Corte cost., Sent., (ud. 28-01-2009) 27-02-2009, n. 58

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 4-ter, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, promossi con ordinanze del 9 giugno 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Isernia, del 26 maggio e del 9 giugno 2008 dal Giudice di pace di Genova e del 15 luglio 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca rispettivamente iscritte ai nn. 292, 339, 340 e 341 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 41 e 45, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 2009 il Giudice relatore Sabino Cassese.

1. – La Commissione tributaria provinciale di Isernia, con ordinanza del 9 giugno del 2008 (r.o. n. 292 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma 4-ter, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, per violazione dell’articolo 97 della Costituzione, nonché dell’articolo 23 e dello stesso articolo 97 Cost. in relazione, rispettivamente, all’art. 3, comma 1, e all’art. 7, comma 2, della legge 27 luglio del 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).

La disposizione impugnata stabilisce che «la cartella di pagamento di cui all’articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni, contiene, altresì, a pena di nullità, l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008; la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse».

1.1. – La Commissione tributaria rimettente riferisce che la società ricorrente nel giudizio principale ha chiesto l’annullamento di una cartella di pagamento, emessa dall’Agenzia delle entrate, deducendone la nullità, o comunque la illegittimità, per diversi motivi, fra cui l’omessa indicazione del responsabile del procedimento, eccependo anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, comma 4-ter, del d. l. n. 248 del 2008.

1.2. – La Commissione rimettente ritiene non priva di fondamento la censura, preliminare e assorbente rispetto alle altre, relativa alla omessa indicazione del responsabile del procedimento, atteso che tale indicazione è richiesta «tassativamente» dall’art. 7, comma 2, della legge n. 212 del 2000 e, secondo la Corte costituzionale, rappresenta un obbligo che si applica anche ai concessionari della riscossione e che, «lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost.» (ordinanza n. 377 del 2007). Osserva, tuttavia, il collegio rimettente che, successivamente alla citata ordinanza della Corte costituzionale, è intervenuta la disposizione legislativa censurata, la quale, se da un lato impone, a pena di nullità, l’indicazione, nella cartella di pagamento, del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e notificazione della cartella stessa, dall’altro lato limita l’ambito di applicazione di tali disposizioni ai soli ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008, specificando invece che «la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse». Da ciò deriva, secondo il giudice a quo, la rilevanza della prospettata questione di legittimità costituzionale, dal momento che «il suo eventuale accoglimento determinerebbe il conseguenziale accoglimento del ricorso» nel giudizio principale.

1.3. – In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente prospetta sia il contrasto diretto della disposizione legislativa censurata con l’art. 97, primo comma, Cost., sia, in via subordinata, il contrasto della medesima disposizione legislativa con alcune norme contenute nella legge n. 212 del 2000 (c.d. Statuto del contribuente), cui andrebbe riconosciuta la natura di fonte interposta fra la Costituzione e le leggi ordinarie. Sotto il primo profilo, la Commissione tributaria rimettente richiama la citata ordinanza n. 377 del 2007 di questa Corte, secondo cui l’indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento risponde ai precetti di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. La Commissione rimettente esclude che il legislatore possa imporre il rispetto di tali precetti costituzionali solo a partire da una certa data e ritiene, in particolare, illegittima la disposizione legislativa censurata, in quanto nega il rispetto di tali principi «per il periodo compreso fra la data di entrata in vigore della legge n. 212 del 2000 ed il 31 maggio del 2008». Sotto il secondo profilo, la Commissione rimettente muove dall’art. 1, comma 1, della legge n. 212 del 2000, secondo cui «le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». Sulla base di tale norma, nonché di alcune pronunce della Corte di cassazione, che riconoscono fra l’altro alle disposizioni dello Statuto del contribuente il valore di «orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto», il collegio rimettente perviene alla conclusione che le norme della legge n. 212 del 2000 hanno natura di norme interposte, che quindi prevalgono su norme di legge ordinaria successive, come la disposizione impugnata. Quest’ultima si porrebbe, pertanto, in contrasto con due previsioni dello Statuto del contribuente: da un lato, in quanto norma retroattiva, essa violerebbe il principio di irretroattività delle leggi fiscali previsto dall’art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, il quale a sua volta «si interporrebbe a quello di cui all’art. 23 Cost., nel senso che […] nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta in base ad una legge retroattiva»; d’altro lato, la disposizione censurata violerebbe «il principio relativo alla indicazione del responsabile del procedimento di cui all’art. 7, comma 2, della legge n. 212 del 2000», che «si interporrebbe a quello di cui all’art. 97 Cost., nel senso […] che detta indicazione è necessaria al fine di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».

1.4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga dichiarata inammissibile e comunque infondata.

1.4.1. – Secondo la difesa erariale, la questione è inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, perché la censura relativa alla omessa indicazione del responsabile del procedimento è stata proposta tardivamente dal ricorrente nel giudizio principale, mediante una memoria illustrativa prodotta oltre il termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla data di notifica della cartella di pagamento. Pertanto il rimettente – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – avrebbe dovuto preliminarmente verificare, dandone conto in motivazione, se la censura dedotta fuori termine potesse essere comunque proponibile «in quanto determinante, non la asserita nullità (deducibile solo nel termine di legge), ma addirittura la inesistenza dell’atto impugnato».

1.4.2. – Nel merito, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la questione è infondata.

Premette al riguardo l’interveniente che, in base alla disciplina generale dell’azione amministrativa, la mancata indicazione del responsabile del procedimento costituisce, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, «una mera irregolarità, insuscettibile di determinare l’invalidità dell’atto, alla quale è possibile supplire considerando responsabile del procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa competente». Con specifico riguardo alla materia tributaria, poi, l’Avvocatura generale dello Stato esclude che le disposizioni del cosiddetto Statuto del contribuente possano assurgere al rango di fonti interposte fra la Costituzione e la legge ordinaria. La giurisprudenza della Corte di cassazione, citata dal rimettente, chiarisce infatti che le norme tributarie devono essere interpretate nel senso più conforme ai principi dello Statuto, ma non afferma che questi ultimi siano «principi inderogabili da rispettare a pena di illegittimità costituzionale».

In secondo luogo, ad avviso della stessa Avvocatura generale dello Stato, il problema non è stato correttamente impostato dal giudice rimettente, atteso che l’art. 7 della legge n. 212 del 2000 individua una serie di elementi, fra cui l’indicazione del responsabile, che gli atti dell’amministrazione finanziaria devono contenere, «ma non prevede in alcun modo la nullità quale conseguenza dell’omissione di tali elementi». Da ciò deriva, secondo la difesa erariale, che la disposizione legislativa censurata non contrasta con la regola prevista dallo Statuto del contribuente, bensì la integra e la completa, disponendo, naturalmente solo per il futuro, e cioè a far data dai ruoli consegnati a partire dal 1° giugno 2008, che la omessa indicazione del responsabile comporta la sanzione della nullità della cartella di pagamento.

2. – La Commissione tributaria provinciale di Lucca, con ordinanza del 15 luglio 2008 (r.o. n. 341 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma 4-ter, del decreto legge n. 248 del 2007, convertito dalla legge n. 31 del 2008, per violazione degli articoli 3, 24, 97, 101, 102, 108 e 111 della Costituzione.

2.1. – La Commissione rimettente riferisce che la società ricorrente nel giudizio principale ha impugnato una cartella esattoriale, notificata dalla S.R.T. Lucca e Cremona s.p.a., deducendo tra l’altro che la cartella esattoriale doveva ritenersi nulla per la mancata indicazione del responsabile del procedimento.

2.2. – In punto di rilevanza, la Commissione tributaria rimettente ritiene che la decisione del ricorso debba essere preceduta dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale della disposizione legislativa censurata. Secondo la rimettente, infatti, questa Corte, nel disporre che l’indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento, prevista dall’art. 7 dello Statuto del contribuente, risponde ai principi di imparzialità e buon andamento predicati dall’art. 97 della Costituzione (ordinanza n. 377 del 2007), avrebbe «implicitamente conferma[to] che la violazione del detto obbligo determina la nullità della cartella, o comunque incide sulla legittimità dell’atto». Osserva tuttavia il giudice a quo che la disposizione impugnata, nell’«intento di sanare le violazioni anteriori», prevede invece che la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima del 1° giugno 2008 non è causa di nullità delle stesse. Da ciò deriva, secondo la Commissione tributaria, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, dal momento che «ove si applicasse la norma oggetto del dubbio di costituzionalità, il ricorso dovrebbe essere rigettato».

2.3. – In punto di non manifesta infondatezza, detta Commissione ritiene che la disposizione censurata contrasti con diversi parametri costituzionali.

In primo luogo, essa violerebbe l’art. 3 Cost., sia perché introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti, in ragione della data di consegna del ruolo cui si riferisce la cartella di pagamento, sia perché irragionevolmente riconoscerebbe e sanzionerebbe un vizio di nullità per il futuro e, al contempo, lo sanerebbe per il passato. In secondo luogo, la disposizione impugnata violerebbe il diritto alla difesa e al giusto processo, di cui rispettivamente agli articoli 24 e 111 Cost. di coloro che, avendo ricevuto una cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile prima del 1° giugno 2008, vedono ridursi le possibilità di difendersi efficacemente dalla pretesa tributaria. In terzo luogo, si profilerebbe un contrasto con l’art. 97 Cost., «nella misura in cui il contribuente non viene posto in condizioni di conoscere l’autore dell’atto impositivo, al fine di proporre contestazioni e porre in rilievo eventuali responsabilità, per le procedure adottate fino al giugno del 2008». Infine, incidendo su fattispecie sub judice, la disposizione censurata risulterebbe lesiva delle attribuzioni del potere giudiziario, con conseguente violazione degli articoli 101, 102 e 108 della Costituzione.

3. – Il Giudice di pace di Genova, con due ordinanze distinte ma sostanzialmente analoghe, rispettivamente del 26 maggio 2008 (r.o. n. 339 del 2008) e del 9 giugno 2008 (r.o. n. 340 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 Cost., dell’articolo 36, comma 4-ter, della legge n. 31 del 2008 (recte: del decreto legge n. 248 del 2007, convertito dalla legge n. 31 del 2008), nella parte in cui dispone che «la mancata indicazione dei responsabili del procedimento nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse».

3.1. – Riferisce il giudice rimettente, con riferimento a ciascuno dei giudizi principali, che al ricorrente è stata notificata una cartella di pagamento priva dell’indicazione dell’identità del responsabile del procedimento.

3.2. – Il rimettente ritiene che la disposizione censurata sia in contrasto con diversi parametri costituzionali. Essa, in particolare, violerebbe: l’art. 2 Cost., che rappresenta una «clausola aperta [..] che si sostanzia con il riempimento, e non con il toglimento, dalla Carta dei diritti, di una norma di protezione in capo al cittadino»; l’art. 3 Cost., che non consente un trattamento diversificato dei cittadini «in base al mero dato temporale»; l’art. 24 Cost., dal momento che la mancata indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento e la non riferibilità dell’atto al suo autore rende estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa; l’art. 97 Cost., sotto il profilo del principio di buona amministrazione, che risulterebbe violato per l’irragionevole disparità di trattamento «tra destinatari di cartelle di pagamento redatte e/o consegnate in tempi diversi tra loro».

3.3. – È intervenuto, in uno dei giudizi (r.o. n. 339 del 2008), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga dichiarata inammissibile e comunque infondata.

3.3.1. – La difesa erariale eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza. Osserva infatti l’Avvocatura generale dello Stato che il giudice rimettente non fornisce alcuna indicazione concreta sull’oggetto del giudizio, non potendosi in tal modo comprendere per quale ragione la disposizione denunciata dovrebbe applicarsi al giudizio principale e, prima ancora, se il giudice adito abbia giurisdizione. Inoltre, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il rimettente non ha indicato i motivi posti a base della domanda proposta nella causa principale, non potendosi in tal modo valutare se siano state sollevate doglianze relative alla omessa indicazione del responsabile del procedimento.

3.3.2. – In secondo luogo, la stessa Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione perché «lo svolgimento delle censure di illegittimità costituzionale e l’indicazione dei parametri costituzionali asseritamente violati sono esternati in un testo letteralmente incomprensibile».

3.3.3. – Nel merito, secondo la difesa erariale, la questione è comunque infondata per le ragioni già esposte nell’atto di intervento relativo al giudizio di cui al r.o. n. 292 del 2008, che viene espressamente richiamato e testualmente riprodotto.

Motivi della decisione
1. – La Commissione tributaria provinciale di Isernia, la Commissione tributaria provinciale di Lucca e, con due distinte ordinanze, il Giudice di pace di Genova hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma 4-ter, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31.

La norma impugnata, nel prevedere che la cartella di pagamento, di cui all’articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni, debba contenere, a pena di nullità, l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella, stabilisce, tuttavia, che tali disposizioni si applicano ai soli ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008, mentre esclude che la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento, relative a ruoli consegnati prima di tale data, sia causa di nullità delle stesse. Tale esclusione della nullità per le cartelle prive di indicazione del responsabile relative a ruoli consegnati anteriormente al 1° giugno 2008, si pone in contrasto, secondo i rimettenti, con diversi parametri costituzionali e, in particolare, con gli artt. 2, 3, 23, 24, 97, 101, 102, 108 e 111 della Costituzione, nonché con le norme interposte di cui agli artt. 3, comma 1, e 7, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).

2. – Preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei giudizi, in quanto concernenti la stessa disposizione e relativi a parametri in parte coincidenti.

3. – La questione sollevata, con due distinte ordinanze, dal Giudice di pace di Genova, con riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, è manifestamente inammissibile in quanto il rimettente, oltre a formularla in modo estremamente confuso, non fornisce indicazioni sufficienti a consentire di valutarne la rilevanza nei giudizi principali.

4. – Sono altresì inammissibili le censure sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca con riferimento agli artt. 101, 102 e 108 Cost., perché non adeguatamente argomentate e, quindi, generiche.

5. – Va disattesa, con riferimento alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Isernia, l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale la censura relativa all’omessa indicazione del responsabile della cartella di pagamento è stata proposta tardivamente dal ricorrente nel giudizio principale e la Commissione rimettente non ha motivato sulla sua proponibilità. L’Avvocatura generale dello Stato non tiene conto, infatti, della circostanza che, come risulta anche dagli atti del giudizio principale, il ricorrente ha lamentato già con il ricorso introduttivo, e quindi tempestivamente, la mancata indicazione del nome del notificatore e, quindi, del responsabile del procedimento di notificazione.

6. – Nel merito, la questione sollevata dalle Commissioni tributarie di Isernia e Lucca, con riferimento agli articoli 3, 23, 24, 97 e 111 della Costituzione, non è fondata.

L’art. 7, comma 2, della legge n. 212 del 2000 stabilisce che gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare, tra l’altro, il responsabile del procedimento. Come affermato da questa Corte con l’ordinanza n. 377 del 2007, la previsione è volta ad assicurare la trasparenza amministrativa, l’informazione del cittadino e il suo diritto di difesa. La legge n. 212 del 2000, peraltro, non precisa gli effetti della violazione dell’obbligo indicato: essa, in particolare, a differenza di quanto fa con riferimento ad altre disposizioni, non commina la nullità per la violazione della disposizione indicata. Né la nullità, in mancanza di un’espressa previsione normativa, può dedursi dai principi di cui all’art. 97 Cost. o da quelli del diritto tributario e dell’azione amministrativa.

Deve pertanto escludersi che, anteriormente all’emanazione della disposizione impugnata, alla mancata indicazione del responsabile del procedimento conseguisse la nullità della cartella di pagamento. Questa è stata infatti esclusa, a fronte di notevoli incertezze dei giudici di merito, dalla Corte di cassazione. La disposizione impugnata, di conseguenza, non contiene una norma retroattiva. Essa dispone per il futuro, comminando la nullità per le cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento. Stabilisce, poi, un termine a partire dal quale opera la nullità e chiarisce che essa non si estende al periodo anteriore. Dunque, la nuova disposizione non contiene neppure una sanatoria di atti già emanati, perché la loro nullità doveva essere esclusa già in base al diritto anteriore.

Da quanto precede consegue che, con riferimento all’asserita natura retroattiva della norma, non è violato l’art. 3 Cost., perché non è manifestamente irragionevole prevedere, a partire da un certo momento, un effetto più grave, rispetto alla disciplina previgente, per la violazione di una norma. Non è violato l’art. 23 Cost., perché non viene imposta una nuova prestazione e, comunque, come più volte affermato da questa Corte, non esiste un principio di irretroattività della legge tributaria fondato sull’evocato parametro, né hanno rango costituzionale – neppure come norme interposte – le previsioni della legge n. 212 del 2000 (ordinanze n. 41 del 2008, n. 180 del 2007 e n. 428 del 2006). Non sono violati gli artt. 24 e 111 Cost., in quanto la disposizione impugnata non incide sulla posizione di chi abbia ricevuto una cartella di pagamento anteriormente al termine da essa indicato. Non è violato, infine, l’art. 97 Cost., il quale non impone la scelta di un particolare regime di invalidità per gli atti privi dell’indicazione del responsabile del procedimento.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma 4 ter, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, sollevata, con riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Genova, con le due ordinanze in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, sollevata, con riferimento agli artt. 101, 102 e 108 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca, con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, sollevata, con riferimento agli artt. 3, 23, 24, 97 e 111 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Isernia e dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca, con le ordinanze in epigrafe.

Concl. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2009.


Corte cost., Ord., (ud. 03-12-2008) 16-01-2009, n. 4

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

– Giovanni Maria FLICK Presidente

– Francesco AMIRANTE Giudice

– Ugo DE SIERVO “

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 201, comma 1, del codice della strada, approvato con il d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, promosso con ordinanza del 15 febbraio 2008 dal Giudice di pace di Cittadella nel procedimento civile vertente tra G.A. e la Polizia locale di Cittadella, iscritta al n. 254 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 dicembre 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che il Giudice di pace di Cittadella, con ordinanza del 15 febbraio 2008 emessa nel corso di un procedimento civile di opposizione a sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 201, comma 1, del codice della strada, approvato con il d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, in relazione agli artt. 204-bis, comma 1, e 196, comma 1, dello stesso codice e all’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui dispone che l’autorità amministrativa può, anziché deve, notificare il verbale di contestazione della violazione a tutti i soggetti interessati;

che, in punto di descrizione della fattispecie, il rimettente riferisce che il verbale di contestazione della violazione prevista dall’art. 142, comma 8, del codice della strada, commessa nel Comune di Cittadella il 30 aprile 2007, è stato notificato a mezzo del servizio postale il 18 giugno 2007 alla intestataria e proprietaria del veicolo, condotto nell’occasione dal ricorrente nel giudizio di opposizione;

che – rileva ancora il giudice a quo – il ricorrente risulta essere l’effettivo, unico trasgressore, tale circostanza emergendo dal modulo spedito al comando dei vigili urbani del Comune di Cittadella in data 6 agosto 2007, con il quale la proprietaria del veicolo informava che il conducente e autore della violazione era il suddetto ricorrente, sicché l’autorità amministrativa, essendo stata posta in condizione di identificare il trasgressore, avrebbe potuto procedere alla notifica a questo del verbale;

che il Giudice di pace premette che la giurisprudenza individua nel solo destinatario del verbale il soggetto legittimato a proporre ricorso, non attribuendo tale facoltà a chi, pur autore della violazione, non abbia ricevuto la notifica dell’atto;

che il rimettente afferma peraltro di non condividere il principio per cui l’effettivo trasgressore potrebbe contestare, nei confronti del proprietario che lo convenga in via di regresso, la sussistenza della violazione: difatti, «le ragioni dell’uno […] non sempre possono coincidere con quelle dell’altro. In buona sostanza sia l’effettivo trasgressore che il soggetto obbligato in solido hanno diritto di essere portati a conoscenza del provvedimento sanzionatorio qualora la P.A. sia stata in grado di procedere alla loro identificazione onde consentire ad entrambi l’esercizio del diritto di difesa»;

che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’infondatezza della questione;

che, secondo la difesa erariale, il diritto di difesa del soggetto autore della violazione, successivamente identificato, al quale non sia stato notificato il verbale, sarebbe pienamente garantito;

che, innanzitutto, esso sarebbe assicurato nei rapporti interni, nel caso in cui il proprietario del veicolo o un altro dei coobbligati solidali previsti dall’art. 196 del codice della strada eserciti l’azione di regresso nei confronti dell’effettivo trasgressore per ottenere la ripetizione di quanto pagato, in virtù del vincolo di solidarietà espressamente sancito da tale disposizione;

che l’Avvocatura ricorda inoltre che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 188 del 2006, ha affermato che, ai sensi dell’art. 204 del codice della strada, il soggetto che venga identificato, non immediatamente, quale responsabile della violazione può sempre proporre, dinanzi al giudice di pace, ricorso avverso il verbale di contestazione anche se al solo scopo di escludere che tale atto possa fungere da titolo per la decurtazione del punteggio dalla patente di guida ovvero per un’eventuale azione di regresso esperibile da parte di chi abbia pagato la somma dovuta quale sanzione pecuniaria.

Considerato che la questione di legittimità costituzionale investe, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, l’art. 201, comma 1, del codice della strada, in relazione agli artt. 204-bis, comma 1, e 196, comma 1, dello stesso codice e all’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui dispone che l’autorità amministrativa può, anziché deve, notificare il verbale di contestazione della violazione a tutti i soggetti interessati;

che il rimettente, investito di un ricorso, proposto dall’effettivo trasgressore, avverso un verbale di accertamento per violazione del codice della strada con il quale la violazione è stata contestata unicamente al proprietario del veicolo, non spiega quale effetto avrebbe nel giudizio a quo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata;

che, inoltre, l’ordinanza di rimessione si limita ad enunciare un preteso contrasto tra la disposizione censurata e gli evocati parametri costituzionali (articoli 24 e 111 Cost.), senza fornire alcuna motivazione in proposito;

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 201, comma 1, del codice della strada, approvato con il d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Cittadella con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2009.


Corte cost., Ord., (ud. 04-11-2008) 28-11-2008, n. 393

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Giovanni Maria FLICK Presidente

– Francesco AMIRANTE Giudice

– Ugo DE SIERVO “

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promosso con ordinanza dell’11 dicembre 2007 dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Genova nel giudizio vertente tra la s.r.l. PhD e la s.p.a. Equitalia Polis, iscritta al n. 87 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti l’atto di costituzione della s.r.l. PhD, nonché gli atti di intervento di Francesco Carlo Rizzuto e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 novembre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

udito l’avvocato Francesco Carlo Rizzuto per la s.r.l. PhD e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio riguardante un’opposizione agli atti dell’esecuzione esattoriale promossa dalla s.p.a. Equitalia Polis, agente della riscossione per la provincia di Genova, nei confronti della s.r.l. PhD, il giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Genova, con ordinanza depositata l’11 dicembre 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale, all’alinea del comma 1, prevede che «Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede»;

che il giudice rimettente premette che: a) il giudizio a quo si trova nella fase cautelare «prevista dall’art. 60, d.P.R. n. 602/1973», nella quale può essere disposta «legittimamente la sospensione della procedura esecutiva esattoriale, ove richiesto, qualora ricorrano gravi motivi e vi sia fondato pericolo di grave ed irreparabile danno»; b) devono essere respinte le eccezioni di mancata o tardiva «notifica del provvedimento ex art. 72-bis, d.P.R. n. 602/1973 con cui Equitalia S.p.A. […] ordinava a Banca Carige la consegna della somma versata sul conto corrente intestato al debitore»; c) «non appare violato, nel caso di specie, alcun principio né dispositivo di legge, essendo stato notificato l’atto di pignoramento anche al contribuente debitore e […] pertanto l’esecutato ha avuto la possibilità di venire a conoscenza della procedura e di far valere le sue ragioni con il presente ricorso ex art. 617 c.p.c.»;

che il rimettente – in accoglimento di una sola delle diverse eccezioni di legittimità costituzionale proposte dall’opponente – solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 72-bis, del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto esso, consentendo all’agente della riscossione di ordinare discrezionalmente al terzo il pagamento diretto, riconosce a detto agente una facoltà che, se esercitata (come nella specie), sottrae al controllo del giudice dell’esecuzione la procedura di espropriazione esattoriale mobiliare presso terzi di crediti del debitore e, perciò, crea una irragionevole disparità di trattamento nei confronti degli esecutati in procedure esattoriali alle quali, invece, sono applicabili le diverse modalità di esecuzione mediante previa citazione in giudizio del terzo, previste dagli artt. 543 e seguenti cod. proc. civ.;

che, sempre a sostegno della non manifesta infondatezza della sollevata questione, il rimettente aggiunge: a) che «il pignoramento eseguito in base alla norma censurata, con ordine coattivo di consegna immediata, in luogo di quello ex artt. 543 e segg. c.p.c., ha reso più gravosa e meno efficace per l’esecutato la sua difesa», perché se questo «avesse proposto opposizione dopo aver ricevuto la rituale citazione ex art. 543 c.p.c., nel tempo intercorrente tra la sua notifica e l’udienza di dichiarazione del terzo ex art. 547 c.p.c., qualora il g.e. avesse sospeso l’esecuzione ex art. 60, d.P.R. n. 602/1973, stante il disposto dell’art. 49, n. 2 del d.P.R. citato, […] sarebbe stato conseguentemente applicabile, per la parte per cui non provvede l’art. 60, d.P.R. n. 602/1973, l’art. 624 c.p.c.»; b) che, pertanto, «in caso di sospensione non reclamata ex art. 669-terdecies c.p.c., o disposta o confermata in sede di reclamo, il g.e., in caso di istanza dell’opponente, avrebbe dichiarato (non facoltativamente, secondo il tenore letterale della norma novellata), con ordinanza non impugnabile, l’estinzione della procedura, liberando di fatto la somma vincolata e non ancora assegnata» c) che «è di percezione immediata quanto la diversa scelta operata nel caso in esame dal concessionario procedente, la cui discrezionalità discende dalla norma, abbia creato una disparità di trattamento ove si consideri che, in caso di sospensione ed estinzione della procedura, il recupero della somma pignorata, già versata al procedente, sarebbe non poco oneroso per l’esecutato»;

che, secondo il giudice a quo, va «ritenuta altresì sussistente la rilevanza, nel presente giudizio, della norma censurata, per le circostanze di fatto e di diritto suesposte»;

che il rimettente, contestualmente alla rimessione degli atti a questa Corte, «sospende la procedura» esecutiva;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondata la sollevata questione;

che l’interveniente premette che la norma censurata è stata introdotta dall’art. 2, comma 6, del decreto-legge 2 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, che ha esteso a tutti i crediti del debitore erariale moroso la facoltà di riscossione coattiva diretta da parte del concessionario, prima limitata al solo caso del pignoramento del quinto dello stipendio, allo scopo di attribuire agli organi della riscossione poteri più incisivi ed efficaci per il mancato pagamento dei debiti tributari iscritti a ruolo, come tali certi, liquidi ed esigibili;

che, per la difesa erariale, la norma censurata non è contraria al parametro della ragionevolezza, non solo perché «appare del tutto proporzionata al conseguimento dell’obiettivo, ma anche perché la contestata discrezionalità dell’agente della riscossione nell’avvalersi o meno della facoltà che la legge gli riconosce non induce una disparità di trattamento tra debitori esecutati», i quali sono «titolari di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità»;

che i margini di discrezionalità riconosciuti all’agente della riscossione sarebbero «rigidamente vincolati, fortemente limitati e ben definiti dal profilo pubblicistico dell’esercizio della sua attività»; attività che egli dovrebbe improntare alla maggiore rapidità possibile «in un’ottica di indefettibile rafforzamento dell’efficienza operativa, della fruttuosità della riscossione tributaria e dell’effettivo contrasto del fenomeno della c.d. evasione da riscossione»;

che, in relazione alla pretesa violazione dell’art. 24 Cost., la difesa erariale rileva che la denunciata maggiore gravosità della posizione del debitore esecutato conseguirebbe ad una situazione di mero fatto, perché «l’eliminazione dell’udienza per la dichiarazione di quantità […] non incide sulla facoltà per il debitore esecutato di proporre opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, nei limiti in cui ciò è consentito dall’art. 57 del d.P.R. 602/73, e di chiedere la sospensione dell’esecuzione, essendo il debitore, evidentemente, tra i destinatari della notifica dell’atto di pignoramento»;

che, anche sul piano delle concrete conseguenze fattuali della disciplina censurata – sempre per la difesa erariale – «la nuova forma di espropriazione presso terzi non ha prodotto sensibili differenze rispetto alla situazione preesistente», nella quale «la possibilità per il debitore esecutato di rientrare nella disponibilità del credito pignorato – non essendo la mera sospensione idonea a far cessare il vincolo determinato dal pignoramento – presuppone la dichiarazione di estinzione della procedura esecutiva e quindi, di norma, una sentenza resa all’esito di un giudizio di cognizione»;

che, pertanto, l’unica differenza fra la disciplina censurata e la disciplina ordinaria dell’espropriazione presso terzi sarebbe «che […] all’esito del giudizio di cognizione risulterà debitore il concessionario (che sarà, di regola, tenuto anche al risarcimento del danno) in luogo dell’originario debitor debitoris»; con la conseguenza di una maggiore tutela di fatto della posizione del debitore esecutato, in ragione della «istituzionale solvibilità del creditore erariale, che elimina in radice […] il rischio di ripetizione delle somme che, eventualmente, dovessero risultare riscosse sine titulo e di quelle conseguentemente dovute a titolo risarcitorio»;

che si è costituita la s.r.l. PhD, in liquidazione, opponente nel giudizio di esecuzione, rappresentata e difesa dall’avvocato Francesco Carlo Rizzuto, chiedendo l’accoglimento della sollevata questione;

che la parte privata, dopo aver premesso che il giudice a quo ha sospeso la procedura esecutiva, afferma che: a) la norma censurata – in quanto sottrae al giudice dell’esecuzione il potere «di verifica anche d’ufficio della validità ed efficacia dei titoli esecutivi» – si pone in contrasto con la legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), che «prevede espressamente che fisco e contribuente siano posti in condizioni di parità, nell’ottica di un giusto processo», nonché con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che «prevede […] il diritto di ogni persona ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente ed imparziale, ai fini della determinazione sia dei suoi diritti che dei suoi doveri di carattere civile»; b) la medesima norma censurata non prevede «la contestuale notifica dell’atto di pignoramento, oltre che al terzo pignorato, anche al debitore»; c) nel procedimento di espropriazione presso terzi ordinario, qualora l’esecuzione sia sospesa prima che il terzo debitore corrisponda le somme all’agente della riscossione, il debitore esecutato che vede accolta la sua opposizione all’esecuzione ottiene lo svincolo dei crediti dal pignoramento, a prescindere dall’esistenza di altri debiti verso lo Stato; nel procedimento di espropriazione presso terzi disciplinato dalla norma censurata, invece, «le somme acquisite dal procedente o potranno essere riottenute in modo molto gravoso […] o non potranno essere riottenute affatto, qualora il contribuente abbia altri o maggiori debiti verso lo Stato, in quanto si applica la automatica compensazione ex lege»;

che è intervenuto in proprio Francesco Carlo Rizzuto, dichiarando di essere parte, quale debitore esecutato, di un procedimento analogo al giudizio a quo, pendente di fronte allo stesso Tribunale ordinario di Genova;

che, a sostegno dell’ammissibilità del suo intervento, afferma di essere portatore di un interesse personale, «in quanto la soluzione, favorevole o meno, della questione di legittimità costituzionale delle norme in materia di riscossione esattoriale incide indirettamente anche sulla propria posizione»;

che, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la s.r.l. PhD, in liquidazione, ha ribadito quanto già dedotto nell’atto di costituzione.

Considerato che il giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Genova dubita – in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – della legittimità dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale prevede che «Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede»;

che, secondo il rimettente, la disposizione censurata víola gli evocati parametri, perché: a) crea una «disparità di trattamento nei confronti di esecutati in procedure esattoriali in ordine alla possibilità […] che la concessionaria per la riscossione applichi a sua discrezione tale modalità di esecuzione, riconoscendole una facoltà che discrimina irragionevolmente i debitori sottoposti a tale procedura “in luogo” di quella di cui agli artt. 543 e segg. C.p.c.»; b) «il pignoramento eseguito in base alla norma censurata, con ordine coattivo di consegna immediata, in luogo di quello ex artt. 543 e segg. c.p.c., ha reso più gravosa e meno efficace per l’esecutato la sua difesa», in quanto, ove questo «avesse proposto opposizione dopo aver ricevuto la rituale citazione ex art. 543 c.p.c., nel tempo intercorrente tra la sua notifica e l’udienza di dichiarazione del terzo ex art. 547 c.p.c., qualora il g.e. avesse sospeso l’esecuzione ex art. 60, d.P.R. n. 602/1973, stante il disposto dell’art. 49, n. 2 del d.P.R. citato, […] sarebbe stato conseguentemente applicabile, per la parte per cui non provvede l’art. 60, d.P.R. n. 602/1973, l’art. 624 c.p.c.», con l’ulteriore conseguenza che, «in caso di sospensione non reclamata ex art. 669-terdecies c.p.c., o disposta o confermata in sede di reclamo, il g.e., in caso di istanza dell’opponente, avrebbe dichiarato […], con ordinanza non impugnabile, l’estinzione della procedura, liberando di fatto la somma vincolata e non ancora assegnata»;

che, preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento in proprio di Francesco Carlo Rizzuto, il quale riferisce di essere parte non nel giudizio a quo, ma in un giudizio analogo, nel quale il giudice non ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma oggetto del presente giudizio;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, sentenza n. 96 del 2008; ordinanza pronunciata nell’udienza del 26 febbraio 2008 e ordinanza n. 414 del 2007);

che l’inammissibilità dell’intervento non viene meno in forza della pendenza di un procedimento analogo a quello principale, posto che l’ammissibilità di tale intervento contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo (ex plurimis, sentenza n. 220 del 2007; ordinanze pronunciate nelle udienze del 3 luglio 2007 e del 19 giugno 2007);

che la sollevata questione di legittimità costituzionale è manifestamente inammissibile;

che il rimettente riferisce che il giudizio a quo, avente ad oggetto un’opposizione del debitore esecutato all’esecuzione esattoriale promossa dall’agente della riscossione, si trova nella fase cautelare «prevista dall’art. 60, d.P.R. n. 602/1973»;

che, secondo tale disposizione, «Il giudice dell’esecuzione non può sospendere il processo esecutivo, salvo che ricorrano gravi motivi e vi sia fondato pericolo di grave e irreparabile danno»;

che, come questa Corte ha più volte affermato, il giudice ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare, sia quando non provveda sulla domanda cautelare, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce (ex plurimis, sentenza n. 161 del 2008 e ordinanza n. 25 del 2006);

che, nel caso di specie, il rimettente non si è limitato a sospendere il giudizio cautelare, ma ha sospeso – con provvedimento che egli non dichiara essere soggetto a successiva conferma nel medesimo giudizio cautelare – il processo esecutivo ed ha, pertanto, accolto l’istanza di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 602 del 1973 proposta dalla parte opponente, così esaurendo definitivamente il proprio potere cautelare;

che la questione sollevata è, conseguentemente, priva di rilevanza nel giudizio a quo, perché il giudice, avendo sospeso la procedura esecutiva e non essendosi riservato di provvedere successivamente, in via definitiva, sull’istanza cautelare, non deve più fare applicazione della norma censurata;

che, a parte ciò, il giudice rimettente non ha neppure assolto l’onere di fornire un’adeguata motivazione circa la rilevanza della sollevata questione al fine di consentire a questa Corte di verificare la plausibilità di detta motivazione; che, infatti, il giudice a quo avrebbe dovuto precisare se – ai fini della concessione della richiesta misura cautelare – oltre al fumus boni iuris fondato sulla dedotta illegittimità costituzionale della disposizione censurata, sussistesse anche il requisito del periculum in mora richiesto dal menzionato art. 60 del d.P.R. n. 602 del 1973 (nel senso della necessità di motivazione anche sulla sussistenza del periculum in mora, sentenze n. 370 del 2008 e n. 108 del 1995);

che, invece, il rimettente non ha fornito alcuna motivazione circa il presupposto del periculum in mora per la sospensione della procedura esecutiva, essendosi limitato a menzionare genericamente l’esistenza di «gravi motivi» per tale sospensione;

che, anche a prescindere tali rilievi in punto di inammissibilità, va rilevato che la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso terzi non crea né una lesione del diritto di difesa dell’opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia perché non sussiste «un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali» (ex plurimis, ordinanze n. 67 del 2007 e n. 101 del 2006 ).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile l’intervento di Francesco Carlo Rizzuto, in proprio;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), sollevata dal Tribunale ordinario di Genova, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2008.


Corte Costituzionale n. 366 del 24.10.2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Franco BILE Presidente

– Francesco AMIRANTE Giudice

– Ugo DE SIERVO “

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell’art. 26, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promossi con ordinanze depositate il 18 settembre 2006 dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, nel giudizio vertente tra Ornella Capra, l’Agenzia delle entrate – Ufficio di Genova ed altri, ed il 23 ottobre 2006 dal Tribunale di Genova, nel giudizio vertente tra Carmelo Torrente, quale procuratore generale in Italia di Ambrogio Bozzo, e la s.p.a. Gest Line, rispettivamente iscritte al n. 312 ed al n. 390 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 e n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 ottobre 2007 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio tributario – nel quale una contribuente aveva impugnato alcune cartelle di pagamento per IRPEF e TOSAP – promosso nei confronti del Comune di Genova, della Agenzia delle entrate-Ufficio di Genova e della s.p.a. Gest Line, concessionaria del servizio per la riscossione dei tributi, la Commissione tributaria provinciale di Genova, con ordinanza depositata il 18 settembre 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248], nella parte in cui, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), escludono – in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – «l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 142 c.p.c.».

La Commissione rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la contribuente chiede la dichiarazione di nullità della notificazione delle cartelle di pagamento impugnate e di prescrizione dei crediti vantati dagli enti convenuti; b) la stessa contribuente deduce di essere residente negli Stati Uniti d’America, di essere iscritta nell’AIRE del Comune di Genova e di aver appreso casualmente, in mancanza di notificazioni od altri avvisi, che, a causa dei debiti tributari risultanti dalle predette cartelle, pendeva procedimento di esecuzione forzata su un immobile di sua proprietà sito in Genova, e che «le notificazioni di legge» erano state eseguite presso un immobile in Genova, da lei precedentemente alienato sin dal 1992; c) la notificazione delle cartelle impugnate era stata eseguita nell’ultima residenza della contribuente nel territorio dello Stato «da tempo venuta meno addirittura con la alienazione dell’immobile di cui si tratta»; d) tale notificazione si era risolta «in un mero deposito alla Casa Comunale non seguito nemmeno dalla spedizione di un avviso con lettera raccomandata» e, pertanto, le cartelle non erano di fatto pervenute a conoscenza della destinataria.

Il giudice a quo riferisce di avere già sollevato, nel corso del medesimo giudizio, «in riferimento agli artt. 1, 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità degli articoli 58, primo e secondo comma (recte: primo comma e secondo periodo del secondo comma), e 60, primo comma, lettere c) ed e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui regolano le modalità delle notificazioni in materia tributaria nei confronti dei cittadini residenti all’estero (recte: delle predette disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973 in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»)».

Lo stesso giudice a quo riferisce altresì che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 210 del 2006, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della suddetta questione, perché l’ordinanza di rimessione non aveva ricompreso fra le norme censurate l’art. 60, primo comma, lettera f), del d.P.R. n. 600 del 1973, il quale, unitamente alla lettera c) dello stesso comma, evidenzia l’intenzione del legislatore di non prendere affatto in considerazione luoghi di notificazione degli atti tributari diversi da quello del domicilio fiscale in un comune dello Stato, stabilendo che alla notificazione degli atti tributari non si applica l’articolo 142 del codice di procedura civile, e cioè proprio la norma che riguarda il caso, oggetto di esame, della notificazione di atti a persona che non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio.

Prendendo atto della motivazione della citata ordinanza della Corte costituzionale, il rimettente, nel riproporre analoga questione di legittimità costituzionale, censura, in aggiunta alle disposizioni già denunciate con la prima ordinanza di rimessione, la lettera f) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. Osserva, al riguardo, che «i requisiti di non manifesta infondatezza della questione» sono stati «implicitamente riconosciuti dalla stessa Corte nella propria decisione, con riferimento ad altra norma da denunciarsi» e precisa che l’esclusione, da parte delle norme censurate, dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. – norma che, per assicurare l’effettivo buon fine delle notificazioni all’estero, prevede l’applicazione delle convenzioni internazionali o comunque la spedizione di copia dell’atto con raccomandata al destinatario e la consegna di altra copia al pubblico ministero per l’inoltro in via consolare – «evidenzia l’intenzione del legislatore di non prendere in considerazione luoghi di notificazione degli atti tributari diversi da quello del domicilio fiscale in un comune dello Stato». In particolare, il giudice a quo afferma che le norme censurate violano sia il diritto di difesa, perché non garantiscono al destinatario della notificazione l’effettiva conoscenza dell’atto notificato, sia il principio di uguaglianza, perché esse si applicano ingiustificatamente ai soli atti tributari e penalizzano pesantemente il contribuente per il solo fatto di non risiedere nel territorio nazionale.

Il medesimo giudice osserva, in punto di rilevanza, che «solo la caducazione della norma ora denunciata consentirebbe un favorevole accoglimento del ricorso».

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.

Per la difesa erariale, la sollevata questione sarebbe inammissibile: a) per insufficiente descrizione della fattispecie, perché il rimettente ha omesso di indicare sia la data di iscrizione della contribuente nell’AIRE, sia quella di notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, con la conseguenza che tali omissioni non consentono alla Corte di verificare l’anteriorità di detta iscrizione rispetto alla notificazione delle cartelle e, quindi, la rilevanza della questione; b) perché la materia si presta ad una pluralità di opzioni normative e ciò non rende possibile «un intervento additivo del giudice delle leggi il quale imponga come costituzionalmente obbligata una determinata disciplina diversa da quella vigente».

Ad avviso della stessa difesa dello Stato, la questione sarebbe infondata, perché: a) la denunciata disparità di trattamento dei cittadini destinatari di notificazioni di atti in materia tributaria residenti all’estero è esclusa sia dalla specificità di detta materia – che, in ragione del dovere dei cittadini di concorrere alle spese pubbliche sancito dall’art. 53 Cost., giustifica la speciale disciplina della notificazione degli atti tributari nel territorio dello Stato ove si è prodotto il reddito –, sia dalla facoltà riconosciuta al cittadino residente all’estero, anche successivamente all’istituzione dell’AIRE, di eleggere domicilio presso una persona od un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale, ai sensi dell’art. 60, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, risultando in tal modo garantita anche al contribuente residente all’estero la conoscibilità degli atti tributari; b) «la ragionevolezza della disciplina delle notificazioni degli atti di imposizione tributaria nella parte in cui prevede che tali notificazioni si eseguano esclusivamente nel territorio italiano» discende dal primo comma dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973 – in forza del quale tutti i soggetti passivi di imposte sui redditi si considerano domiciliati in un comune dello Stato –, comma che non sarebbe stato censurato dal rimettente.

3. – Nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi promosso, ai sensi degli artt. 615 e 617 cod. proc. civ., nei confronti della s.p.a. Gest Line, concessionaria del servizio per la riscossione dei tributi, dal procuratore generale in Italia di un cittadino italiano residente in Santo Domingo, il Tribunale di Genova, con ordinanza del 23 ottobre 2006, ha sollevato – in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione – questione di legittimità degli artt. 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del d.P.R. n. 600 del 1973 [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 248 del 2006], nella parte in cui, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dal concessionario per la riscossione in base all’iscrizione nell’AIRE, non prevedono che la notificazione sia eseguita mediante la spedizione a mezzo posta al destinatario di una copia dell’atto o, almeno, di un avviso dell’avvenuto deposito dell’atto nella Casa comunale.

Il giudice a quo premette che:

a) l’opponente denuncia la mancata notificazione dell’avviso di vendita e degli atti a questo prodromici, costituiti da cartelle di pagamento;

b) la società convenuta deduce, di contro, la regolare notificazione di detti atti, ai sensi degli artt. 58, 59 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, disciplinanti la notificazione degli atti in materia tributaria;

c) nella specie, l’avviso di vendita era stato notificato al debitore nel rispetto degli artt. 58, 59 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, mediante deposito ed affissione presso la Casa comunale di Recco, in data 9 aprile 2005, quando il destinatario della notificazione era residente nella Repubblica Dominicana, come risultava dall’iscrizione, sin dal 12 ottobre 2000, nell’AIRE, e come era noto al notificante, in base alla documentazione allegata all’avviso.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva che, in base alle norme denunciate, v’è «una piú che concreta possibilità» che il processo esecutivo abbia inizio senza che l’esecutato ne abbia avuto notizia: infatti, esse dispongono che la notificazione dell’avviso di vendita al cittadino italiano residente all’estero avvenga mediante deposito nella Casa comunale «di un luogo diverso (e potenzialmente remoto […]) rispetto a quello ove si trovano la reale residenza o l’effettivo domicilio del debitore» e, «allo stesso tempo, non prevedono la spedizione a mezzo posta di una copia dell’atto, o almeno di un avviso del deposito dell’atto».

Ad avviso del giudice a quo, tale normativa comporta, pertanto, la violazione:

a) dell’art. 1 Cost., perché «l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi […] non può essere perseguito a prezzo del sacrificio dei diritti costituzionalmente garantiti del cittadino, a meno di porsi in contrasto con il principio della sovranità popolare»;

b) dell’art. 3 Cost., perché viene a crearsi, in materia di notificazione degli atti, una ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini sottoposti all’espropriazione regolata dalle norme del codice di procedura civile (per la quale vigono le norme ordinarie) e quelli sottoposti ad esecuzione esattoriale (per la quale vigono le speciali norme denunciate);

c) dell’art. 24 Cost., perché viene menomata la possibilità del debitore di esercitare il proprio diritto di difesa; d) dell’art. 42 Cost., perché la vendita forzata di un bene del debitore, senza che quest’ultimo abbia previamente avuto conoscenza dell’instaurazione del procedimento esecutivo, lede il diritto di proprietà privata.

Quanto alla rilevanza, il rimettente osserva che, «ove il motivo di opposizione concernente la notificazione delle cartelle dovesse risultare inammissibile ai sensi dell’art. 57 d.P.R. n. 602/73 […], ai fini della decisione diverrebbe […] dirimente la questione concernente la regolarità della notificazione dell’avviso di vendita» e, quindi, la questione concernente la legittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, disciplinanti «il compimento dell’atto notificatorio la cui validità è oggetto di contestazione».

4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.

In ordine all’inammissibilità, l’Avvocatura erariale rileva l’astrattezza della questione, perché, nel sollevarla, il giudice a quo non si è posto il problema se, nella specie, sia provato (al di là delle generiche asserzioni dell’opponente) che la notifica non abbia raggiunto lo scopo di portare gli atti a conoscenza del debitore.

In ordine all’infondatezza, la difesa dello Stato sostiene che:

a) è inconferente il richiamo all’art. 1 Cost. (cui andrebbe comunque contrapposta la valenza etico-sociale dell’art. 53 Cost.);

b) la difesa in giudizio garantita dall’art. 24 Cost. presuppone che il cittadino abbia fatto uso della “normale diligenza” nella cura delle relazioni giuridiche intersoggettive, specialmente se connesse a doveri stabiliti dalla Costituzione, quale quello sancito dall’art. 53 Cost., mentre nell’ordinanza di rimessione non si precisa, in ordine a detto presupposto, se l’iscrizione della contribuente nell’AIRE sia avvenuta «in data anteriore – non solo alla notifica degli atti esecutivi, sub iudice nella causa principale, ma anche – alla notifica degli atti (stricto sensu, impositivi) a quella presupposti»;

c) la notificazione è stata effettuata nel domicilio fiscale del contribuente, ai sensi della normativa denunciata, la quale è diretta ad agevolare l’amministrazione finanziaria, perché la esonera dall’onere di ricerche al di fuori di tale domicilio, senza che sia in tal modo leso il diritto di difesa del contribuente, il quale può precisare, sia pure nell’àmbito del domicilio fiscale, un proprio indirizzo, ai sensi del quarto comma dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973;

d) è lecito dubitare della correttezza dell’assimilazione operata dal rimettente, ai fini della valutazione della denunciata lesione dell’art. 3 Cost., tra i comuni rapporti intersoggettivi e quelli nei quali venga in rilievo il dovere di «concorrere alle spese pubbliche», ai sensi dell’art. 53 Cost., per i quali trova giustificazione una disciplina specifica;

e) non è pertinente il richiamo all’art. 42 Cost.

Considerato in diritto

1. – La Commissione tributaria provinciale di Genova dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248], nella parte in cui, nel caso di notificazione di atti tributari a un cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), escludono – in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – «l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 142 c.p.c.».

2. – Il Tribunale di Genova dubita, in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del d.P.R. n. 600 del 1973 [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 248 del 2006], nella parte in cui, nel caso di notificazione di atti tributari a un cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dal concessionario per la riscossione in base all’iscrizione nell’AIRE, non prevedono che la notificazione sia eseguita mediante la spedizione a mezzo posta al destinatario di una copia dell’atto o, almeno, di un avviso dell’avvenuto deposito dell’atto nella Casa comunale.

3. – La sostanziale identità delle norme denunciate e delle censure prospettate dai giudici a quibus impone la riunione dei giudizi di legittimità costituzionale, al fine di decidere congiuntamente le sollevate questioni.

4. – Quanto alla questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, il giudice rimettente – chiamato a decidere, previo accertamento della validità della notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, sulla prescrizione dei crediti con esse fatti valere – censura le seguenti disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973: a) l’art. 58, primo comma, il quale stabilisce che «Agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato»; b) il secondo periodo del secondo comma dello stesso art. 58, per il quale le persone fisiche non residenti nel territorio dello Stato «hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato»; c) l’art. 60, primo comma, lettera c), secondo cui, «salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario»; d) l’art. 60, primo comma, lettera e), il quale prevede che, quando nel comune del domicilio fiscale «non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente», la notificazione è eseguita mediante deposito di copia dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo dello stesso comune e, «ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione»; e) l’art. 60, primo comma, lettera f), in forza del quale «le disposizioni contenute negli articoli 142, 143, 146, 150 e 151 del codice di procedura civile non si applicano»; f) l’ultimo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, il quale stabilisce che «Per quanto non è regolato dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 60» del d.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, rende applicabili, nell’ipotesi della notificazione della cartella di pagamento al contribuente residente all’estero – non contemplata dagli altri commi dello stesso art. 26 e in relazione alla quale è stata sollevata la questione –, le censurate lettere c) ed e) del primo comma del richiamato art. 60 e, attraverso queste, anche le altre disposizioni censurate.

La Commissione rimettente lamenta che le denunciate disposizioni escludono, per l’ipotesi in cui la residenza estera sia conoscibile in base alle risultanze anagrafiche, che la notificazione sia eseguita a norma dell’art. 142 cod. proc. civ., secondo il quale:

a) «Salvo quanto disposto nel secondo comma, se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell’articolo 77, l’atto è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al pubblico ministero che ne cura la trasmissione al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta» (primo comma);

b) «Le disposizioni di cui al primo comma si applicano soltanto nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle Convenzioni internazionali e dagli articoli 30 e 75 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200» (secondo comma).

Ad avviso del giudice a quo, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. si porrebbe in contrasto con gli artt. 24 e 3 Cost., perché pregiudicherebbe l’esercizio del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non assicurandogli l’effettiva conoscenza dell’atto e determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i cittadini residenti all’estero, con residenza conoscibile in base alle risultanze anagrafiche, per i quali la disciplina vigente non garantirebbe l’effettiva conoscenza degli atti tributari, e gli altri destinatari di notificazioni di tali atti, per i quali invece detta conoscenza sarebbe garantita.

4.1. – La difesa erariale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, per insufficiente descrizione della fattispecie, in quanto il rimettente avrebbe omesso di indicare le date di iscrizione della contribuente nell’AIRE e di notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, precludendo cosí alla Corte la verifica dell’anteriorità di detta iscrizione rispetto alla notificazione delle cartelle e, quindi, il controllo in ordine alla rilevanza della questione medesima.

L’eccezione non è fondata.

Con riferimento al medesimo giudizio a quo, questa Corte ha, infatti, già rilevato, con l’ordinanza n. 210 del 2006, che il rimettente, affermando che la notificazione delle cartelle è stata regolarmente eseguita nell’ultima residenza nel territorio dello Stato della contribuente mentre la residenza estera di quest’ultima era nota all’Amministrazione (o doveva esser nota con le opportune ricerche anagrafiche), dà per accertata l’anteriorità dell’iscrizione nell’AIRE della stessa contribuente rispetto alla notificazione delle cartelle.

4.2. – La difesa erariale ha eccepito, in secondo luogo, l’inammissibilità della questione, perché la materia si presta ad una pluralità di opzioni normative costituzionalmente legittime e ciò non rende possibile «un intervento additivo del giudice delle leggi il quale imponga come costituzionalmente obbligata una determinata disciplina diversa da quella vigente».

Anche tale eccezione non è fondata.

Il rimettente, infatti, ha chiesto a questa Corte non una pronuncia additiva, ma solo la declaratoria di illegittimità costituzionale del combinato disposto delle norme denunciate, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. alle notificazioni di atti tributari a cittadini italiani la cui residenza estera risulti dall’iscrizione all’AIRE. A questa Corte, quindi, si chiede non di operare una scelta fra diverse opzioni normative, ma di rendere applicabile la disposizione generale dell’art. 142 cod. proc. civ., relativa alle notificazioni ai non residenti in Italia, facendo cessare gli effetti della norma speciale che nega l’applicazione di tale articolo con riferimento agli atti tributari.

4.3. – Nel merito, il rimettente afferma che la normativa censurata, non garantendo ai cittadini italiani iscritti nell’AIRE l’effettiva conoscenza degli atti tributari loro notificati, realizza un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai residenti in Italia, ai quali detta conoscenza è invece garantita dal fatto che le notificazioni degli atti tributari sono effettuate nel domicilio fiscale, e cioè, ai sensi del denunciato art. 58, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 «nel comune nella cui anagrafe sono iscritte» le persone fisiche contribuenti.

La questione è fondata.

Questa Corte ha affermato che «un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa» (sentenza n. 360 del 2003; si veda anche la sentenza n. 346 del 1998).

Le norme censurate violano detto limite, perché, equiparando la situazione del contribuente residente all’estero e iscritto nell’AIRE a quella del contribuente che non ha abitazione, ufficio o azienda nel comune del domicilio fiscale, impongono di eseguire le notificazioni a lui destinate solo mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo dello stesso comune.

In tal modo, esse non garantiscono al notificatario non più residente in Italia l’effettiva conoscenza degli atti a lui destinati, senza che a tale diminuita garanzia corrisponda un apprezzabile interesse dell’amministrazione finanziaria notificante a non subire eccessivi aggravi nell’espletamento della procedura notificatoria.

Le modalità di notificazione previste in via generale dall’art. 142 cod. proc. civ. assicurerebbero, invece, al notificatario l’effettiva conoscenza dell’atto a lui destinato, imponendo all’amministrazione finanziaria di espletare la non troppo gravosa procedura di notifica presso la residenza estera risultante dall’AIRE. L’inapplicabilità di detta disposizione stabilita dalle norme censurate comporta, dunque, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

Del resto, proprio al fine di ampliare le possibilità di effettiva conoscenza, da parte del destinatario dell’atto, il legislatore ha successivamente modificato (con norma non applicabile ratione temporis al caso di specie e, quindi, non oggetto di esame nel presente giudizio) il regime della notifica degli atti tributari ai cittadini italiani residenti all’estero.

Infatti, pur mantenendo ferma l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ., il legislatore ha inteso limitare l’inconveniente denunciato dal rimettente, seguendo la diversa via della «spedizione a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento» dell’atto tributario all’«indirizzo estero» che il contribuente ha «facoltà» di comunicare al «competente ufficio locale» (comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, che ha introdotto nel suddetto art. 60, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 la lettera ebis).

In tal modo, nel caso di iscrizione del contribuente nell’AIRE, l’applicazione della disciplina censurata dal rimettente resta circoscritta all’ipotesi in cui il contribuente abbia omesso di indicare al competente ufficio locale l’indirizzo estero per la notificazione degli atti tributari.

5. – Quanto alla questione proposta dal Tribunale di Genova, l’Avvocatura dello Stato ne ha eccepito la manifesta inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione è fondata.

Oggetto del giudizio a quo è l’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi e, in particolare, all’avviso di vendita. In punto di rilevanza il Tribunale si limita a osservare che «è dirimente la questione concernente la regolarità della notificazione dell’avviso di vendita», senza precisare se e quale pregiudizio abbia subito il notificatario opponente. Il rimettente non spiega, cioè, perché la notificazione dell’avviso di vendita, eseguita in base alle norme censurate, non abbia raggiunto il suo scopo e abbia menomato il diritto di difesa del ricorrente nel giudizio a quo, nonostante che, nella specie, il contribuente abbia proposto opposizione all’avviso di vendita, dimostrando di avere conoscenza di detto avviso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), che le disposizioni contenute nell’articolo 142 del codice di procedura civile non si applicano;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sollevata, in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2007.


Corte cost., Sent., (data ud. 13/01/2004) 23/01/2004, n. 28

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 139 e 148 del codice di procedura civile promosso con ordinanza del 3 gennaio 2003 emessa dal Tribunale di Milano, sezione distaccata di Rho, nel procedimento civile vertente tra Luisa Rosa Trezzi ed altra e Maria Ida Versetti ed altri, iscritta al n. 252 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Udito nella camera di consiglio del 12 novembre 2003 il Giudice relatore Franco Bile.

Svolgimento del processo
1. – Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Milano, sezione distaccata di Rho, nel corso di un procedimento civile di opposizione all’esecuzione ex art. 615 del codice di procedura civile – a seguito di eccezione, formulata dalla parte opposta, di decadenza degli opponenti per inosservanza del termine perentorio assegnato dal giudice per la notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 139 e 148 cod. proc. civ., «nella parte in cui prevede che le notificazioni si perfezionino, per il notificante, alla data di perfezionamento delle formalità di notifica poste in essere dall’ufficiale giudiziario e da questi attestate nella relazione di notificazione, anziché alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario».

Rilevato che, di fronte all’eccezione, gli opponenti hanno replicato di avere eseguito tempestivamente gli adempimenti loro attribuiti e che il ritardo con cui erano state effettuate le notifiche era dovuto esclusivamente all’attività dell’ufficiale giudiziario, sottratta al controllo ed alla disponibilità del notificante, il rimettente osserva che con sentenza n. 477 del 2002 la Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), in materia di notificazioni a mezzo del servizio postale, nella parte in cui prevedeva che la notificazione si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

Secondo il giudice a quo, i principi posti a fondamento di tale decisione «sono suscettibili di trovare applicazione anche rispetto alle notificazioni effettuate senza fare ricorso al servizio postale», quali quelle c.d. “a mani del destinatario” ai sensi dell’art. 139 cod. proc. civ., che, per effetto del combinato disposto con il successivo art. 148, si perfezionano con il compimento di tutte le formalità nelle quali si articola il procedimento di notifica e, quindi, con la consegna di copia dell’atto e con la attestazione da parte dell’ufficiale giudiziario delle operazioni a tal proposito compiute.

Richiamata anche la sentenza di questa Corte n. 69 del 1994, il rimettente conclude che anche nel caso di specie il contrasto con tali parametri può essere evitato, ricollegando gli effetti della notificazione – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari completamente sottratta al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo, fermo invece restando per il destinatario il principio del perfezionamento della notificazione alla data della ricezione dell’atto, come attestata nella relazione di notifica redatta dall’ufficiale giudiziario.

Motivi della decisione
1. – Il Tribunale di Milano, sezione distaccata di Rho, prospetta la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 139 e 148 del codice di procedura civile, «nella parte in cui prevede che le notificazioni si perfezionino, per il notificante, alla data di perfezionamento delle formalità di notifica poste in essere dall’ufficiale giudiziario e da questi attestate nella relazione di notificazione, anziché alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario».

Secondo il rimettente questa disciplina contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per le stesse ragioni poste dalla sentenza di questa Corte n. 477 del 2002 a base della dichiarata illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevedeva che quella forma di notificazione si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

2. – La questione è infondata.

3. – Già con la sentenza n. 69 del 1994, questa Corte – chiamata a valutare la legittimità costituzionale delle norme relative alla notificazione all’estero, con particolare riferimento alla notifica di un provvedimento di sequestro ante causam – ha affermato che, ai sensi degli artt. 3 e 24 della Costituzione, le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario della notificazione debbono coordinarsi con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità. E ne ha ricavato la conclusione che la notifica si perfeziona, per il notificante, con il compimento delle sole formalità che non sfuggono alla sua disponibilità, con la conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale – per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione – degli artt. 142, terzo comma, 143, terzo comma, e 680, primo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedevano che la notificazione all’estero del decreto che autorizza il sequestro si perfezionasse, ai fini dell’osservanza del prescritto termine, con il tempestivo compimento delle formalità imposte al notificante dalle convenzioni internazionali e dagli artt. 30 e 75 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200 (Disposizioni sulle funzioni e sui poteri consolari).

Questa soluzione è stata poi confermata dalla sentenza n. 358 del 1996, che – proprio in ragione di tale conferma – ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 669-octies cod. proc. civ., a proposito della notificazione all’estero dell’atto introduttivo del procedimento cautelare uniforme, nel frattempo introdotto dalla novella del 1990.

Con la successiva sentenza n. 477 del 2002 questa Corte ha qualificato i principi posti a base delle precedenti decisioni come di portata generale, e perciò riferibili «ad ogni tipo di notificazione» ed in particolare a quella eseguita a mezzo del servizio postale. Ne è seguita la dichiarazione di illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), essendo palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di attività riferibili non al notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale suo ausiliario), e perciò del tutto estranee alla sua disponibilità.

4. – Per effetto delle ricordate sentenze – ed in particolare della n. 477 del 2002 – risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario; pur restando fermo che la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario e che, ove a favore o a carico di costui la legge preveda termini o adempimenti o comunque conseguenze dalla notificazione decorrenti, gli stessi debbano comunque calcolarsi o correlarsi al momento in cui la notifica si perfeziona nei suoi confronti.

Più specificamente il principio di scissione fra i due momenti di perfezionamento della notificazione nei termini ora indicati si rinviene nell’art. 149 cod. proc. civ., per effetto della sentenza n. 477 del 2002 (e nell’art. 142, anche in combinato disposto con il terzo comma dell’art. 143, per effetto della sentenza n. 69 del 1994).

5. – Il principio della distinzione fra i due diversi momenti di perfezionamento delle notificazioni degli atti processuali – affermato dalla ricordata giurisprudenza additiva di questa Corte, con gli effetti prima indicati – è ormai decisivo per l’interpretazione delle altre norme del codice di procedura civile sulle notificazioni.

Al riguardo, gli artt. 138, 139, 140, 141, 143, 144, 145 e 146 – adoperando a proposito dell’attività di notificazione i verbi «eseguire», «fare», «consegnare» ed altri di portata equivalente – di certo non enunciano espressamente una regola contraria alla scissione fra i due momenti di perfezionamento e nemmeno mostrano di accogliere per implicito il principio del momento di perfezionamento unico.

In presenza di un tale dato normativo neutro, l’interprete è vincolato a tener conto del ricordato principio enunciato da questa Corte ai fini del rispetto del canone della c.d. interpretazione sistematica. In base ad essa la regola generale della distinzione fra i due momenti di perfezionamento delle notificazioni – non contenuta esplicitamente nelle norme citate – deve essere desunta da quella ormai espressamente prevista dall’art. 149 cod. proc. civ. per la notificazione a mezzo posta, e conseguentemente applicata anche alla notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario.

In ragione di tali rilievi, le norme censurate vanno interpretate nel senso che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante, secondo quanto sopra specificato, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. Pertanto la questione sollevata dal rimettente deve essere dichiarata non fondata.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 139 e 148 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione distaccata di Rho, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.


Corte cost., (ud. 10-12-2003) 19-12-2003, n. 360

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 60, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promosso con ordinanza del 13 maggio 2002 dalla Commissione tributaria provinciale di Trapani sul ricorso proposto da Salerno Ugo contro l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Trapani, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 novembre 2003 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo
1. – Con ordinanza del 14 febbraio 2002, depositata il 13 maggio 2002 e pervenuta presso la cancelleria della Corte Costituzionale in data 20 febbraio 2003, la Commissione tributaria provinciale di Trapani ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 60, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale dei redditi, abbiano effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica, ed in ogni caso nella parte in cui non prevede che abbiano immediatamente effetto, ai medesimi fini, anche le variazioni e le modificazioni comunque conosciute dall’amministrazione finanziaria.

Il rimettente riferisce che il giudizio a quo ha ad oggetto la impugnazione di una cartella di pagamento emessa per imposte maturate negli anni 1992 e 1993 e che l’impugnazione stessa si fonda su un vizio della notificazione, in quanto eseguita presso un indirizzo ove il ricorrente non risultava più essere né domiciliato né residente, avendo trasferito, a seguito della separazione personale, la propria residenza ed abitazione in altro luogo ubicato, come il precedente, nel territorio del Comune di Erice.

Riferisce, altresì, il rimettente che il contribuente aveva comunque dato comunicazione all’amministrazione finanziaria dell’avvenuta variazione di indirizzo e che l’amministrazione nel costituirsi ha affermato la validità della notificazione, effettuata presso il precedente indirizzo sulla base dell’art. 60, ultimo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 a tenore del quale «le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica».

La disposizione invocata dall’amministrazione – che imporrebbe, evidentemente, il rigetto del ricorso – contrasta, tuttavia, secondo la Commissione rimettente, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, comportando la validità di una notificazione effettuata presso un indirizzo diverso da quello risultante dall’anagrafe del Comune di residenza; e ciò anche nel caso in cui, come nella specie, dell’avvenuta variazione anagrafica l’amministrazione sia stata posta a conoscenza dallo stesso contribuente.

La norma censurata sarebbe, altresì, lesiva dei principi di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, enunciati dall’art. 97 della Costituzione, ponendosi in contrasto con il dovere di leale collaborazione nei confronti degli amministrati, che – secondo il rimettente – comporta lo svolgimento di quella minima attività istruttoria volta ad individuare l’esatto indirizzo del destinatario dell’atto.

Risulterebbe leso, infine, il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, in quanto la norma impugnata potrebbe in concreto impedire al contribuente, ignaro della notificazione dell’atto da impugnare, di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la infondatezza della questione.

Con successiva memoria illustrativa, depositata nell’imminenza della Camera di consiglio, l’Avvocatura dello Stato, motivando le proprie conclusioni, osserva che la norma impugnata realizza un «equilibrato contemperamento» fra l’esigenza di speditezza ed efficienza della amministrazione finanziaria ed il diritto di difesa del contribuente, in quanto pur prevedendo un’evidente facilitazione per l’ufficio impositore non sarebbe tale da sacrificare in misura irragionevole la posizione del destinatario dell’atto, il quale, conoscendo il contenuto della norma impugnata, avrebbe l’onere di verificare «se mai l’ufficio impositore gli ha notificato alcunché» al precedente indirizzo.

In tal modo, secondo l’Avvocatura, si realizzerebbe, in conformità a quanto previsto dall’art. 97 della Costituzione, quella leale, reciproca collaborazione fra fisco e contribuente, cui fa riferimento l’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).

Le medesime considerazioni condurrebbero, anche, ad escludere – ad avviso della parte pubblica – qualsiasi violazione del principio di ragionevolezza.

Motivi della decisione
1. – La Commissione tributaria provinciale di Trapani dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 60, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale dei redditi, abbiano effetto, ai fini delle notificazioni, solamente dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, ed in ogni caso nella parte in cui non prevede che abbiano immediato effetto, ai medesimi fini, le variazioni e le modificazioni di indirizzo comunque conosciute dall’amministrazione finanziaria.

Ad avviso del rimettente, la norma impugnata, consentendo all’amministrazione finanziaria di effettuare la notificazione in un luogo diverso dall’effettivo indirizzo del destinatario, quale risultante dai registri anagrafici, sarebbe irragionevolmente lesiva del diritto di difesa del contribuente e contrasterebbe con i principi di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione.

2. – La questione è fondata.

Questa Corte ha avuto modo di affermare che un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa (sentenza n. 346 del 1998).

Il legislatore può, dunque, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere che le variazioni di indirizzo, ai fini delle notificazioni da effettuarsi da parte dell’amministrazione finanziaria, non abbiano un effetto immediato, agevolando, in tal modo, l’attività dei relativi uffici ed assicurando una migliore tutela degli interessi di carattere generale di cui sono portatori. Tale differimento di efficacia, pur legittimo in linea di principio, va, tuttavia, contenuto entro limiti tali da non pregiudicare, sacrificando l’effettiva possibilità di conoscenza dell’atto da parte del destinatario, l’esercizio del suo diritto di difesa.

Pregiudizio che certamente si verifica ove l’anzidetto differimento sia stabilito, come nella previsione di cui alla norma impugnata, per un periodo di tempo (sessanta giorni) non solo eccessivamente lungo, ma addirittura pari al termine di impugnazione dell’atto dinanzi alle commissioni tributarie.

Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, restando comunque riservata al legislatore l’individuazione di un diverso e più congruo termine per l’opponibilità della variazione anagrafica all’amministrazione finanziaria.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 60, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 2003.


Corte cost., (ud. 20-11-2002) 26-11-2002, n. 477

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2002 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da Rizzacasa Giovambattista contro ENEL S.p.a., iscritta al n. 134 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di costituzione di Rizzacasa Giovambattista;

udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2002 il Giudice relatore Annibale Marini;

udito l’avvocato Claudio Chiola per Rizzacasa Giovambattista.

Svolgimento del processo
1.- La Corte di Cassazione, con ordinanza depositata il 2 febbraio 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), «richiamato implicitamente dall’art. 149 c.p.c., nella parte in cui fa decorrere la notifica dell’atto da notificare dalla data della consegna del plico al destinatario, anziché dalla data della spedizione».

Il medesimo giudice aveva precedentemente sollevato, nei termini di cui sopra e nel corso dello stesso procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 149 del codice di procedura civile come interpretato dalla giurisprudenza «nel silenzio del dettato normativo». Questione dichiarata manifestamente inammissibile, con ordinanza n. 322 del 2001, non avendo la Corte rimettente «assolto l’onere di verificare, prima di sollevare la questione di costituzionalità, la concreta possibilità di attribuire alla norma denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale».

Il giudice a quo precisa ora che l’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982, nel disporre che «l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione», non lascerebbe spazi interpretativi e non consentirebbe, dunque, soluzioni ermeneutiche diverse da quella, costituente diritto vivente, secondo la quale gli effetti della notificazione a mezzo posta si produrrebbero, anche per il notificante, solo con la consegna del plico al destinatario da parte dell’agente postale.

Sulla base di tale premessa, il rimettente assume che la disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 24 della Costituzione in quanto ostacolerebbe, fino a vanificarlo sostanzialmente, l’esercizio del diritto di impugnazione a chi, risiedendo in luogo diverso da quello in cui deve essere eseguita la notificazione, si avvalga della notificazione a mezzo posta, adempiendo tempestivamente alle formalità previste dall’art. 149 del codice di procedura civile e dalla legge n. 890 del 1982, ma «restando nondimeno esposto alla disorganizzazione di Uffici pubblici, quali quelli postali che sono soltanto strumenti ausiliari dell’Amministrazione della Giustizia».

Le norme impugnate – ad avviso del medesimo rimettente – non esprimerebbero, d’altro canto, una regola generale dell’ordinamento, considerato che la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile si perfezionerebbe, invece, alla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento, così come sarebbe del resto previsto per la notificazione dei ricorsi amministrativi e per le notificazioni eseguite nell’ambito del contenzioso tributario.

Il ricorso al servizio postale in materia di notificazioni di atti giudiziari risulterebbe, dunque, diversamente disciplinato in relazione a fattispecie analoghe, escludendosi solo in alcuni casi, e non in altri, l’esposizione della parte notificante al rischio del disservizio postale. Con conseguente violazione del principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della Costituzione.

2.- Si è costituito in giudizio Giovambattista Rizzacasa, ricorrente nel giudizio a quo, il quale preliminarmente sottolinea la sicura ammissibilità della questione in quanto sostanzialmente diversa da quella dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

Nel merito, secondo la parte privata, verrebbero nella specie in considerazione due distinte esigenze: quella di assicurare la certezza del diritto, per cui l’impugnativa dovrebbe essere esercitata entro precisi limiti temporali, e quella di garantire il diritto di difesa del destinatario dell’atto notificato.

La prima delle due esigenze – secondo la stessa parte – potrebbe essere adeguatamente soddisfatta facendo riferimento alla data di presentazione del ricorso all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre solo ai fini della seconda occorrerebbe avere riguardo al momento della effettiva consegna dell’atto al destinatario.

Siffatta distinzione sarebbe, d’altro canto, ben presente nella giurisprudenza di questa Corte, così come il principio secondo cui gli effetti derivanti dall’operato della pubblica amministrazione non possono risolversi nella menomazione del diritto di difesa della parte incolpevole.

Se si volesse, poi, richiamare, in contrapposizione al diritto di difesa del notificante, l’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici, dovrebbe allora considerarsi – ad avviso sempre della parte privata – che il principio di ragionevole durata del processo, di cui al novellato art. 111 della Costituzione, impone di disciplinare le cadenze temporali del processo stesso in modo da consentire l’agevole esercizio del diritto di difesa.

Il sacrificio del diritto di difesa a favore della rapidità del processo potrebbe, dunque, essere giustificato solamente in conseguenza di condotte omissive della parte processuale e non già in relazione a ritardi od omissioni riferibili all’operato della pubblica amministrazione, cui il cittadino-attore sia obbligato a rivolgersi.

La disciplina dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile e quella relativa alle notifiche in materia di ricorsi amministrativi e nell’ambito del contenzioso tributario costituirebbero poi – sempre secondo la parte privata – adeguati termini di comparazione ai fini del giudizio di legittimità costituzionale sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

Conclude dunque la parte per l’accoglimento della questione «e, in subordine, per l’adozione di una sentenza interpretativa del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4 della L. n. 890/92 (recte: legge 890/82) che consenta un’adeguata tutela del diritto di difesa, affermando che lo scopo della notifica per posta è legittimamente raggiunto nel momento in cui vengono realizzati gli adempimenti formali gravanti sulla parte intimante».

Motivi della decisione
1.- La Corte di Cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui dispongono che gli effetti della notificazione a mezzo posta decorrono, anche per il notificante, dalla data di consegna del plico al destinatario anziché dalla data della spedizione.

Tale disposizione si porrebbe in contrasto sia con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in quanto esporrebbe il notificante, pur incolpevole, al rischio del disservizio postale, sia con il principio di eguaglianza, in quanto – in materia di notificazioni di atti giudiziari o di ricorsi amministrativi – altre norme dell’ordinamento attribuirebbero invece rilevanza esclusiva alla data di spedizione dell’atto.

2.- In via preliminare, va affermata la proponibilità della presente questione di costituzionalità, in quanto essenzialmente diversa, sia sotto l’aspetto normativo che argomentativo, da quella proposta nello stesso giudizio e dichiarata da questa Corte manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

La questione in esame, infatti, oltre ad avere un oggetto solo parzialmente coincidente con quello della precedente (con la quale veniva impugnato il solo art. 149 del codice di procedura civile), si fonda sulla premessa della impossibilità di una diversa opzione interpretativa e non risulta, dunque, come l’altra, censurabile sotto il profilo della mancata ricerca di una interpretazione alternativa rispetto a quella sospettata di illegittimità costituzionale.

3.- Nel merito la questione è fondata.

3.1.- Il rimettente muove dalla premessa secondo la quale l’inequivoco tenore testuale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982 non consentirebbe interpretazione diversa da quella del perfezionamento della notificazione, anche per il notificante, alla data di ricezione del plico da parte del destinatario. Tale premessa – pur opinabile nei termini assoluti in cui è formulata, come del resto dimostra la rimessione della predetta questione interpretativa alle Sezioni unite da parte di altra sezione della stessa Corte di Cassazione – è, peraltro, conforme ad un orientamento da tempo consolidato del giudice di legittimità e tale, dunque, da poter essere senz’altro assunto a base della presente decisione.

3.2.- Questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di notificazioni all’estero, che gli artt. 3 e 24 della Costituzione impongono che «le garanzie di conoscibilità dell’atto, da parte del destinatario, si coordinino con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso» ed ha, altresì, individuato come soluzione costituzionalmente obbligata della questione sottoposta al suo esame quella desumibile dal «principio della sufficienza […] del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla disponibilità del notificante» (sentenza n. 69 del 1994).

Principio questo che, per la sua portata generale, non può non riferirsi ad ogni tipo di notificazione e dunque anche alle notificazioni a mezzo posta, essendo palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere – come nel caso di specie – dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale) e che, perciò, resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo.

In ossequio ai richiamati principi costituzionali, gli effetti della notificazione a mezzo posta devono, dunque, essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto l’agente postale) sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo.

Resta naturalmente fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. Ed è appena il caso di sottolineare, al riguardo, che la possibilità di una scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio risulta affermata dalla stessa legge n. 890 del 1982, laddove all’art. 8 prevede, secondo l’interpretazione vigente, che, nel caso di assenza del destinatario e di mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere il piego, la notificazione si perfezioni per il notificante alla data di deposito del piego presso l’ufficio postale e, per il destinatario, al momento del ritiro del piego stesso ovvero alla scadenza del termine di compiuta giacenza. Confermandosi in tal modo la necessità che le norme impugnate siano dichiarate costituzionalmente illegittime nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di procedura civile e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.


Corte cost., Ord., (ud. 13-04-2000) 03-05-2000, n. 128

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1999 dal Pretore di Udine, sezione distaccata di Latisana, nel procedimento civile vertente tra Meneghello Bertilla e Ministero delle finanze ed altra, iscritta al n. 212 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 22 marzo 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che il Pretore di Udine, con ordinanza emessa il 27 gennaio 1999, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 15, 24, 29 e 53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche);

che, ad avviso del rimettente, la norma denunciata sarebbe lesiva del principio di eguaglianza tra i coniugi, in quanto – prevedendo che gli accertamenti in rettifica, in caso di dichiarazione congiunta dei redditi da parte di coniugi non legalmente ed effettivamente separati, siano notificati al solo marito – attribuirebbe a questi una posizione di ingiustificato vantaggio rispetto alla moglie;

che di contro la moglie, per il solo fatto di essersi avvalsa della facoltà di presentare la dichiarazione dei redditi unitamente al coniuge, subirebbe una limitazione del proprio diritto di conoscere atti idonei ad incidere nella propria sfera giuridica;

che qualsiasi presunzione di conoscibilità degli atti notificati al marito, da parte della donna coniugata, sarebbe d’altro canto esclusa nei casi di mancanza di coabitazione, per effetto di separazione o divorzio, con sicura violazione, in danno di costei, del diritto di difesa e del diritto all’inviolabilità della corrispondenza;

che, sotto un diverso aspetto, la medesima norma, nel prevedere – secondo l’interpretazione costituente diritto vivente – la responsabilità solidale dei coniugi non solo per gli obblighi tributari risultanti dalla dichiarazione dei redditi, ma anche per quelli derivanti da futuri accertamenti e dipendenti da comportamenti omissivi non riconducibili alla sfera volitiva e cognitiva di entrambi, determinerebbe, stante la non identità dei rapporti tributari facenti capo ai coniugi stessi, un’irragionevole ipotesi di responsabilità patrimoniale per fatto altrui;

che nel giudizio “a quo” la ricorrente – assoggettata a pignoramento, senza previa notifica della cartella esattoriale né dell’avviso di mora, per debiti d’imposta accertati nei confronti del coniuge separato, relativamente ad un periodo d’imposta, anteriore alla separazione, per il quale era stata presentata dichiarazione congiunta – ha proposto opposizione di terzo all’esecuzione sul presupposto della propria estraneità al rapporto tributario ed alla stessa attività di impresa svolta dal coniuge;

che alla medesima ricorrente, proprio in considerazione del vincolo di solidarietà passiva derivante dalla norma della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita, andrebbe tuttavia negata la qualità di terzo rispetto all’esecuzione intrapresa dal concessionario del servizio di riscossione dei tributi e conseguentemente il giudice adito dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, in quanto, ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo vigente al momento dell’opposizione, avverso gli atti esecutivi dell’esattore il contribuente ed i coobbligati possono fare ricorso esclusivamente all’Intendente di Finanza;

che la prospettata questione di costituzionalità sarebbe perciò, sotto tale profilo, rilevante ai fini della decisione;

che l’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio per il Presidente del Consiglio dei Ministri, ha concluso per la declaratoria di infondatezza della questione.

Considerato che il rimettente dubita, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 29 e 53 Cost., della legittimità costituzionale della disciplina dettata, in tema di dichiarazione congiunta dei redditi da parte dei coniugi non legalmente ed effettivamente separati, dall’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma;

che in ordine alla medesima questione, sollevata in riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., questa Corte ha già affermato che la dichiarazione congiunta dei redditi rappresenta l’esercizio di una facoltà dei contribuenti, con i conseguenti oneri e vantaggi ad essa connessi, e che pertanto la relativa disciplina, anche procedimentale, resta riservata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, cosicché la disposizione impugnata non può ritenersi lesiva del principio di eguaglianza laddove, nell’evidente intento di semplificazione e snellezza del procedimento tributario, prevede la notificazione degli atti impositivi al solo marito (sent. n. 184 del 1989, ord. n. 4 del 1998 e ord. n. 36 del 1998);

che sulla scorta di analoghe considerazioni va esclusa la prospettata violazione del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, di cui all’art. 29 Cost.;

che, per quanto riguarda il parametro di cui all’art. 24 Cost., non viene addotta dal rimettente ragione alcuna che induca a disattendere l’interpretazione adeguatrice della norma censurata, prospettata nelle pronunce già citate, a tenore della quale deve ritenersi che alla moglie, coobbligata in solido, sia comunque garantita dall’ordinamento la possibilità di tutelare i propri diritti entro i termini decorrenti dalla notifica dell’avviso di mora o del diverso atto con il quale venga per la prima volta a legale conoscenza della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria in via solidale, e ciò anche al fine di contestare eventualmente nel merito l’obbligazione tributaria del coniuge;

che anche con riferimento al parametro di cui all’art. 53 Cost. la medesima questione è stata già dichiarata manifestamente infondata, in base alla considerazione che il principio di capacità contributiva non esclude che la legge possa stabilire prestazioni tributarie solidali a carico oltreché del debitore principale anche di altri soggetti, comunque non estranei alla posizione giuridica a cui inerisce il rapporto tributario (sent. n. 184 del 1989, ord. n. 187 del 1991, ord. n. 301 del 1988, ord. n. 316 del 1987);

che del tutto inconferente è infine il riferimento al parametro di cui all’art. 15 Cost., in quanto la previsione di notifica degli atti di accertamento al solo marito non comporta evidentemente alcuna menomazione, in danno della moglie, delle garanzie di libertà e segretezza della corrispondenza di costei.

Visti l’art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e l’art. 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte Costituzionale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 29 e 53 della Costituzione, dal Pretore di Udine con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 2000.


Corte cost., (ud. 22-09-1998) 23-09-1998, n. 346

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promossi con ordinanze emesse il 28 settembre 1996 dal Pretore di Lucca nel procedimento civile vertente tra Brucia Baldassarre ed il Comune di Lucca, iscritta al n. 609 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 1997, ed il 22 aprile 1997 dalla Corte d’Appello di Milano nel procedimento civile vertente tra la ICIT s.a.s. e la Officine di Seveso s.p.a. ed altra, iscritta al n. 761 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 6 maggio 1998 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Data l’identità della materia, le questioni sollevate dalle ordinanze del Pretore di Lucca e della Corte di Appello di Milano vanno riunite per essere decise con unica sentenza.

2. – Il Pretore di Lucca denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui detta norma non prevede che il destinatario della notifica effettuata a mezzo posta, dopo l’avviso lasciato presso la sua abitazione, ufficio o azienda, riceva notizia delle attività compiute per raccomandata a.r., così come previsto dall’art. 140 del codice di procedura civile per il caso di notifica effettuata personalmente dall’ufficiale giudiziario.

3. – La Corte di Appello di Milano dubita, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale del medesimo art. 8 della legge n. 890 del 1982 citata, secondo e terzo comma, nella parte in cui prevede che il piego, notificato per compiuta giacenza dopo il decimo giorno dalla data di deposito presso l’ufficio postale, venga restituito al mittente senza che il destinatario sia messo in grado di conoscere tipo, natura, provenienza e contenuto dell’atto che gli è stato notificato.

4. – La prima questione è fondata, nei limiti di seguito precisati.

4.1. – Nel sistema delineato dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, l’ufficiale giudiziario può utilizzare il servizio postale per la notificazione di tutti gli atti in materia civile, amministrativa e penale, salvo che l’autorità giudiziaria disponga, o la parte richieda, che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, primo comma). In materia civile e amministrativa, inoltre, egli deve sempre avvalersi del servizio postale per le notificazioni da eseguirsi fuori del comune ove ha sede l’ufficio, eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, secondo comma). Salva la richiesta del notificante di eseguire la notificazione personalmente, l’ufficiale giudiziario ha dunque la facoltà – e talvolta l’obbligo – di utilizzare il servizio postale.

4.2. – In caso di assenza del destinatario di una notificazione a mezzo posta (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 prevede che l’agente postale depositi il piego nell’ufficio postale, rilasciando avviso al destinatario “mediante affissione alla porta d’ingresso oppure mediante immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda”, e che di tutte le formalità eseguite e del deposito nonché dei motivi che li hanno determinati sia fatta menzione sull’avviso di ricevimento che, datato e sottoscritto dall’agente postale, è unito al piego (secondo comma). Trascorsi dieci giorni dalla data del deposito senza che il piego sia stato ritirato dal destinatario, il piego stesso viene restituito al mittente, unitamente all’avviso di ricevimento, con l’indicazione “non ritirato” (terzo comma). La notificazione si ha per eseguita decorso il suddetto termine di dieci giorni dal deposito (quarto comma).

4.3. – Ora, se rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato dal diritto di difesa del notificatario. Deve pertanto escludersi che la diversità di disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione delle garanzie del destinatario delle prime.

Per l’ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario, l’art. 140 del codice di procedura civile impone a quest’ultimo di dare comunicazione al destinatario, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del compimento delle formalità indicate (deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio). E ciò allo scopo di garantire che il notificatario abbia una effettiva possibilità di conoscenza dell’avvenuto deposito dell’atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l’affissione del relativo avviso alla porta d’ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito. Una disposizione siffatta – pur se compatibile con la specificità propria del mezzo postale – manca invece nella disciplina censurata che, pertanto, risulta, al tempo stesso, priva di ragionevolezza e lesiva della possibilità di conoscenza dell’atto da parte del notificatario e, quindi, del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione.

E ciò senza considerare che le insufficienti garanzie di conoscibilità che presenta per il notificatario la notificazione a mezzo del servizio postale derivano, in ultima analisi, dalla scelta del modo di notificazione effettuata da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario: il solo notificante, infatti, può richiedere all’ufficiale giudiziario di effettuare la notifica personalmente e, qualora ciò non faccia, l’ufficiale giudiziario può, a sua discrezione, scegliere l’uno o l’altro modo di notificazione.

4.4. – L’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di assenza del destinatario (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità prescritte.

5. – Anche la questione sollevata dalla Corte di appello di Milano è fondata nei limiti di seguito precisati.

5.1.- La funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddittorio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza dalla abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazione. I termini di tale bilanciamento di interessi possono naturalmente essere i più vari come emerge dalle soluzioni adottate in alcuni degli ordinamenti processuali europei a noi più vicini per cultura e tradizione.

5.2. – Ciò premesso, non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli. È opportuno, altresì, sottolineare che la questione di cui si tratta non concerne in alcun modo l’individuazione del momento perfezionativo della notificazione (in relazione al quale dispone il quarto comma del citato art. 8) bensì la legittimità della norma che dispone la restituzione al mittente del piego non ritirato dal destinatario entro i dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale (art. 8, terzo comma).

Disposizione quest’ultima che, in un contesto sociale ben diverso da quello esistente all’epoca della sua emanazione, risulta gravemente pregiudizievole per il notificatario, il quale – nel caso (oggi non certo infrequente, specie nel periodo estivo) di assenza dall’abitazione, dall’azienda o dall’ufficio che si protragga per oltre dieci giorni e di mancanza delle persone indicate al secondo e terzo comma dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982 citata – non è più posto in condizioni di ritirare il piego, diversamente da quanto si verifica per il destinatario di una notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile, e si trova perciò in una situazione di impossibilità o comunque di notevole difficoltà di individuazione dell’atto notificatogli (talvolta provocata dal notificante, mediante la scelta dell’epoca della notifica e la mancata richiesta di notificazione personale da parte dell’ufficiale giudiziario) tale da potergli in concreto precludere ogni effettiva possibilità di difesa.

Anche in tal caso, non si tratta dunque di sostituirsi al legislatore nell’individuare uno dei possibili correttivi alla disciplina delle notificazioni a mezzo posta, bensì di rimuovere una previsione (quella di restituzione del piego al mittente dopo il decorso di un termine del tutto inidoneo, per la sua brevità, a garantire l’effettiva possibilità di conoscenza) lesiva del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non presente nella parallela disciplina codicistica delle notificazioni a mezzo di ufficiale giudiziario e non connaturata, quanto meno nella sua dimensione temporale, alla specificità del mezzo postale.

Il legislatore, nella sua discrezionalità, sarà quindi libero di adeguare la disciplina delle notificazioni a mezzo posta (per il caso di assenza del destinatario) a quella dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile (che non prevede affatto la restituzione dell’atto al mittente) ovvero di stabilire regole diverse: il limite della discrezionalità sarà rappresentato esclusivamente dal diritto di difesa del destinatario, in relazione al quale deve ritenersi illegittima qualsiasi disciplina che, prevedendo la restituzione del piego al mittente dopo un termine di deposito eccessivamente breve, pregiudichi la concreta possibilità di conoscenza del contenuto dell’atto da parte del destinatario medesimo.

5.3. – La mancata restituzione del piego al mittente dopo il decimo giorno di giacenza non solo non incide – come già si è visto – sull’individuazione del momento perfezionativo della notificazione, ma nemmeno pregiudica l’interesse del notificante alla tempestiva formazione della prova dell’avvenuta notifica che ben può essere fornita, indipendentemente dal piego, dall’avviso di ricevimento, da restituirsi al mittente in raccomandazione e mediante il quale questi potrà dimostrare la regolarità della notificazione.

5.4.- L’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;

b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 1998.


Corte cost., (ud. 18-05-1992) 27-05-1992, n. 236

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge 21 febbraio 1989, n. 68 (Disposizioni per alcune categorie di personale tecnico e amministrativo delle Università), promosso con ordinanza emessa il 27 giugno 1991 dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto sui ricorsi riuniti proposti da Galfano Luciano ed altri, contro l’Università degli studi di Padova ed altro, iscritta al n. 720 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 199l.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 1o aprile 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
l. – Il T.A.R. del Veneto mette in dubbio la conformità all’art. 36 Cost. dell’art. 1 della legge 21 febbraio 1989, n. 63, nella parte in cui, per il periodo antecedente alla decorrenza dell’inquadramento ivi disposto, non riconosce al personale tecnico e amministrativo delle università, che ha svolto di fatto le accertate mansioni superiori, il trattamento economico della qualifica corrispondente.

2. – La questione non è fondata.

Va osservato in limine che tra l’art. 36, primo comma, Cost. e l’art. 97, terzo comma, Cost. non esiste la polarità ravvisata dal giudice “a quo”. II principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile col diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. Esso è inconciliabile soltanto con la regola – introdotta nell’art. 2103 cod. civ. dall’art. 13 della legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori) – di automatica acquisizione della qualifica superiore quando l’assegnazione si prolunghi oltre un certo periodo di tempo. L’accertamento della capacità professionale mediante la procedura concorsuale o in altro modo stabilito dalla legge è un presupposto costitutivo dell’inquadramento formale nella corrispondente qualifica funzionale, non un indice necessario della qualità del lavoro prestato ai fini dell’art. 36 Cost.

Ciò non significa che l’art. 36 debba trovare incondizionata applicazione ogni volta che il pubblico impiegato venga adibito a mansioni superiori. L’art. 98, primo comma, Cost. vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio.

Un primo limite deriva dall’art. 97, primo comma, Cost., il quale autorizza norme di organizzazione dei pubblici uffici che, per esigenze eccezionali di buon andamento dei servizi, consentono l’assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza diritto a variazioni del trattamento economico. Un esempio è fornito dall’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, in merito al quale questa Corte si è pronunciata con la sent. n. 57 del 1989 e la sent. n. 296 del 1990 richiamate dal giudice remittente. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori per vacanza del posto corrispondente, protratta indefinitamente senza provvedere al bando di concorso per la copertura del posto, le sentenze citate hanno statuito che, trascorso il periodo di tempo indicato dalla legge come limite massimo di riconoscibilità delle esigenze eccezionali di servizio, il dipendente non può essere trattenuto nelle mansioni più elevate senza adeguamento del trattamento economico secondo il precetto dell’art. 36 Cost.

Nel caso di posizioni diffuse di prolungata adibizione a mansioni più elevate della qualifica, un limite di diversa natura può derivare da un intervento legislativo che provveda a regolarizzare queste posizioni con effetto “ex nunc”, ma con modalità e agevolazioni tali da compensare l’eccedenza delle mansioni svolte anteriormente rispetto alla qualifica rivestita dal dipendente. Di questo tipo è il caso che ha dato luogo all’odierno incidente di costituzionalità. La legge impugnata è intervenuta per regola rizzare la posizione di alcune categorie di dipendenti tecnici e amministrativi delle università inquadrati nella quarta qualifica funzionale, ma da tempo, più o meno risalente, adibiti a mansioni superiori; ed è intervenuta con una valutazione complessiva che ha tenuto conto anche del servizio precedentemente prestato in tali mansioni. Ai ricorrenti è stato concesso il duplice vantaggio della promozione “per saltum” dalla quarta alla sesta qualifica e dell’esonero dal requisito del pubblico concorso, sostituito da una semplice prova idoneativa. Tali agevolazioni, e in particolare la deroga al principio dell’art. 97, terzo comma, Cost., hanno una funzione sanante delle situazioni pregresse e quindi non possono essere cumulate con la pretesa di differenze retributive arretrate, fondata sull’art. 36 Cost.

I ricorrenti non hanno ragione di dolersi di questa soluzione legislativa, peraltro previamente concordata dal Governo con le organizzazioni sindacali più rappresentative del personale universitario e fissata nel contratto collettivo stipulato nel settembre del 1987, una parte del quale è riprodotta letteralmente nell’art. I della legge impugnata.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 21 febbraio 1989, n. 68 (Disposizioni per alcune categorie di personale tecnico e amministrativo delle università), sollevata, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 1992.


Corte cost., (ud. 14-06-1990) 19-06-1990, n. 296

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, commi quinto e settimo (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri), e dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, commi secondo e terzo (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali) promossi con quattro ordinanze emesse il 10 aprile 1989 e il 9 giugno 1989 dal Consiglio di Stato, il 13 ottobre 1989 (n. 2 ordinanze) dal T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia, iscritte rispettivamente ai nn. 58, 86, 88 e 89 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8 e 10, prima serie speciale, dell’anno 1990.

Visti l’atto di costituzione di Ceccarini Ettore e gli atti d’intervento di Pecoraro Nicolino nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.-Il Consiglio di Stato e il T.A.R. del Friuli-Venezia Giuilia contestano la legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, quinto e settimo comma e dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo e terzo comma, riferimento all’art. 36 della Costituzione, in quanto non prevedono una maggiorazione di retribuzione nell’ipotesi di esercizio, da parte dell’aiuto o dell’assistente ospedaliero, delle mansioni rispettivamente di primario o di aiuto oltre il termine di sessanta giorni, in caso di disponibilità o vacanza del posto.

Data l’identità della questione, i quattro giudizi promossi dalle ordinanze dei giudici “a quibus” vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2.-In ordine all’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969, quinto e settimo comma, e all’art. 29, terzo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 la questione è inammissibile per difetto di rilevanza. Queste norme, la prima specificamente destinata al personale medico, la seconda concernente tutto il personale delle U.S.L., prevedono la sostituzione vicaria del titolare di una posizione funzionale più elevata assente per malattia, ferie, congedo, missione, motivi di famiglia e simili, oppure non immediatamente disponibile in caso di urgenza. In tali casi la sostituzione da parte del titolare di una posizione inferiore “rientra tra gli ordinari compiti della propria posizione funzionale”.

Diverso è il caso, su cui vertono i giudizi principali, di vacanza del posto di primario o di aiuto: qui la sostituzione rispettivamente da parte dell’aiuto o dell’assistente ospedaliero non ha carattere di funzione vicaria, ma comporta un trasferimento temporaneo a funzioni superiori, che vengono esercitate a titolo personale e autonomo. In questo caso, come osserva giustamente il Consiglio di Stato, “si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969” e si entra, invece, nel campo di applicazione dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979, il quale pertanto è la sola norma “rilevante ai fini della decisione”. In deroga alla regola del primo comma, essa consente in via eccezionale, per esigenze di servizio, l’assegnazione temporanea del dipendente a mansioni superiori a quelle inerenti alla sua qualifica, nel limite di un periodo massimo di sessanta giorni e senza diritto a variazioni del trattamento economico.

3.-Relativamente a quest’ultima norma la questione va dichiarata infondata nei sensi già precisati dalla sentenza precedente, la quale ha ritenuto che nell’ipotesi prevista dall’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 il diritto a variazioni del trattamento economico è escluso solo se l’assegnazione temporanea alle mansioni superiori sia contenuta entro il periodo di sessanta giorni nell’anno solare.

Contro questa interpretazione si obietta: trascorso il periodo di sessanta giorni, riprende vigore il divieto di assegnazione a mansioni superiori statuito nel primo comma; conseguentemente l’esclusione del diritto a variazioni del trattamento economico, disposta nel secondo comma, vale non soltanto nel detto periodo, “in cui l’esercizio di mansioni superiori è eccezionalmente consentito”, ma anche, e “a maggior ragione, nel tempo eccedente i sessanta giorni, nel quale l’esercizio di mansioni superiori è interdetto”, e quindi concreta un comportamento illegittimo. È agevole replicare che illegittimo non è il comportamento dell’aiuto ospedaliero il quale, essendo vacante il posto di primario, svolge le mansioni corrispondenti per un tempo eccedente i sessanta giorni, ma eventualmente il comportamento dell’amministrazione che, dopo essersi avvalsa della facoltà concessa dalla norma in esame, mantiene l’assegnazione dell’aiuto alle mansioni superiori oltre il termine indicato. Perciò l’argo mento a fortiori applicato nelle ordinanze di rimessione è inconsistente: l’illeicità che, ai sensi dell’art. 2126, primo comma, cod. civ., priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro “non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” (cfr. Cass., sez. un., n. 1609 del 1976). Deve trattarsi, cioè, dell’illiceità in senso forte (illiceità della causa) prevista dall’art. 1343 cod. civ., non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418, primo comma, cod. civ.

Una illiceità in questo senso rigoroso non è ravvisabile nell’attività esercitata dall’aiuto o dall’assistente ospedaliero nei casi in questione: l’illegittimità dell’ordine di servizio in ottemperanza al quale essa si svolge, in quanto deriva dalla violazione di un limite temporale dettato dalla legge per ragioni che non attengono a principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento, non si riflette in un giudizio di illiceità della prestazione di lavoro.

Ciò, in definitiva, è implicitamente ammesso dagli stessi giudici remittenti; ché, altrimenti, la sollevata questione di costituzionalità avrebbe un contenuto contraddittorio, non essendo consentito di affermare in pari tempo, da un lato, che la norma denunciata esclude il diritto alla maggiorazione di retribuzione in ragione dell’illiceità dell’attività svolta dal prestatore di lavoro, dall’altro che la norma medesima, in quanto nega tale maggiorazione, contrasta con l’art. 36 Cost. L’art. 36 Cost., invero, presuppone la liceità del lavoro prestato.

4. -Il T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia obietta ulteriormente che la sent. n. 57 del 1989 si pone “in insanabile conflitto con l’obbligo di assunzione dei pubblici dipendenti tramite concorso pubblico, con quello di buon andamento della Pubblica Amministrazione e della riserva di legge relativa all’organizzazione dei pubblici uffici”. L’obiezione è fuori misura perché la Corte ha avuto cura di precisare che non può sorgere in favore dell’assistente o dell’aiuto ospedaliero il diritto al riconoscimento formale della qualifica superiore (rispettivamente di aiuto o di primario), alla quale si può accedere soltanto mediante le procedure previste dagli artt. 9 del D.P.R. n. 761 del 1979 e segg., restando perciò esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ. D’altra parte, nel protrarsi della vacanza del posto di primario, l’assegnazione provvisoria delle relative mansioni all’aiuto favorisce, non già ostacola, il buon andamento del servizio sanitario.

Inconferente è pure il rilievo della mancanza di un atto formale di preposizione alle funzioni superiori. Ai fini della qualificazione del rapporto di fatto tutelato dall’art. 2126 cod. civ. non è necessario un atto formale, ancorché illegittimo, di assegnazione a determinate mansioni, ma è sufficiente il semplice riscontro dell’effettivo svolgimento di esse in conformità di una disposizione impartita dall’organo amministrativo dell’ente pubblico nell’esercizio del suo potere direttivo.

5.-Deve pertanto essere confermata l’interpretazione accolta nella precedente sent. n. 57 del 1989, secondo cui l’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 si applica solo quando l’assegnazione temporanea a mansioni solare. Qualora il trasferimento a tali mansioni si protragga oltre questo termine, spetta al prestatore di lavoro, in via di applicazione diretta dell’art. 36, primo comma, Cost. sulla base dell’art. 2126, primo comma, cod. civ., il trattamento corrispondente all’attività svolta.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), sollevata, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Consiglio di Stato e dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, quinto e settimo comma (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) e dell’art. 29, terzo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 citato, sollevata dai giudici sopraddetti con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1990.


Corte cost., (ud. 09-02-1989) 23-02-1989, n. 57

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo comma, seconda parte, e secondo e terzo comma (Stato giuridico del personale delle Unità sanitarie locali), promosso con ordinanza emessa il 19 ottobre 1987 dal T.A.R. per la Sicilia – Sezione di Catania – sul ricorso proposto da Lo Bello Giuseppe contro l’Ente Ospedaliero Provinciale specializzato “Istituto di Oncologia S. Curro” di Catania, iscritta al n. 435 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1988.

Visto l’atto di costituzione di Lo Bello Giuseppe nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 25 gennaio 1989 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Il primo e il terzo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, sullo stato giuridico del personale delle U.S.L., sono manifestamente estranei alla materia del giudizio “a quo”, onde per queste norme la sollevata questione di legittimità costituzionale appare priva di rilevanza e perciò inammissibile. Il primo comma preclude la pretesa, in effetti non avanzata dal ricorrente, del riconoscimento formale della qualifica di aiuto radiologo (cui si può accedere soltanto mediante le procedure previste dagli artt. 9 e segg., restando così esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ.), non anche la pretesa del trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori di fatto svolte. Il terzo comma concerne il caso di brevi assenze del titolare di una posizione funzionale più elevata, dovute a malattia, ferie, congedi, missioni e simili, caso ben diverso dalla supplenza di un posto vacante.

2. – Ai fini della decisione del giudizio “a quo” può venire in considerazione soltanto il secondo comma dell’art. 29, in quanto interpretato, come intende il giudice remittente, quale norma preclusiva del diritto del ricorrente a un compenso differenziale per le mansioni superiori cui di fatto e stato assegnato, indipendentemente dalla durata dell’assegnazione. Ma tale interpretazione, secondo cui la norma in esame avrebbe innovato “in peius” per i prestatori di lavoro rispetto alla regola precedente dell’art. 45, ultimo comma, dell’accordo nazionale 17 febbraio 1979, non è sostenibile. Come questa Corte ha già avuto occasione di avvertire (ord. n. 908 del 1988), il secondo comma dell’art. 29, essendo norma eccezionale, deve essere interpretato rigorosamente nel senso che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di servizio non dà diritto a variazioni del trattamento economico (cioè rientra nei doveri d’ufficio del sanitario) solo entro il limite temporale massimo ivi indicato (non applicabile al caso controverso, per il quale vale il limite di trenta giorni prescritto dalla precedente disciplina collettiva), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato.

L’accoglimento della domanda del ricorrente nel giudizio di merito non è ostacolato dall’art. 29, secondo comma, nemmeno sotto il profilo del difetto di un provvedimento formale di assegnazione interinale alle mansioni inerenti al posto vacante di aiuto. La mancanza di questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di cui all’art 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle Unità sanitarie locali), sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 citato, primo e terzo comma, sollevata dal nominato Tribunale amministrativo con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta il 9 febbraio 1989.


Corte cost., Sent., (data ud. 12/10/1988) 14/10/1988, n. 971

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 236 delle norme della Regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana) a) e art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza emessa l’8 novembre 1985 dal TAR per la Sicilia Sez. di Catania sul ricorso proposto da Iuvara Vincenzo contro Comune di Ispica, iscritta al n. 248 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 1988;

Udito nella Camera di Consiglio del 12 ottobre 1988 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino;

Svolgimento del processo
1. – Con ordinanza dell’8 novembre 1985 pervenuta addì 18 maggio 1988 (R.O. n. 248/88) il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia – Sezione di Catania – rimetteva a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 236 in allegato al decreto legislativo presidenziale (della Regione siciliana) 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana) e dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato).

In punto di fatto, Iuvara Vincenzo, dipendente del Comune di Ispica, destituito “di diritto”, in forza delle precitate disposizioni, senza cioè procedimento disciplinare di sorta poiché già irrevocabilmente condannato in sede penale per il reato di peculato (art. 314 c.p.), aveva ricorso avverso il provvedimento deliberato dalla Giunta municipale.

2. – Il Collegio remittente sospetta di illegittimità costituzionale la normativa indicata che inciderebbe sul disposto dell’art. 3 Cost., per la irragionevolezza di una disciplina rigida, che contrasta col “principio generale di graduazione della sanzione alla gravità del fatto-reato”. Risulterebbero incisi anche i successivi artt. 4 e 35, poiché il provvedimento produrrebbe senz’altro “l’effetto della perdita del lavoro”, nonché, ancora, l’art. 97, impedendosi – si assume – “l’azione amministrativa adeguata”.

Motivi della decisione
1.1 – L’art. 85 lett. a) del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), direttamente applicabile ai dipendenti degli enti locali della Sicilia per effetto dell’art. 236 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana (D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6) dispone che l’impiegato incorre nella destituzione, escluso il procedimento disciplinare, a seguito di condanna per taluni delitti specificamente elencati, fra cui il peculato, così come dedotto in fattispecie.

1.2 – Il Collegio remittente dubita della legittimità costituzionale di tale normativa per la rigidità della massima sanzione espulsiva, senza cioè che attraverso il procedimento disciplinare sia possibile operare, nella misura della sanzione, alcuna graduazione riferita al caso concreto: in tal modo verrebbero a esser vulnerati, oltre la tutela del lavoro (artt. 4 e 35) e del buon andamento amministrativo (art. 97), i principi fondamentali di ragionevolezza chiaramente desumibili dall’art. 3 Cost.

2.1 – La questione è fondata.

La Corte ha già avuto modo di considerare, per identiche fattispecie, come l’ordinamento appaia vieppiù orientato, oggi, verso la esclusione di sanzioni rigide, avulse da un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto ed ha osservato esser ciò largamente tendenziale – in adempimento del principio di eguaglianza – nell’area punitiva penale e con identica incidenza anche nel campo disciplinare amministrativo (sent. n. 270 del 1986).

La necessità di razionalizzare il sistema, in atto stemperato nell’indistinto poiché diverse e difformi in parte le corrispondenti norme contenute nei vari ordinamenti per i pubblici dipendenti, rivelava, tuttavia, che i rimedi esaustivi andavano assunti dal Parlamento, dovendosi operare scelte globali a fini di omogeneizzazione, in punto, dell’intero comparto pubblico.

2.2 – Nuovamente investita della questione la Corte deve tener conto che, in conformità alle premesse affermazioni, un recente disegno di legge, volto a modificare talune norme del codice penale in materia di circostanze attenuanti e di sospensione condizionale della pena, contiene disposizioni in ordine all’oggetto dell’odierna fattispecie, diretta a rendere inoperante, infatti, la destituzione di diritto limitatamente ai casi di sospensione condizionale. Non rileva qui esame di sorta sui limiti subiettivi cui il legislatore intenderebbe circoscrivere – ma comunque mantenere – la menzionata sanzione rigida; va favorevolmente considerato, tuttavia, che si intende comunque perseguire, nella sede legislativa, la riferibilità univoca a tutti i pubblici dipendenti.

Sicché appare di certo tendenzialmente concretato quell’intento di adeguamento delle scelte ai criteri di omogeneizzazione emergenti dalla legge-quadro sul pubblico impiego (29 marzo 1983, n. 93) che operato da un ramo del Parlamento (il disegno ha ottenuto il voto della Camera e trovasi ora presso il Senato: doc. n. 1239) consente ora alla Corte – che ne aveva chiaramente avvertita la pressante esigenza – di dispiegare, senz’ulteriori remore, la propria verifica.

3. – L’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa – adunque – che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.

Assorbita ogni altra questione, va dichiarata pertanto l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e dell’art. 236 delle norme per gli enti locali nella Regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955 n. 6, nella parte in cui in luogo del mero provvedimento di destituzione di diritto non prevedono l’esperimento del procedimento disciplinare.

In conseguenza di quanto sin qui considerato e in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87 va dichiarata, negli stessi termini, l’illegittimità costituzionale dell’art. 247 r.d. 3 marzo 1934, n. 383, nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n. 851; dell’art. 66 lett. a) D.P.R. 15 dicembre 1969, n. 1229; dell’art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157 (in relazione all’art. 85, lett. a), D.P.R. n. 3 del 1957); dell’art. 57 lett. a) D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; dell’art. 8 lett. a) D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, tutti specificati in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato) e dell’art. 236 delle norme della regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana), nella parte in cui non prevedono, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare;

Dichiara, in applicazione dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87, e negli stessi termini di cui al precedente punto, l’illegittimità costituzionale degli articoli:

247 r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (T.U. legge comunale e provinciale), nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n. 851;

66 lett. a) D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari);

1, comma secondo, L. 13 maggio 1975, n. 157 (estensione delle norme dello Statuto degli impiegati civili dello Stato agli operai dello Stato);

57 lett. a) D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali);

8 lett. a) D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737D.P.R. 25/10/1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti).

Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 1988.

 


Corte cost., Ord., (ud. 07-07-1988) 26-07-1988, n. 908

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo secondo e terzo comma (Stato giuridico del personale delle unita sanitarie locali), promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1987 dal T.A.R. per la Sicilia – Sezione di Catania – sul ricorso proposto da MINEO Biagio contro la U.S.L. n. 39, iscritta al n. 604 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46/la ss dell’anno 1987;

visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 22 giugno 1988 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che nel corso del giudizio promosso dal dr. Mineo Biagio contro l’USL n. 39 di Bronte per l’annullamento della delibera del Comitato di gestione n. 406 del 1984 con cui gli sono state assegnate le mansioni superiori di aiuto radiologo per la durata di sessanta giorni senza diritto al corrispondente trattamento economico ai sensi dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con ordinanza del 27 gennaio 1987, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, primo secondo e terzo comma, in riferimento agli artt. 3, 36 e 97 Cost.;

che al dr. Mineo, in servizio con la qualifica di assistente radiologo presso il presidio Ospedaliero “Castiglione – Prestianni” di Bronte, nel cui organico non e previsto il posto di aiuto, le dette mansioni erano già state affidate dal Presidente dell’Ospedale con nota 2591 del 6 agosto 1982, “al fine di garantire continuità, direzione e responsabilità” del servizio, in attesa dell’espletamento del concorso per il posto di primario; che in esito alla domanda del dipendente, in data 15 giugno 1984, rivolta ad ottenere la corresponsione del trattamento corrispondente alle mansioni superiori effettivamente svolte, il Comitato di gestione, “in considerazione delle esigenze di servizio”, ha adottato la delibera sopra riferita, contro la quale l’interessato ha proposto ricorso davanti al Tribunale amministrativo;

che il Tribunale, pur ritenendo illegittima la delibera impugnata per difetto di logica correlazione con l’oggetto della domanda, ha soprasseduto alla pronuncia di annullamento, sul riflesso che essa “lascerebbe la situazione nei termini presistenti”, e quindi sarebbe “”inutiliter” data”, in quanto l’accoglimento della domanda di avanzamento del dipendente e precluso dal primo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, a mente del quale egli “non può essere assegnato, neppure di fatto, a mansioni superiori o inferiori”, e, d’altro lato, non soccorrono ne il secondo comma, che per esigenze di servizio consente l’assegnazione temporanea a mansioni superiori per non più di sessanta giorni, senza diritto a variazioni del trattamento economico, ne il terzo comma (coordinato con l’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969, quinto e settimo comma), secondo cui “non costituisce esercizio di mansioni superiori la sostituzione di personale di posizione funzionale più elevata, qualora la sostituzione rientri tra gli ordinari compiti della propria posizione funzionale”;

che le citate disposizioni dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 sembrano al giudice remittente essere in contrasto con più norme della Costituzione: il primo comma con l’art. 97, perché “laddove non consente, nemmeno in via di fatto, l’adibizione del personale a mansioni superiori, confligge con le esigenze di ordine organizzativo, e pertanto col principio di buon andamento dell’amministrazione”; il secondo comma, “e di riflesso il terzo comma”, con gli artt. 3 e 36 Cost., perché a mansioni disuguali fa corrispondere uguale retribuzione, risultandone un diverso trattamento del personale addetto al servizio sanitario rispetto a quello di altri rami del pubblico impiego (per esempio, l’art. 14 del D.P.R. n. 509 del 1979 per il personale del parastato);

che nel giudizio davanti alla Corte non si è costituita la parte privata, mentre è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, domandando “che la questione in epigrafe sia dichiarata inammissibile o comunque infondata”;

che, per quanto attiene all’ammissibilità, l’Avvocatura osserva che la censura mossa dal giudice a quo riguarda più l’opportunità che la legittimità dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, del quale si chiede alla Corte una riformulazione “meno rigida e più articolata”, mentre nel merito nessuna norma costituzionale appare violata: non gli artt. 3 e 36 Cost., perché lo svolgimento temporaneo di mansioni superiori per esigenze di servizio rientra nei normali doveri di ufficio di tutti i sanitari, e d’altra parte e esclusa la comparabilità con la disciplina del personale del parastato, “trattandosi di ordinamenti e di funzioni profondamente diversificati”; non l’art. 97 Cost., “atteso che e proprio nel l’interesse del buon andamento dei servizi che il legislatore, per quanto possibile, esclude che l’esercizio delle mansioni superiori possa condurre ad ottenere superiore qualifica”.

Considerato che il primo e il terzo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 sono estranei al caso di specie: il primo comma, perché il ricorrente ha in sostanza abbandonato l’originaria pretesa di riconoscimento formale della qualifica di aiuto radiologo (non essendo nella pianta organica istituito il posto corrispondente, e comunque l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. essendo impedita dalla disciplina speciale di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 761 del 1979 e segg.) e si è limitato a domandare un trattamento retributivo proporzionato alle mansioni effettivamente svolte; il terzo comma perché concernente un caso diverso da quello di cui si controverte; onde, rispetto a queste due norme, la sollevata questione di costituzionalità appare senz’altro priva di rilevanza, e perciò inammissibile;

che la pretesa del ricorrente, essendo fondata sull’argomento che nel suo caso “si versa in ipotesi diversa da quella contemplata nel secondo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979”, implica che il detto trattamento economico e domandato con riferimento alla durata dell’incarico eccedente il periodo, non superiore a sessanta giorni nell’anno, per il quale l’assegnazione del prestatore di lavoro a mansioni superiori, senza maggiorazione di retribuzione, risulti giustificata da esigenze eccezionali di servizio;

che, pertanto, nemmeno il secondo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, nella parte in cui esclude il diritto a variazioni del trattamento economico, e applicabile nella specie, così che, pure sotto questo profilo, la proposta questione di legittimità costituzionale non e rilevante: invero, l’eccezionalità della norma impone una interpretazione rigorosa del secondo comma, nel senso che l’assegnazione a mansioni superiori senza maggiorazione retributiva e consentita solo se giustificata dalla condizione indicata e contenuta nel detto limite massimo di tempo, trascorso il quale cessa l’efficacia del provvedimento, e quindi la prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost., direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato.

Visti l’art. 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e l’art. 9 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo secondo e terzo comma (“Stato giuridico del personale delle unita sanitarie locali”) sollevata, in riferimento agli artt. 3. 36 e 97 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1988.


Corte cost., Ord., 29-10-1987, n. 355

Corte cost., Ord., 29-10-1987, n. 355

CORTE COSTITUZIONALE

Eccezioni di legittimità costituzionale (giudizio sulla rilevanza)

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 169 del codice di procedura penale, commi primo e quinto, promosso con ordinanza emessa il 24 marzo 1980 dal Pretore di Piacenza, iscritta al n. 425 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 194 dell’anno 1980.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 30 settembre 1987 il Giudice relatore Giovanni Conso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che il Pretore di Piacenza, con ordinanza del 24 marzo 1980, ha denunciato, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, l’illegittimità dell’art. 169 c.p.p., primo e quinto comma, in quanto “le notifiche – come quella “de qua” – basate sul principio del rifiuto tacito a ricevere la raccomandata da parte dell’imputato assente dalla sua abitazione, contrastano in modo evidente con l’essenzialità della ricezione reale dell’avviso raccomandato in questione)”, ricollegandosi a tale premessa “la conseguenza di reputare come perfezionativo della notifica 6o” il solo periodo di giacenza” ovvero “assieme a quello l’avviso di giacenza”, “secondo quanto prescritto dalle norme dell’ordinamento postale”;

e che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

considerato che, dopo la pronuncia dell’ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), il cui art. 15 ha sostituito il terzo ed il quinto comma del codice di procedura penale, che risultano ora, rispettivamente, del seguente tenore: “Il portiere o chi ne fa le veci deve sottoscrivere l’originale dell’atto notificato, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata” ( art. 169, terzo comma, del codice di procedura penale); “Se le persone indicate nella prima parte di questo articolo mancano o non sono idonee o si rifiutano di ricevere la copia dell’atto destinato all’imputato, questa è depositata nella casa del comune dove l’imputato ha l’abitazione o, in mancanza di questa, del comune dove egli abitualmente esercita la sua attività professionale. Avviso del deposito stesso è affisso alla porta della casa di abitazione dell’imputato ovvero alla porta del luogo dove egli abitualmente esercita la sua attività professionale. L’ufficiale giudiziario deve, inoltre, dare all’imputato comunicazione dell’avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata” ( art. 169, quinto comma, del codice di procedura penale);

e che, quindi, spetta al giudice a quo verificare se, alla stregua della normativa sopravvenuta, la questione sollevata sia tuttora rilevante.

P.Q.M.

La Corte Costituzionale

ordina la restituzione degli atti al Pretore di Piacenza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 ottobre 1987.