorrente avrebbero potuto giustificare, tutt’al più, un’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. Con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa (Sez. 2, Sentenza n. 1038 del 28/01/1995, Rv. 490073 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 5907 del 04/11/1980, Rv. 409701 – 01).

Per queste stesse ragioni, i vizi di notificazione del decreto ingiuntivo non possono essere dedotti con l’opposizione a precetto ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., davanti ad un giudice diverso da quello funzionalmente competente a giudicare sull’opposizione a decreto ingiuntivo (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25713 del 04/12/2014, Rv. 633681 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8011 del 02/04/2009, Rv. 607885 – 01). Infatti, innanzi al giudice dell’esecuzione potrebbero dedursi vizi idonei a determinare la radicale inesistenza del titolo esecutivo, mentre ogni questione attinente alla sua validità o nullità deve essere decisa dal giudice funzionalmente compente.

Va quindi affermato, in continuità con il precedente orientamento, il seguente principio di diritto:

“La nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sè l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione intrapresa in forza dello stesso, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., restando invece attribuita alla competenza funzionale del giudice dell’opposizione al decreto – ai sensi dell’art. 645 c.p.c. e, ricorrendone le condizioni, dell’art. 650 c.p.c. – la cognizione di ogni questione attinente all’eventuale nullità o inefficacia del provvedimento monitorio”.

Nel caso di specie, l’opponente non ha prospettato, neppure in astratto, la sussistenza di vizi idonei a determinare l’inesistenza del titolo esecutivo e quindi i motivi in esame sono inammissibili.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da lui proposta.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2019


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 14-11-2019) 15-11-2019, n. 29749

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GORGONI Marinella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA PER CORREZIONE ERRORE MATERIALE

sul ricorso 29544-2019 proposto da:

S.P., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCA RUZZETTA;

– ricorrente –

contro

M.L., F.M.;

– intimati –

avverso l’ordinanza n. 24160/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 27/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/11/2019 dal Presidente Relatore Dott. FRASCA RAFFAELE.

Svolgimento del processo
che:

1. Con ricorso per regolamento di competenza iscritto al n. r.g. 21066 del 2018 S.P. impugnava l’ordinanza del Tribunale di Genova con la quale quel tribunale – investito di una controversia di querela di falso ai sensi dell’art. 221 c.p.c., proposta dalla S. nei confronti di M.L., magistrato del Tribunale di Firenze, in riferimento a provvedimenti da questo emessi nell’ambito di un giudizio civile – aveva d’ufficio rilevato l’incompetenza territoriale ai sensi dell’art. 18 c.p.c. in favore del Tribunale di Firenze e rinviato la causa per consentire all’attrice di munirsi di nuovo difensore e per l’eventuale deposito di memorie.

2. Il M. non svolgeva attività processuale.

3. Il ricorso per regolamento veniva avviato a trattazione con il procedimento di cui all’art. 380-ter c.p.c. ed all’esito del deposito delle conclusioni del Pubblico Ministero, deciso con l’ordinanza n. 24160 del 2019, la quale dichiarava il regolamento di competenza inammissibile.

3.1. L’inammissibilità veniva dichiarata perchè proposto nei confronti di una ordinanza priva del carattere di provvedimento impugnabile con il regolamento di competenza, in quanto carente di definitività ai fini della risoluzione della questione di competenza.

3.2. In via gradata veniva altresì ravvisata anche un’ulteriore causa di inammissibilità per inosservanza del requisito dell’art. 366 c.p.c., n. 3.

3.3. La Corte, inoltre, nell’affermare l’inammissibilità del regolamento per le ragioni indicate, osservava ancora quanto segue: “questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo PEC al M. “con elezione di domicilio presso l’avvocato Tribunale di Firenze” a un indirizzo di posta elettronica che è quello della cancelleria dell’immigrazione del Tribunale di Firenze, ovvero anche all’indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INIPEC, elenco che, oltre a non essere riferibile alla posizione del M., è stato dichiarato non attendibile da Cass. n. 3709 del giorno 8 febbraio 2019, secondo cui “per una valida notifica tramite PEC si deve estrarre l’indirizzo del destinatario solo dal pubblico registro ReGIndE e non dal pubblico registro INIPEC”). Questo indipendentemente dal fatto che la notifica ad un magistrato non può essere validamente effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica della Cancelleria dell’immigrazione o del protocollo del Tribunale di appartenenza;”.

4. In relazione all’affermazione finale inerente alla notificazione del ricorso, questa Corte ravvisava l’esistenza nell’ordinanza n. 24160 del 2019 di un palese errore materiale e, per tale ragione, veniva redatta dal relatore designato proposta di correzione d’ufficio a norma del secondo inciso dell’art. 391-bis c.p.c., comma 1 e veniva fissata l’odierna adunanza della Corte, in vista della quale non sono state svolte attività difensive.

Motivi della decisione
che:

1. Il Collegio rileva che la proposta di correzione di ufficio appare fondata per le ragioni e nei termini di cui si verrà dicendo.

1.1. Mette conto in primo luogo di rilevare che la circostanza che essa riguarda sicuramente un’affermazione fatta dalla decisione senza efficacia effettivamente giustificativa dell’adottato decisum di inammissibilità non esclude, ma anzi rafforza il convincimento in ordine all’esercizio del potere officioso di correzione.

Tanto perchè, non comportando alcuna incidenza sulla decisione assunta non è possibile dubitare che, in realtà, la Corte proceda ad una correzione che, in ipotesi, possa riguardare impropriamente un errore di diritto, in quanto – al di là della oggettiva connotazione nella specie dell’errore che si rileverà come errore materiale per quanto si dirà trattandosi di errore non incidente sulla decisione, esso per definizione non potrebbe essersi concretato in un errore di diritto, una volta inteso l’errore di diritto come rilevante ex necesse sulla decisione.

1.2. In secondo luogo, una volta considerato, che detta affermazione concerne, nel tenore in cui è stata espressa, una pretesa inidoneità dell’efficacia di un registro rilevante ai fini delle notificazioni a mezzo PEC e, dunque, un apparente principio esegetico suscettibile di applicazione ove dovesse porsi un problema di validità di una notificazione, l’esercizio del potere di correzione risulta giustificato dall’esigenza di evitare che detto principio venga inteso come espressione di un effettivo convincimento esegetico della Corte nei termini in cui figura letteralmente espresso.

2. Tanto premesso, l’errore materiale indicato nella proposta si annida nella parte su indicata della motivazione dell’ordinanza, là dove essa, pur mostrando chiaramente di assumere come presupposto soltanto – per quanto attiene alla notifica presso l’indirizzo di posta elettronica certificata “del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INIPEC” e, si badi, non anche per l’indirizzo di PEC che indica come “quello della cancelleria dell’immigrazione del Tribunale di Firenze”, che è estratto dal REGINDE una condivisibile “inidoneità soggettiva” del registro INIPEC da giustificarsi con esclusivo riferimento alla qualità del soggetto destinatario della notifica, ha poi riferito l’inidoneità al registro INIPEC nella sua oggettività, indicandolo espressamente come “dichiarato non attendibile” da un precedente di questa Corte, sul quale, peraltro, risulta in corso di pubblicazione un’ordinanza di correzione d’ufficio.

E’ palese, viceversa, che nell’ordinanza corrigenda la Corte avrebbe voluto, in realtà, soltanto evidenziare che le due notifiche del ricorso indirizzate al magistrato M. sia come domiciliato presso un indirizzo INIPEC riferito al Tribunale di Firenze come “prot.tribunale.firenzegiustiziacert.it”, sia come domiciliato presso un indirizzo estratto dal REGINDE e riferito allo stesso Tribunale come “cancelleria.immiglrazione.tribunale.firenzegiustizia.it”, riguardavano indirizzi soggettivamente non riferibili – al contrario di quanto dichiarato nelle relate di notifica telematica – quali pretesi luoghi di elezione di domicilio al magistrato. Sicchè, al di là delle espressioni usate, la Corte avrebbe voluto alludere, con riferimento al caso di quello estratto dall’INIPEC (ma non diversamente per quello estratto dal REGINDE) ad una mera inidoneità sul piano soggettivo, cioè per non essere esistenti indirizzi di tal fatta come riferibile al magistrato, nel Registro INIPEC (e nel registro REGINDE), cioè – in sostanza – per non essere presenti in detto registro (e nel REGINDE) indirizzi di domiciliazione elettiva del magistrato in servizio presso un tribunale in plessi organizzatori come quelli dei due indirizzi utilizzati.

L’affermazione generica della inattendibilità di quello che si definì “elenco INIPEC” – quale obiter dictum che, sebbene all’apparenza appoggiato al precedente, isolato, n. 3709 del 2019, non è suscettibile di mettere il discussione il principio, enunciato dalle S.U. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “In materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011 n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia” – voleva essere giustificata, in realtà, dalla rilevata non riferibilità soggettiva.

In sostanza, l’ordinanza voleva dire che le due notificazioni indirizzate al magistrato come asseritamente domiciliato presso i due indirizzi di PEC relativi al Tribunale di Firenze avevano riguardato indirizzi in alcun modo riferibili, sebbene sub specie di elettiva domiciliazione, al magistrato.

3. Ritiene, dunque, la Corte di disporre la correzione dell’ordinanza n. 24160 del 2019 nel seguente modo, con alcune variazioni rispetto al tenore della proposta.

Si intenda espunta in detta ordinanza la seguente proposizione: “questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo PEC al M. “con elezione di domicilio presso l’avvocato Tribunale di Firenze” a un indirizzo di posta elettronica che è quello della cancelleria dell’immigrazione del Tribunale di Firenze, ovvero anche all’indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI PEC, elenco che, oltre a non essere riferibile alla posizione del M., è stato dichiarato non attendibile da Cass. n. 3709 del giorno 8 febbraio 2019, secondo cui “per una valida notifica tramite PEC si deve estrarre l’indirizzo del destinatario solo dal pubblico registro ReGIndE e non dal pubblico registro INI4 PEC”). Questo indipendentemente dal fatto che la notifica ad un magistrato non può essere validamente effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica della Cancelleria dell’immigrazione o del protocollo del Tribunale di appartenenza;”.

Si intenda essa sostituita con la seguente proposizione:

“questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo PEC al M. “con elezione di domicilio presso l’avvocato Tribunale di Firenze” (sic) a un indirizzo di posta elettronica della cancelleria dell’immigrazione del Tribunale di Firenze (presente nel REGINDE) e ad un indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INIPEC, senza che essi siano riferibili alla posizione del M., tenuto conto che la notifica ad un magistrato non si comprende come possa validamente essere effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica della Cancelleria dell’immigrazione o presso l’ufficio del protocollo del Tribunale di appartenenza sul presupposto di una inesistente elezione di domicilio da parte del magistrato ai sensi dell’art. 141 c.p.c., comunque in alcun modo è configurabile ai sensi di tale norma”.

4. Si dispone che la cancelleria provveda ad annotare la presente ordinanza sull’originale dell’ordinanza n. 24160 del 2019.

P.Q.M.
La Corte, visto l’art. 391-bis c.p.c., comma 1, secondo inciso, dispone d’ufficio la correzione della propria ordinanza n. 24160 del 2019 nei termini indicati nella motivazione.

Visto l’art. 288 c.p.c., comma 2, secondo inciso, manda alla cancelleria di provvedere ad annotare la presente ordinanza sull’originale dell’ordinanza n. 24160 del 2019.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile-3, il 14 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 novembre 2019


Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., (ud. 24-09-2019) 06-11-2019, n. 28528

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24934-2018 proposto da:

DOTT D.D. COSTRUZIONI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato CARLO COLAPINTO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FILIPPO COLAPINTO;

– ricorrente –

contro

COINFRA SRL, CONSORZIO PER LE AUTOSTRADE SICILIANE, CURATELA DEL FALLIMENTO (OMISSIS) SRL;

– intimati –

avverso l’ordinanza n. 16354/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 21/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.

Svolgimento del processo
Questa Corte, con ordinanza n. 24934/2018, pronunciata in un giudizio promosso dalla Coinfra spa nei confronti della Dott. D.D. Costruzioni srl, dinanzi al Tribunale di Bari, per sentire accertare la responsabilità della convenuta in ordine alla esclusione della AT.I. futura, che avrebbe dovuto essere costituita tra l’attrice, mandataria, e la Dott. D.D. Costruzioni srl, dalla procedura di pubblico incanto per l’affidamento dei lavori di costruzione di un lotto dell’autostrada Siracusa-Gela indetto dal Consorzio per le Autostrade Siciliane, ha respinto il ricorso per cassazione proposto dalla Dott. D.D. Costruzioni srl nei confronti della Coinfra spa, avverso sentenza della Corte d’appello di Bari, con la quale era stata accolta una domanda subordinata della Coinfra di condanna della convenuta a manlevare l’attrice.

Avverso la suddetta sentenza, la Dott. D.D. Costruzioni srl propone ricorso per revocazione, in unico motivo, nei confronti di Coinfra srl, già Coinfra spa, Consorzio per le Autostrade Siciliane e (OMISSIS) srl, (che non svolgono attività difensiva).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti; il Collegio ha disposto la redazione della ordinanza con motivazione semplificata.

Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta, con unico motivo, che questa Corte sarebbe incorsa in errore di fatto revocatorio per avere omesso di pronunciare sui motivi quarto e settimo del ricorso.

2. La censura è inammissibile.

Invero, questa Corte, nella ordinanza qui impugnata per revocazione, ha espressamente esaminato i motivi quarto e settimo del ricorso per cassazione della Dott. D.D. Costruzioni srl, ritenendoli infondati e quindi respingendoli. Questa Corte, nella decisione impugnata per revocazione, ha cosi statuito, per quanto qui interessa: “Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 11, 117, 111, Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè omessa pronuncia, avendo la Corte d’appello omesso ogni decisione in merito all’istanza di disapplicazione della normativa nazionale poichè in contrasto con quella comunitaria in ordine alla mancata trasmissione alla Coinfra s.p.a., per il successivo invio all’appaltante, dei certificati comprovanti il possesso dei requisiti tecnici per partecipare alla gara… Con il settimo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Dir. CEE n. 37/93, non avendo il giudice d’appello disapplicato la L. n. 109 del 1994, art. 10, comma 1 quater, in quanto contrastante con la suddetta direttiva circa i presupposti dell’esclusione dalla gara d’appalto…. Il quarto motivo è parimenti infondato, in quanto la Corte d’appello si è pronunciata chiaramente sull’insussistenza dei presupposti della invocata disapplicazione della normativa interna per un asserito contrasto con la normativa comunitaria indicata dalla ricorrente che riguardava ben diversa fattispecie relativa alla falsità delle dichiarazioni rese dal partecipante alla gara pubblica d’appalto…. Il settimo motivo va, infine, respinto in quanto ha prospettato un contrasto della normativa applicata con la direttiva comunitaria 14.6.93 n. 37 non ben esplicitato, atteso che la Corte d’appello ha ben chiarito che tale direttiva riguardava fattispecie diversa da quella esaminata (inosservanza di termine perentorio per la presentazione di documentazione)”.

Vero che, in riferimento all’omessa pronuncia da parte della Corte di cassazione su un motivo di ricorso, l’unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la relativa sentenza è, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, la revocazione per l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità, errore che presuppone tuttavia sempre l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa (Cass. 16003/2011; Cass. 26301/2018). Non costituiscono invece vizi revocatori delle sentenze della S.C., ex art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4, nè l’errore di diritto sostanziale o processuale, nè l’errore di giudizio o di valutazione (Cass. S.U. 30994/2017; Cass.8984/2018).

Ora, in ricorso per revocazione, si sollecita piuttosto una inammissibile nuova valutazione delle ragioni fondanti i motivi quarto e settimo del ricorso per cassazione, espressamente giudicati infondati da questa Corte nell’ordinanza impugnata, lamentandosi il mancato rilievo, d’ufficio, di questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 06 novembre 2019


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 13-03-2019) 04-11-2019, n. 28269

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 35880/2015 R.G. proposto da:

COEDIN S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Nicola Palombi e dall’avv. Ubaldo Perfetti, con domicilio eletto in Roma, in Piazza Cairoli n. 6, presso lo studio dell’avv. Guido Alpa.

– ricorrente –

contro

F.Q., rappresentato e difeso dall’avv. Paolo Viozzi, con domicilio eletto in Roma, alla Via Calamatta n. 16 presso lo studio dell’avv. Federico Rossi;

– ricorrente in via incidentale –

VIA VAI S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Tidei e dall’avv. Gian Luca Grisanti, con domicilio eletto in Roma alla Via Prenestina Nuova n. 1534, presso lo studio dell’avv. Adele Di Flavio.

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI ANCONA n. 796/2014, depositata il 27.10.2014;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13.3.2019 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso, chiedendo di accogliere il quinto motivo del ricorso principale e di dichiarare inammissibile il ricorso incidentale;

uditi gli avv. Ubaldo Perfetti, l’avv. Paolo Viozzi, e l’avv. Adele di Flavio.

Svolgimento del processo
F.Q. ha evocato in giudizio la Via Vai s.p.a. e la Coedin s.r.l. dinanzi al Tribunale di Fermo, assumendo di aver svolto attività di mediazione in favore delle convenute; che, in particolare il ricorrente era stato contattato dalla Via Vai s.p.a., interessata all’acquisto di un immobile in (OMISSIS) e in (OMISSIS) da adibire alla rivendita di auto nuove, ed aveva stabilito contatti con C.R., tecnico di fiducia della Coedin s.r.l., riscontrando la disponibilità di quest’ultima a cedere un proprio opificio ancora da realizzare; che tali incontri erano esitati nella vendita di una costruzione per un corrispettivo di L. 3.500.000.000.

Ha chiesto la condanna di ciascuna delle convenute al pagamento di una provvigione pari a L. 70.000.000, oltre accessori.

Il Tribunale ha respinto entrambe le domande, con pronuncia parzialmente riformata in appello.

La Corte distrettuale ha – difatti – ritenuto che la prescrizione annuale del diritto alla provvigione richiesta nei confronti della Via Vai s.p.a., decorresse dalla data di stipula dei preliminari di vendita (del 11.5.1999 e del 7.6.1999), non fosse stata sospesa ai sensi dell’art. 2941 c.c., n. 8 dal silenzio serbato dai contraenti circa il perfezionamento dell’affare e fosse stata interrotta tardivamente dal F. solo con la notifica della citazione introduttiva.

Quanto ai rapporti con la ricorrente, la Corte di merito ha rilevato che il F. aveva partecipato ad una serie di incontri con la Via Vai s.p.a. e il C., tecnico di fiducia della Coedin s.r.l., e ha concluso che il mediatore avesse svolto un’attività rivelatasi utile per il buon esito dell’affare, reputando irrilevante che la Coedin s.r.l. non avesse conferito alcun incarico o che non fosse a conoscenza del ruolo e della qualità del resistente.

Ha infine ritenuto incontestato che questi fosse iscritto all’albo dei mediatori.

La cassazione di questa sentenza è chiesta dal Coedin s.r.l. sulla base di cinque motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

F.Q. ha proposto ricorso incidentale in tre motivi.

La Via Vai ha depositato controricorso.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo del ricorso principale censura la violazione degli artt. 1754 e 1755 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando alla Corte di merito di non aver considerato che il diritto alla provvigione matura solo nei confronti delle parti che abbiano consapevolezza e siano a conoscenza del ruolo svolto dal mediatore, potendo solo in tal caso valutare l’opportunità di avvalersi delle relative prestazioni; che nel caso in esame, non era sufficiente che, come accertato dalla Corte di merito, il F. avesse partecipato ad taluni incontri volti a definire l’affare o che il suo intervento si fosse rilevato utile per il perfezionamento della vendita.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che, data la condizione di inscientia in cui versava la ricorrente, competeva al mediatore la prova di aver reso palese la propria qualità ed il ruolo svolto nell’ambito delle trattative, per cui, in mancanza, la domanda non poteva essere accolta.

Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando che la sentenza abbia omesso di pronunciare sull’eccezione relativa alla inconsapevolezza, da parte della ricorrente, del ruolo svolto dal F..

Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 1754 e 1755 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 sostenendo che, avendo il F. operato su incarico della Via Vai s.p.a., si era perfezionato con quest’ultima un rapporto di mandato e non di mediazione, con la conseguenza che solo la mandante era tenuta a pagare il compenso.

1.1. I quattro motivi, che sono suscettibili di esame congiunto, sono fondati.

La Coedin, convenuta in giudizio unitamente alla Via Vai s.pa., per il pagamento delle provvigioni per l’attività svolta dal resistente in occasione del perfezionamento della vendita immobiliare di cui in atti, aveva espressamente eccepito sin dal primo grado di non esser tenuta al pagamento, non essendo stata edotta (e non essendo a conoscenza) che il F. era intervenuto nell’affare nella qualità di mediatore. L’eccezione era stata riproposta in appello, come è dato atto nella sentenza impugnata (cfr. sentenza pag. 5).

La Corte anconetana, dopo aver stabilito che il F. aveva partecipato a più incontri con la Via Vai sp.a. e con il tecnico di fiducia della ricorrente, ha obiettato che “anche la semplice attività di reperimento dei clienti o la segnalazione dell’affare legittima il diritto alla provvigione, sempre che la descritta attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore”.

La sentenza è, in tal modo, incorsa nei vizi denunciati.

Secondo il disposto dell’art. 1754 c.c. mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcune di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza, essendo in posizione di imparzialità rispetto ai contraenti.

Accanto alla mediazione tipica, è configurabile una mediazione cosiddetta atipica, che ricorre nel caso in cui il mediatore abbia ricevuto l’incarico, da uno dei contraenti, di svolgere un’attività intesa alla ricerca di una persona interessata alla conclusione di uno specifico affare, a determinate e prestabilite condizioni (Cass. s.u. 19161/2017).

In entrambe le ipotesi, il rapporto assume carattere contrattuale (Cass. 18514/2009; Cass. 5777/2006; Cass. 3472/1998; Cass. 6813/1988; Cass. 2631/1982) e può perfezionarsi anche mediante comportamenti concludenti che implichino la volontà dei contraenti di avvalersi dell’opera del mediatore o mediante la semplice accettazione dell’opera da questi svolta (stante l’assenza di vincoli di forma anche se l’operazione da concludere abbia ad oggetto diritti immobiliari: Cass. 11655/20188; Cass. 1934/1982).

Occorre quindi che la parte (destinataria della domanda di pagamento del compenso) sia stata posta in grado di conoscere il ruolo svolto dall’intermediario, il quale deve operare in modo palese, rendendo nota la qualità rivestita (Cass. 4107/2019; Cass. 11521/2008).

L’onere della prova di tale presupposti è a carico della parte che pretenda di essere remunerata per l’opera prestata, trattandosi di elemento costitutivo del diritto al compenso (Cass. 6004/2007; Cass. 3154/1980).

1.2. La Corte di merito, qualificato il rapporto come mediazione tipica, non poteva – quindi – condannare la Coedin s.r.l. al versamento del compenso per il solo fatto che l’attività del F. si era rivelata utile per la conclusione dei preliminari di vendita, ma, avendo la Coedin s.r.l. specificamente contestato di essere a conoscenza del ruolo assunto dal resistente, era tenuta a verificare se vi fosse prova che questi aveva palesato la propria qualità, tenendo conto che era il F. a dover dimostrare la sussistenza delle condizioni cui era subordinato il diritto alla provvigione.

Lo stesso inquadramento del rapporto nell’ambito della mediazione tipica necessitava della previa verifica della natura dell’incarico conferito dalla Via Vai s.p.a. al fine di stabilire se si fosse in presenza di un mandato, avendo riguardo alla natura vincolante o meno di detto incarico (Cass. 482/2019; Cass. 163882/2009; Cass. 24333/2008).

2. Il quinto motivo denuncia la violazione della L. n. 39 del 1989, artt. 3 e 6, nonchè dell’art. 345 c.p.c., sostenendo che la sentenza abbia erroneamente escluso che l’eccezione di insussistenza della prova dell’iscrizione del F. nell’albo dei mediatori potesse esser proposta direttamente in appello, non considerando non solo che la questione era stata già sollevata in primo grado, ma che, inoltre, essendo l’iscrizione una condizione di validità del rapporto, la sua carenza poteva esser rilevata d’ufficio o comunque dedotta direttamente in secondo grado.

Il motivo è infondato perchè la sentenza impugnata, pur dando incidentalmente atto della tardività dell’eccezione proposta dalla ricorrente, l’ha respinta nel merito, osservando che, anche riguardo a tale profilo, è invocabile il principio di non contestazione, e che, alla luce delle difese svolte dalla Coedin s.r.l., non era necessaria alcuna verifica probatoria in ordine all’iscrizione all’albo dei mediatori da parte del F..

Non avendo la Corte di merito dichiarato inammissibile la censura ai sensi dell’art. 345 c.p.c. e non avendo negato rilievo all’iscrizione del nell’albo dei mediatori quale condizione di validità del rapporto, i vizi denunciati non possono ritenersi sussistenti.

3. Il primo motivo del ricorso incidentale deduce la violazione dell’art. 1755 c.c., comma 1, artt. 2950 e 2935 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la sentenza erroneamente fatto decorrere la prescrizione del diritto al compenso dalla conclusione dei contratti preliminari di vendita in luogo che dalla data del definitivo, trascurando inoltre che nessuna comunicazione era giunta al F. circa data di conclusione dei suddetti contratti, i quali, peraltro, non erano stati trascritti.

In ogni caso, il decorso della prescrizione doveva considerarsi sospeso, perchè le società convenute aveva occultato dolosamente il perfezionamento dell’affare.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la prova dell’intervenuta prescrizione non era stata raggiunta, dato che i preliminari erano privi di data certa e non erano stati trascritti e che la Via Vai s.p.a. non aveva dedotto e dimostrato quale fosse il momento in cui il mediatore aveva appreso della conclusione dell’affare. La missiva del 26.6.2000, valorizzata – a tali effetti – dalla Corte distrettuale, non era stata prodotta dalla Via Vai s.p.a. nè quest’ultima aveva dichiarato di volersene avvalere, sicchè il documento non poteva essere utilizzato per ritenere estinto il diritto al compenso.

Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 2943 c.c., comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la prescrizione doveva ritenersi interrotta tempestivamente dalla notifica della citazione introduttiva, la quale, sebbene pervenuta alle società destinatarie in data 28.6.2000, era stata consegnata all’ufficiale giudiziario il 26.6.2000, impedendo comunque l’estinzione del diritto alla provvigione.

3.1. Il ricorso incidentale è inammissibile.

F.Q. ha tempestivamente notificato il controricorso alla sola Coedin s.r.l. mentre, preso atto che la notifica alla Via Vai s.p.a. (unica parte verso cui era indirizzato il ricorso incidentale), non era andata a buon fine a causa del trasferimento del difensore, con istanza dell’11.5.2015, ha chiesto di essere rimesso in termini.

Con provvedimento presidenziale del 29.5.2015, l’istanza è stata rimessa alle valutazioni del Collegio.

Dalla certificazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Ancona (la cui produzione è ammissibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 1), risulta tuttavia che, già in data 11.7.2014, il trasferimento dello studio da (OMISSIS) a (OMISSIS) era stato annotato nell’albo professionale.

Solo in data 25.11.2015 il F. ha rinnovato la notifica (cfr. attestazione dell’ufficiale giudiziario in calce al controricorso depositato in data 22.1.2016).

Giova ribadire che la notificazione dell’impugnazione presso il domicilio dichiarato nel giudizio di merito, che abbia avuto esito negativo per l’avvenuto trasferimento dello studio, non ha alcun effetto giuridico.

La notifica va difatti effettuata al domicilio reale (quale risulta dall’albo professionale ovvero dagli atti processuali), poichè il dato di riferimento personale prevale su quello topografico.

La parte impugnante ha, in tal caso, la facoltà e l’onere di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio e la successiva notificazione avrà effetto dalla data di attivazione del procedimento, semprechè detta ripresa sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto tenuti presenti i tempi necessari per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni necessarie per provvedere alla rinnovazione (Cass. s.u. 17352/2009; Cass. s.u. 15594/2016; Cass. s.u. 15295/2014).

In tale ipotesi, la possibilità di superare eventuali decadenze è subordinata a due condizioni: l’errore sul domicilio del destinatario non deve essere imputabile al notificante e la nuova notifica deve essere eseguita entro un termine ragionevole (non superiore alla metà di quello stabilito a pena di decadenza).

Riguardo al primo profilo, la notifica presso il procuratore costituito o domiciliatario va effettuata nel domicilio eletto nel giudizio, se questi esercita l’attività in un circondario diverso da quello di assegnazione, o, in alternativa, nel domicilio effettivo, previo riscontro, da parte dell’interessato, delle risultanze dell’albo professionale, dovendosi escludere che tale onere di verifica attuabile anche per via informatica o telematica – arrechi un significativo pregiudizio temporale o impedisca di fruire, per l’intero, dei termini di impugnazione, non essendo giustificata la notificazione ad un indirizzo diverso (Cass. s.u. 14594/2016; Cass. s.u. 17532/2009; Cass. s.u. 3818/2009).

L’errore in cui è incorso il F. non può, quindi, ritenersi scusabile – e non giustifica la chiesta rimessione in termini – dato che il trasferimento era stato annotato nell’albo degli avvocati da data ampiamente anteriore alla proposizione dell’impugnazione incidentale, la quale è stata, inoltre, notificata presso il domicilio effettivo del difensore della società resistente a distanza di mesi dal momento in cui la parte ha avuto conoscenza delle ragioni per le quali la prima notifica non aveva avuto esito.

Va inoltre rilevato che il diritto del mediatore alla provvigione nei confronti di più le parti dell’affare concluso per effetto del suo intervento dà luogo a crediti distinti che possono essere fatti valere in separati giudizi (Cass. 1152/1995; Cass. 3894/1979).

Qualora detti crediti siano dedotti in un unico giudizio, si è in presenza un caso di litisconsorzio facoltativo tra cause connesse per il titolo, da cui consegue l’applicabilità, nei gradi di impugnazione, dell’art. 332 c.p.c. (Cass. 12093/2019; Cass. 30730/2018; si veda pure, in senso parzialmente contrario, Cass. 1668/2005, che sostiene l’applicabilità dell’art. 331 c.p.c. in presenza di un vincolo di dipendenza in senso tecnico tra le domande di pagamento delle provvigioni proposte verso più parti).

Di conseguenza, la tempestività della notifica effettuata nei confronti della Coedin non poteva determinare l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale proposta verso la Via Vai s.p.a., dato inoltre che, nello specifico, il F. aveva evocato in causa le due società, chiedendo – a ciascuna di esse – il pagamento di L. 70.000.000 sulla base di fatti costitutivi distinti (il conferimento di uno specifico incarico da parte della ricorrente principale e il concreto svolgimento dell’attività di mediazione verso la Via Vai s.p.a.) ed aveva riproposto in appello le medesime circostanze di fatto dedotte in primo grado cfr. sentenza di appello pag. 2).

Lo stesso ricorso incidentale era rivolto esclusivamente nei confronti della Via Vai s.p.a. ed attingeva profili – (la prescrizione del credito) – che non interessavano la Coedin s.p.s., con la conseguente impossibilità di configurare comunque un vincolo di dipendenza e, dunque, di applicare l’art. 331 c.p.c..

Sono quindi accolti il primo, il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, è respinto il quinto motivo di detto ricorso ed è dichiarato inammissibile il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Ancona, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare il ricorrente in via incidentale è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
accoglie il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo del ricorso principale, rigetta il quinto motivo di detto ricorso e dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare il ricorrente in via incidentale è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 27-06-2019) 22-10-2019, n. 26938

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI M. Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 27881/14, proposto da:

Conceria Vesuvio di E.M.R. sas, in persona del legale rapp.te, rappresentata e difesa in virtù di procura a margine del ricorso, dall’avv.to Cocchi Gian Pietro, con il quale è elettivamente domiciliata in Roma, Corso d’Italia n. 11, presso lo studio dell’avv.to Carini Giacomo;

– ricorrente –

contro

Equitalia Sud Spa;

– intimata –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 3030/17/14, depositata il 21/03/2014 e non notificata;

udita la relazione del consigliere D’Angiolella Rosita all’udienza del 27 giugno 2109.

Svolgimento del processo
Che:

Conceria Vesuvio di E.M.R. s.a.s. impugnava, dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli l’estratto del ruolo n. 2009/007469 relativo alla cartella esattoriale n. (OMISSIS), per il pagamento della somma di Euro 2.182.402,33, cartella che la ricorrente assumeva non esserle stata notificata.

La Commissione provinciale rigettava il ricorso rilevando la ritualità della notifica della cartella effettuata presso la sede della società con il deposito al Comune ed affissione dell’avviso all’albo comunale, dopo la comunicazione di irreperibilità del destinatario.

La società proponeva appello innanzi alla Commissione Tributaria Regionale (di seguito per brevità CTR), deducendo che a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 258 del 2012, anche nel caso di notifica di cartelle esattoriali, trova applicazione l’art. 140 c.p.c. nella sua interezza. La Commissione Regionale, respingeva l’appello della società, confermando la regolarità del procedimento notificatorio.

Avverso tale sentenza propone ricorso in Cassazione la società contribuente affidandosi a due motivi.

Equitalia sud Spa è rimasta intimata nonostante la ritualità della notifica del ricorso.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Motivi della decisione
Che:

La ricorrente si affida a due motivi di ricorso, denunciando in entrambi, l’erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la CTR disatteso gli esiti della sentenza della Corte costituzionale n. 258 del 2012 riguardanti il procedimento notificatorio della cartella di pagamento in caso di irreperibilità cd. relativa. In particolare, mentre con il primo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26 e art. 140 c.p.c. nel secondo, denuncia la violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 140 c.p.c..

I motivi come formulati consentono, dunque, il loro esame congiunto.

Va sinteticamente premesso che la ricorrente ha agito in giudizio allo scopo di ottenere, attraverso la proposta opposizione, la declaratoria di nullità della cartella emessa a suo carico invocando l’invalidità della sua notificazione (e quindi del ruolo, posto che la sua notificazione coincide con quella della cartella D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21). Senza qui soffermarsi sull’ammissibilità dell’impugnativa del ruolo e/o della cartella, nonchè sull’ammissibilità della impugnazione della cartella non notificata o invalidamente notificata, della cui esistenza il contribuente sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta, su cui si richiama il consolidato indirizzo di questa Corte inaugurato con la sentenza delle Sezioni Unite n. 19704 del 02/10/2015, Rv. 636309-01, seguito, senza contrasti, dalla giurisprudenza successiva (tra cui v. Sez. 6 L., Ordinanza n. 5443 del 25/02/2019, Rv. 652925- 01), la questione che si pone riguarda essenzialmente il se, per la notificazione della cartella alla società contribuente, siano state rispettate le forme di cui all’art. 140 c.p.c. conseguenti alla pronuncia di illegittimità costituzionale intervenuta nelle more del processo tributario.

La CTR ha risolto la questione in senso svaforevole alla ricorrente, ritenendo che la declaratoria d’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per le notificazioni da effettuarsi ai sensi dell’art. 140 c.p.c. (cd. irreperibilità relativa) “non ha affatto cancellato la norma richiamata dall’ordinamento ma ha solo limitato la sua applicazione ai casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario”, ipotesi che ha escluso sussistesse per la società ricorrente in quanto “dalla notifica in questione risulta che la società aveva l’ufficio nel Comune ove doveva essere eseguita la notificazione(…)”.

Contrariamente a quanto ritenuto dai secondi Giudici, nella specie, non è in discussione che la società ricorrente avesse la sede nel comune ove doveva essere eseguita la notificazione, essendosi il ricorrente sempre doluto dell’invalidità della notifica della cartella per mancata osservanza delle le formalità di cui all’art. 140 c.p.c., quale norma applicabile a seguito della sentenza 22 novembre 2012, n. 258 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 4, nella parte in cui prevede – in caso di irreperibilità relativa del contribuente – che la notifica della cartella possa avvenire attraverso il semplice deposito dell’atto presso l’albo comunale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e).

Ed infatti, il Giudice delle Leggi ha ristretto la sfera di applicazione del combinato disposto delle disposizioni citate alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, ipotesi per la quale è applicabile il disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., e quindi, dell’art. 140 c.p.c. (cui anche rinvia l’alinea del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1) che testualmente così dispone: “Se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’articolo precedente, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”.

Proprio in relazione agli esiti conseguenti alla declaratoria di incostituzionalità di cui alla citata sentenza della Corte costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte, che qui si condivide e si fa propria, afferma che nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario, va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), sicchè è necessario, ai fini del perfezionamento della notifica della cartella, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014, Rv. 634229-01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9782 del 19/04/2018, Rv. 647736- 01; Sez. 5, Ordinanza n. 27825 del 31/10/2018, Rv. 651408-01).

Il ricorso va, dunque, accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR della Campania in diversa composizione, affinchè verifichi la ritualità del procedimento notificatorio sulla base dei principi innanzi esposti; la CTR, in sede di rinvio, provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Campania in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

Cos’ deciso in Roma, nella camera di consiglio della V Sezione Civile, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2019


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 15-05-2019) 10-10-2019, n. 25450

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – rel. Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1673-2018 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

C.M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO TIMI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2034/26/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della PUGLIA, depositata il 07/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MOCCI Mauro.

Svolgimento del processo
che l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia che aveva accolto l’appello di C.M.F. contro la decisione della Commissione tributaria provinciale di Foggia. Quest’ultima aveva invece respinto il ricorso del contribuente, in ordine ad un avviso di accertamento per IRPEF, IRES e IVA, relativo all’anno 2009;

Motivi della decisione
che il ricorso dell’Agenzia delle Entrate è articolato in due motivi;

che, attraverso il primo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4;

che la sentenza impugnata avrebbe accolto un motivo di invalidità, mai proposto nel ricorso originario del contribuente; che, mediante il secondo, l’Agenzia assume la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60 nonché artt. 158 e 160 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, giacché la CTR avrebbe erroneamente tratto gli elementi relativi al domicilio fiscale del contribuente da un dato diverso rispetto al modello unico della dichiarazione dei redditi;

che l’intimato ha resistito con controricorso;

che la prima censura è fondata;

che il termine di decadenza stabilito, a carico dell’ufficio tributario ed in favore del contribuente, per l’esercizio del potere impositivo, ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del fisco, sicchè è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o no della relativa eccezione, che ha natura di eccezione in senso proprio e non è, quindi, rilevabile d’ufficio (Sez. 5, n. 27562 del 30/10/2018; Sez. 6-5, n. 31224 del 29/12/2017);

che, in particolare, la CTR non avrebbe potuto escludere la sanatoria invocata dall’Ufficio sulla scorta “del decorso del termine di decadenza del potere di accertamento della A.F.”, giacchè tale eccezione non era stata sollevata in primo grado; che anche il secondo rilievo è fondato;

che, in tema di accertamento delle imposte dei redditi, in caso di originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi, è valida la notificazione dell’avviso perfezionatasi presso quest’ultimo indirizzo, atteso che l’indicazione del comune di domicilio fiscale e dell’indirizzo, da parte del contribuente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, va effettuata in buona fede e nel rispetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Sez. 5, n. 25680 del 14/12/2016; Sez. 6-5, n. 15258 del 21/07/2015);

che, pertanto, in accoglimento del ricorso la sentenza va cassata ed il giudizio rinviato alla CTR Puglia, in diversa composizione, affinché si attenga agli enunciati principi e si pronunzi anche con riguardo alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 20-06-2019) 24-09-2019, n. 23706

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12505-2015 proposto da:

V.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA FRANCESCO SIACCI 4, presso lo studio dell’avvocato PERONACE MONICA, rappresentato e difeso dall’avvocato LAGRECA ANGELA LILIANA;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA;

– intimata –

avverso la sentenze n. 2234/2014 della COMM. TRIB. REG. di BARI depositata il 11/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2019 dal Consigliere Dott. CAPRIOLI MAURA.

Svolgimento del processo
Ritenuto che:

Con sentenza nr 2234/20014 la CTR di Bari accoglieva parzialmente l’appello principale proposto V.D. e quello incidentale proposto da Equitalia Sud avverso la sentenza nr 185/2012 della CTP di Bari ritenendo per gli aspetti che qui rilevano ritualmente eseguite le notifiche delle cartelle contestate ai punti 1, 3, 4, 5, 6, 7 e 9 con l’esibizione dell’avviso di accertamento e non correttamente eseguite quelle riportate ai punti 2 ed 8 della sentenza.

Avverso tale sentenza V.R. propone ricorso per cassazione basato su un unico articolato motivo. Nessuno si costituisce per Equitalia Sud.

Motivi della decisione
Ritenuto che:

Il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e degli artt. 1335 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Sostiene infatti che l’esibizione del mero avviso di accertamento non sarebbe sufficiente nel caso in cui come nella specie sia contestato il contenuto della busta corrispondente al predetto avviso.

Osserva che in tale ipotesi l’Amministrazione avrebbe dovuto provare il buon fine della procedura.

Sul tema si registrano, invero, due diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità, uno secondo cui nel caso di contestazione del contenuto l’onere della prova spetta all’Amministrazione finanziaria (cfr Cass. 2015 nr 2625) e l’altro prevalente cui questo Collegio intende aderire in base al quale, ove il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della notificazione è sufficiente – anche alla luce della disciplina dettata dal D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39 – che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento a carico dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; ai predetti fini non si ritiene invece necessario che l’agente della riscossione dia la prova anche del contenuto del plico spedito con lettera raccomandata, dal momento che l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 5397 del 18/3/2016; n. 15315 del 4/7/2014; n. 9111 del 6/6/12; n. 20027 del 30/9/2011).

In altri termini, la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere l’invio e la conoscenza dell’atto, mentre l’onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l’atto spetta non già al mittente (in tal senso, Cass. ord. n. 9533 del 12/5/2015; n. 2625 del 11/2/2015; n. 18252 del 30/7/2013; n. 24031 del 10/11/2006; m 3562 del 22/2/2005), bensì al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. 22 maggio 2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322 del 14/11/2014; n. 15315 del 4/7/2014; n. 23920 del 22/10/13; n. 16155 del 8/7/2010; n. 17417 del 8/8/2007; n. 20144 del 18/10/2005; n. 15802 del 28/7/2005; n. 22133 del 24/11/2004; n. 771 del 20/1/2004; n. 11528 del 25/7/2003; n. 4878/1992; 4083/1978; cfr. Cass., ord. n. 20786 del 2/10/2014, per la quale tale presunzione non opererebbe con inversione dell’onere della prova – ove il mittente affermasse di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contestasse tale circostanza).

L’orientamento prevalente risulta peraltro conforme al principio generale di c.d. “vicinanza della prova”, poichè la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato) che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto (Cassazione civile, sez. trib., 28/12/2018, n. 33563).

Merita dunque di essere confermato il principio per cui, in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26 (così come, più in generale, in caso di spedizione di plico a mezzo raccomandata), la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta dal notificante mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, poichè, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui all’art. 2729 c.c.) della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione, come nel caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un atto diverso da quello che si assume spedito) (cfr sul punto Cass. 33563/2018).

Ne consegue che, nel caso di specie, non avendo il contribuente fornito la prova dell’asserita assenza, all’interno della busta notificatagli, delle cartelle detta notifica deve ritenersi validamente perfezionata.

I medesimi principi sono stati recentemente confermati da Cass., Sez. 6-5, 21.2.2018, n. 4275, Rv. 647134-01, la quale ha ribadito che la notificazione della cartella di pagamento può essere eseguita anche mediante invio, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, (perfezionandosi, in tal caso, alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redazione di un’apposita relata di notifica, in quanto l’avvenuta effettuazione della notificazione, su istanza del soggetto legittimato, e la relazione tra la persona cui è stato consegnato l’atto ed il destinatario della medesima costituiscono oggetto di una attestazione dell’agente postale assistita dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c.), mentre la complessiva legittimità di tale forma di notifica (cd. diretta) è stata da ultimo confermata da Corte Cost., n. 175 del 2018, la quale ha osservato come, alla luce di una lettura combinata del cit. art. 26 e della L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), le ‘regole semplificate (si discorre, nella motivazione del giudice delle leggi, di “scostamenti”) della notifica in commento rispetto al regime “ordinario” non integrano alcuna violazione dell’art. 24 Cost., art. 3 Cost., comma 1 e art. 111 Cost., commi 1 e 2 (Cass. 2018 nr 27261).

Va ricordato poi che, in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6395 del 19/03/2014; Sez. 5, Sentenza n. 14327 del 19/06/2009).

Ciò posto, nel caso di specie la notifica della comunicazione dell’iscrizione ipotecaria, pacificamente eseguita a mezzo del servizio postale in data 26.2.2010, deve ritenersi regolarmente perfezionata con l’avviso di ricevimento debitamente depositato dalla società Equitalia Gerit s.p.a. in aderenza al dettato normativo sopra richiamato.

Non è dunque necessario che l’agente della riscossione produca la copia della cartella di pagamento, la quale, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnata a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile,come si è detto,solo se il medesimo provi di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (così Cass. n. 9246/15, nonchè Cass. n. 24235/15 e Cass. n. 15795/16, tra le più recenti Cass. 2018 8086; Cass. 21533/2017; ancora, sulla presunzione di conoscenza anche Cass. n. 15315/14).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese in assenza dello svolgimento di una attività difensiva da parte della controricorrente.

Non sussistono le condizioni per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato stante l’ammissione del contribuente al gratuito patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso; nulla per le spese Così deciso in Roma, il 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 02-10-2018) 11-09-2019, n. 22644

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 22002/2011 R.G. proposto da:

UNIPART EXPORTS LIMITED, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in (OMISSIS) (P. IVA: (OMISSIS)), difesa dall’Avv. Enrico Caruso, del Foro di Milano, elettivamente domiciliata presso l’Avv. Mario Valentini, con studio in Roma, viale Castro Pretorio n. 122;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, domicilia;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 12/10/2011, pronunciata il 23 settembre 2010 e depositata 11 febbraio 2011;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 02 ottobre 2018 dal Consigliere Fabio Antezza;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Zeno Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avv. Tonio Di Iacovo (per delega dell’Avv. Enrico Caruso), che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;

udito per la resistente A.E. l’Avv. Roberta Guizzi (dell’Avvocatura Generale dello Stato), che ha insistito per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. UNIPART EXPORTS LIMITED ricorre, con tre motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe di accoglimento dell’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria avverso la sentenza dalla CTP di Roma (n. 352/13/2009). Quest’ultima, a sua volta, di accoglimento dell’impugnazione proposta dal contribuente avverso avviso di accertamento IVA (n. (OMISSIS)) relativo all’esercizio 1999, emesso per recupero di IVA indebitamente detratta per Euro 362.707,16 (oltre sanzioni ed interessi).

2. La complessità della ricostruzione dei fatti di causa ne impone una puntuale loro sintesi, nei termini che seguono (per quanto emerge dalla sentenza impugnata oltre che dal ricorso, dal controricorso e dagli atti e documenti in essi riportati e da essi richiamati nonchè depositati).

2.1. La UNIPART EXPORTS LIMITEDv (contribuente attuale ricorrente, di seguito anche: “UNIPART LTD”), con sede legale in Inghilterra e rappresentante fiscale in Italia, è parte del gruppo multinazionale UNIPART che si occupa, in via principale, del controllo, della gestione e della logistica delle catene produttive in molteplici settori. Per quanto rileva nel presente processo, alla contribuente è affidata l’attività concernente la logistica di prodotti del settore auto e la consulenza inerente la ricerca della migliore efficienza produttiva, compresi studi e realizzazione di progetti relativi alla massimazione delle disponibilità dei ricambi, alla riduzione dei costi di magazzino, alla gestione dei depositi ed all’incremento dell’efficienza della catena valore.

Con rifermento all’attività di cui innanzi UNIPART LTD concluse un accordo con una società di diritto inglese del Gruppo Jaguar (di seguito: “Jaguar UK”), esteso anche all’Italia in forza di accordo con la Jaguar Italia s.p.a., avente ad oggetto un servizio integrale di analisi, studio, raccolta, immagazzinamento e consegna di parti di ricambio per autovetture da sette depositi a circa 700 rivenditori/concessionari Jaguar. Tale servizio prevedeva la gestione di magazzino, la distribuzione multicanale dei pezzi di ricambio, la creazione ed il controllo del sistema informatico relativo all’attività di logistica, la gestione delle forniture ai clienti della stessa Jaguar UK, oltre a vari servizi tecnici e commerciali.

Per l’espletamento della detta attività, con riferimento ai concessionari italiani, la contribuente concluse con Jaguar Italia s.p.a. un accordo (lettere 22 dicembre 1995 e 19 febbraio 1996), avente ad oggetto attività di supporto (nonchè di controllo ed ottimizzazione delle attività logistiche), da parte della Jaguar Italia s.p.a. ed in ragione dell’osservatorio privilegiato di essa nell’ambito delle relazioni con la rete dei concessionari, della gestione della politiche commerciali, del marketing, dei prezzi e delle performance di distribuzione.

La contribuente, con sede legale in Inghilterra, nominò in Italia un rappresentante fiscale che sin dal 12 gennaio 1996 aveva comunicato di esercitare l’attività di “altri servizi connessi all’informatica” senza avvalersi di uffici, magazzini o locali e di esercitare l’attività presso la propria residenza (come emerge in maniera non controversa dal controricorso).

In esecuzione dell’accordo da ultimo citato Jaguar Italia s.p.a. emise nei confronti della UNIPART LTD fatture comprensive dell’IVA, ritenendole operazioni imponibili D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ex art. 7, comma 3. Ciò quindi in applicazione del principio di territorialità dell’imposta di cui al citato art. 7 (nella formulazione ratione temporis applicabile nella versione antecedente alle consistenti modifiche apportate dal D.Lgs. 11 febbraio 2010, n. 18, art. 1, comma 1, lett. b)) per prestazioni di servizi generici. Queste ultime, in forza del detto comma 3, per il contribuente, avrebbero dovuto considerarsi effettuate nel territorio dello Stato in quanto emesse da soggetto avente domicilio e residenza in Italia, la Jaguar Italia s.p.a., e, quindi non rientranti in taluna delle ipotesi derogatorie di cui al medesimo art. 7, successivo comma 4.

La contribuente, tramite il proprio rappresentante fiscale in Italia, chiese il rimborso dell’IVA di cui alle dette fatture, non avendo effettuato in Italia operazioni attive comportanti un suo debito d’IVA nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

In forza della richiesta di cui innanzi, l’A.E. effettuò nei confronti della UNIPART LTD un’ispezione contabile e documentale, eseguita mediante accesso nei locali destinati all’esercizio dell’attività, a fini IVA, relativamente a diverse annualità, tra le quali il 1999. L’accertamento fu condotto al fine di verificare la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi della legittimità dell’imposizione a fini IVA delle operazioni di cui alle fatture emesse dalla Jaguar Italia s.p.a. e, quindi, della rimborsabilità dell’imposta alla contribuente, e si concluse con PVC del 3 dicembre 2007.

Dalla detta attività emerse, in particolare, l’assenza di personale dipendente, di beni strumentali, di conti correnti in Italia, di ricevute di pagamento delle fatture di acquisto e che, quindi (anche) per il 1999 l’unica attività svolta dalla UNIPART LTD, con rappresentante fiscale in Italia, aveva avuto ad oggetto solo la gestione amministrativa della tenuta della contabilità relativa alle transazioni commerciali tra la UNIPART e la Jaguar Italia s.p.a., in forza del supporto da quest’ultima fornito in ragione dei citati accordi commerciali. Si trattava di fatture aventi la dizione “servizi di consulenza come da contratto del 22/12/1995”, senza riferimenti alle qualità ed alle quantità delle operazioni (beni o servizi prestati) ed in assenza di altra documentazione a supporto delle stesse tale da rendere possibile la qualificazione e quantificazione delle operazioni.

La contribuente, quindi, non avendo effettuato alcuna operazione attiva per il 1999, aveva annotato esclusivamente le fatture ricevute dalla Jaguar Italia s.p.a. e le liquidazioni IVA erano pertanto risultate tutte a credito (con riporto anche del credito d’imposta dell’anno precedente).

Per l’Amministrazione finanziaria si trattava quindi di attività gestita direttamente dalla casa madre inglese (la UNIPART LTD) e non dal rappresentante fiscale in Italia, il quale invece si era limitato, di fatto, a recuperare l’IVA versata con riferimento alle citate fatture.

In ragione anche del metodo di commisurazione del corrispettivo, in parte a provvigione e in parte fissa, l’amministrazione ritenne le operazioni non imponibili D.L. 30 agosto 1993, n. 331, ex art. 40, comma 8, conv., con modif., dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427 (comma abrogato dalla L. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24, comma 7, lett. b, n. 2, con decorrenza dal giorno successivo a quello di pubblicazione della legge stessa, salvo che per le operazioni a decorrere dal primo gennaio 2008 effettuate con applicazione della disciplina previgente).

L’A.E. argomentò, quindi, in applicazione della disciplina inerente la territorialità delle operazioni intracomunitarie e considerando quelle in esame, ex art. 40, citato comma 8, prestazioni di intermediazione rese da un soggetto con sede in Italia (la Jaguar Italia s.p.a.) ad un soggetto passivo d’imposta intracomunitario (la UNIPART LTD), pertanto non imponibili ai fini IVA (con conseguente non rimborsabilità e non detraibilità dell’IVA pagata).

In ragione della parte fissa del corrispettivo (per collaborazione della Jaguar Italia s.p.a. nella fornitura di dati necessari alla UNIPART LTD per l’ottimizzazione dell’attività logistico-distributiva), l’amministrazione ritenne invece la non imponibilità delle operazioni ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 4 (nella sua formulazione ratione temporis applicabile), rilevando, ai fini della determinazione territoriale dell’imposta il domicilio dell’utilizzatore, nella specie non presente in Italia.

3. L’avviso di accertamento fu impugnato innanzi al Giudice tributario da UNIPART LTD che dedusse, per quanto rileva nel presente processo, la nullità dell’atto impositivo, L. 27 luglio 2000, n. 212, ex art. 12, in quanto emesso in violazione del termine dilatorio di sessanta giorni, decorrenti dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, ed in assenza di particolare e motivata urgenza (prospettata dall’Amministrazione finanziaria solo in forza dell’imminenza del termine decadenziale per l’adozione dell’atto).

Nel merito dell’accertamento, la contribuente dedusse l’erroneità dell’operato dell’Amministrazione finanziaria nel non aver considerato le operazioni di cui alle fatture imponibili ai fini IVA, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 7, comma 3 (nella formulazione antecedente alla sua sostituzione ad opera del D.Lgs. 11 febbraio 2010, n. 18, art. 1, comma 1, lett. b, ratione temporis applicabile), in quanto aventi ad oggetto servizi resi da soggetto con domicilio nel territorio dello Stato (Jaguar Italia s.p.a.).

4. la CTP di Roma, con sentenza n. 352/13/2009, annullò l’atto impositivo per violazione del contraddittorio endoprocedimentale, in particolare per il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (senza entrare nel merito della fondatezza delle doglianze inerenti la correttezza dell’atto impositivo circa la non imponibilità ai fini IVA delle operazioni).

5. Appellata dall’Amministrazione finanziaria, la sentenza di primo grado venne riformata dalla CTR Roma che, con sentenza n. 12/10/2011 (oggetto d attuale ricorso per cassazione), ritenne non nullo l’avviso di accertamento, nonostante il mancato rispetto del termine dilatorio di cui al citato art. 12, comma 7, in forza di tre distinte rationes decidendi. Essa, in primo luogo, ritenne la detta sanzione non operante nella specie in quanto non esplicitamente prevista dall’ordinamento giuridico e, comunque, considerò sufficientemente motivata l’urgenza, in forza dell’imminente scadenza del termine decadenziale per l’adozione dell’atto.

A quanto innanzi il Giudice di secondo grado, dichiarando di fare proprie tesi dottrinali ed orientamenti giurisprudenziali, aggiunse sostanzialmente che, per l’assenza di prospettazione, da parte del contribuente, di ragioni di merito tali da denunciare un’ingiustizia sostanziale derivante dalla violazione del contraddittorio endoprocedimentale, comunque la violazione in esame avrebbe implicato un mero “errore procedurale”. Quest’ultimo, a sua volta, avrebbe implicato “un vizio meramente formale e perciò irrilevante perchè, di fatto,” non incidente “sulla legittimità sostanziale dell’atto e quindi sulla fondatezza della pretesa impositiva”.

Nel merito dell’accertamento, la Corte territoriale confermò l’atto impositivo, ricordando l’assenza di domicilio e residenza in Italia di UNIPART. LTD, avente mero rappresentante fiscale in Italia (circostanza non controversa ed anzi confermata da tutte le parti processuali anche in sede di legittimità).

Il Giudice di merito ritenne altresì accertato che, per quanto di rilievo nella fattispecie in esame, l’unica attività svolta da UNIPART, con rappresentante fiscale in Italia, aveva avuto ad oggetto solo la gestione amministrativa della tenuta della contabilità relativa alle transazioni commerciali tra la UNIPART LTD e la Jaguar Italia s.p.a., in forza del supporto da quest’ultima fornito in ragione dei citati accordi commerciali. Trattavasi, quindi, di attività gestita direttamente dalla casa madre inglese (la UNIPART LTD) e non dal rappresentante fiscale in Italia, il quale invece si era “limitato, di fatto, a recuperare l’IVA” versata con riferimento alle citate fatture, configurandosi, l’attività della Jaguar Italia s.p.a., come “esercizio di distribuzione senza tuttavia sopportare il rischio di magazzino”.

Alla luce anche del corrispettivo riconosciuto alla Jaguar Italia s.p.a., costituito in minima parte da un contributo fisso e per la maggior parte da una percentuale (provvigione sulle vendite), la CTR concluse infine che le fatture in esame fossero state emesse in forza di “attività di intermediazione resa da un soggetto con sede in Italia ad un soggetto passivo d’imposta intracomunitario” (la UNIPART appunto non residente) “ed identificato ai fini IVA in un altro Stato UE”. Sicchè, le dette operazioni, in quanto di intermediazione, non sarebbero dovute essere assoggettate ad IVA (con la conseguente impossibilità di recuperare e detrarre quella invece pagata), in applicazione della disciplina inerente la territorialità delle operazioni intracomunitarie di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 40, comma 8 (comma abrogato dalla L. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24, comma 7, lett. b, n. 2, con decorrenza dal giorno successivo a quello di pubblicazione della legge stessa, salvo che per le operazioni a decorrere dal primo gennaio 2008 effettuate con applicazione della disciplina previgente).

6. Contro la sentenza d’appello la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi e sostenuto da memoria, con la quale è stata dedotta l’efficacia espansiva del giudicato esterno costituito dalla sentenza n. 581/2000 emessa dalla CTP di Roma il 24 novembre 2000 e passata in giudicato il 9 gennaio 2002 (che contestualmente produce). Con la medesima memoria, poi, è stata comunque chiesta l’applicazione del nuovo regime sanzionatorio di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 5, (per illegittima detrazione dell’imposta) e all’art. 5 stesso decreto, comma 6 (per dichiarazione con imposta inferiore a quella dovuta).

L’A.E. si è difesa con controricorso, con il quale ha dedotto l’infondatezza del motivo n. 1 e l’inammissibilità oltre che l’infondatezza dei motivi nn. 2 e 3 del ricorso principale.

In sede di discussione la parti hanno infine concluso come indicato in epigrafe.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente, deve trattarsi la questione inerente l’efficacia espansiva del giudicato esterno (dedotta dal ricorrente con la memoria) costituito dalla (prodotta) sentenza n. 581/2000 emessa, tra le spesse parti, dalla CTP di Roma il 24 novembre 2000 e passata in giudicato il 9 gennaio 2002 (in quanto non impugnata).

1.1. La questione in oggetto è inammissibile in quanto dedotta per la prima volta con le memorie depositate dal ricorrente per l’odierna udienza nonché solo genericamente paventata con il ricorso, pur inerendo sentenza passata in giudicato nel 2002, cioè antecedentemente ai giudizi di merito e comunque prima del giudizio di secondo grado (inerente l’appello avverso sentenza emessa dalla CTP nel 2009).

Il giudicato esterno, la cui efficacia espansiva nel processo tributario opera nei casi in cui esso sia in grado di incidere su elementi riguardanti più periodi d’imposta, può essere difatti dedotto e provato anche per la prima volta in sede di legittimità purché formatosi dopo la conclusione del giudizio di merito o dopo il deposito del ricorso per cassazione, differentemente da quanto avvenuto nella fattispecie (ex plurimis, Cass. sez. 5, 18/10/2017, n. 24531, Rv. 645913-01, nonché, in precedenza, Cass. sez. 5, 07/05/2008, n. 11112, Rv. 603135-01). Nel caso in cui il giudicato esterno si sia invece formato nel corso del giudizio di secondo grado e la sua esistenza non sia stata eccepita, nell’ambito dello stesso, dalla parte interessata, la sentenza di appello che si sia pronunciata in difformità da tale giudicato è impugnabile con il ricorso per revocazione e non con quello per cassazione (Cass. Sez. U., 20/10/2010, n. 21493, Rv. 614451-01, e le successive conformi, tra le quali, ex plurimis, Cass. sez. 5, 04/11/2015, n. 22506, Rv. 637074-01, e Cass. sez. 5, 03/11/2018, n. 22177, Rv. 641881-01).

A nulla rileva peraltro, in senso contrario e nella fattispecie concreta, la rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno, al pari di quello interno, in sede di legittimità, necessitando comunque che esso emerga da atti prodotti nel giudizio di merito ovvero che si sia formato successivamente alla sentenza impugnata. In tal caso, infatti, la produzione del documento che lo attesta non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., che è limitato ai documenti formatisi nel corso del giudizio di merito, ed è, invece, operante ove la parte (come nella specie) invochi l’efficacia di giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo (in tal senso, di recente, Cass. sez. 2, 22/01/2018, 1534, Rv. 647079-01; si veda altresì Cass. Sez. U., 16/06/2006, n. 13916, Rv. 589695-01).

2. Con il motivo n. 1, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.

In sostanza il ricorrente si duole dell’erronea interpretazione data dal Giudice di merito della norma di cui innanzi, avendo la sentenza impugnata ritenuto esclusa la sanzione della nullità dell’atto impositivo per l’ipotesi di violazione del termine dilatorio di sessanta giorni per la sua emanazione (di cui al citato comma 7), e di aver ritenuto integrante ipotesi di particolare e motivata urgenza, tale da legittimare il non rispetto del detto termine, la mera imminente decadenza dell’Amministrazione finanziaria dell’adozione dell’atto.

Con il motivo n. 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce violazione e falsa applicazione delle norme di cui all’art. 1362 e ss. c.c., con riferimento al contratto concluso tra contribuente e Jaguar Italia s.p.a., e conseguente violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3.

Il ricorrente si duole dell’interpretazione data dal Giudice di merito al detto contratto, come avente ad oggetto non prestazione di servizi generici bensì attività di intermediazione, con conseguente errata applicazione della disciplina di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 40, comma 8, ratione temporis applicabile, in materia di territorialità delle operazioni intracomunitarie. Ciò in luogo della corretta applicazione di quella prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3, ratione temporis applicabile.

Tale violazione e falsa applicazione di legge avrebbero poi, a detta del ricorrente, implicato il ritenere l’operazione non assoggettata ad IVA (con conseguente non rimborsabilità nè detraibilità di quella pagata).

Con il motivo n. 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si deduce contraddittorietà ed in subordine omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare con riferimento alla parte motiva relativa all’accertamento della tipologia di attività di cui alle fatture (in termini di attività di intermediazione).

3. Il motivo n. 1 del ricorso è fondato, con assorbimento degli altri motivi di ricorso, per le ragioni e nei termini di seguito evidenziati.

3.1. La questione inerisce l’interpretazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), ed in particolare se necessiti la c.d. “prova di resistenza” da parte del contribuente al fine di ritenere illegittimo il provvedimento impositivo, in materia di tributi armonizzati (nei quali rientra l’IVA), emesso all’esito di accessi ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio dell’attività.

Cass. Sez. U., 29/07/2013, n. 18184, rv. 627474-01 ha chiarito che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.

Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite, non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.

Successivamente, Cass. Sez. U., 09/12/2015, n. 24823 ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati””, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino”.

Premesso il quadro normativo di riferimento, in merito all’evidenziata questione di diritto in esame, il collegio ritiene di dare continuità ai principi di recente sanciti da questa stessa Sezione (Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 701, Rv. 652456-01, e Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 702, in motivazione), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed Eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale. Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropè – Organizacoes de Calgado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financien, p. 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 p. 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 p.p. 30,31, resa proprio sull’IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, p. 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale).

Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell’interpretazione dell’art. 12, comma 7, in oggetto questa Corte ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell’atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo. Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la “prova di resistenza”, nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., p. 80; Sopropè, cit., p. 37).

Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contraddittorio, viene meno in presenza di un’espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione.

In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato da questa Corte evidenziato che l’operatività della “prova di resistenza”, di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un’espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un’espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinchè possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull’intervenuto rispetto del contraddittorio o meno.

A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità. Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza.

In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non si deve applicare nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino.

Ne consegue in definitiva che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la “prova di resistenza”, sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie).

Sicchè, anche per i tributi armonizzati, tra i quali, come nella specie, l’IVA, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l’ipotesi della violazione del termine dilatorio.

3.2. L’applicazione alla fattispecie concreta dei principi di cui innanzi implica l’accoglimento del motivo di ricorso, trattandosi di provvedimento impositivo, avviso di accertamento per recupero di IVA indebitamente detratta, emesso in violazione del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, come pacificamente ammesso dalle parti processuali oltre che emergente dalla stessa sentenza impugnata.

Nella specie, difatti, non rileva, per quanto innanzi argomentato, l’omessa prova di resistenza da parte del contribuente, trattandosi di illegittimità derivante dalla detta citata norma, ed in assenza di valide ragioni d’urgenza fondanti il non rispetto del termine dilatorio. Sotto tale ultimo profilo, in particolare, l’A.E. a fondamento della violazione del termine dilatorio ha dedotto, anche in sede processuale, l’imminenza della scadenza del termine decadenziale. La CTR non correttamente ha poi ritenuto tale circostanza valida ragione d’urgenza ai sensi del citato art. 12, in assenza di valide ragioni tali da giustificare il perchè l’Amministrazione abbia esercitato il potere nell’imminenza della scadenza del termine, argomentabili da elementi di fatto che esulino dalla sfera dell’Ente impositore e fuoriescano dalla sua diretta responsabilità (in tal senso, ex plurimis: Cass. sez. 6-5, 10/04/2018, n. 6416, Rv. 647732-01; Cass. sez. 5, 16/03/2016, n. 5149, Rv. 639141-01; Cass. sez. 6-5, 09/11/2015, n. 22786, Rv. 637204-01; Cass. sez. 5, 05/12/2014, n. 25759, Rv. 633713-01).

4. In conclusione, deve essere accolto il motivo n. 1 del ricorso, con assorbimento nella relativa decisione degli altri motivi di ricorso, e cassata la sentenza impugnata, nei limiti del motivo accolto, con decisione nel merito, non essendovi circostanze fattuali da accertare, e conseguente accoglimento del ricorso introduttivo del contribuente. Devono compensarsi non solo le spese del presente giudizio di legittimità ma anche quelle dei precedenti gradi di merito, in forza della descritta evoluzione (anche temporale) del quadro interpretativo della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.

P.Q.M.
accoglie il motivo n. 1 del ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata, nei limiti del motivo accolto, e decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo del contribuente; e dichiara compensate le spese processuali inerenti il presente giudizio di legittimità ed i precedenti gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2019


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 23-05-2019) 05-09-2019, n. 22167

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29542-2016 proposto da:

P.F., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARILENA VICICONTE;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FIRENZE, EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA (OMISSIS);

– intimati –

nonchè da:

COMUNE DI FIRENZE in persona del Sindaco N.D., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREA SANSONI;

– ricorrente incidentale –

contro

P.F., EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 1845/2016 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 12/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale condizionato;

udito l’Avvocato MARIA IMMACOLATA AMOROSO per delega.

Svolgimento del processo
1. Nel 2007 il Comune di Firenze irrogò a P.F. due sanzioni amministrative per altrettante violazioni del codice della strada, per l’importo complessivo di Euro 239,70.

Rimaste impagate le suddette sanzioni, il 12.2.2010 il Comune di Firenze notificò a P.F. una cartella di pagamento, per recuperare coattivamente il suddetto importo.

2. In data non indicata nè nella sentenza, nè nel ricorso, nè nel controricorso, P.F. propose opposizione dinanzi al Giudice di pace di Firenze avverso la suddetta cartella esattoriale.

A fondamento dell’opposizione dedusse:

-) di non avere mai ricevuto la notifica dei due verbali accertamento dell’infrazione;

-) che comunque la notifica di essi era viziata sotto vari aspetti: sia perchè eseguita da un privato, e non dal messo comunaleò; sia perchè eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza che il piego fosse depositato nella casa comunale, ma in un luogo diverso; sia perchè l’avviso dell’avvenuto deposito del piego venne spedito al destinatario da un privato.

3. Con sentenza 7523 del 2012 il Giudice di pace di rigettò la domanda.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza 12.5.2016 n. 1845, rigettò il gravame proposto da P.F..

Ritenne il Tribunale che la notifica era stata eseguita validamente da un messo comunale, per tale dovendosi intendere anche il soggetto privato cui il Comune abbia conferito apposito incarico; che la spedizione dell’avviso di cui all’art. 140 c.p.c. poteva essere compiuta anche da un privato, cui la p.a. avesse conferito tale incarico; che il deposito del piego era avvenuto nel luogo a ciò deputato dall’amministrazione comunale, a nulla rilevando che fosse diverso dalla sede storica del Comune di Firenze, in Palazzo Vecchio; che l’avviso di ricevimento della raccomandata di comunicazione dell’avvenuto deposito del piego nella casa comunale non presentava vizi formali di sorta.

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da P.F., con ricorso fondato su tre motivi ed illustrato da memoria.

Ha resistito il Comune di Firenze con controricorso, e proposto ricorso incidentale condizionato.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 140 c.p.c..

Sostiene che il Tribunale ha errato nel ritenere valida la notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nonostante il deposito del piego, non potuto consegnare per temporanea assenza del destinatario, fosse avvenuto non nella casa comunale, ma “in un ufficio privato indicato come sede sussidiaria della Casa del Comune di Firenze”.

Deduce che l’art. 140 c.p.c., là dove stabilisce che il piego non potuto consegnare sia depositato nella “casa del comune”, non può che essere “un luogo pubblico ufficiale, certo e stabile, non certo un ufficio privato estemporaneamente indicato in un provvedimento” dell’amministrazione comunale.

Ne trae la conclusione che, non essendo ritualmente avvenuta la notifica dei verbali di contestazione (o accertamento)e delle violazioni al codice della strada, ne era derivata la nullità della cartella esattoriale su quei verbali fondata.

1.2. Il Comune di Firenze ha eccepito l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, “in quanto contenente doglianze, nonchè riferimenti a fatti e circostanze assenti nel ricorso originario”.

Sostiene l’amministrazione controricorrente che la questione della nullità della notifica del verbale di contestazione (o accertamento)e, derivante dal deposito del piego in un luogo diverso dalla casa comunale, venne sollevata dall’odierno ricorrente soltanto all’udienza di discussione del giudizio di primo grado, e perciò non esaminata dal giudice di pace, che la ritenne tardiva.

Il Tribunale, invece, esaminò la questione nel merito e la rigettò, ma non avrebbe potuto farlo a causa della tardività con cui venne introdotta nel giudizio.

1.3. L’eccezione è inammissibile.

Se, infatti, il giudice d’appello esamina e decide una questione tardivamente introdotta, chi intenda dolersi di quest’errore, ancorchè vittorioso all’esito del giudizio di appello, in sede di legittimità non può reintrodurre la questione con una semplice eccezione, ma deve proporre appello incidentale sul punto, in virtù del principio di conversione delle nullità in motivi di impugnazione: principio del quale la stessa amministrazione comunale si dimostra del resto edotta, avendo per l’appunto proposto un appello incidentale esattamente coincidente con l’eccezione di inammissibilità sollevata alle pagine 4 e 5 del proprio ricorso.

1.4. Nel merito, il primo motivo di ricorso è infondato.

Circostanze di fatto pacifiche, di cui non è adeguatamente contestata la rituale acquisizione al materiale di causa, sono le seguenti:

-) la notificazione al debitore del verbale di accertamento dell’infrazione al codice stradale avvenne ai sensi dell’art. 140 c.p.c.;

-) a causa dell’assenza del destinatario, il piego venne depositato in via (OMISSIS);

-) il luogo di deposito del piego non fu la sede storica del Comune di Firenze (Palazzo Vecchio), ma un luogo indicato dall’amministrazione comunale come “casa comunale” sussidiaria, a tal fine designata con determinazione dirigenziale del 10.10.2005 n. 8946;

-) la suddetta determinazione dirigenziale venne adottata due anni prima della notifica dei verbali di contestazione (o accertamento)e dell’infrazione.

1.5. La notifica effettuata con le suddette modalità è valida ed efficace.

Il piego da notificare, infatti, è stato depositato in un luogo designato dalla stessa amministrazione comunale come equipollente alla “casa comunale”, e tanto basta per escludere il denunciato vizio di notifica.

Non è infatti inibito all’amministrazione comunale designare quali “case comunali” luoghi ulteriori ed anche plurimi rispetto al municipio; ed ove l’amministrazione si avvalga di tale facoltà, il luogo a tal fine designato sarà a tutti gli effetti di legge equipollente alla “casa comunale”.

1.6. Tanto si desume dall’interpretazione storica e da quella sistematica del testo normativo.

L’espressione “casa comunale”, nell’ordinamento postunitario, comparve per la prima volta nell’art. 173 del R.d. 14.12.1865 n. 2641 (“Regio Decreto col quale è approvato il regolamento generale giudiziario per l’esecuzione del codice di procedura civile, di quello di procedura penale, e della legge sull’ordinamento giudiziario”), il quale stabiliva che “i conciliatori tengono le ordinarie loro udienze nella casa comunale o in quell’altra che sia dal municipio destinata”.

Già nel regolamento di procedura del 1865, dunque, si lasciava al Comune la facoltà di destinare un luogo diverso dalla casa comunale a sede degli uffici di conciliazione.

Analogamente, il R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 9 (“che approva il regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), nel disciplinare le notificazioni, stabiliva che “ove nessuno si trovi nell’abitazione, o in caso di rifiuto di ricevere il ricorso che si notifica, l’ufficiale giudiziario o il messo comunale lascia avviso, in carta libera, affisso alla porta dell’abitazione e deposita la copia dell’atto nella casa comunale o la consegna al sindaco o a chi ne fa le veci, o all’impiegato delegato a ricevere gli atti”.

Analoga previsione era contenuta nell’”Annesso A” al R.D. 17 agosto 1907, n. 643, recante l’approvazione del regolamento di procedura di giudizi dinanzi la giunta provinciale.

In ambedue tali previsioni l’uso della particella disgiuntiva “o” rendeva evidente che il deposito nella casa comunale non era un atto ineludibile, poteva essere sostituito dalla consegna a mani al sindaco o ad un suo delegato, ovviamente anche in luogo diverso dalla casa comunale.

Ancora, l’art. 7 dell’”Annesso A” al R.D. 20 dicembre 1909, n. 830 (“che approva l’annesso regolamento sulla pesca e sui pescatori”), dopo aver stabilito che ogni sindacato di pescatori aveva sede nella casa comunale, aggiungeva “o nei locali di una delle associazioni che lo compongono”, così dimostrando anche in questo caso come la designazione della casa comunale non fosse assoluta.

In seguito, in circostanze ben più tragiche, il R.D. 31 ottobre 1942, n. 1612, art. 42 (recante “regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi sulla disciplina dei cittadini in tempo di guerra”), nel prevedere la facoltà del ministro per le corporazioni di chiamare al lavoro i cittadini per esigenze di guerra, stabilì che il “manifesto di chiamata” dovesse essere affisso “all’esterno della casa comunale ed in altri principali luoghi pubblici”.

Questo breve excursus dimostra come il legislatore, già molto tempo prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura civile, aveva indicato nella casa comunale il luogo deputato allo svolgimento delle più svariate attività: il deposito degli atti non potuti notificare, la sede degli uffici di conciliazione, la sede dei consigli di associazioni professionali, il luogo di affissione dei pubblici proclami.

Tuttavia da un lato la eterogeneità di tali previsioni, e dall’altro l’attribuzione alle autorità amministrative della facoltà di designare luoghi diversi ed equipollenti rispetto alla casa comunale, rendono palese che la scelta quest’ultima come luogo deputato al compimento di determinati atti si giustificava non per una indimostrabile “prevalenza” del municipio su altri luoghi, ma soltanto per il fatto che, in una società ancora largamente preindustriale e scarsamente alfabetizzata (nel 1865 nel nostro Paese era analfabeta il 72,96% della popolazione, ed ancora il 21% nel 1931), la sede del Comune era un luogo che consentiva una individuazione inequivoca.

Era la facilità di individuazione la ratio legis sottesa dalle norme che imponevano il compimento di determinati atti giuridici nella casa comunale.

Quella ratio è, da tempo, venuta meno.

La drastica riduzione dell’analfabetismo, la facilità delle comunicazioni e degli spostamenti, le moltiplicate possibilità della p.a. di far pervenire le proprie deliberazioni ai cittadini, rendono puramente teorica la possibilità che questi ultimi siano tratti in errore nell’individuazione della “casa comunale”, o dei luoghi destinati a sostituirla.

Ne consegue che, anche ad ammettere che l’art. 140 c.p.c. sia ambiguo – il che, per quanto si dirà, non è -, la norma andrebbe comunque interpretata alla luce del mutato contesto socioeconomico sopra tratteggiato.

Essa, pertanto, in applicazione del principio cessante ratione legis, cessat et ipsa lex, va interpretata nel senso che l’espressione “casa del comune” presente nell’art. 140 c.p.c., così come l’espressione “casa comunale”, che compare nell’art. 143 c.p.c., vadano intese come sinonimi di “municipio od altro luogo a tal fine designato dall’amministrazione comunale”.

1.7. Ad esiti analoghi conduce l’interpretazione sistematica.

Le espressioni “casa del comune” o “casa comunale” compaiono in numerose norme, sostanziali e processuali.

In materia processuale, compaiono – tra gli altri – negli artt. 140, 143 e 150 c.p.c.; nell’art. 155 c.p.p.; nel D.P.R. 29 settembre 1973, art. 66. In tutte queste norme la casa comunale è indicata quale luogo del deposito di atti o dell’affissione di avvisi.

In materia sostanziale, l’espressione “casa comunale” compare nell’art. 106 c.c. (che la designa quale luogo di celebrazione del matrimonio; affine è la previsione del D.P.R. 3 novembre 2000, art. 70 novies, che designa la “casa comunale” a sede della celebrazione delle unioni civili); nel medesimo D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, artt. 55 (che impone la pubblicazione di matrimonio “presso la porta della casa comunale”).

Tuttavia il citato D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 3 (recante “Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile”) accorda ai Comuni la facoltà di “disporre, anche per singole funzioni, l’istituzione di uno o più separati uffici dello stato civile”. Ed il Consiglio di Stato, richiesto dal Ministero dell’Interno d’un parere sull’interpretazione di tale norma, ha chiarito che “casa comunale può essere considerata qualsiasi struttura nella disponibilità giuridica del Comune, vincolata allo svolgimento di funzioni istituzionali”(Cons. di Stato, sez. I, parere 22.1.2014 n. 196).

Vero è che la suddetta norma (D.P.R. n. 396 del 2000, art. 3) e il suddetto parere del Consiglio di Stato avevano ad oggetto la “casa comunale” quale luogo di celebrazione del matrimonio. Ma se la legge consente la delocalizzazione – rispetto alla sede storica del municipio – della celebrazione del matrimonio civile, a maggior ragione dovrà ritenersi consentita la istituzione di “case comunali” alternative per il deposito degli atti notificati ai sensi dell’art. 140 c.p.c.: se così non fosse si perverrebbe all’assurdo, incoerente col tradizionale canone ermeneutico dell’a fortiori, per cui la legge richiederebbe oneri formali meno rigorosi per l’atto di preminente importanza sociale, giuridica e costituzionale (il matrimonio), mentre esigerebbe oneri formali ben maggiori, per il compimento di atti di minor rilievo (il deposito d’un verbale di accertamento d’una contravvenzione stradale, non potuto consegnare al destinatario della notifica).

1.8. Resta da aggiungere come non ostino alle conclusioni sopra raggiunte i due precedenti di questa Corte invocati dalla ricorrente: e cioè Sez. 2, Sentenza n. 1321 del 03/02/1993, Rv. 480653 – 01, e Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 16817 del 03/10/2012, Rv. 624022 – 01.

La prima di tali decisioni aveva ad oggetto un caso in cui l’ufficiale giudiziario, non rinvenuto il destinatario dell’atto, depositò il piego, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nella “casa comunale” di una frazione del Comune.

Questa Corte ritenne nulla quella notifica, ma non perchè all’amministrazione fosse inibito designare luoghi equipollenti alla casa comunale; ma per la diversa considerazione che le frazioni comunali non hanno una “casa comunale”, nè nel caso di specie era stato dimostrato che il Comune avesse deputato un luogo equipollente nel territorio della frazione.

Quanto alla decisione pronunciata ad Cass. 16817/12, cit., essa aveva ad oggetto una fattispecie analoga a quella oggi in esame. Tuttavia in quel caso il Collegio giudicante ritenne nulla la notifica non perchè il piego venne depositato nel luogo designato dal Comune quale equivalente alla casa comunale, ma per la diversa ragione che la designazione di quel luogo era avvenuta sulla base di un provvedimento amministrativo adottato dopo l’esecuzione della notifica.

Non sarà superfluo aggiungere che:

-) le argomentazioni trascritte dal ricorrente a p. 6-7 del proprio ricorso, ed estratte dalla motivazione di Cass. 16871/12, erano contenute nella proposta di decisione ex art. 380 bis c.p.c., trascritta in sentenza, e non nella parte decisoria vera e propria della sentenza;

-) quelle motivazioni, in ogni caso, erano state mutuate alla lettera dalla precedente sentenza 1321/93, che aveva ad oggetto un caso del tutto diverso da quello oggi in esame;

-) nessuna delle due decisioni si confronta col testo inequivoco del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 3;

-) neppure è dedotto che la designazione del luogo diverso dalla casa comunale, nel quale il deposito ha avuto luogo, sia avvenuta in modo irrituale o comunque con modalità tali da sorprendere o limitare il diritto di difesa del destinatario della notifica (ad esempio, perchè non menzionata chiaramente nell’avviso di avvenuto deposito previsto dallo stesso art. 140 c.p.c.).

1.9. Per queste e per le altre ragioni sopra indicate, ai due precedenti invocati dal ricorrente, anche ad ammettere che fossero pertinenti rispetto al caso di specie, ritiene questo Collegio di non potere dare continuità, in applicazione del seguente principio di diritto: “in materia di notificazione di atti e quindi anche di verbali di accertamento di violazioni del codice della strada, la “casa del comune” in cui l’ufficiale notificante deve depositare la copia dell’atto da notificare si identifica, in alternativa alla sede principale del Comune, anche in qualsiasi struttura nella disponibilità giuridica di questo, vincolata allo svolgimento di funzioni istituzionali con provvedimento adottato prima della notificazione e chiaramente menzionata nell’avviso di avvenuto deposito”.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione da parte del Tribunale della L. n. 689 del 1981, art. 14; del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 201, comma 3; della L. n. 890 del 1982, artt. 3, 7 ed 8; della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 158 e 159.

Nell’illustrazione della censura il ricorrente deduce che erroneamente il Tribunale ha ritenuto valida la notifica dei verbali di contestazione (o accertamento)e della violazione amministrativa, effettuata dagli incaricati di una società privata. Espone che l’attività notificatoria nel caso di specie venne eseguita da incaricati della società ATI TNT Poste; che tale attività non può essere affidata dall’ente accertatore della violazione ad agenzie o società private; che tale facoltà venne concessa alle amministrazioni comunali soltanto dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, emanata nove mesi dopo che il Comune di Firenze, con provvedimento del sindaco, aveva già attribuito il potere notificatorio a soggetti privati; che la nullità della notifica dei verbali rendeva nulla la susseguente cartella di pagamento.

2.2. Il motivo è infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba essere, in parte, emendata.

All’epoca in cui i verbali di accertamento della violazione vennero notificati a P.F., la materia era disciplinata dall’art. 201 C.d.S., comma 3, rimasto da allora invariato.

Tale norma elenca quattro diversi soggetti cui può essere affidata la notificazione del verbale di contestazione (o accertamento)e dell’infrazione al codice della strada, ovvero:

a) gli organi incaricati dei servizi di polizia stradale (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria, Polizia Municipale);

b) i messi comunali;

c) un funzionario dell’amministrazione che ha accertato la violazione;

d) il servizio postale.

Quale che sia la modalità prescelta, la legge prevede poi una norma di chiusura, la quale stabilisce che “comunque” (e dunque anche nel caso di notificazioni eseguite senza il rispetto delle suddette previsioni) le notificazioni si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede dell’obbligato, risultante dalla carta di circolazione, o dall’archivio nazionale dei veicoli, o dal P.R.A. o dalla patente di guida del conducente autore dell’infrazione.

La legge, dunque, consente che il verbale di contestazione (o accertamento) sia notificato da “messi comunali”.

La nozione di “messo comunale” era, in passato, prevista in linea generale dal R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 273 (testo unico della legge comunale e provinciale). Tale norma venne in seguito abrogata dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 64 (e l’abrogazione venne, inutilmente, ribadita dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 274).

Nondimeno, sono ancora molte le norme tuttora in vigore che continuano a fare riferimento alla figura del “messo comunale”: ad es. l’art. 201 C.d.S., già citato, o la L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 10, che consente alle pubbliche amministrazionì di ricorrere ai messi comunali per l’esecuzione di notifiche.

Poichè dunque la legge continua a prevedere la possibilità che le notificazioni siano eseguite da “messi comunali”, ma non ne dà una definizione generale, questa Corte ne ha tratto la conclusione che la qualifica di “messo comunale” prescinde dal rapporto giuridico che lega il messo al Comune. Potranno dunque aversi messi che siano dipendenti della p.a.; messi che siano funzionari non dipendenti; messi che siano mandatari dell’amministrazione; messi che siano appaltatori di servizi per l’amministrazione.

Come già ritenuto da questa Corte, infatti, qualsiasi attività umana può formare oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo, sia di un rapporto di lavoro subordinato (ex multis, Sez. L, Sentenza n. 10262 del 15/07/2002, Rv. 555755 01, in motivazione), sicchè in mancanza di norme di legge che impongano l’adozione dell’uno piuttosto che dell’altro tipo di rapporto, l’amministrazione comunale resta libera di scegliere la formula contrattuale più consona al pubblico interesse.

2.3. E’ consentito quindi all’amministrazione comunale appaltare a soggetti privati l’esecuzione dei compiti del messo comunale, ivi compresa la notificazione dei verbali di accertamento delle infrazioni al codice della strada.

Nel caso di specie, è la stessa ricorrente ad allegare che il Comune di Firenze ha appaltato ad un soggetto privato il servizio di notificazione dei verbali di accertamento delle sanzioni amministrative: e, per quanto detto, ciò era consentito al Comune dalla sua autonomia decisionale, e le notificazioni eseguite dai soggetti così nominati sono conformi al dettato dell’art. 201 C.d.S..

2.4. Non è, invece, corretto quanto ritenuto dal Tribunale, e cioè che la notificazione del verbale di accertamento della violazione al codice della strada potesse essere effettuata da privati ai sensi della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi 158 e 159.

Tali previsioni infatti, non hanno attribuito alcun ulteriore potere ai Comuni in tema di messi comunali (attribuzione della quale non v’era bisogno, alla luce ella previsione di cui all’art. 201 C.d.S.), ma hanno istituito la diversa figura del “messo notificatore”, competente ad eseguire le notificazioni di soli tre gruppi di atti:

-) gli atti di accertamento dei tributi locali;

-) gli atti delle procedure esecutive di cui al testo unico sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, di cui al R.D. 14 aprile 1910, n. 639;

-) gli atti di invito al pagamento delle entrate extratributarie dei comuni.

Tuttavia l’errore in cui è incorso il Tribunale, per quanto detto, è stato ininfluente, in quanto il dispositivo della sentenza impugnata fu comunque conforme a diritto, per le ragioni già esposte.

2.5. Resta solo da aggiungere che i precedenti giurisprudenziali invocati dalla parte ricorrente non sono pertinenti rispetto al caso di specie.

Quei precedenti infatti (richiamati a p. 10 del ricorso) riguardavano l’ipotesi in cui una pubblica amministrazione aveva affidato a privati l’esecuzione di notificazioni o comunicazioni che, per legge, andavano eseguite a mezzo del servizio postale. La nullità, in quel caso, derivava dunque non dalla circostanza che la notifica venne eseguita da un privato, ma dal fatto che venne eseguita da un privato che si sostituì al servizio postale universale.

Ben diverso è il caso di specie, nel quale nessuna norma riserva al servizio postale la notifica dei verbali di accertamento, ma anzi l’art. 201 C.d.S. espressamente parifica la notifica effettuata dal messo comunale a quella effettuata per il tramite del servizio postale.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 201 C.d.S..

Deduce, al riguardo, che:

-) il primo dei due verbali di accertamento dell’infrazione era stato irritualmente notificato, perchè l’avviso di avvenuto deposito del piego presso la casa comunale era stato spedito da soggetto diverso dal messo comunale, e comunque il relativo avviso di ricevimento non recava alcun timbro postale;

-) quanto al secondo verbale, la relata di notifica di esso era stata redatta da persona, qualificatasi “messo comunale”, diversa da quella che aveva poi spedito a mezzo raccomandata l’avviso di avvenuto deposito del piego nella casa comunale, e cioè la ATI TNT Poste s.p.a..

3.2. Il motivo è infondato.

Quanto alla prima censura, essa è infondata poichè la spedizione dell’avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del piego nella casa comunale avvenne a cura delle Poste Italiane; solo la consegna dell’atto alle Poste avvenne a cura della ATI TNT Poste, e ciò le era certamente consentito come già ritenuto da questa Corte (ex multis, Sez. 2 -, Sentenza n. 462 del 11/01/2017, Rv. 642211 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 7177 del 10/05/2012, Rv. 622484 – 01).

Quanto alla seconda censura, essa è infondata poichè è ovvio che la persona fisica incaricata dalla ATI TNT Poste s.p.a. di eseguire la notifica, agendo in nome e per conto della società mandante, si identifica organicamente con quest’ultima, e non vi fu dunque alcuna dissociazione tra chi eseguì la notifica, e chi spedì l’avviso di avvenuto deposito del piego nella casa comunale.

4. Il ricorso incidentale.

4.1. Il ricorso incidentale, da qualificare come sostanzialmente condizionato all’accoglimento del ricorso principale, resta assorbito dal rigetto di quest’ultimo.

5. Le spese.

5.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

5.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.
la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale;

(-) condanna P.F. alla rifusione in favore del Comune di Firenze delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 800, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di P.F. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2019