Corte cost., Sent., (data ud. 19/04/2023) 11/07/2023, n. 140

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, secondo e terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta 30 maggio 2022, n. 8 (Disposizioni in materia di interventi di riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5 agosto 2022, depositato in cancelleria il 5 agosto 2022, iscritto al n. 55 del registro ricorsi 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste;

udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2023 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Renato Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste;

deliberato nella camera di consiglio del 19 aprile 2023.

1.- Con ricorso notificato il 5 agosto 2022 e depositato in pari data (reg. ric. n. 55 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, nonché all’art. 2, lettera a), della L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, secondo e terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta 30 maggio 2022, n. 8 (Disposizioni in materia di interventi di riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica).

2.- La suddetta legge regionale è finalizzata a dare sostegno all’attuazione di specifici interventi nel settore dell’edilizia residenziale pubblica, per la cui realizzazione dispone, per quanto qui rileva: a) l’istituzione, da parte dell’Azienda regionale per l’edilizia residenziale (ARER), di un’apposita struttura di progetto cui assegnare unità di personale non dirigenziale a tempo determinato (art. 3, comma 1); b) l’assunzione di tale personale, individuato nella misura di due unità, in via straordinaria e urgente, per un periodo massimo di trentasei mesi (art. 3, comma 2, primo periodo); c) l’effettuazione delle relative procedure selettive, dirette al reclutamento, “con modalità semplificate di svolgimento delle prove, assicurando comunque il profilo comparativo per titoli e prova orale nella quale è accertato anche il possesso di conoscenze informatiche e digitali” (art. 3, comma 2, secondo periodo); d) la pubblicazione dei bandi delle predette procedure selettive, “entro il 31 dicembre 2022, nell’Albo notiziario e nel sito istituzionale dell’ARER per quindici giorni consecutivi” (art. 3, comma 2, terzo periodo).

3.- Ad avviso del ricorrente il secondo periodo dell’art. 3, comma 2, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022 – stabilendo che la selezione dei candidati avvenga esclusivamente sulla base dei titoli posseduti e mediante prova orale – si porrebbe in contrasto con l’art. 35-quater, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che invece prevede l’espletamento di almeno una prova scritta.

Il terzo periodo della medesima disposizione regionale, in quanto stabilisce la pubblicazione dei bandi unicamente nell’albo e nel sito istituzionale dell’ARER, senza prevedere, quantomeno, la pubblicazione di un avviso di concorso nel Bollettino Ufficiale della Regione, confliggerebbe sia con l’art. 35, comma 3, lettera a), del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni devono rispettare, tra l’altro, il principio della “adeguata pubblicità della selezione”, sia con l’art. 4 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi). Quest’ultima disposizione, al comma 1, prevede, infatti, la pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e, al comma 1-bis, consentirebbe agli enti locali territoriali di sostituire tale pubblicazione unicamente con un avviso di concorso contenente gli estremi dei bandi stessi e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande.

Le richiamate disposizioni atterrebbero al rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, la cui disciplina sarebbe ascrivibile alla materia dell’ordinamento civile, e recherebbero norme fondamentali di riforma economico-sociale. Di conseguenza le disposizioni regionali impugnate violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e l’art. 2, lettera a), dello statuto speciale, il quale, nell’attribuire alla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste la competenza legislativa primaria nella materia “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale”, esige il rispetto delle norme di riforma economico-sociale.

Risulterebbero lesi, inoltre, gli artt. 3 e 97 Cost.

Premesso che la regola del pubblico concorso è posta a presidio del principio di eguaglianza nonché dei canoni di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (è citata la sentenza di questa Corte n. 227 del 2013), l’Avvocatura generale ritiene che le disposizioni impugnate – escludendo la necessità della prova scritta e non garantendo, in ragione delle descritte modalità di pubblicazione, “un’adeguata pubblicità e capacità di diffusione” dei bandi – pregiudichino l’esigenza di accertamento di un “adeguato livello di competenze” in capo ai concorrenti e la parità di accesso alle procedure selettive.

4.- Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, nella persona del Presidente della Giunta regionale, chiedendo di dichiarare inammissibili o, comunque, non fondate le questioni promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri.

4.1.- Le censure di violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e 2, lettera a), dello statuto speciale sarebbero inammissibili, in primo luogo, perché non sufficientemente motivate e, ad ogni modo, contraddittorie, avendo il ricorrente evocato le anzidette disposizioni statali sia in quanto espressione della competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile, sia quali norme fondamentali di riforma economico-sociale idonee a vincolare l’esercizio della competenza primaria statutaria. In secondo luogo, per “errata individuazione dei titoli competenziali rilevanti e […] erroneità del presupposto interpretativo”, poiché le disposizioni impugnate sarebbero riconducibili alla competenza legislativa residuale in materia di organizzazione amministrativa regionale e a quella primaria statutaria nella materia “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale”.

Nemmeno le censure formulate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. supererebbero il vaglio di ammissibilità, poiché il ricorrente non avrebbe spiegato le ragioni dell’asserito contrasto.

4.2.- Nel merito, sarebbe anzitutto insussistente la lamentata violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e 2, lettera a), dello statuto speciale.

Le disposizioni impugnate, infatti, disciplinerebbero l’accesso all’impiego pubblico regionale, dal momento che l’ARER è soggetta alla disciplina degli enti pubblici del comparto unico della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste.

Esse, in particolare, costituirebbero esercizio della competenza legislativa residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale (art. 117, quarto comma, Cost.), che non potrebbe essere vincolata dalla legge statale, oltre che della competenza primaria di cui all’art. 2, lettera a), dello statuto speciale, che sarebbe stata, in ogni caso, rispettata in quanto l’art. 35-quater, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 165 del 2001 non sarebbe idoneo a integrare una norma di riforma economico-sociale.

In forza di tali rilievi le censure in parola sarebbero dunque prive di pregio.

Anche le questioni promosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sarebbero destituite di fondamento.

La resistente premette che le disposizioni impugnate riguarderebbero l’assunzione di personale da impiegare per l’attuazione degli interventi urgenti previsti dall’art. 1 della stessa L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022 nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica.

In questa prospettiva, l’impugnato secondo periodo dell’art. 3, comma 2, nel prevedere una procedura semplificata, non comprometterebbe l’esigenza di verifica delle attitudini professionali dei candidati, in quanto espressamente statuisce che la selezione debba comunque assicurare il profilo comparativo attraverso la valutazione dei titoli e lo svolgimento della prova orale.

Analogamente, la disciplina posta dall’impugnato terzo periodo dell’art. 3, comma 2, anch’essa giustificata dall’esigenza di procedere tempestivamente alle assunzioni, garantirebbe in ogni caso un’adeguata pubblicità delle procedure indette; del resto, nella specie, il bando di concorso approvato sarebbe stato anche inviato dall’ARER a tutti gli altri enti del comparto unico del pubblico impiego regionale, “all’indirizzo PEI regionale dedicato alle opportunità di lavoro”, agli ordini professionali, ai centri per l’impiego, agli organi di informazione e alle organizzazioni sindacali.

5.- Con memoria tempestivamente depositata, la Regione ha ribadito le argomentazioni illustrate nell’atto di costituzione in giudizio e ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni ivi formulate.

Motivi della decisione
1.- Con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 55 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato il secondo e il terzo periodo dell’art. 3, comma 2, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022.

2.- La legge regionale all’interno della quale si collocano le disposizioni impugnate è rivolta a sostenere l’attuazione di specifici interventi nel settore dell’edilizia residenziale pubblica, per la cui realizzazione dispone, per quanto qui rileva: a) l’istituzione, da parte dell’Azienda regionale per l’edilizia residenziale (ARER), di un’apposita struttura di progetto cui assegnare personale non dirigenziale a tempo determinato (art. 3, comma 1); b) l’assunzione di tale personale, individuato nella misura di due unità, in via straordinaria e urgente, per un periodo massimo di trentasei mesi (art. 3, comma 2, primo periodo); c) l’effettuazione delle relative procedure selettive, dirette al reclutamento, “con modalità semplificate di svolgimento delle prove, assicurando comunque il profilo comparativo per titoli e prova orale nella quale è accertato anche il possesso di conoscenze informatiche e digitali” (art. 3, comma 2, secondo periodo); d) la pubblicazione dei bandi delle predette procedure selettive, “entro il 31 dicembre 2022, nell’Albo notiziario e nel sito istituzionale dell’ARER per quindici giorni consecutivi” (art. 3, comma 2, terzo periodo).

3.- Secondo il ricorrente, il secondo periodo del citato art. 3, comma 2, non prevedendo lo svolgimento di una prova scritta, si porrebbe in contrasto con l’art. 35-quater, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 165 del 2001, che tale prova invece contempla.

Il successivo terzo periodo – disponendo la pubblicazione dei bandi esclusivamente nell’albo e nel sito istituzionale dell’ARER – si discosterebbe sia dall’art. 35, comma 3, lettera a), del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui i bandi concorsuali debbono rispettare il principio della “adeguata” pubblicità, sia dall’art. 4 del D.P.R. n. 487 del 1994, che, al comma 1-bis, consentirebbe agli enti locali territoriali di sostituire la pubblicazione dei bandi di concorso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, prevista dal precedente comma 1, con, perlomeno, quella di un avviso di concorso.

Le disposizioni impugnate, confliggendo con le suddette “norme interposte” violerebbero, in primo luogo, l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. in riferimento alla competenza legislativa esclusiva nella materia dell’ordinamento civile.

In secondo luogo, dal momento che le richiamate previsioni del D.Lgs. n. 165 del 2001 integrerebbero altresì “norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica”, sarebbe violato anche l’art. 2, lettera a), dello statuto speciale, il quale riconosce sì alla resistente la competenza legislativa primaria nella materia “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale”, ma ne vincola l’esercizio al rispetto, per l’appunto, delle citate norme statali.

Risulterebbero lesi, inoltre, gli artt. 3 e 97 Cost.

Limitandosi a stabilire lo svolgimento delle prove selettive per titoli e prova orale e la pubblicazione dei bandi nell’albo e nel sito istituzionale dell’ARER, le disposizioni impugnate frustrerebbero, l’una, l’esigenza di accertamento della professionalità dei candidati e, l’altra, la parità di accesso alle procedure selettive: sarebbero in tal modo pregiudicati i principi di imparzialità, di buon andamento dell’azione amministrativa e di eguaglianza, alla cui realizzazione è funzionale la regola del pubblico concorso.

4.- Vanno preliminarmente disattese le eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla resistente, sul presupposto che le censure statali siano generiche, contraddittorie e non sufficientemente motivate.

Sebbene il ricorso statale si presenti indubbiamente stringato, riesce comunque a individuare le ragioni dei prospettati contrasti, raggiungendo, in relazione ad essi, la “soglia minima di chiarezza e completezza” (ex plurimis, sentenza n. 123 del 2022) necessaria ai fini dell’ammissibilità delle questioni promosse.

Non fondata è anche l’ulteriore eccezione di inammissibilità, prospettata perché le disposizioni impugnate sarebbero ascrivibili alla competenza legislativa residuale nella materia “ordinamento e organizzazione amministrativa regionale” e a quella statutaria nella materia “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale”.

Essa infatti involge aspetti di merito e non di ammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 267 e n. 17 del 2022, n. 195 del 2021 e n. 53 del 2020).

5.- Le censure statali attinenti alla violazione della competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile non sono fondate.

5.1.- Va premesso che, nello specifico contesto normativo valdostano, l’ARER e il personale da essa dipendente fanno parte del comparto unico del pubblico impiego regionale.

Infatti, l’art. 1, comma 1, ultimo periodo, della L.R. Valle d’Aosta 23 luglio 2010, n. 22 (Nuova disciplina dell’organizzazione dell’Amministrazione regionale e degli enti del comparto unico della Valle d’Aosta. Abrogazione della L.R. 23 ottobre 1995, n. 45, e di altre leggi in materia di personale), attrae espressamente nella propria disciplina – che definisce i principi e i criteri di organizzazione delle strutture dell’amministrazione regionale e degli enti pubblici non economici dipendenti dalla Regione, nonché dei relativi rapporti di lavoro – anche l’ARER (benché ente pubblico economico) e il suo personale, stabilendo altresì che a questo continui a trovare applicazione il contratto collettivo regionale di lavoro del comparto unico della Regione Valle autonoma d’Aosta/Vallée d’Aoste.

Da tale assetto normativo non discende però la conseguenza paventata dal ricorso statale, perché viene comunque in rilievo il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, se “gli interventi legislativi che incidono sui rapporti lavorativi in essere sono ascrivibili alla materia “ordinamento civile””, si devono “per converso ricondurre alla materia residuale dell’organizzazione amministrativa regionale quelli che intervengono “a monte”, in una fase antecedente all’instaurazione del rapporto, e riguardano profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale” (sentenza n. 267 del 2022; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 84, n. 39 e n. 9 del 2022, n. 195 e n. 25 del 2021).

Non sono pertanto ascrivibili alla materia “ordinamento civile” le disposizioni regionali rivolte a disciplinare le procedure concorsuali dirette all’assunzione e i relativi bandi: esse attengono invece alla competenza legislativa residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 267 del 2022, n. 42 e n. 20 del 2021, n. 200 del 2020).

Nell’ambito di quest’ultima competenza rientrano le disposizioni impugnate.

Esse, infatti, hanno a oggetto le modalità di pubblicazione di bandi concorsuali e quelle di svolgimento di prove selettive funzionali all’accesso all’impiego: spiegano quindi la loro efficacia nella fase anteriore all’instaurazione dei rapporti lavorativi, con la conseguente non fondatezza della censura prospettata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

5.2.- Parimenti non fondata è la censura di violazione dell’art. 2, lettera a), dello statuto speciale.

In analoghe fattispecie questa Corte ha già precisato che “la competenza legislativa residuale in materia di organizzazione amministrativa del personale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. – in virtù della cosiddetta clausola di maggior favore di cui all’art. 10 della L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – spetta anche alla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, in quanto rappresenta, in questo specifico contesto (sentenza n. 119 del 2019), una forma di autonomia più ampia di quella primaria già attribuitale dall’art. 2 dello statuto speciale, che incontra, fra l’altro, il limite delle “norme fondamentali di riforma economico-sociale” (sentenze n. 58 del 2021, n. 77 del 2020 e, nello stesso senso, anche sentenza n. 241 del 2018)” (ancora sentenza n. 267 del 2022).

La circostanza che le norme del D.Lgs. n. 165 del 2001 evocate dal ricorso statale possano essere riconosciute quali norme fondamentali di riforma economico-sociale non vale quindi a vincolare la potestà residuale della Regione.

6.- Nemmeno è fondata la censura statale relativa all’art. 3, comma 2, secondo periodo, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022, prospettata in riferimento all’art. 97 Cost.

6.1.- Questa Corte ha sì affermato che le norme statali che regolano le procedure concorsuali per l’accesso all’impiego pubblico possono “”contribuire a enucleare e a definire” i contorni del principio di buon andamento” che le regioni devono comunque rispettare nell’esercizio della propria competenza legislativa residuale (sentenze n. 267 del 2022 e n. 126 del 2020); ma ha al contempo precisato che tali norme non ne rappresentano la “unica declinazione possibile” (sentenze n. 58 del 2021 e n. 273 del 2020), sicché “non ogni difformità” della disciplina regionale rispetto alle regole dettate dallo Stato denota la violazione dell’art. 97 Cost. (sentenze n. 126 del 2020 e n. 241 del 2018).

6.2.- Il ricorso statale non precisa in quali termini l’art. 35-quater, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 165 del 2001 risulterebbe applicabile anche ai contratti a tempo determinato, direttamente regolati dall’art. 36 del medesimo decreto legislativo, ma si limita a contestare, richiamando la suddetta disposizione, il venir meno, in contrasto con i canoni di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, della ragionevole “garanzia di un adeguato livello di competenze”.

6.3.- Tale effetto non è tuttavia imputabile alla disciplina regionale, che autorizzando l’assunzione, in via straordinaria e urgente, di due unità di personale a tempo determinato, pur non prevedendo la prova scritta, impone che venga comunque effettuata la comparazione dei concorrenti, e ciò sulla base sia dei titoli da essi vantati sia dell’esito della prova orale, nella quale deve essere peraltro accertato anche il possesso delle conoscenze informatiche e digitali.

In tal modo, la norma in esame non irragionevolmente contempera le esigenze di celerità del reclutamento, sottese al carattere temporaneo dei progetti alla cui attuazione sono preordinate le assunzioni in discorso, con l’obiettivo di selezionare soggetti in possesso della necessaria qualificazione professionale.

Del resto, proprio con specifico riferimento ai contratti a termine, questa Corte, da un lato, ha ritenuto che non violi il principio di buon andamento una norma regionale che consente la selezione “per soli titoli”, anziché per titoli ed esami, rilevando che “la previsione di un metodo selettivo concorsuale più snello […] è giustificata dal carattere temporaneo delle necessità organizzative da soddisfare e dalla conseguente esigenza di maggiore rapidità nello svolgimento delle selezioni” (sentenza n. 235 del 2010).

Dall’altro, ha escluso il medesimo contrasto rispetto a una norma regionale che prevedeva, diversamente da quanto disposto in via generale dal legislatore statale (art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001), la mera facoltatività dell’accertamento della conoscenza dell’uso delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche (sentenza n. 200 del 2020).

La norma in questione, pertanto, non presta il fianco alla censura formulata dal ricorso statale.

7.- A diverse conclusioni si deve pervenire con riguardo al terzo periodo dell’art. 3, comma 2, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022.

7.1.- In questo caso le disposizioni statali citate dal ricorrente (art. 35, comma 3, lettera a, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e art. 4 del D.P.R. n. 487 del 1994) esprimono il carattere indefettibile del pubblico concorso, che ritrova nella natura aperta della procedura selettiva, in più occasioni ribadita da questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 95 del 2021, n. 227 del 2013, n. 299 del 2011, n. 225 del 2010 e n. 293 del 2009), un suo elemento essenziale.

È di tutta evidenza che tale natura aperta implica adeguate modalità di pubblicazione dei bandi concorsuali, perché solo un’ampia conoscibilità della loro indizione può permettere la partecipazione alla selezione di chiunque abbia i requisiti richiesti.

Le richiamate norme statali contribuiscono certamente a enucleare e a definire i contorni di una ragionevole declinazione dei principi del buon andamento e della parità di accesso alle cariche pubbliche.

La modalità di pubblicazione stabilita dall’art. 3, comma 2, terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022 non assicura, invece, un’idonea diffusione dei bandi e si pone dunque in contrasto con i suddetti principi costituzionali.

La pubblicazione unicamente nell’Albo notiziario e nel sito istituzionale dell’ARER mina, infatti, la possibilità, per il quivis de populo, di venire a conoscenza delle procedure in parola e restringe eccessivamente l’accessibilità delle stesse da parte dei potenziali candidati.

Non è inutile, del resto, osservare come la stessa Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste abbia dedotto che il bando approvato a seguito dell’adozione della legge regionale di cui si discute è stato anche trasmesso dall’ARER – evidentemente riconoscendo l’inidoneità della disciplina dettata dalla disposizione impugnata ad assicurarne un’adeguata diffusione – agli altri enti del comparto unico, “all’indirizzo PEI regionale dedicato alle opportunità di lavoro”, agli ordini professionali, ai centri per l’impiego, agli organi di informazione e alle organizzazioni sindacali.

7.2.- Né a diverse conclusioni può condurre l’assunto della resistente secondo cui le censurate forme di pubblicità sarebbero state nella specie “necessari[e]” per consentire la tempestiva assunzione del personale.

Il BUR – nel quale la pubblicazione degli estratti dei bandi delle procedure selettive è in linea generale prevista dall’art. 12, comma 1, lettera b), del regolamento regionale 12 febbraio 2013, n. 1 (Nuove disposizioni sull’accesso, sulle modalità e sui criteri per l’assunzione del personale dell’Amministrazione regionale e degli enti del comparto unico della Valle d’Aosta. Abrogazione del Reg. reg. 11 dicembre 1996, n. 6) – è, infatti, “pubblicato settimanalmente, salvo edizioni straordinarie” (art. 5, comma 1, della L.R. Valle d’Aosta 23 luglio 2010, n. 25, recante “Nuove disposizioni per la redazione del Bollettino Ufficiale della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e per la pubblicazione degli atti della Regione e degli enti locali. Abrogazione della L.R. 3 marzo 1994, n. 7”).

La pubblicazione nel BUR avrebbe consentito, quindi, tempi ragionevolmente compatibili anche con l’esigenza della tempestività delle assunzioni.

7.3.- Alla stregua delle argomentazioni che precedono, deve in conclusione essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta 30 maggio 2022, n. 8 (Disposizioni in materia di interventi di riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica);

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, secondo periodo, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022, promosse, in riferimento agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, nonché all’art. 2, lettera a), della L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, terzo periodo, della L.R. Valle d’Aosta n. 8 del 2022, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e all’art. 2, lettera a), della L.Cost. n. 4 del 1948, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 aprile 2023.

Depositata in Cancelleria l’11 luglio 2023


Corte cost., Sent., (data ud. 09/05/2023) 23/06/2023, n. 130

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, nel procedimento vertente tra A. R., il Ministero dell’interno e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti gli atti di costituzione di A. R. e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, di E. M. e della Federazione C.U.;

udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2023 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi gli avvocati Massimo Zhara Buda per A. R., Piera Messina e Gino Madonia per l’INPS, Antonio Mirra per E. M. e per la Federazione C.U., e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2023.

1.- Con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122.

1.1.- Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sul ricorso con il quale A. R., dirigente della Polizia di Stato cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, ha chiesto il pagamento del trattamento di fine servizio senza il differimento e la rateizzazione previsti dalle disposizioni censurate.

In punto di rilevanza, il giudice a quo assume che l’applicazione delle norme in scrutinio, la cui chiarezza testuale preclude una interpretazione adeguatrice, condurrebbe al rigetto del ricorso, con conseguente dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al ricorrente per effetto della cessazione dal rapporto di servizio.

1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente deduce che il dubbio di legittimità costituzionale “è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019”, la quale, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle stesse norme qui censurate, sia pure nella parte in cui si riferiscono ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, ha affermato che la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di impiego “ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata”.

Il TAR Lazio ricorda, altresì, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le indennità di fine servizio costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita al momento della cessazione dall’impiego, al fine di agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

Il rimettente argomenta che “una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilità inferiore a quella corrisposta tempestivamente”.

Il carattere di retribuzione differita riconosciuto alle indennità di fine rapporto comporterebbe che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e che non possano essere scaglionate nel tempo “strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro”. Ciò, specie ove si consideri che, di norma, con il trattamento economico in questione il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in età avanzata, si propone di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di far fronte ad impegni finanziari già assunti.

Il giudice a quo ricorda, quindi, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una normativa come quella in esame può superare lo scrutinio di legittimità costituzionale solo se opera in un tempo definito e se è giustificata da una crisi contingente.

In ultimo, illustrati gli interventi normativi che hanno modificato le disposizioni censurate in senso progressivamente peggiorativo per il lavoratore pubblico, il rimettente conclude che la previsione di un pagamento rateizzato comprime in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., “non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale”.

2.- Nel giudizio si è costituito A. R., ricorrente nel giudizio principale, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

La parte richiama, a sua volta, la sentenza n. 159 del 2019 di questa Corte per evidenziare come la stessa abbia lasciato impregiudicate le questioni di legittimità costituzionale della normativa all’odierno esame, nella parte in si riferisce ai dipendenti cessati dall’impiego per raggiungimento dei limiti di età e di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.

Il pagamento ritardato dei trattamenti di fine servizio – i quali costituiscono retribuzione differita – si porrebbe, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, espresso dall’art. 36 Cost., e, al contempo, attesa la sua natura previdenziale, con il principio di adeguatezza dei mezzi per la vecchiaia dettato dall’art. 38 Cost.

La parte privata deduce che soltanto nei primi anni di vigenza delle misure oggetto di censura il legislatore ha conseguito l’obiettivo di contenimento della dinamica della spesa corrente e di riequilibrio della finanza pubblica, mentre, una volta che le stesse misure sono entrate a regime, l’effetto positivo è cessato, “perché l’indebitamento è stato semplicemente reso strutturale, senza alcun vantaggio economico nella gestione corrente”.

3.- Nel giudizio si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte resistente nel processo a quo, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni sollevate.

3.1.- L’INPS rileva, anzitutto, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, secondo il quale la prestazione che viene nella specie in rilievo costituirebbe un trattamento di fine rapporto, inteso come “mera retribuzione differita”, anziché un trattamento di fine servizio.

La prestazione in scrutinio – si osserva – coincide, per contro, con l’indennità di buonuscita istituita dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), la cui speciale disciplina ne impedisce l’assimilazione al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile. Ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, la prestazione in esame è erogata da un ente previdenziale terzo e, dunque, da un soggetto distinto sia dal datore di lavoro, sia dal dipendente.

L’Istituto evidenzia, ancora, che il trattamento in esame è più vantaggioso di quello privatistico, perché viene parametrato all’ultima retribuzione spettante al dipendente prima del suo collocamento a riposo, che, di norma, è la più elevata.

Tale maggiore vantaggiosità si rivelerebbe anche sotto il profilo fiscale, posto che l’art. 24 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella L. 28 marzo 2019, n. 26, ha introdotto una parziale detassazione del solo trattamento di fine servizio, “sotto forma di riduzione dell’aliquota determinata ai sensi dell’articolo 19 comma 2-bis del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), da applicarsi all’imponibile dei trattamenti di fine servizio (TFS) con importo fino a 50.00,00 euro”.

Un ulteriore elemento di differenziazione andrebbe individuato nell’essere l’indennità di buonuscita alimentata da un contributo previdenziale obbligatorio, pari al 9,60 per cento della base contributiva, gravante sull’ente datore di lavoro, il quale si rivale sul dipendente in misura del 2,50 per cento della medesima base contributiva.

Argomenta, ancora, l’Istituto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, per l’indennità di buonuscita non è contemplato il diritto all’anticipazione della prestazione, né è stata mai prevista la possibilità di ottenerne una parte in busta paga, come invece disposto dalla legge di stabilità per l’anno 2015 per i lavoratori privati.

A dimostrazione che il trattamento di fine servizio non potrebbe essere assimilato al trattamento di fine rapporto e che, quindi, non avrebbe natura di retribuzione differita, l’INPS evoca la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile alla fattispecie in scrutinio il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.

Dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, delle illustrate peculiarità dell’indennità di buonuscita deriverebbe l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

3.2.- Le questioni sarebbero, comunque, non fondate, in quanto la disciplina censurata sarebbe conforme al principio di solidarietà, specie ove si abbia riguardo alla grave crisi in cui verserebbe il sistema previdenziale.

Nel caso di specie dovrebbero, pertanto, trovare applicazione i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 173 del 2016 in tema di contributo di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato, alla stregua dei quali la dilazione del pagamento introdotta dalle disposizioni censurate non contrasterebbe con i principi di ragionevolezza, di affidamento e di tutela previdenziale espressi dagli artt. 3 e 38 Cost.

D’altro canto, prosegue l’INPS, come confermato dalla citata sentenza n. 159 del 2019, questa Corte nello scrutinare le odierne questioni, non può non tenere conto delle esigenze della finanza pubblica e di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.

L’INPS sottolinea, poi, che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in tema di dilazione e di rateizzazione comporterebbe per l’Istituto un onere assai elevato, posto che, nel caso in cui entrambi i meccanismi dilatori previsti dalle norme censurate venissero eliminati, l’onere complessivo della spesa aggiuntiva sarebbe di 13,9 miliardi di euro per l’anno 2023.

In ultimo, l’Istituto si fa carico del monito espresso da questa Corte nella citata sentenza n. 159 del 2019, con la quale si è rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale, delle indennità di cui si tratta rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona. Evidenzia, tuttavia, l’Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono stati adottati il D.P.C.M. 22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del TFS/TFR, in attuazione dell’articolo 23, comma 7, del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2019, n. 26), contenente le modalità di attuazione delle disposizioni di cui all’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, nonché il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 19 agosto 2020, relativo all’approvazione dell’accordo quadro per il finanziamento verso l’anticipo della liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque determinata, secondo quanto previsto dall’art. 23, comma 2, del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana.

Espone, ancora, l’INPS che gli atti citati consentono ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – che cessano o sono cessati dal servizio con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti dall’art. 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” come previsto dall’art. 14 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito – di presentare a banche ed intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari all’importo dell’indennità di fine servizio maturata, nella misura massima di 45.000 euro ovvero all’importo spettante qualora la predetta indennità sia di importo inferiore.

In aggiunta, si sottolinea che, con deliberazione del consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219, è stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad oggetto l’anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di fine rapporto.

L’Istituto precisa che si tratta di un finanziamento di importo pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse fisso pari all’1 per cento, e con spese di amministrazione a carico del finanziato in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, da erogarsi in un’unica soluzione, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

4.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondate le odierne questioni di legittimità costituzionale.

Richiamati i passaggi salienti della ricordata sentenza n. 159 del 2019, l’interveniente sostiene che il differimento della corresponsione delle indennità di buonuscita e di altri analoghi trattamenti non pregiudica la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto la disciplina censurata non ha negato o decurtato le indennità spettanti ai dipendenti pubblici, ma ne ha soltanto differito il versamento mediante un meccanismo che privilegia le ipotesi di cessazione per inabilità, derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente, nelle quali ha fissato un termine di tre mesi in luogo di quello di ventiquattro mesi previsto per i titolari di pensione di anzianità anticipata.

Sottolinea la difesa statale che i meccanismi oggetto di censura sono ispirati a esigenze di solidarietà sociale e sono intesi a fronteggiare la grave e perdurante situazione di crisi della finanza pubblica.

Il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe, pertanto, improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a finanziare gli oneri del sistema della previdenza, peraltro in un contesto di crisi dello stesso, e rispetterebbe il principio di proporzionalità, incidendo in special modo sui trattamenti più elevati.

In aggiunta, la difesa statale ricorda il monito contenuto nella citata sentenza n. 159 del 2019, per evidenziare che allo stesso il legislatore ha dato seguito mediante l’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, avente ad oggetto la disciplina dell’anticipo agevolato di una quota del trattamento di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominato, per i dipendenti pubblici che abbiano avuto accesso al trattamento pensionistico nel regime ordinario, nonché di quello sperimentale previsto al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” e “quota 102”.

In ultimo, l’interveniente rimarca che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate comporterebbe per l’INPS un onere oltremodo gravoso, posto che lo stesso Istituto dovrebbe farsi carico sia del pagamento immediato di tutti i trattamenti di fine servizio relativi a cessazioni per pensionamento di vecchiaia intervenute nell’ultimo anno, sia dell’integrazione degli importi relativi alle cessazioni avvenute negli anni precedenti, le cui rate non sono state ancora corrisposte in conformità ai termini previsti dalle disposizioni censurate.

5.- È, altresì, intervenuto ad adiuvandum E. M., svolgendo difese di segno adesivo alle deduzioni del rimettente.

L’interveniente, dipendente del Ministero dell’economia e delle finanze collocato in quiescenza per vecchiaia, espone di avere introdotto un giudizio davanti al Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, in cui ha chiesto accertarsi il proprio diritto alla corresponsione del trattamento di fine servizio senza dilazioni, deducendo l’illegittimità costituzionale delle norme che ne autorizzano il differimento e la rateizzazione, e che il giudice adito ha disposto il rinvio della causa in attesa dell’esito dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, in quanto vertente sulle medesime questioni.

E. M. assume di essere legittimato all’intervento sia in ragione dell’analogia della sua posizione giuridica rispetto a quella di A. R., ricorrente nel giudizio principale, sia in forza dell’identità tra le censure di illegittimità costituzionale svolte a sostegno dell’azione esperita e quelle qui in scrutinio.

6.- Ha, inoltre, spiegato intervento adesivo la Federazione C.U. per chiedere l’accoglimento delle questioni sollevate.

La federazione deduce di essere legittimata all’intervento in quanto titolare di un interesse, “se pur collettivo e superindividuale”, diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale.

7.- In ultimo, l’A.N.F. ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure del giudice a quo.

A fondamento della propria legittimazione ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’associazione deduce di essere il sindacato maggiormente rappresentativo dei dirigenti della Polizia di Stato e di avere tra i suoi fini statutari prioritari la protezione degli interessi della collettività organizzata dei funzionari di polizia, sotto i profili giuridico, economico e pensionistico.

L’opinione è stata ammessa con decreto presidenziale del 24 marzo 2023.

8.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie sia la parte privata, sia l’INPS, sia l’Avvocatura generale dello Stato, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Motivi della decisione
1.- Il TAR Lazio, sezione terza quater, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, in riferimento all’art. 36 Cost.

1.1.- Il rimettente, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che riconduce i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici nel paradigma della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, ritiene che le disposizioni censurate, nel prevedere rispettivamente il differimento e la rateizzazione del versamento di tali prestazioni, si pongano in contrasto con la garanzia costituzionale della giusta retribuzione.

La corresponsione differita e rateale dell’indennità di fine servizio arrecherebbe al beneficiario un’utilità inferiore rispetto a quella derivante da una liquidazione tempestiva, posto che “proprio attraverso l’integrale e immediata percezione” di tali spettanze il lavoratore si propone “di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari già assunti”.

In linea con le enunciazioni espresse da questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, il giudice a quo sostiene che le disposizioni in scrutinio ledano in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., in quanto, pur essendo state introdotte per far fronte ad una situazione di crisi contingente, hanno ormai assunto carattere strutturale.

2.- In via preliminare, va ribadito quanto affermato nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum.

2.1.- L’intervento di E. M. è inammissibile in quanto rinviene la sua ragione fondante nella semplice analogia della posizione sostanziale dell’interveniente rispetto a quella della parte ricorrente nel giudizio principale (sentenza n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).

2.2.- Neanche la Federazione C.U., quale organismo rappresentativo di soggetti titolari di rapporti giuridici regolati dalle disposizioni censurate, può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale. Al contrario, essa persegue un “mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti” (sentenze n. 159 del 2019 e n. 77 del 2018).

3.- L’esame delle questioni sollevate richiede la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.

3.1.- La disciplina delle modalità di pagamento dell’indennità di buonuscita era originariamente contenuta nell’art. 26, terzo comma, del D.P.R. n. 1032 del 1973, a mente del quale, in caso di cessazione dal servizio per limiti di età, l’amministrazione doveva predisporre gli atti tre mesi prima del raggiungimento del limite predetto e inviarli almeno un mese prima al Fondo di previdenza per il personale civile e militare dello Stato, il quale era tenuto ad emettere il mandato di pagamento in modo da rendere possibile l’effettiva corresponsione del trattamento “immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima”.

Il termine per la effettiva corresponsione della prestazione in esame è stato successivamente elevato a novanta giorni dall’art. 7, terzo comma, della L. 20 marzo 1980, n. 75, recante “Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della L. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della L. 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione”.

In seguito, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, qui in scrutinio, ha rimodulato i tempi di erogazione dei “trattamenti di fine servizio, comunque denominati”, spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (oggi definite dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001) o ai loro superstiti o aventi causa che ne hanno titolo, disponendo che alla liquidazione “l’ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

La citata disposizione prevede, altresì, che alla erogazione si dia corso “entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”.

3.2.- Nella versione originaria, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, stabiliva il termine di sei mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, e quello dei successivi tre mesi per la relativa corresponsione.

Tale previsione è stata modificata dapprima dall’art. 1, comma 22, lettera a), del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella L. 14 settembre 2011, n. 148, e in seguito dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”.

La prima delle richiamate disposizioni ha innalzato da sei a ventiquattro mesi il termine per il versamento del trattamento di fine servizio, decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, senza modificare il termine semestrale per la corresponsione dell’emolumento nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio.

Tale ultimo termine è stato elevato a dodici mesi dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. n. 147 del 2013.

3.3.- Al differimento, appena illustrato, delle liquidazioni di cui si tratta si affianca la disciplina introdotta dall’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, che ha previsto un regime di rateizzazione delle spettanze di fine servizio al dichiarato fine di concorrere “al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita”.

Il testo originario della disposizione citata prevedeva che la corresponsione del trattamento avvenisse in un unico importo annuale per le indennità di fine servizio di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, pari o inferiore a 90.000 euro; in due importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, superiore a 90.000 euro, ma inferiore a 150.000 euro; in tre importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, uguale o superiore a 150.000 euro.

3.4.- A seguito delle modifiche apportate all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, dall’art. 1, comma 484, lettera a), della L. n. 147 del 2013, la scansione dei pagamenti è stata rimodulata.

L’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e “ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego” sono oggi riconosciuti “in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro” (art. 12, comma 7, lettera a); “in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera b); “in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro, il secondo importo annuale è pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera c).

4.- In via preliminare si rileva che, come emerge dall’esame della ordinanza di rimessione, essendo il ricorrente nel giudizio a quo cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, trova applicazione nella parte in cui differisce la liquidazione del trattamento di fine servizio di dodici mesi dalla cessazione del rapporto.

Lo scrutinio di legittimità costituzionale relativamente alla predetta disposizione deve intendersi, pertanto, circoscritto alla parte di essa che si riferisce ai dipendenti cessati dal lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio.

5.- Sempre in via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità per incompleta ricostruzione del quadro normativo formulata dall’INPS.

5.1.- Il giudice a quo, ripercorrendo la genesi delle disposizioni censurate e richiamando l’interpretazione che ne ha dato questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, ha esaustivamente ricomposto la cornice normativa e giurisprudenziale in cui si innesta la disciplina in scrutinio.

6.- Le questioni sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.

6.1.- L’evoluzione normativa, “stimolata dalla giurisprudenza costituzionale” (sentenza n. 243 del 1993, punto 4 del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine servizio erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (sentenze n. 258 del 2022, n. 159 del 2019 e n. 106 del 1996).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva (sentenza n. 159 del 2019).

Le indennità di fine servizio costituiscono una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996) e, quindi, una parte integrante del patrimonio del beneficiario, il quale spetta ai superstiti in caso di decesso del lavoratore (sentenza n. 243 del 1993).

6.2.- La natura retributiva attira le prestazioni in esame nell’ambito applicativo dell’art. 36 Cost., essendo l’emolumento di cui si tratta volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una “particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana” (sentenza n. 159 del 2019).

La garanzia della giusta retribuzione, proprio perché attiene a principi fondamentali, “si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione” (sentenza n. 159 del 2019).

Il trattamento viene, infatti, corrisposto nel momento della cessazione dall’impiego al preciso fine di agevolare il dipendente nel far fronte alle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

In ciò si realizza la funzione previdenziale, che, pure, vale a connotare le indennità in scrutinio, e che concorre con quella retributiva.

6.3.- Questa Corte deve farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (sentenza n. 159 del 2019).

Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito.

Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure.

La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere “eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (ordinanza n. 299 del 1999).

6.4.- Ebbene, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e successive modificazioni, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

A differenza del pagamento differito dell’indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall’impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa (sentenza n. 159 del 2019) – il, sia pur più breve, differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall’altro.

Ciò in quanto la previsione ora richiamata ha “smarrito un orizzonte temporale definito” (sentenza n. 159 del 2019), trasformandosi da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza.

6.5.- A ciò deve aggiungersi che la perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale propria di tali prestazioni, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa.

Non è, infatti, infrequente che l’emolumento in esame venga utilizzato per sopperire ad esigenze non ordinarie del beneficiario o dei suoi familiari, e la possibilità che tali necessità insorgano nelle more della liquidazione del trattamento espone l’avente diritto ad un pregiudizio che la immediata disponibilità dell’importo eviterebbe.

6.6.- Occorre, ancora, considerare che l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale si innesta in un quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l’esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall’art. 36 Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito “ai valori reali di entrambi i suoi termini” (sentenza n. 243 del 1993).

Di conseguenza, la dilazione oggetto di censura, non essendo controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica delle prestazioni di cui si tratta, atteso che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, allo scadere del termine annuale in questione e di un ulteriore termine di tre mesi sono dovuti i soli interessi di mora.

6.7.- Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 159 del 2019, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda “decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, nelle ipotesi diverse dalla cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, rilevando che, per costante giurisprudenza costituzionale, ben può il legislatore “disincentivare il conseguimento di una prestazione anticipata” (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita” (sentenza n. 159 del 2019).

In tale occasione, è stata nondimeno segnalata, quanto alla medesima normativa, per l’effetto combinato del pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio, “l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare […]. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine servizio, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana” (sentenza n.159 del 2019).

6.8.- A tale monito non ha, tuttavia, fatto seguito una riforma specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato.

Non può, infatti, ritenersi tale la disciplina dell’anticipazione della prestazione dettata dall’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del D.M. 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento.

Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in merito all’anticipazione istituita con la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa è prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un finanziamento pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all’1 per cento fisso, unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

Le normative richiamate investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio.

Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo.

Il legislatore non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996).

7.- Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri.

7.1.- La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata.

La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

7.2.- In proposito, questa Corte deve evidenziare, come in altre analoghe occasioni, “che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia” (da ultimo, sentenza n. 22 del 2022; si vedano anche sentenze n. 120 e n. 32 del 2021).

8.- Accertata la necessità della espunzione della disciplina concernente tale differimento, va rilevato, quanto alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito – l’altra disposizione censurata – che il sistema cui essa ha dato luogo, essendo strutturato secondo una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, da un lato, calibra il sacrificio economico derivante dalla percezione frazionata dell’indennità in modo tale da renderne esenti i beneficiari dei trattamenti più modesti; dall’altro, assicura ai titolari delle indennità ricadenti negli scaglioni via via più elevati la percezione immediata – rectius: che diverrà immediata solo all’esito della eliminazione del differimento previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito – almeno di una parte della prestazione loro spettante.

8.1.- Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal considerare che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2023.

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2023.


Corte cost., Sent., (data ud. 12/09/2022) 13/10/2022, n. 209

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto e quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, promossi complessivamente dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con ordinanza del 22 novembre 2021 e dalla Corte costituzionale con ordinanza del 12 aprile 2022, iscritte, rispettivamente, ai numeri 3 e 50 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 4 e 19, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 settembre 2022 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 12 settembre 2022.

1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

1.1.- Il rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio d’impugnativa avverso avvisi di accertamento con i quali il Comune di Napoli contestava a M. M. il mancato pagamento dell’IMU (anni dal 2015 al 2018) in relazione alla sua abitazione principale in Napoli.

Più precisamente, la CTP espone che: a) il contribuente, “assumendo di possedere i requisiti di legge e provandoli documentalmente”, avrebbe rivendicato il diritto all’esenzione sul presupposto che l’immobile costituisse residenza anagrafica e dimora abituale dell’intero nucleo familiare; b) il Comune di Napoli avrebbe negato tale diritto perché il nucleo familiare non risiederebbe “interamente” nel medesimo immobile, atteso che il coniuge risulterebbe aver trasferito la propria residenza nel Comune di Scanno.

1.2.- Ad avviso del giudice a quo, alla spettanza dell’agevolazione, come pure alla praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, osterebbe la “presenza di un “diritto vivente” espresso dall’organo istituzionalmente titolare della funzione nomofilattica” (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4166; sezione quinta civile, ordinanza 17 giugno 2021, n. 17408), che, con “un univoco indirizzo interpretativo”, riterrebbe preclusivo del beneficio “il solo fatto che un componente della famiglia risieda in altro Comune”; ciò, peraltro, nonostante la diversa interpretazione sostenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze (circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012) secondo cui, in caso di residenza e dimora di un componente il nucleo familiare in un comune diverso, l’agevolazione sarebbe dovuta, poiché “il limite quantitativo”, stabilito dalla norma censurata, sarebbe espressamente riferito ai soli immobili nel medesimo comune.

1.3.- In punto di rilevanza, il rimettente afferma che dall’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale dipenderebbe l’esito della controversia della quale è investito.

1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTP ritiene che l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, così come interpretato dalla Corte di cassazione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

La norma censurata, inoltre, lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

1.5.- Con atto depositato il 15 febbraio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.

1.6.- In data 15 febbraio 2022, in applicazione dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, è stata depositata un’opinione scritta a cura dell’associazione Camera degli avvocati tributaristi del Veneto, ammessa con decreto del Presidente del 17 febbraio 2022.

2.- Nel corso del giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare.

Segnatamente, nella suddetta ordinanza questa Corte anzitutto ha precisato – dopo aver dichiarato non fondate le relative eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale – che il petitum della CTP è circoscritto a un intervento additivo sul quinto periodo del citato art. 13, comma 2, al fine di attingere al riconoscimento, attualmente precluso dal diritto vivente, dell’esenzione IMU per l’abitazione principale del nucleo familiare situata in un determinato comune, anche quando la residenza anagrafica di uno dei suoi componenti sia stata stabilita in un immobile ubicato in altro comune.

Quindi, questa Corte ha rilevato che, tuttavia, “le questioni sollevate dal giudice a quo in relazione a tale specifica norma sono strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, che, ai fini del riconoscimento della suddetta agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore ma anche del suo nucleo familiare”.

Infatti, in forza di tale disciplina “la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale viene meno al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”.

Pertanto, sarebbe tale previsione a determinare un trattamento diverso del nucleo familiare rispetto non solo alle persone singole ma anche alle coppie di mero fatto, poiché, sino a che il rapporto non si stabilizzi nel matrimonio o nell’unione civile, la struttura della norma consentirebbe a ciascuno dei partner di accedere all’esenzione IMU per la rispettiva abitazione principale.

Da qui la conclusione che “la risoluzione della questione avente ad oggetto la regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, nella parte in cui stabilisce il descritto nesso tra il riconoscimento della agevolazione IMU per l’abitazione principale e la residenza anagrafica e la dimora abituale del nucleo familiare, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, ordinanza n. 18 del 2021)”.

2.1.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 ha ravvisato la sussistenza di un contrasto della indicata regola generale con gli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost.

In particolare, quanto al primo dei suddetti parametri, nella fattispecie in esame questa Corte ha dubitato “dell’esistenza di un ragionevole motivo di differenziazione tra la situazione dei possessori degli immobili in quanto tali e quella dei possessori degli stessi in riferimento al nucleo familiare, quando, come spesso accade nell’attuale contesto sociale, effettive esigenze comportino la fissazione di differenti residenze anagrafiche e dimore abituali da parte dei relativi componenti del nucleo familiare”.

Quanto, poi, al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., si è parimenti dubitato “della maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”; ciò anche richiamando la sentenza n. 179 del 1976, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni dell’imposta complementare e dell’imposta sui redditi sul cumulo dei redditi dei coniugi.

Infine, quanto all’art. 31 Cost., si è osservato che la disciplina in oggetto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

2.2.- Di conseguenza, questa Corte ha disposto la sospensione del giudizio sollevato dalla CTP con l’ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022.

2.3.- Nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. n. 2022, in data 3 maggio 2022 la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia) ha depositato, in qualità di amicus curiae, un’opinione scritta – ammessa con decreto del Presidente del 16 giugno 2022 – argomentando a sostegno dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

In particolare, ad avviso dell’associazione, nella disciplina dell’IMU il sintagma “nucleo familiare” mancherebbe di un preciso significato, così da costituire un elemento di irragionevolezza nell’ordinamento tributario. Sarebbero, pertanto, del tutto replicabili le motivazioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 179 del 1976 che – seppure in tema di imposizione diretta – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle norme che, in violazione degli artt. 3, 31 e 53 Cost., irragionevolmente avevano riservato ai “coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio”.

Inoltre, secondo la Confedilizia, lungi dall’introdurre ragionevolmente un “nuovo soggetto passivo” – quale cambiamento sistemico sulla scorta delle esperienze straniere – il riferimento al nucleo familiare sarebbe stato introdotto in funzione di “mere esigenze contabili”, tralasciando del tutto la considerazione dell’evidente evoluzione sociale e delle esigenze di mobilità nel mondo del lavoro, ciò che renderebbe sterile qualsiasi tentativo di giustificare la disposizione censurata con finalità antielusive (anche in ragione del potere di vigilanza e controllo demandato ai comuni impositori).

Motivi della decisione
1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata, così come interpretata dalla Corte di cassazione, violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

Essa inoltre lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alla provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

2.- Nel corso del citato giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé le questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare. Ciò nel presupposto che le questioni sollevate dalla CTP di Napoli sono “strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale” stabilita appunto dal censurato quarto periodo.

Segnatamente, la norma censurata, facendo venire meno la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale “al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”, irragionevolmente ne discriminerebbe il trattamento rispetto non solo alle persone singole, ma anche alle coppie di mero fatto.

La disciplina contrasterebbe poi con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., posto che non sarebbe riscontrabile una “maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”.

Il citato art. 13, comma 2, quarto periodo, lederebbe, infine, l’art. 31 Cost., in quanto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

3.- Preliminarmente, i giudizi promossi dalla CTP di Napoli con ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022 e da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 possono essere riuniti e decisi con unica sentenza, poiché hanno ad oggetto questioni fra loro connesse, anche in considerazione dello stretto rapporto tra le previsioni coinvolte, riguardanti, rispettivamente, i periodi quinto e quarto del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato.

3.1.- Il carattere pregiudiziale delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da questa Corte rispetto alla decisione di quelle sollevate dalla CTP di Napoli ne impone la previa trattazione.

4.- Le questioni sollevate da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 sono fondate.

Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile.

Tale è invece proprio l’effetto prodotto dal censurato quarto periodo dell’art. 13, comma 2, perché, in conseguenza del riferimento al nucleo familiare ivi contenuto, sino a che non avviene la costituzione di tale nucleo, la norma consente a ciascun possessore di immobile che vi risieda anagraficamente e dimori abitualmente, di fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto: i partner in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, perché ciascuno di questi potrà considerare il rispettivo immobile come abitazione familiare.

La scelta di accettare che il proprio rapporto affettivo sia regolato dalla disciplina legale del matrimonio o dell’unione civile determina, invece, l’effetto di precludere la possibilità di mantenere la doppia esenzione anche quando effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti.

Soprattutto, poi, nel diritto vivente, il suddetto riferimento al nucleo familiare è interpretato nel senso di precludere addirittura ogni esenzione ai coniugi che abbiano stabilito la residenza anagrafica in due abitazioni site in comuni diversi; secondo questa interpretazione, in tal caso, infatti, nessuno dei loro immobili potrà essere considerato abitazione principale e beneficiare dell’esenzione.

Per comprendere come si sia giunti a tale esito, criticato in dottrina, è opportuno ricostruire l’evoluzione del quadro normativo che ha caratterizzato il beneficio in questione (che, nelle varie fasi della sua esistenza giuridica, ha assunto anche il carattere di semplice agevolazione, oltre quello, più recente, di completa esenzione dall’IMU).

5.- Il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’IMU (istituita dall’art. 8 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, recante “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale”), che subordinava il riconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale alla sussistenza del solo requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale del possessore dell’immobile: a questi veniva riconosciuto il diritto all’esenzione in termini oggettivi, del tutto a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Ciò che rilevava, ai fini della identificazione della abitazione principale, era, infatti, che egli si trovasse a risiedere e dimorare abitualmente in un determinato immobile.

Il riferimento al nucleo familiare nemmeno figurava nella successiva formulazione, con la quale “è stata disposta l’anticipazione dell’introduzione dell’IMU al 2012” (sentenza n. 262 del 2020), ovvero l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, dove l’agevolazione – consistente non più in un’esenzione, ma in una riduzione dell’aliquota – era riconosciuta, anche in questo caso, per l’immobile nel quale “il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Pertanto, sino a quel momento, se due persone unite in matrimonio avevano residenze e dimore abituali differenti, a ciascuna spettava l’agevolazione per l’abitazione principale.

5.1.- Solo con l’art. 4, comma 5, lettera a), del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 2012, n. 44, che è intervenuto su diversi aspetti della disciplina dell’IMU, è stata modificata la definizione di abitazione principale, introducendo, in particolare, il riferimento al nucleo familiare ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione.

Segnatamente, il comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, è stato così modificato e integrato: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disciplina è stata poi confermata dalla L. n. 147 del 2013 che ha reintrodotto la completa esenzione dell’abitazione principale dal 1 gennaio 2014 per tutte le categorie catastali abitative, tranne quelle cosiddette di lusso (A/1, A/8 e A/9), ed è stata quindi ribadita nel comma 741, lettera b), dell’art. 1 della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022) all’interno della disciplina della cosiddetta “nuova IMU”, divenuta sostanzialmente comprensiva anche del tributo sui servizi indivisibili (TASI).

5.2.- La nuova formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, come convertito, è stata interpretata in senso vieppiù restrittivo dalla giurisprudenza di legittimità, applicando il criterio “di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez. 5, 11 ottobre 2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 3 febbraio 2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte Cost. 20 novembre 2017, n. 242)” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 24 settembre 2020, n. 20130).

La Corte di cassazione, infatti, in una prima fase, disattendendo una diversa interpretazione inizialmente proposta dal Ministero dell’economia e delle finanze con la circolare n. 3/DF del 2012 (diretta a riconoscere, nel silenzio della norma, il beneficio per ciascuno degli immobili, ubicati in comuni diversi, adibiti a residenza e dimora), ha ritenuto che l’agevolazione spettasse per un solo immobile per nucleo familiare, non solo nel caso di immobili siti nel medesimo comune, come del resto espressamente recita il suddetto comma 2 dell’art. 13, ma anche in caso di immobili situati in comuni diversi (situazione non espressamente regolata dalla disposizione in oggetto); ciò a meno che non fosse fornita la prova della rottura dell’unità familiare. Infatti solo “la frattura” del rapporto di convivenza comporta “una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale non potrà essere più identificata con la casa coniugale (vedi da ultimo: Cass., Sez. 5, n. 15439/2019)” (Corte di cassazione, ordinanza n. 17408 del 2021).

La giurisprudenza di legittimità ha poi compiuto un ulteriore passaggio ed è giunta a negare ogni agevolazione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, facendo leva sulla necessità della coabitazione abituale dell’intero nucleo familiare nel luogo di residenza anagrafica della casa coniugale (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 19 febbraio 2020, n. 4170 e n. 4166 del 2020, poi confermate dall’ordinanza n. 17408 del 2021). Dunque, “nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed autonoma rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 17 gennaio 2022, n. 1199).

In altri termini, si è ritenuto che per fruire del beneficio in riferimento a una determinata unità immobiliare sia necessario che “tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare non solo vi dimorino stabilmente, ma vi risiedano anche anagraficamente” (Corte di cassazione, ordinanza n. 4166 del 2020; ribadita in ordinanze n. 17408 del 2021 e n. 4170 del 2020): l’esenzione è stata quindi subordinata alla contestuale residenza e dimora unitaria del contribuente e del suo nucleo familiare.

Il diritto vivente è pertanto giunto alla conclusione, prima anticipata, di negarne ogni riconoscimento nel caso contrario, “in cui i componenti del nucleo familiare hanno stabilito la residenza in due distinti Comuni perché quello che consente di usufruire del beneficio fiscale è la sussistenza del doppio requisito della comunanza della residenza e della dimora abituale di tutto il nucleo familiare nell’immobile per il quale si chiede l’agevolazione” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 25 novembre 2021, n. 36676).

5.3.- È in reazione a tale approdo della giurisprudenza di legittimità, giunto quindi a negare ogni esenzione sull’abitazione principale se un componente del nucleo familiare risiede in un comune diverso da quello del possessore dell’immobile, che il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215. La relazione illustrativa all’emendamento governativo che ha introdotto tale disposizione espressamente precisa, infatti, l’intenzione di superare gli ultimi orientamenti della Corte di cassazione (sono citate le ordinanze della Corte di cassazione n. 4170 e n. 4166 del 2020).

L’art. 1, comma 741, lettera b), della L. n. 160 del 2019 è stato pertanto integrato prevedendo che: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

6.- La ricostruzione dell’evoluzione normativa mette in evidenza, in sintesi, come si sia realizzato, nella struttura della misura fiscale in oggetto, il passaggio dalla considerazione di una situazione meramente oggettiva (la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile, prescindendo dalla circostanza che si trattasse di soggetti singoli, coabitanti, coniugati o uniti civilmente) al rilievo dato a un elemento soggettivo (la relazione del possessore dell’immobile con il proprio nucleo familiare).

La descrizione dello sviluppo giurisprudenziale ha poi evidenziato come l’introduzione di questo elemento soggettivo si sia risolta, infine, nell’esito di una radicale penalizzazione dei possessori di immobili che hanno costituito un nucleo familiare, i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con la originaria formulazione prevista nel D.Lgs. n. 23 del 2011.

A tale esito il diritto vivente sembra essere pervenuto per un duplice motivo.

Da un lato l’assenza, nella disciplina dell’IMU, di una specifica definizione di “nucleo familiare”, a fronte di diversi riferimenti presenti – a vario titolo e oltre quelli civilistici – nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, a quello stabilito ai fini dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) dall’art. 3 del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, recante “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)”, oppure a quello, stabilito però esclusivamente con riguardo all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) dall’art. 5, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). Dall’altro la dichiarata esigenza di interpretare restrittivamente le agevolazioni tributarie; esigenza che peraltro non appare contestabile in riferimento a un’agevolazione del tipo di quella in esame (si veda al riguardo il punto successivo).

Ciò che, nell’insieme, conferma come l’effettiva origine dei problemi applicativi determinati dagli approdi del diritto vivente si ponga, in realtà, a monte, ovvero nel censurato quarto periodo del comma 2, dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, che ha introdotto nella fattispecie generale dell’agevolazione il riferimento al nucleo familiare, piuttosto che nel quinto periodo del medesimo comma censurato dalla CTP di Napoli, che ne disciplina, invece, solo una specifica ipotesi.

È per tale motivo che questa Corte ha ritenuto, dato il “rapporto di presupposizione” tra le questioni (ordinanza n. 94 del 2022), di sollevare dinanzi a se stessa quella sulla disciplina, appunto, a monte.

7.- Ciò precisato, è fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost.

Va, in primo luogo, chiarito che l’agevolazione in oggetto non rientra tra quelle strutturali, essendo senza dubbio inquadrabile tra quelle in senso proprio (sentenza n. 120 del 2020). Inoltre, se da un lato, essa si può ritenere rivolta a perseguire la finalità di favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione” (art. 47, secondo comma, Cost.), dall’altro esenta le abitazioni principali dei residenti dalla più importante imposta municipale (l’IMU), determinando un effetto poco lineare rispetto ai principi che giustificano l’autonomia fiscale locale: se gran parte dei residenti è esentata dall’imposta, questa finirà per risultare a carico di chi non vota nel comune che stabilisce l’imposta.

In difetto di una chiara causa costituzionale l’esenzione in oggetto è pertanto riconducibile a una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; ciò che evoca per costante giurisprudenza un sindacato particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio (sentenza n. 120 del 2020).

8.- Nella questione che questa Corte si è autorimessa, tuttavia, viene direttamente in rilievo il contrasto della norma censurata con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 31 e 53 Cost. e solo indirettamente il tema dell’estensione di un’agevolazione a soggetti esclusi.

In altri termini, nonostante una eadem ratio sia comunque identificabile nelle varie situazioni in comparazione – perché se la logica dell’esenzione dall’IMU è quella di riferire il beneficio fiscale all’abitazione in cui il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la dimora abituale, dovrebbe risultare irrilevante, al realizzarsi di quella duplice condizione, il suo essere coniugato, separato o divorziato, componente di una unione civile, convivente o singolo -, la questione non è direttamente rivolta a estendere l’esenzione, quanto piuttosto a rimuovere degli elementi di contrasto con i suddetti principi costituzionali quando tali status in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio.

9.- In un contesto come quello attuale, infatti, caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale.

In tal caso, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e – si noti bene – la dimora abituale in un determinato immobile (cioè un dato facilmente accertabile, come si preciserà di seguito, attraverso i dovuti controlli) determina una evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore.

Non vi è ragionevole motivo per discriminare tali situazioni: non può, infatti, essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 28 gennaio 2021, n. 1785). Né a tale possibilità si oppongono le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, della L. 20 maggio 2016, n. 76, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”).

Inoltre, il secondo comma dell’art. 45 cod. civ., contemplando l’ipotesi di residenze disgiunte, conferma la possibilità per i genitori di avere una propria residenza personale.

Nella norma censurata, invece, attraverso il riferimento al nucleo familiare, tale ipotesi finisce per determinare il venir meno del beneficio, deteriorando così, in senso discriminatorio, la logica che consente al singolo o ai conviventi di fatto di godere pro capite delle esenzioni per i rispettivi immobili dove si realizza il requisito della dimora e della residenza abituale.

D’altra parte, a difesa della struttura della norma censurata nemmeno può essere invocata una giustificazione in termini antielusivi, motivata sul rischio che le cosiddette seconde case vengano iscritte come abitazioni principali.

In disparte che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, va precisato che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 10, lettera c), punto 2, del D.Lgs. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale.

In conclusione, la norma censurata, disciplinando situazioni omogenee “in modo ingiustificatamente diverso” (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2020), si dimostra quindi in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale.

10.- Altresì fondata è la censura riferita all’art. 31 Cost.

Va premesso che, come hanno rilevato numerosi studi dottrinali, il sistema fiscale italiano si dimostra avaro nel sostegno alle famiglie. E ciò nonostante la generosità con cui la Costituzione italiana ne riconosce il valore, come leva in grado di accompagnare lo sviluppo sociale, economico e civile, dedicando ben tre disposizioni a tutela della famiglia, con un’attenzione che raramente si ritrova in altri ordinamenti.

In tale contesto l’art. 31 Cost., statuisce: “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.

In questo modo tale norma suggerisce ma non impone trattamenti, anche fiscali, a favore della famiglia; li giustifica, quindi, ove introdotti dal legislatore; senz’altro si oppone, in ogni caso, a quelli che si risolvono in una penalizzazione della famiglia.

Di qui la violazione anche dell’art. 31 Cost. da parte della norma censurata in quanto ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che, come si è visto, ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione IMU (o alla doppia esenzione) solo in caso di “frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi” e conseguente “disgregazione del nucleo familiare”.

11.- Fondata, infine, è anche la censura relativa all’art. 53 Cost.

Avendo come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili, l’IMU riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito.

Appare pertanto con ciò coerente il fatto che nella sua articolazione normativa rilevino elementi come la natura, la destinazione o lo stato dell’immobile, ma non le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente.

Ciò salvo, in via di eccezione, una ragionevole giustificazione, che nel caso però non sussiste: qualora, infatti, l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti, viene ovviamente meno la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare, ovvero la convivenza in un unico immobile, fattispecie che per tabulas nel caso in considerazione non si verifica.

Sotto tale profilo, le ragioni che spingono ad accogliere la censura formulata in relazione all’art. 53 Cost. rafforzano l’illegittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 3 Cost.; infatti “ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione” (sentenza n. 10 del 2015).

12.- Conclusivamente deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale del quarto periodo del comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dalla L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

13.- L’illegittimità costituzionale del censurato quarto periodo del comma 2 dell’art. 13, nei termini descritti, determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.

13.1.- Innanzitutto comporta l’illegittimità costituzionale consequenziale del quinto periodo del medesimo comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, che stabilisce: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disposizione, infatti, risulta incompatibile con la ratio della decisione di questa Corte sul quarto periodo del medesimo comma 2, poiché lascerebbe in essere le descritte violazioni costituzionali all’interno dello stesso comune, dove, in caso di residenze e dimore abituali disgiunte, una coppia di fatto godrebbe di un doppio beneficio, che risulterebbe invece precluso, senza apprezzabile motivo, a quella unita in matrimonio o unione civile.

È ben vero che la necessità di residenza disgiunta all’interno del medesimo comune rappresenta una ipotesi del tutto eccezionale (e che come tale dovrà essere oggetto di accurati e specifici controlli da parte delle amministrazioni comunali), ma, da un lato, date sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori; dall’altro, mantenere in vita la norma determinerebbe un accesso al beneficio del tutto casuale, in ipotesi favorendo i nuclei familiari che magari per poche decine di metri hanno stabilito una residenza al di fuori del confine comunale e discriminando quelli che invece l’hanno stabilita all’interno dello stesso.

13.2.- L’illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata anche con riguardo alla lettera b) del comma 741, dell’art. 1 della L. n. 160 del 2019, dove, in relazione alla cosiddetta “nuova IMU”, è stato identicamente ribadito che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Con riferimento al primo periodo di tale disposizione la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Con riferimento al secondo periodo essa investe, invece, l’intera disposizione.

13.3.- Deve, infine, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale anche dell’ultima formulazione del medesimo comma 741, lettera b), secondo periodo, all’esito delle modifiche apportate con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. n. 146 del 2021, come convertito, che dispone: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

Rispetto a tale disciplina risultano replicabili le motivazioni, sopra esposte, che hanno condotto all’accoglimento delle questioni che questa Corte si è autorimessa.

Infatti, consentendo alla scelta dei contribuenti l’individuazione dell’unico immobile da esentare, la novella disancora, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica.

14.- Da ultimo questa Corte, ritiene opportuno chiarire che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale ora pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli artt. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione IMU con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta.

Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci.

15.- L’accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale del successivo quinto periodo del medesimo comma, determinano l’inammissibilità per sopravvenuta carenza di oggetto delle questioni sollevate con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 3 del 2022 dalla CTP di Napoli (ex multis, ordinanze n. 102 del 2022, n. 206 e n. 93 del 2021, n. 125 e n. 105 del 2020, n. 71 del 2017).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), primo periodo, della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019;

5) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019, come successivamente modificato dall’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215;

6) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 settembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 13 ottobre 2022.


Corte cost., Sent., (ud. 19-03-2019) 09-04-2019, n. 75

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, inserito dall’art. 45-bis, comma 2, lettera b), del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114, promosso dalla Corte di appello di Milano, nel procedimento vertente tra la Società agricola “In Carrobbio” e il B.B. spa, con ordinanza del 16 ottobre 2017, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione del B.B. spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 marzo 2019 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
udito l’avvocato Cristina Biglia per il B.B. spa e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Nel corso di un giudizio civile di secondo grado – nel quale la società appellata aveva preliminarmente eccepito l’inammissibilità del gravame in quanto notificato a mezzo posta elettronica certificata (PEC), l’ultimo giorno utile, con messaggio inviatole alle ore 21:04 (con ricevute di accettazione e di consegna generate, rispettivamente, alle ore 21:05:29 e alle ore 21:05:32), in fascia oraria quindi (successiva alle ore 21) implicante il perfezionamento della notificazione “alle ore 7 del giorno successivo” (data in cui l’impugnazione risultava, appunto, tardiva) – l’adita Corte di appello di Milano, sezione prima civile, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, inserito dall’art. 45-bis, comma 2, lettera b), del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114, a norma del quale “la disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile si applichi anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”.
Secondo la rimettente, la disposizione denunciata – della quale non sarebbe, a suo avviso, possibile (senza implicarne la sostanziale abrogazione) una interpretazione costituzionalmente adeguata – violerebbe, appunto, l’art. 3 Cost., sotto il profilo, sia del principio di eguaglianza, sia di quello della ragionevolezza, poiché la prevista equiparazione del “domicilio fisico” al “domicilio digitale” comporterebbe l’ingiustificato eguale trattamento di situazioni differenti – le notifiche “cartacee” e quelle “telematiche” – considerato anche che, per queste ultime, in linea di principio, non verrebbe in rilievo (come per le prime) l’esigenza di evitare “”utilizzi lesivi” del diritto costituzionalmente garantito all’inviolabilità del domicilio” o dell’”interesse al riposo e alla tranquillità”.
La disposizione stessa si porrebbe, altresì, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., in quanto, nel caso di notifica effettuata a mezzo PEC, la previsione di un limite irragionevole alle notifiche, l’ultimo giorno utile per proporre appello, comporterebbe una grave limitazione del diritto di difesa del notificante giacché, “trovandosi a notificare l’ultimo giorno utile (ex art. 325 cod. proc. civ.) è costretto a farlo entro i limiti di cui all’art. 147 c.p.c., senza poter sfruttare appieno il termine giornaliero (lo stesso art. 135 recte: 155 c.p.c. fa riferimento a “giorni”) che dovrebbe essergli riconosciuto per intero”.
2.- In questo giudizio si è costituita, ed ha poi anche depositato memoria integrativa, la società che resiste all’appello nel giudizio a quo.
Detta società ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione, sia per “genericità ed indeterminatezza del petitum” (non essendone specificato il verso caducatorio o manipolativo), sia per erroneità del presupposto interpretativo (avrebbe errato la Corte rimettente “nel ritenere rilevante il principio di scissione soggettiva degli effetti della notifica via p.e.c., venendo invece in rilievo, per l’applicazione dell’art. 16-septies, il diverso principio del perfezionamento del procedimento notificatorio”).
In subordine, ha contestato, nel merito, la fondatezza della questione, sostenendo, tra l’altro, che l’interesse tutelato dalla norma sia quello del destinatario e non quello del mittente, per cui, ove si ritenesse perfezionata una notifica “eseguita” dopo le ore 21, l’interesse di quest’ultimo non sarebbe “meritevole di tutela”, giacché è il mittente “in prima persona responsabile della violazione dell’orario franco”, avendo “creato il presupposto tale per cui la notifica slitti necessariamente al giorno seguente”.
3.- È pure intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per la non fondatezza della sollevata questione.
Secondo l’Avvocatura, la norma denunciata potrebbe essere, infatti diversamente interpretata, senza che se ne ponga un problema di “sostanziale abrogazione”, non essendovi neppure ostacolo nella sua formulazione letterale. Essa, infatti, non indicherebbe il soggetto rispetto al quale la notificazione “si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”, così consentendo una lettura coerente con il principio della scissione del momento perfezionativo, che anche per le notifiche telematiche è stato previsto dall’art. 3-bis, comma 3, della L. 21 gennaio 1994, n. 53 (Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali), essendo quindi possibile ritenere che “gli effetti del differimento al giorno dopo operino per il destinatario, ma non per il notificante”. E da ciò, dunque, l’inammissibilità della questione “per non essere stata tentata una interpretazione della normativa costituzionalmente orientata”, ovvero la sua non fondatezza alla luce di una tale esegesi costituzionalmente adeguata.
Motivi della decisione
1.- Con l’ordinanza di cui si è detto nel Ritenuto in fatto, la Corte di appello di Milano, sezione prima civile – al fine del decidere sulla eccezione di tardività di un gravame innanzi a sé proposto con atto notificato per via telematica dopo le ore 21 ed entro le ore 24 dell’ultimo giorno utile (con ricevute di accettazione e di consegna generate, rispettivamente, alle ore 21:05:29 e alle ore 21:05:32) – ha ritenuto, di conseguenza, rilevante ed ha perciò sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, inserito dall’art. 45-bis, comma 2, lettera b), del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114, il quale prevede che “la disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile secondo cui “Le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21″ si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”.
Secondo la rimettente, la disposizione denunciata irragionevolmente considererebbe “uguali e, quindi, meritevoli di essere disciplinate allo stesso modo” due situazioni diverse, quali il domicilio “fisico” e il domicilio “digitale”.
E ciò nonostante che, “per le sue intrinseche caratteristiche, l’indirizzo email cui l’avvocato della parte appellata riceve la posta elettronica certificata non sia suscettibile degli stessi “utilizzi lesivi” del diritto costituzionalmente garantito all’inviolabilità del domicilio o all’interesse al riposo e alla tranquillità, di cui è invece suscettibile il domicilio “fisico” della parte”.
Per di più senza considerare che “quand’anche si ammettesse che colui che riceve una posta elettronica venga leso nel suo diritto al riposo, la semplice estensione del limite d’orario previsto dall’art. 147 c.p.c. alle notifiche a mezzo PEC non bloccherebbe l’inevitabile ricezione dell’email da parte del destinatario con il disturbo che ne consegue”, poiché “la PEC, una volta giunta al server dell’appellato, non può essere rifiutata e, quindi, la ricezione dell’email può effettivamente avvenire in ogni momento, ad ogni ora del giorno e della notte, con il sostanziale raggiungimento del domicilio digitale del destinatario anche oltre il formale limite codicistico”, non sussistendo un esplicito divieto normativo di notifica a mezzo PEC dopo le ore 21 e prima delle ore 7.
Dal che, appunto, la violazione del principio di uguaglianza e del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.
Del pari violati, dalla disposizione in esame, sarebbero gli artt. 24 e 111 Cost., per il vulnus, che ne deriverebbe, al diritto di difesa del notificante. Il quale, “infatti, trovandosi a notificare l’ultimo giorno utile (ex art. 325 c.p.c.) è costretto a farlo entro i limiti di cui all’art. 147 c.p.c., senza poter sfruttare appieno il termine giornaliero (lo stesso art. 135 recte: 155 c.p.c. fa riferimento a “giorni”) che dovrebbe essergli riconosciuto per intero”.
2.- È preliminare l’esame delle eccezioni di inammissibilità della questione – a) per “genericità e indeterminatezza del petitum”; b) per suo “erroneo presupposto interpretativo”; c) “per non essere stata tentata una interpretazione della normativa costituzionalmente orientata” − formulate, rispettivamente, le prime due, dalla parte costituita e, la terza, dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.- Nessuna di tali eccezioni è suscettibile di accoglimento.
Ed invero:
a) letta nella sua interezza, e secondo l’argomentata prospettazione del Collegio a quo, l’ordinanza di rimessione auspica – in modo chiaro ed univoco – una decisione, a rima obbligata, che riconosca al mittente che proceda alla notifica con modalità telematiche l’ultimo giorno utile, “per intero il termine a sua disposizione, fino alla mezzanotte del giorno stesso”;
b) l’asserita erroneità del presupposto interpretativo attiene propriamente al merito e resta quindi estraneo al profilo della ammissibilità della questione;
c) la Corte milanese non ha omesso di verificare la possibilità di una interpretazione adeguatrice (nel senso della scissione soggettiva degli effetti della notificazione), ma l’ha poi ritenuta impraticabile per l’ostacolo, a suo avviso non superabile, ravvisato nella lettera della legge. E ciò anche alla luce della interpretazione del citato art. 16-septies accolta dal giudice della nomofilachia, e consolidatasi in termini di diritto vivente, nel senso che la notifica con modalità telematiche richiesta con il rilascio della ricevuta di accettazione dopo le ore 21 si perfeziona alle ore 7 del giorno successivo, “secondo la chiara disposizione normativa, intesa a tutelare il diritto di difesa del destinatario della notifica senza condizionare irragionevolmente quello del mittente” (così Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 31 luglio 2018, n. 20198; nello stesso senso, ex multis, sezione sesta civile – sottosezione L, ordinanza 9 gennaio 2019, n. 393; sezione lavoro, sentenza 30 agosto 2018, n. 21445; sezione terza civile, sentenza 21 settembre 2017, n. 21915; sezione lavoro, sentenza 4 maggio 2016, n. 8886). E, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo – se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una diversa esegesi del dato normativo, essendo la “vivenza” di una norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali – ha alternativamente, comunque, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenze n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017, n. 200 del 2016 e n. 11 del 2015).
3.- Nel merito la questione è fondata.
Il divieto di notifica per via telematica oltre le ore 21 risulta, infatti, introdotto (attraverso il richiamo dell’art. 147 cod. proc. civ.), nella prima parte del censurato art. 16-septies del D.L. n. 179 del 2012, allo scopo di tutelare il destinatario, per salvaguardarne, cioè, il diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) in cui egli sarebbe stato, altrimenti, costretto a continuare a controllare la propria casella di posta elettronica.
Ciò appunto giustifica la fictio iuris, contenuta nella seconda parte della norma in esame, per cui il perfezionamento della notifica – effettuabile dal mittente fino alle ore 24 (senza che il sistema telematico possa rifiutarne l’accettazione e la consegna) – è differito, per il destinatario, alle ore 7 del giorno successivo. Ma non anche giustifica la corrispondente limitazione nel tempo degli effetti giuridici della notifica nei riguardi del mittente, al quale – senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta – viene invece impedito di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa: termine che l’art. 155 cod. proc. civ. computa “a giorni” e che, nel caso di impugnazione, scade, appunto, allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno (in questa prospettiva, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 31 agosto 2015, n. 17313; sezione lavoro, ordinanza 30 agosto 2017, n. 20590).
La norma denunciata è, per di più, intrinsecamente irrazionale, là dove viene ad inibire il presupposto che ne conforma indefettibilmente l’applicazione, ossia il sistema tecnologico telematico, che si caratterizza per la sua diversità dal sistema tradizionale di notificazione, posto che quest’ultimo si basa su un meccanismo comunque legato “all’apertura degli uffici”, da cui prescinde del tutto invece la notificazione con modalità telematica.
Una differenza, questa, che del resto lo stesso legislatore ha chiaramente colto in modo significativo nel confinante ambito della disciplina del deposito telematico degli atti processuali di parte, là dove, proprio in riferimento alla tempestività del termine di deposito telematico, il comma 7 dell’art. 16-bis del D.L. n. 179 del 2012, inserito dall’art. 51 del D.L. n. 90 del 2014, ha previsto che il “deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza e si applicano le disposizioni di cui all’articolo 155, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile”.
Anche in tale prospettiva trova dunque conferma l’irragionevole vulnus che l’art. 16-septies, nella portata ad esso ascritta dal “diritto vivente”, reca al pieno esercizio del diritto di difesa – segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare, che è contenuto indefettibile di una tutela giurisdizionale effettiva -, venendo a recidere quell’affidamento che il notificante ripone nelle potenzialità tutte del sistema tecnologico (che lo stesso legislatore ha ingenerato immettendo tale sistema nel circuito del processo), il dispiegamento delle quali, secondo l’intrinseco modus operandi del sistema medesimo, avrebbe invece consentito di tutelare, senza pregiudizio del destinatario della notificazione.
3.1.- L’applicazione della regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione (sentenze n. 106 del 2011, n. 3 del 2010, n. 318 e n. 225 del 2009, n. 107 e n. 24 del 2004, n. 477 del 2002; ordinanze n. 154 del 2005, n. 132 e n. 97 del 2004) anche alla notifica effettuata con modalità telematiche – regola, del resto, recepita espressamente dall’art. 3-bis, comma 3, della L. 21 gennaio 1994, n. 53 (Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali) − consente la reductio ad legitimitatem della norma censurata.
L’art. 16-septies del D.L. n. 179 del 2012 va pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16-septies del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, inserito dall’art. 45-bis, comma 2, lettera b), del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114, nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 9 aprile 2019.


Corte cost., Ord., (ud. 04-12-2019) 03-01-2020, n. 2

LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo comma, secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), dell’art. 14 della L. 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), e dell’art. 1, comma 161, della L. 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 97, 111 e 11 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria regionale della Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Testo della sentenza: Corte cost., Ord., (ud. 04-12-2019) 03-01-2020, n. 2


Corte Costituzionale, 23 luglio 2018, n. 175

Fatto

1.- Con ordinanza del 22 novembre 2016 (reg. ord. n. 59 del 2017), la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dall’art. 12 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) e dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), in riferimento agli artt. 3, primo comma; 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, «nella parte in cui abilita il Concessionario della Riscossione alla notificazione diretta, senza intermediario, mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, della cartella di pagamento» nonché «nella parte in cui non prevede che la notifica di cartella di pagamento tramite il servizio postale avvenga con l’osservanza dell’art. 7 legge n. 890/82, così come modificato con la legge n. 31 del 2008 di conversione del decreto-legge n. 248/2007».

….

Leggi: Corte Costituzionale, 23 luglio 2018, n. 175


Corte Costituzionale sentenza n. 150-2015 Retribuzione festività

Presidente CARTABIA – Redattore SCIARRA

Udienza Pubblica del 26/05/2015       Decisione del 26/05/2015

Deposito del 14/07/2015 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 1, c. 224, della legge 23/12/2005, n. 266.

Massime:

Atti decisi:

ord. 64/2014

SENTENZA N. 150

ANNO 2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra E. ed altri e il Ministero della giustizia con ordinanza del 20 gennaio 2014, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di P. E. ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 maggio 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi l’avvocato Ferdinando Emilio Abbate per P. E. ed altri e l’avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. .– Con ordinanza, depositata il 20 gennaio 2014, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), per violazione dell’art.117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
    1. .– La Corte rimettente premette che, con sentenza depositata il 16 dicembre 2009, la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Viterbo, aveva accolto le opposizioni proposte dal Ministero della giustizia avverso i decreti ingiuntivi emessi in favore di alcuni dipendenti dello stesso Ministero, ritenendone infondata la pretesa diretta ad ottenere il compenso previsto dall’art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), relativo alle festività coincidenti con la domenica. La Corte di cassazione precisa che la Corte d’appello aveva escluso il riconoscimento del compenso di cui al citato art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ed aveva riformato la sentenza di primo grado, sulla base del rilievo che l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, norma di natura interpretativa o comunque dotata di efficacia retroattiva, aveva elencato il suddetto art. 5 fra le disposizioni inapplicabili al lavoro pubblico ai sensi dell’art. 69, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), una volta stipulati i contratti collettivi nazionali di lavoro per il quadriennio 1998-2001.«salva l’esecuzione dei giudicati», formatisi fino alla data dell’entrata in vigore della medesima norma, violasse il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, influisse sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (art. 117, primo comma, Cost. e art. 6 della CEDU), ledesse l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
    2. La Corte rimettente precisa, pertanto, di essere stata adita con ricorso proposto dai dipendenti del Ministero avverso la sentenza d’appello e ricorda che, fra l’altro, i ricorrenti avevano chiesto anche di sollevare questione di legittimità costituzionale del comma 224 dell’art. 1 in esame, ritenendo che la retroattività della citata norma, che si applica a fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore,
    3. .– Ciò premesso, la Corte di cassazione, in linea preliminare, ritiene non sia possibile adottare un’interpretazione della disposizione censurata, che fa espressamente «salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (art. 1, comma 224, ultimo periodo), conforme alla CEDU. Né ritiene di poter accogliere la tesi della disapplicazione da parte del giudice comune di norme contrastanti con l’art. 6 della CEDU (ma anche con gli artt. 47, secondo comma, e 52, terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), alla luce della costante giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Pertanto, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui, applicandosi anche ai processi pendenti, sarebbe intervenuto a determinare la modifica dell’esito di un giudizio in corso – nel quale si era riconosciuto il diritto dei dipendenti pubblici ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica – a favore dell’amministrazione statale, parte in giudizio. E ciò senza che sussistessero gli “impellenti motivi di interesse generale” prescritti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento all’art. 6 della CEDU, per giustificare la deroga al principio di irretroattività della legge. Non sarebbero, infatti, riconducibili ai predetti motivi né le finalità di “razionalizzare” ed “omogeneizzare” il trattamento dei pubblici impiegati indicate dal Ministero, né le generiche esigenze di compressione della spesa pubblica connesse all’equilibrio del bilancio dello Stato.Il Collegio rimettente ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale ha già avuto occasione più volte di ravvisare una coincidenza di impostazione fra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e la propria giurisprudenza (in specie, sentenza n. 264 del 2012) in ordine al divieto di retroattività della legge, secondo la quale il legislatore può emanare disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
    4. Detta norma, pertanto, risulterebbe lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha, infatti, ripetutamente affermato che, nonostante non sia precluso al legislatore intervenire, mediante nuove disposizioni retroattive, a disciplinare diritti derivanti da leggi in vigore, i principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU impediscono, tranne che per motivi di interesse generale non riconducibili a mere esigenze finanziarie, l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia azionata contro lo Stato.
    5. .– E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o che venga dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.Essa non contrasterebbe con l’art. 117, primo comma, Cost., in primo luogo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo non avrebbe affermato il principio del divieto assoluto di leggi retroattive, ma avrebbe ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad un’imperfezione tecnica della legge interpretata, avesse inteso, con legge retroattiva, ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore stesso. Alla luce di tutto ciò, la difesa statale ritiene che la norma censurata abbia un’indubbia natura di norma di interpretazione autentica dell’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001. Essa, infatti, tenderebbe a risolvere dubbi interpretativi sull’ambito di efficacia della predetta norma a seguito della stipulazione della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La specificazione di tale ambito di efficacia risponderebbe a precise esigenze di razionalizzazione e perequazione del sistema retributivo dei dipendenti pubblici, anche alla luce della ritenuta ragionevolezza della norma in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 2008.
    6. Nella specie, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la norma di cui all’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, pur avendo efficacia retroattiva, non sia innovativa e sia rivolta a chiarire il significato di una legge precedente, ovvero ad esplicitare uno dei significati, tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate.
    7. .– Si sono costituite in giudizio le parti private del giudizio principale, chiedendo che venga dichiarata la manifesta infondatezza della questione sollevata in quanto una lettura adeguatrice e costituzionalmente orientata della norma censurata consentirebbe di escluderne la natura retroattiva. Ove intesa in tal modo, la predetta norma sarebbe, infatti, applicabile ai soli giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore e non, quindi, al giudizio principale.L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 sarebbe in contrasto con i principi di parità delle armi, di certezza del diritto, nonché più in generale del diritto ad un giusto ed equo processo, sanciti dall’art. 6 della CEDU, principi che fanno parte anche dell’ordinamento giuridico europeo, per effetto del loro recepimento da parte del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
    8. Tale contrasto sussisterebbe per le seguenti ragioni: la disposizione censurata sarebbe inserita nel testo di una legge, la legge finanziaria per il 2006, destinata a tutt’altri fini; essa è intervenuta a distanza di cinque anni dal d.lgs. n. 165 del 2001 ed oltre quarantacinque anni dopo la legge n. 260 del 1949, quando sulla predetta legislazione si era formato un diritto vivente che, derivato dall’orientamento univoco della Corte di cassazione, riconosceva pacificamente ai lavoratori pubblici le pretese negate dalla norma in esame; essa risulterebbe solo formalmente interpretativa, essendo nella sostanza innovativa, in quanto il tenore letterale delle norme interpretate (d.lgs. n. 165 del 2001 e legge n. 260 del 1949) non comprenderebbe, fra le possibili combinate letture, l’interpretazione in parte qua fornita dal legislatore; infine, essa andrebbe a regolare fattispecie in cui lo Stato italiano è direttamente parte in causa.
    9. In via subordinata, le predette parti chiedono che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma oggetto di censura per violazione dell’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
  2. .– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio ed il Presidente del Consiglio dei ministri hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
  3. Considerato in diritto
  1. .– La Corte di cassazione, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), là dove prevede che «[t]ra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l’articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall’articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. E’ fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».In particolare, la norma sarebbe intervenuta nel corso di un giudizio, al fine di determinare la modifica dell’esito dello stesso in favore dello Stato, parte del medesimo giudizio, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, non potendosi configurare come tali né le finalità di “omogeneizzare” e “razionalizzare” il trattamento nel pubblico impiego, né le generiche esigenze finanziarie richiamate.
  2. Tale norma è censurata per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa, infatti, nella parte in cui stabilisce che l’art. 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), deve intendersi nel senso di escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, escludendo quindi il riconoscimento del diritto dei predetti ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica, anche con riguardo ai giudizi pendenti, conterrebbe una norma retroattiva, lesiva dei principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU.
  3. .– La questione non è fondata nei termini di seguito precisati.
    1. .– Preliminarmente occorre riconoscere la fondatezza dell’assunto del rimettente secondo cui non è possibile una interpretazione della norma censurata che ne escluda la portata retroattiva e dunque l’applicabilità ai giudizi in corso, ivi compreso il giudizio principale. Il tenore letterale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 che, nel delimitare la propria sfera di
    2. applicazione, espressamente fa salva solo «l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (secondo periodo), impedisce di assegnare a detta norma un significato diverso da quello sospettato di illegittimità, non consentendo di attribuirle effetti solo pro futuro, poiché risulta ictu oculi il suo carattere retroattivo e la sua incidenza sul giudizio in corso. Questa Corte ha più volte affermato che l’onere dell’interpretazione conforme grava sul giudice «entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme» (sentenza n. 349 del 2007). Qualora ciò non sia possibile, ove cioè la verifica della praticabilità di una interpretazione della norma interna in senso conforme alla CEDU, realizzata dal giudice comune avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, dia esito negativo, questi non può far altro che sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009,). Questa soluzione si collega all’impossibilità di disapplicare la norma ritenuta in contrasto con la norma convenzionale, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, sentenze n. 80 del 2011 e n. 349 del 2007).
    3. .– Il suddetto contrasto con la norma convenzionale e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., tuttavia, non sussiste per i motivi che si precisano di seguito. Quest’ultima, nel dettare norme transitorie volte ad assicurare la graduale attuazione della riforma del lavoro pubblico, prescrive che, «[s]alvo che per le materie di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all’articolo 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001».Il d.lgs. n. 165 del 2001, seguito alla cosiddetta “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha confermato l’impianto della riforma del 1993, diretta a «valorizzare la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione, la cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, tendenzialmente demandato allo strumento della contrattazione collettiva» (sentenza n. 313 del 1996; sentenza n. 88 del 1996), in linea con la configurazione della contrattazione collettiva come strumento di partecipazione. Questa Corte ha già avuto modo di desumere dalle indicate disposizioni che il legislatore «ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem» (sentenza n. 146 del 2008) al fine di realizzare, ad un tempo, l’obiettivo della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica.Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima non si rivela irragionevole, né si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009). Nella specie, l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, all’indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell’intero d.lgs. n. 165 del 2001. Tale è da intendersi la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, principio cui era informata la norma interpretata (l’art. 69 del citato d.lgs. n. 165 del 2001), nella parte in cui disponeva, in via generale, l’inapplicabilità «delle norme generali e speciali del pubblico impiego», a seguito appunto della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997. La norma in questione ha chiarito – risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 marzo 1981, n. 1803; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2011, n. 258; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 luglio 2006, n. 15331) – che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo. Esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le «norme generali […] del pubblico impiego», di cui l’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l’inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146 del 2008). Per questi motivi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza di rimessione riportata in epigrafe.
    4. LA CORTE COSTITUZIONALE
    5. Alla luce di quanto detto, l’intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza «che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento» (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell’affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall’inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l’esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010).
    6. Questa Corte ha più volte affermato che, posto che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale, (fra le altre, sentenze n. 156 del 2014, n. 78 del 2012, n. 257 del 2011), deve riconoscersi come «al legislatore non sia […] precluso di emanare […] norme retroattive (sia innovative che di interpretazione autentica), “purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU” (sentenza n. 264 del 2012)» (sentenza n. 156 del 2014; così anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15 del 2012). Questa Corte ha ritenuto che ciò accade allorquando una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore (sentenza n. 311 del 2009; così anche Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri contro Regno Unito), nonché di riaffermare l’intento originale del Parlamento (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia) a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini.
    7. L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’annoverare tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in base al quale è riconosciuto il diritto ad una ulteriore retribuzione nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, si pone in armonia con l’obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem. Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, scrutinando la medesima norma, pur sotto altro profilo, si deve anche evidenziare la finalità del contenimento e della razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego, finalità «che è imposta dall’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 […], e ribadita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001» (sentenza n. 146 del 2008).
    8. In questa prospettiva l’art. 2 del predetto d.l.lgs. n. 165 del 2001, nell’individuare le fonti di disciplina del lavoro pubblico, ha assegnato alla legge il compito di regolare, quanto meno nei principi, l’organizzazione degli uffici, demandando viceversa alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti. In particolare, al comma 2, ha statuito che «[i] rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto». Fra di esse c’è il comma 3 nel quale ha disposto che «[l]’attribuzione dei trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti […] collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali» e che «[l]e disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale».
    9. Il citato art. 69 si inserisce nel quadro della riforma del lavoro pubblico, introdotta con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ed ispirata, come già riconosciuto da questa Corte, «alle finalità di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea”, di “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica”, di “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” (v. art. 1)» (sentenza n. 359 del 1993). Tale riforma «ha profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l’intera materia intorno ai nuovi principi della “privatizzazione” e della “contrattualizzazione” enunciati nell’art. 2, primo comma, lett. a), della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n. 29 del 1993, mediante l’inquadramento dei rapporti d’impiego pubblico nella cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e individuale» (sentenza n. 359 del 1993).
    10. L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui dispone che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, come successivamente modificato, è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.l.gs. n. 165 del 2001, interviene sul contenuto di tale norma.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente Silvana SCIARRA, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2015. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI


Corte cost., Sent., (ud. 23-10-2012) 22-11-2012, n. 258

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Alfonso QUARANTA Presidente

– Franco GALLO Giudice

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Sergio MATTARELLA “

– Mario Rosario MORELLI “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promosso dal giudice del lavoro del Tribunale di Padova nel giudizio civile vertente tra la s.c. a r.l. Cooperativa Quadrifoglio, l’INPS, la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI) e la s.p.a. Equitalia Polis, con ordinanza del 26 luglio 2010, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione dell’INPS e della s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato Antonino Sgroi per l’INPS e per la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI), l’avvocato Marcello Cecchetti per la s.p.a. Equitalia Nord (successore della s.p.a. Equitalia Polis), nonché l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.

1.- Nel corso di un giudizio di opposizione contro il ruolo sotteso ad una cartella di pagamento relativa a debiti previdenziali promosso da una società cooperativa a responsabilità limitata nei confronti dell’INPS e della s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (hinc s.p.a. SCCI), ai sensi dell’art. 24, comma 5, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), il giudice del lavoro del Tribunale di Padova, con ordinanza del 26 luglio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)»], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui, individuando per i «casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile» il momento di perfezionamento della notificazione della cartella di pagamento «nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune», rende applicabili alla notificazione di detta cartella le modalità di notificazione mediante deposito nella casa comunale ed affissione del relativo avviso nell’albo comunale non solo nell’ipotesi in cui nel Comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario, ma anche nell’ipotesi in cui sia noto il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario.

1.1.- Il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la cartella di pagamento era stata notificata alla società cooperativa ai sensi delle disposizioni denunciate, come espressamente affermato dall’agente della riscossione, non costituito nel giudizio principale; b) l’agente notificatore, «dopo aver constatato la temporanea assenza del destinatario» presso l’indirizzo, «noto ed effettivo», della sede legale della società, aveva depositato la cartella nella casa comunale di Chioggia ed aveva affisso nell’albo comunale, dal 13 agosto al 14 agosto 2009, l’avviso di deposito; c) detto agente aveva spedito alla medesima società una lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito (come da avviso postale di spedizione prodotto in giudizio); d) non era stata fornita in giudizio la prova del «momento di ricevimento» di tale lettera; e) l’opposizione alla cartella di pagamento era stata proposta dalla società con ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale di Padova il 25 settembre 2009, cioè oltre 40 giorni dopo il 14 agosto 2009.

1.2.- Lo stesso giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) in forza delle disposizioni denunciate, nel caso di irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del Comune e non nel momento di ricevimento della raccomandata prevista dall’art. 140 cod. proc. civ. e comunque non nel momento risultante dall’applicazione dei princípi indicati dalla Corte costituzionale – con specifico riferimento alla notificazione effettuata ai sensi di tale ultimo articolo – nella sentenza n. 3 del 2010; b) le medesime impugnate disposizioni escludono che il procedimento notificatorio della cartella si perfezioni in una data diversa da quella da esse stabilita e non prevedono, «a rigore», l’invio di una lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito; c) nella specie, pertanto, la notificazione si era perfezionata in data 14 agosto 2009 e, di conseguenza, l’opposizione alla cartella di pagamento è inammissibile, perché presentata il 25 settembre 2009, cioè dopo la scadenza del termine perentorio decadenziale di 40 giorni, decorrente dalla notificazione della cartella, stabilito dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 (sulla natura perentoria di tale termine vengono richiamate le pronunce della Corte di cassazione n. 11274 e n. 4506 del 2007; n. 21863 del 2004).

1.3.- Poste tali premesse, il giudice a quo afferma che le disposizioni denunciate contrastano con l’art. 3 Cost., sia perché irragionevoli in sé, sia perché introducono una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina della notificazione degli avvisi di accertamento.

L’irragionevolezza deriverebbe dal fatto che la notificazione mediante deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione del relativo avviso nell’albo comunale, benché originariamente prevista per l’ipotesi in cui v’è «impossibilità pratica di notificazione presso il domicilio fiscale» (data la mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, come precisato al primo comma, alinea e lettera e, dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973), si applica, in forza del richiamo contenuto nel denunciato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, anche alla ben diversa ipotesi in cui sussiste ancora la suddetta possibilità di notificazione (data la mancanza, l’incapacità od il rifiuto, al momento dell’accesso in loco del notificatore, di soggetti legittimati alla ricezione dell’atto).

L’ingiustificata disparità di trattamento, sempre ad avviso del rimettente, deriverebbe invece dal fatto che, con riguardo all’ipotesi di irreperibilità cosiddetta “relativa” del destinatario e degli altri soggetti legittimati alla ricezione, trovano irragionevolmente applicazione due diversi procedimenti notificatori, a seconda che la notificazione riguardi un atto di accertamento od una cartella di pagamento: a) con riferimento all’atto di accertamento, infatti, si applica la disciplina di cui all’art. 140 cod. proc. civ. (come «correttamente […] la giurisprudenza di legittimità ritiene»), con conseguente perfezionamento della notificazione al momento del ricevimento della lettera contenente l’avviso di deposito (nei sensi precisati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010), secondo un criterio di effettiva conoscibilità dell’atto (art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973); b) con riferimento alla cartella di pagamento, invece, si applica la disciplina censurata, secondo un criterio legale tipico di conoscenza. Il rimettente sottolinea che l’omogeneità di tali due situazioni (riguardanti entrambe rapporti «autoritativi, caratterizzati dalla soggezione all’unilaterale potere autoritativo dell’ente impositore») non giustifica la indicata difformità di disciplina e che le disposizioni censurate non garantiscono al destinatario l’effettiva conoscenza degli atti notificati, senza che a tale diminuita garanzia corrisponda un apprezzabile interesse dell’amministrazione finanziaria notificante a non subire eccessivi aggravi, posto che l’applicazione dell’art. 140 cod. proc. civ. anche alla notificazione della cartella di pagamento non provocherebbe alcun aggravio procedimentale rispetto alle modalità di notificazione degli atti di accertamento previste dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 (viene citata, al riguardo, la sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007).

Il giudice a quo afferma, inoltre, che le disposizioni denunciate violano anche l’art. 24 Cost., perché il debitore – nonostante sia noto il luogo della sua abitazione, ufficio od azienda – non è messo nelle condizioni, con le modalità di notificazione previste da dette disposizioni, di pervenire ad una tempestiva ed effettiva conoscenza della cartella di pagamento notificata e, pertanto, subisce una ingiustificata compressione del suo diritto di difesa (vengono citate le pronunce della Corte costituzionale n. 366 del 2007; n. 360 del 2003; n. 346 del 1998).

1.4.- In punto di rilevanza, infine, il Tribunale rimettente afferma che l’accoglimento della questione renderebbe inapplicabile alla notificazione della cartella di pagamento il denunciato primo comma, lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ., con conseguente esclusione della tardività dell’opposizione al ruolo, in quanto la fattispecie sarebbe disciplinata da tale ultimo articolo e quindi, in base ai «principi espressi dalla […] sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost.», dalla regola secondo cui la notificazione si perfeziona al momento del ricevimento della lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito. Il giudice a quo precisa che, poiché in giudizio è stata documentata solo la data di spedizione e non anche quella di ricevimento della lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale, non sarebbe stato adempiuto l’onere, gravante sull’ente previdenziale, di provare l’intervenuta decadenza dall’opposizione.

2.- Si sono costituite nel giudizio di legittimità costituzionale l’INPS e la s.p.a. SCCI, parti opposte nel giudizio principale, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della sollevata questione.

Quanto all’inammissibilità, viene osservato che, nel giudizio principale, l’agente della riscossione s.p.a Equitalia Polis, pur rimanendo contumace, aveva prodotto, su richiesta del giudice, la relata di notificazione della cartella opposta, dalla quale risultava che alla società cooperativa debitrice era stata inviata – tramite un’agenzia di recapito – una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. Ad avviso di tali parti, pertanto, l’agente della riscossione avrebbe potuto richiedere all’ufficio postale, in mancanza della ricevuta di ritorno, l’esito della spedizione ed il momento del recapito, con la conseguenza che le risposte a tale richiesta «avrebbero potuto essere risolutive della questione di merito, senza necessità alcuna di promuovere giudizio di legittimità costituzionale».

Quanto alla dedotta infondatezza, viene affermato che: a) il «quarto» [recte: terzo] comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, con l’espressione «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», opera un richiamo di tale articolo «limitato all’individuazione dell’ambito di efficacia della disposizione, ovverosia l’irreperibilità o il rifiuto a ricevere la copia»; b) nella specie, era stata data notizia al notificando del deposito nella casa comunale, «quale conclusione del procedimento di notificazione», mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, come previsto dall’art. 140 cod. proc. civ.; c) la fattispecie presa in esame nella sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007 era diversa, perché in quel caso la notificazione si era risolta in un mero deposito nella casa comunale, non seguito nemmeno dalla spedizione di un avviso con lettera raccomandata, tanto che le cartelle non erano di fatto pervenute a conoscenza della destinataria; d) non sussisteva la violazione degli evocati parametri costituzionali, perché «le concrete modalità di notificazione della cartella esattoriale a persona irreperibile garantiscono che lo stesso abbia conoscenza della notifica, essendo il concessionario onerato non solo del deposito presso la casa comunale, ma anche dell’invio di raccomandata con ricevuta di ritorno al debitore».

3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in via subordinata, manifestamente infondata.

L’inammissibilità è eccepita sotto tre profili: in primo luogo, perché il dubbio di illegittimità costituzionale viene riferito, nell’ordinanza di rimessione, al «comma 1» dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, mentre il perfezionamento della notificazione della cartella di pagamento è disciplinato dal successivo «comma 4» [recte: «terzo comma»] dello stesso articolo; in secondo luogo, perché il rimettente – richiamando talora gli artt. 17 e 19 del d.lgs. n. 46 del 1999 e talora l’art. 24 dello stesso decreto – non precisa la natura del credito posto in riscossione (in particolare, se di diritto pubblico o di diritto privato) e, quindi, non chiarisce se sussista o no una posizione di parità tra le parti; in terzo luogo, infine, perché la mancata produzione in giudizio della documentazione idonea a provare l’avvenuto ricevimento dell’avviso di deposito comporta l’inadempimento dell’onere probatorio gravante sull’ente previdenziale di dimostrare la tardività del ricorso e, quindi, rende «nulla la notifica della cartella e pertanto inoperante la tardività del ricorso», con conseguente irrilevanza della sollevata questione.

La manifesta infondatezza della questione è dedotta dall’Avvocatura generale sul rilievo che il regime previsto per il perfezionamento della notificazione dal denunciato art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 è espressione della discrezionalità del legislatore in materia.

4.- Con memoria depositata il 15 dicembre 2011, in prossimità della pubblica udienza del 10 gennaio 2012, l’INPS, «in proprio e quale mandatario» della s.p.a. SCCI, osserva che: a) alla s.p.a. Equitalia Polis (nel frattempo incorporata dalla s.p.a. Equitalia Sud), parte non costituita del giudizio principale, non risulta notificata – da parte della cancelleria del giudice a quo – l’ordinanza di rimessione; b) il giudice a quo ha impugnato sia l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia l’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973; c) lo stesso giudice rimettente non ha esercitato i poteri riconosciutigli dall’art. 421 cod. proc. civ. per acquisire ex officio l’avviso di ricevimento della lettera raccomandata informativa del deposito inviata alla s.c. a r.l. debitrice. Da tali osservazioni l’INPS fa derivare l’inammissibilità della questione perché, rispettivamente: a) il difetto di notificazione dell’ordinanza di rimessione alla parte rimasta contumace nel giudizio principale (la s.p.a. Equitalia Polis) comporta la mancanza di un essenziale adempimento della speciale procedura prevista dal quarto comma dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 (secondo cui il giudice deve ordinare la notificazione dell’ordinanza «alle parti in causa»), con lesione del diritto di tale parte di costituirsi tempestivamente e di esercitare il proprio diritto di difesa nel giudizio di legittimità costituzionale (art. 25 della medesima legge n. 87 del 1953), come affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (da ultimo, con la sentenza n. 13 del 2006); b) i due articoli impugnati regolano fattispecie diverse; c) la mancata acquisizione, da parte del giudice, mediante i suoi poteri istruttori, dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata informativa rende irrilevante la questione.

5.- All’esito della pubblica udienza, questa Corte, con ordinanza n. 47 del 2012, ha ordinato – richiamando come precedente l’ordinanza n. 81 del 1964 – la restituzione degli atti al rimettente affinché provvedesse alla notificazione dell’ordinanza di rimessione all’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Polis, rimasta contumace nel giudizio principale. Il giudice a quo, effettuata la suddetta notifica all’agente della riscossione in data 13 aprile 2012, ritrasmetteva gli atti a questa Corte per la decisione.

6.- A seguito della restituzione degli atti, il giudice rimettente ha provveduto in data 13 aprile 2012 a notificare all’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Polis (non costituita nel giudizio principale) o suoi successori l’ordinanza di rimessione.

7.- Ricevuti gli atti ritrasmessi dal giudice a quo, il Presidente della Corte ha fissato per la nuova discussione l’udienza pubblica del 23 ottobre 2012.

8.- In prossimità di tale udienza si è costituita in giudizio l’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord – in qualità di cessionaria, con decorrenza dal 23 giugno 2011, del ramo d’azienda relativo alla riscossione dei tributi della Provincia di Padova, in forza di atto intervenuto tra detta società e la cedente s.p.a. Equitalia Polis – chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile e infondata», perché, a suo avviso, è possibile pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione della normativa denunciata. In particolare, la parte sostiene che l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, per i casi di notificazione a destinatario relativamente irreperibile, rinvia non già esclusivamente alle modalità di notificazione previste dal comma 1, lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 per i casi di irreperibilità assoluta del destinatario, ma all’intero art. 60, consentendo cosí di applicare, appunto nell’ipotesi di irreperibilità relativa, il comma 1 di tale articolo e, quindi, attraverso il testuale rinvio alla disciplina di cui agli «artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile», l’art. 140 cod. proc. civ. In base a tale interpretazione (accolta, secondo l’agente della riscossione, «dalla giurisprudenza costante» e dalla quale «si sente vincolata»), si eviterebbe che la notificazione dell’avviso di accertamento avvenga con modalità diverse da quelle della cartella di pagamento; tanto piú che, nella specie, «l’avviso di deposito presso la casa comunale è stato oggetto di invio al destinatario della notifica mediante lettera raccomandata», con conseguente scissione del momento perfezionativo della notificazione per la notificante agente della riscossione e per il notificato, «alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 3 del 2010».

Motivi della decisione
1.- Il giudice del lavoro del Tribunale di Padova dubita – in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – della legittimità del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dall’art. 38, comma 4, lettera b, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)»], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui stabilisce che la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona nel giorno successivo a quello in cui l’avviso dell’avvenuto deposito di tale atto nella casa comunale è affisso nell’albo del Comune anche «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile» e non solo, quindi, nei casi in cui nel Comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario.

In particolare, le disposizioni impugnate stabiliscono, rispettivamente, che: 1) «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune» (terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973); 2) «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: […] e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione» (primo comma, alinea e lettera e, dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973).

Ad avviso del giudice rimettente, il censurato combinato disposto víola gli evocati parametri perché l’applicazione del suddetto procedimento notificatorio anche nell’ipotesi in cui la consegna della cartella di pagamento sia stata impedita dalla cosiddetta “irreperibilità relativa” del destinatario (cioè dalla sua temporanea assenza dal domicilio fiscale e dalla mancanza, incapacità o rifiuto di altri soggetti legittimati alla ricezione dell’atto): a) è irragionevole, in quanto rende applicabile una modalità di notificazione che presuppone la cosiddetta “irreperibilità assoluta” del destinatario (per essere ignoto il luogo in cui egli effettivamente abita, lavora od ha sede la sua azienda) ad una ipotesi in cui, invece, è noto il suo effettivo domicilio fiscale; b) crea una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’analoga ipotesi di notificazione di un atto di accertamento a soggetto solo “relativamente irreperibile”, nella quale la notificazione va effettuata, invece, con le modalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ., predisposte per consentire all’interessato l’effettiva conoscibilità dell’atto notificato; c) lede il diritto di difesa del destinatario, il quale non è posto nella condizione di avere conoscenza della cartella, senza che a ciò corrisponda un apprezzabile interesse del soggetto notificante.

2.- In via preliminare, l’Avvocatura generale dello Stato (per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri) e le parti costituite nel giudizio di legittimità costituzionale (l’INPS; la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS; l’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord) hanno eccepito l’inammissibilità della questione sotto vari profili.

2.1.- L’INPS eccepisce l’inammissibilità della questione assumendo che il difetto di notificazione dell’ordinanza di rimessione alla parte rimasta contumace nel giudizio principale (la s.p.a. Equitalia Polis) impedisce di ritenere perfezionata la speciale procedura di cui al quarto comma dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (in forza del quale il giudice deve ordinare la notificazione dell’ordinanza «alle parti in causa») ed evidenzia la lesione del diritto della parte di costituirsi e di esercitare il proprio diritto di difesa nel giudizio di legittimità costituzionale (art. 25 della medesima legge n. 87 del 1953).

L’eccezione non è fondata per le ragioni già esposte nell’ordinanza n. 47 del 2012 alle quali si fa qui integrale richiamo.

2.2.- La difesa dello Stato eccepisce, poi, che la questione è inammissibile perché il rimettente è incorso in una aberratio ictus, avendo indicato, quale disposizione censurata, il «comma 1» dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, relativo alle forme di notificazione della cartella di pagamento e rispetto al quale non sono pertinenti le prospettate censure, e non il successivo «comma 4» [recte: «terzo comma»] dello stesso articolo, il quale precisa le denunciate modalità e il momento di perfezionamento della notificazione di pagamento nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.

Anche tale eccezione non è fondata.

Dal complessivo tenore dell’ordinanza di rimessione risulta chiaramente, infatti, che il giudice a quo ha inteso censurare l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 nella parte in cui dispone che, «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona «nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune». Ne deriva che l’oggetto della sollevata questione è costituito esclusivamente dal terzo comma di detto art. 26, il quale ha appunto tale contenuto normativo, a nulla rilevando che nell’ordinanza di rimessione sia erroneamente indicato, per un evidente lapsus calami, il «comma 1», anziché il solo «terzo comma», dell’articolo («terzo», beninteso, in relazione al testo applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis, corrispondente all’attuale «quarto» comma, per effetto delle modifiche apportate dall’art. 38, comma 4, lettera b, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010).

2.3.- L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, altresí, l’inammissibilità della questione per omessa descrizione della fattispecie, perché il rimettente non ha precisato la natura del credito posto in riscossione (in particolare, se di diritto pubblico o di diritto privato) e, quindi, non chiarisce se sussista una posizione di parità tra le parti.

Neppure tale eccezione è fondata.

Innanzi tutto, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, nell’ordinanza di rimessione è espressamente affermato sia che il giudizio principale ha ad oggetto la riscossione di crediti previdenziali dell’INPS, sia che l’opposizione è stata proposta dal debitore ai sensi dell’art. 24, comma 5, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, recante «Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337»), cioè davanti al giudice del lavoro avverso l’iscrizione a ruolo di crediti di enti previdenziali. Non sussiste, dunque, dubbio alcuno circa la natura previdenziale e non tributaria dei crediti menzionati nella cartella di pagamento oggetto di opposizione nel giudizio principale.

Oltre a ciò, va rilevato, in punto di diritto, che il denunciato combinato disposto degli artt. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 si applica alle notificazioni delle cartelle di pagamento riguardanti tutte le entrate riscosse mediante ruolo previste dagli artt. 17 e 18 del d.lgs. n. 46 del 1999 e, quindi, anche le entrate non tributarie dello Stato e degli altri enti pubblici, anche previdenziali, esclusi quelli economici. In particolare, poiché gli artt. 19 e 20 del medesimo d.lgs. n. 46 del 1999 non ricomprendono i censurati articoli nell’elenco di quelli applicabili alle sole entrate tributarie, è irrilevante – ai fini della questione di legittimità costituzionale – se i crediti indicati nella cartella siano di natura previdenziale o tributaria, dovendo il giudice a quo far applicazione in ogni caso della denunciata normativa.

2.4.- L’INPS, la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI) e l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri deducono l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, perché il mancato raggiungimento, nel giudizio principale (secondo quanto segnalato dallo stesso rimettente), della prova dell’avvenuto ricevimento, da parte del debitore, della lettera raccomandata spedita dall’agente della riscossione recante la notizia del deposito della cartella nella casa comunale avrebbe dovuto indurre, alternativamente: a) l’agente della riscossione (contumace nel giudizio a quo) a fornire tale prova, al fine di rendere inutile la questione medesima (eccezione sollevata dall’INPS e dalla predetta società per azioni); b) il giudice rimettente a prendere atto dell’inadempimento dell’onere probatorio gravante sull’ente previdenziale di dimostrare la tardività del ricorso e, quindi, a dichiarare «nulla la notifica della cartella» e tempestivo il ricorso, con conseguente irrilevanza della questione (eccezione sollevata dalla difesa dello Stato).

Neanche questa eccezione è fondata.

2.4.1.- Come puntualmente osserva il giudice rimettente, il denunciato combinato disposto non prevede, «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», alcun invio al debitore di una lettera raccomandata recante la notizia del deposito nella casa comunale della cartella di pagamento non potuta notificare per la sua irreperibilità “relativa” (dovuta, come visto, alla temporanea assenza dalla casa di abitazione o dal luogo in cui ha l’ufficio od esercita l’industria o il commercio, nonché alla mancanza, incapacità o rifiuto di altri soggetti legittimati alla ricezione dell’atto). L’univoco e dettagliato contenuto delle impugnate disposizioni esclude, infatti, la possibilità di interpretarle nel senso che, nei casi di irreperibilità meramente “relativa” del destinatario della notificazione, si applichino le modalità notificatorie previste dal citato art. 140 cod. proc. civ., quali precisate dalla sentenza di questa Corte n. 3 del 2010. L’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 – stabilendo in modo inequivoco che, nei casi suddetti, la notificazione della cartella si perfeziona il giorno successivo a quello in cui è stato affisso nell’albo comunale l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale – è palesemente incompatibile con il disposto dell’art. 140 cod. proc. civ., secondo cui la notificazione si perfeziona soltanto con la ricezione della lettera raccomandata contenente la notizia del deposito della cartella nella casa comunale o, comunque, decorsi dieci giorni dalla spedizione di detta lettera. Ne deriva l’impossibilità di una interpretazione adeguatrice che consenta di applicare integralmente alla fattispecie di causa il medesimo art. 140 cod. proc. civ. Va precisato che non risulta essersi formato un diritto vivente al riguardo, perché nella giurisprudenza di legittimità si rinviene una sola pronuncia sullo specifico tema, la quale sembra ammettere l’applicazione delle formalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ. nella notificazione della cartella di pagamento al contribuente “relativamente” irreperibile (ordinanza n. 14316 del 2011), limitandosi ad affermare, senza specifica motivazione e nell’ambito di un discorso meramente ipotetico, che in tal caso il deposito nella casa comunale della cartella costituisce un adempimento ulteriore («un quid pluris») rispetto a quelli previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.

2.4.2.- Nella specie, ove la notificazione della cartella di pagamento si fosse perfezionata – in base all’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, come sopra interpretato – in data 14 agosto 2009 (cioè il giorno successivo a quello in cui è stato affisso nell’albo comunale l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale), l’opposizione al ruolo dovrebbe considerarsi tardiva, perché proposta il 25 settembre 2009, cioè dopo la scadenza del termine decadenziale di 40 giorni decorrente dalla notificazione della cartella, previsto dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 per le opposizioni avverso l’iscrizione a ruolo di crediti previdenziali. Sussiste, perciò, la rilevanza della sollevata questione, perché le modalità di notificazione stabilite dall’art. 140 cod. proc. civ., delle quali il rimettente invoca l’applicazione quale conseguenza della richiesta pronuncia di illegittimità costituzionale, renderebbero tempestiva l’opposizione, altrimenti tardiva.

2.4.3.- Le parti costituite e l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri obiettano a tale conclusione che, con riguardo alla cartella di pagamento oggetto del giudizio principale, l’agente della riscossione ha comunque applicato, di fatto, il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 cod. proc. civ., in quanto ha inviato al debitore una lettera raccomandata contenente la notizia del deposito nella casa comunale, anche se a tale invio non era obbligato dal denunciato art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973.

L’obiezione non può accogliersi.

In proposito, va preliminarmente osservato che la questione sarebbe irrilevante soltanto a condizione che, nel caso concreto, l’opposizione al ruolo previdenziale proposta dal debitore fosse tardiva anche ove si applicasse – per individuare il momento perfezionativo della notificazione della cartella e, quindi, il dies a quo del termine previsto per proporre l’azione – l’art. 140 cod. proc. civ. È evidente, infatti, che se, alla stregua di quest’ultimo articolo, l’azione del debitore fosse, invece, tempestiva, la questione sarebbe rilevante, perché il giudice a quo potrebbe esaminare il merito della controversia previdenziale solo per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, in base alle quali si sarebbe maturata, come visto, la decadenza dall’azione.

Nella fattispecie, l’applicabilità delle modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ. alla notificazione della cartella di pagamento renderebbe tempestiva l’opposizione e, pertanto, rilevante la questione. A tale conclusione si giunge attraverso due distinte argomentazioni, procedenti entrambe dalla circostanza, riferita dal rimettente, che nel giudizio principale non è stata raggiunta la prova della ricezione della raccomandata informativa dell’avvenuto deposito della cartella nella casa comunale.

In primo luogo, occorre sottolineare che l’art. 140 cod. proc. civ. richiede non solo che al destinatario sia data notizia del deposito nella casa comunale mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ma anche che l’avviso del deposito sia affisso, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario medesimo. Nel caso in esame, la notificazione sarebbe viziata, ai sensi del predetto articolo, perché l’affissione alla porta del destinatario non risulta essere stata effettuata e perché al vizio derivante da tale omissione non sarebbe applicabile – proprio per il riferito difetto di prova della ricezione della lettera raccomandata – la sanatoria per raggiungimento dello scopo derivante, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, dalla ricezione della lettera informativa del deposito nella casa comunale (ex plurimis, le pronunce della Corte di cassazione, n. 11713 del 2011 e n. 15856 del 2009, che consolidano l’orientamento in precedenza espresso, tra le tante, dalle sentenze n. 14817 e n. 5450 del 2005, nonché n. 8929 del 1998). L’invalidità della notificazione della cartella renderebbe tempestiva, cosí, l’opposizione al ruolo e rilevante la questione di legittimità costituzionale.

In secondo luogo, va osservato che, ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., nel testo risultante a séguito della sentenza di questa Corte n. 3 del 2010, la notificazione si perfeziona, per il destinatario, il giorno del ricevimento della lettera raccomandata informativa o, comunque, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione di tale raccomandata (nello stesso senso si è espressa anche la sentenza della Corte di cassazione n. 11713 del 2011, in dichiarata adesione alla citata pronuncia della Corte costituzionale). Dalla mancata prova della ricezione della lettera raccomandata discende che la notificazione della cartella – anche a voler considerare comunque valida tale notificazione ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. ed a voler computare il suo momento perfezionativo nel modo piú favorevole per l’ente previdenziale – può ritenersi perfezionata non prima del decimo giorno successivo alla spedizione della notizia del deposito (deposito avvenuto il 13 agosto 2009) e, pertanto, non prima del 23 agosto 2009, con conseguente tempestività dell’opposizione, proposta il successivo 25 settembre, prima della scadenza del termine di 40 giorni decorrente dalla notificazione della cartella stessa. Ne deriverebbe, anche per questo aspetto, la rilevanza della questione proposta dal rimettente, intesa a rendere applicabile l’art. 140 cod. proc. civ. alla notificazione della cartella di pagamento.

2.5.- L’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord (successore della s.p.a. Equitalia Polis), infine, ha eccepito l’inammissibilità della questione perché il rimettente non ha tentato di pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione della normativa denunciata. La parte sostiene che l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, nel rinviare, per la notificazione a destinatario relativamente irreperibile, all’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, richiama tale articolo nel suo complesso e non esclusivamente alla lettera e) del primo comma. Ciò consentirebbe di applicare la disciplina di cui agli «artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile» (come recita l’alinea del primo comma dell’art. 60), ivi compreso l’art. 140 cod. proc. civ., e, quindi, di pervenire in via interpretativa allo stesso risultato che deriverebbe dalla richiesta dichiarazione di illegittimità costituzionale.

L’eccezione non è fondata, perché la normativa denunciata non consente – come sottolineato dal rimettente – la prospettata interpretazione adeguatrice a Costituzione, secondo quanto risulta dall’esame delle disposizioni denunciate e dai diversi significati ad esse ascrivibili.

2.5.1.- Con riguardo alla notificazione degli atti di accertamento, l’alinea e la lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 stabiliscono che «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: […] e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione».

Tali disposizioni sono costantemente interpretate dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, ormai assurta a diritto vivente (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 14030 del 2011; n. 3426 del 2010; n. 15856 e n. 10177 del 2009; n. 28698 del 2008; n. 22677 e n. 20425 del 2007), nel senso che, se il destinatario dell’atto di accertamento è temporaneamente assente dal (noto) suo domicilio fiscale (sia esso la casa di abitazione, l’ufficio od il luogo in cui esercita l’industria o il commercio) e se non è possibile consegnare l’atto per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone legittimate alla ricezione (in altri termini: se ricorrono i casi di irreperibilità cosiddetta “relativa”, previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.), la notifica si perfeziona con il compimento delle attività stabilite dall’art. 140 cod. proc. civ., richiamato dall’alinea del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 («La notificazione […] è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile»). Occorrono, dunque, per perfezionare la notificazione di un atto di accertamento ad un destinatario “relativamente” irreperibile: a) il deposito di copia dell’atto, da parte del notificatore, nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi; b) l’affissione dell’avviso di deposito (avviso avente il contenuto precisato dall’art. 48 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile), in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario; c) la comunicazione, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, dell’avvenuto deposito nella casa comunale dell’atto di accertamento; d) il ricevimento della lettera raccomandata informativa o, comunque, il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata informativa (sentenza n. 3 del 2010 di questa Corte).

Le modalità di notificazione dell’atto di accertamento previste dalla lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono applicabili, invece, nella diversa ipotesi di cosiddetta “irreperibilità assoluta” del destinatario (quando, cioè, il domicilio fiscale risulti oggettivamente inidoneo, per effetto della mancanza, nel Comune in cui deve essere eseguita la notificazione, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del contribuente). In tal caso occorrono, per perfezionare la notificazione: a) il deposito di copia dell’atto di accertamento, da parte del notificatore, nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi; b) l’affissione dell’avviso di deposito (avviso avente lo stesso contenuto di quello indicato negli artt. 140 cod. proc. civ. e 48 disp. att. cod. proc. civ.), in busta chiusa e sigillata, nell’albo del medesimo Comune; c) il decorso del termine di otto giorni dalla data di affissione nell’albo comunale. L’irreperibilità “assoluta” del destinatario impedisce, ovviamente, di inviargli la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito nella casa comunale. Secondo questo procedimento, dunque, la notificazione di un atto di accertamento ad un destinatario “assolutamente” irreperibile si perfeziona nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione nell’albo comunale.

2.5.2.- Con riguardo alla diversa ipotesi di notificazione delle cartelle di pagamento, il censurato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 stabilisce che, «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», la notificazione si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 e «si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune».

Il suddetto terzo comma dell’art. 26 (corrispondente al quarto comma del testo attualmente vigente dello stesso articolo), nel menzionare l’affissione nell’albo comunale dell’avviso di deposito e nel fissare il momento perfezionativo della notificazione nel giorno successivo a quello di detta affissione, si riferisce evidentemente soltanto alle modalità notificatorie previste dalla sopra esaminata lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale letterale e specifico riferimento all’affissione nell’albo comunale impedisce, cioè, di ritenere, nel caso di destinatario relativamente irreperibile, che il richiamo alle modalità di notificazione stabilite dal citato art. 60 possa intendersi alla stregua di un richiamo alle modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ. Tra queste, infatti, è prevista non l’affissione all’albo comunale, ma solo l’affissione alla porta del destinatario ed il deposito nella casa comunale. Ne deriva l’impraticabilità dell’interpretazione prospettata dall’agente della riscossione, in quanto essa appare basata su una lettura palesemente contrastante sia con la lettera della legge che con l’intento del legislatore di ridurre le formalità della notificazione agli irreperibili delle cartelle di pagamento. Poiché, contrariamente a quanto affermato dalla s.p.a. Equitalia Nord, non risulta neppure che detta interpretazione antiletterale costituisca diritto vivente, occorre scrutinare nel merito la questione, valutando la conformità a Costituzione delle denunciate disposizioni, interpretate – come di norma – secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

3.- Nel merito, il rimettente deduce, tra l’altro, che la disciplina della notificazione da effettuarsi a soggetto temporaneamente assente dalla sua casa di abitazione o dal luogo in cui ha l’ufficio od esercita l’industria o il commercio è ingiustificatamente diversa (nel caso in cui non sia possibile consegnare l’atto per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone abilitate alla ricezione), a seconda che oggetto della notificazione sia un atto di accertamento oppure una cartella di pagamento. Nel primo caso, infatti, si applicherebbero le modalità di notificazione previste dall’art. 140 cod. proc. civ.; nel secondo, invece, solo quelle previste dall’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, che garantiscono al destinatario una minore conoscibilità dell’atto.

La questione è fondata.

3.1.- Come emerge dalla sopra ricordata ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le censurate disposizioni, nell’ipotesi di irreperibilità meramente “relativa” del destinatario (cioè «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», come recita il denunciato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973), la cartella di pagamento va notificata applicando non l’art. 140 cod. proc. civ., ma le formalità previste per la notificazione degli atti di accertamento a destinatari “assolutamente” irreperibili (lettera e del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973). Pertanto, nonostante che il domicilio fiscale sia noto ed effettivo, non sono necessarie, per la validità della notificazione della cartella, né l’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, né la comunicazione del deposito mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Inoltre, in forza dell’ultimo comma (quinto comma, trasfuso nel piú ampio attuale sesto comma) dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 – secondo cui «Per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto» n. 600 del 1973 -, le sopra ricordate modalità di notificazione previste dalla menzionata lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono applicabili non solo, come visto, nell’ipotesi in cui il destinatario della cartella di pagamento sia solo “relativamente” irreperibile («nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.»), ma anche in quella in cui detto destinatario sia “assolutamente” (cioè oggettivamente e permanentemente) irreperibile.

3.2.- Da quanto precede risulta, dunque, che – come esattamente rilevato dal rimettente – nella medesima ipotesi di irreperibilità “relativa” del destinatario (cioè nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.), la notificazione si esegue con modalità diverse, a seconda che l’atto da notificare sia un atto di accertamento oppure una cartella di pagamento: nel primo caso, si applicano le modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ.; nel secondo caso, quelle previste dalla lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Tale peculiarità della normativa riguardante la notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile comporta che, nella notificazione di un atto di accertamento, l’avvenuto deposito di tale atto nella casa comunale viene comunicato al destinatario sia con l’affissione di un avviso alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, sia con l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento e, quindi, secondo modalità improntate al criterio dell’effettiva conoscibilità dell’atto. Viceversa, nella notificazione di una cartella di pagamento, l’avvenuto deposito di questa nella casa comunale non viene comunicato al destinatario, né con l’affissione alla porta, né con l’invio di una raccomandata informativa, ma – essendo prevista solo l’affissione nell’albo del Comune – secondo modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella. Tale disciplina, con riferimento alla cartella di pagamento, non assicura, dunque, né l’«effettiva conoscenza da parte del contribuente», né, quale mezzo per raggiungere tale fine, la comunicazione «nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della […] amministrazione» finanziaria; finalità queste fissate dal comma 1 dell’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).

3.3.- Siffatta evidente diversità della disciplina di una medesima situazione (notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile) non appare riconducibile ad alcuna ragionevole ratio, con violazione dell’evocato art. 3 Cost. Per ricondurre a ragionevolezza il sistema, è necessario pertanto, nel caso di irreperibilità “relativa” del destinatario, uniformare le modalità di notificazione degli atti di accertamento e delle cartelle di pagamento. A questo risultato si perviene restringendo la sfera di applicazione del combinato disposto degli artt. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. n. 600 del 1973 alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile e, quindi, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. In altri termini, la notificazione delle cartelle di pagamento con le modalità indicate dal primo comma, alinea e lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 deve essere consentita solo ove sussista lo stesso presupposto richiesto dalla medesima lettera e) per la notificazione degli atti di accertamento: la mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario (irreperibilità “assoluta”).

Ne consegue che, in accoglimento della sollevata questione di costituzionalità, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’impugnato terzo comma (corrispondente all’attualmente vigente quarto comma) dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 nella parte in cui dispone che, «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600», invece che: «Quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione della cartella di pagamento si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600». Per effetto di tale pronuncia, nei casi di irreperibilità “relativa” (cioè nei casi di cui all’art. 140 cod. proc. civ.), sarà applicabile, con riguardo alla notificazione delle cartelle di pagamento, il disposto dell’ultimo comma dello stesso art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, in forza del quale – come visto – «Per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto» n. 600 del 1973 e, quindi, in base all’interpretazione data a tale normativa dal diritto vivente, quelle dell’art. 140 cod. proc. civ., cui anche rinvia l’alinea del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Resta assorbita la censura basata sulla violazione dell’art. 24 Cost.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all’attualmente vigente quarto comma) dell’art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui stabilisce che la notificazione della cartella di pagamento «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile […] si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600», anziché «Nei casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario […] si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600».

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2012.

Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2012.


Corte Costituzionale n. 223 del 11.10.2012

La Corte Costituzionale, con sentenza del 11-10-2012 n°223, ha bocciato i tagli agli stipendi della dirigenza pubblica superiori ai 90.000 euro, stabiliti dal decreto legge 78/2010.

Leggi: Corte Costituzionale n. 223/2012


Corte Costituzionale – Sentenza n. 120 del 10 maggio 2012

Corte Costituzionale – Sentenza n. 120-2012


Corte Costituzionale n. 63 del 25.02.2011

Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente DE SIERVO – Redattore MADDALENA

Camera di Consiglio del 26/01/2011 Decisione del 21/02/2011
Deposito del 25/02/2011 Pubblicazione in G. U. 02/03/2011
Norme impugnate: Art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica 29/09/1973, n. 602.
Massime: 35413
Atti decisi: ord. 228/2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 26, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promosso dalla Commissione tributaria regionale della Toscana nel procedimento vertente tra Menichetti Monica e l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Empoli con ordinanza del 23 marzo 2010, iscritta al n. 228 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che con ordinanza emessa il 23 marzo 2010 nel corso di un giudizio tra Monica Menichetti e l’Agenzia delle entrate, la Commissione tributaria regionale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 26, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito);

che il giudice rimettente riferisce che la Commissione tributaria provinciale di Firenze ha dichiarato inammissibile per tardività il ricorso promosso dalla contribuente avverso una cartella di pagamento per omesso o carente versamento di IRPEF per l’anno 2002, in un caso nel quale la cartella di pagamento era stata notificata ai sensi del combinato disposto degli artt. 140 cod. proc. civ. e 26, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973;

che quest’ultima disposizione prevede che «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune»;

che – prosegue la Commissione tributaria regionale rimettente – il ricorso della contribuente alla Commissione tributaria provinciale era stato proposto, nella specie, nei sessanta giorni dall’effettiva conoscibilità dell’atto impositivo, avvenuta con la ricezione della raccomandata che avvisava del deposito dell’atto nell’albo del comune, ma oltre i sessanta giorni dalla notifica come perfezionata ai sensi dell’art. 26 richiamato;

che, riferisce il giudice a quo, la contribuente, nel proporre appello avverso la decisione di primo grado, ha dedotto che il predetto meccanismo normativo configura una fictio iuris assoluta in ordine alla conoscibilità dell’atto impositivo da parte del contribuente, senza tener conto che la sua concreta conoscibilità può essere posteriore – come avvenuto nel caso di specie – al giorno successivo a quello in cui l’avviso di deposito è affisso all’albo del comune, ed ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973, nella parte in cui non consente – in violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza e di ragionevolezza – che i sessanta giorni previsti quale termine per l’impugnativa decorrano dalla concreta conoscibilità, da parte del destinatario, dell’atto impositivo;

che la Commissione tributaria regionale ritiene la predetta questione non manifestamente infondata, «anche alla luce della sentenza n. 3 del 14 gennaio 2010 della Corte costituzionale, sussistendo, allo stato, una irragionevole sproporzione tra la tutela dell’interesse del notificante e quello del destinatario della notifica, mentre il principio del contraddittorio impone una effettiva parità di trattamento delle opposte ragioni»;

che il giudice a quo ritiene «la risoluzione della predetta questione rilevante ai fini della decisione dell’appello in oggetto».

Considerato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto l’art. 26, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale prevede che «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune»;

che, ad avviso della Commissione tributaria regionale rimettente, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non consente che i sessanta giorni previsti quale termine per l’impugnativa decorrano dalla concreta conoscibilità, da parte del destinatario, dell’atto impositivo, «anche alla luce della sentenza n. 3 del 14 gennaio 2010 della Corte costituzionale, sussistendo, allo stato, una irragionevole sproporzione tra la tutela dell’interesse del notificante e quello del destinatario della notifica, mentre il principio del contraddittorio impone una effettiva parità di trattamento delle opposte ragioni»;

che l’ordinanza di rimessione presenta carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza tali da precludere lo scrutinio nel merito della questione;

che il giudice a quo – premesso che la notifica è avvenuta ai sensi del combinato disposto degli artt. 140 cod. proc. civ. e 26, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 – si limita a riferire che il ricorso avverso la cartella di pagamento sarebbe tardivo, considerando perfezionata la notifica il giorno successivo in cui l’avviso è stato affisso nell’albo del comune, ma sarebbe tempestivo avendo riguardo all’effettiva conoscibilità dell’atto impositivo, avvenuta nella specie con la ricezione della raccomandata che avvisava del deposito dell’atto nell’albo del comune;

che il giudice rimettente – che pure invoca un intervento di questa Corte sulla disposizione denunciata, analogo a quello operato sull’art. 140 cod. proc. civ. con la sentenza n. 3 del 2010 – tralascia di considerare che la disposizione del codice di procedura civile è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevedeva che la notifica si perfezionasse, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione;

che, in particolare, la Commissione tributaria – non dando gli elementi temporali di riscontro della scansione della concreta vicenda notificatoria sottoposta al suo esame – non si pone il problema della tempestività o meno della impugnazione della cartella rispetto all’altro momento risultante dalla predetta sentenza di illegittimità costituzionale, costituito, appunto, dal decorso di dieci giorni dalla spedizione della raccomanda informativa, ove esso si sia compiuto anteriormente al ricevimento della stessa raccomandata;

che in questo contesto, di carente descrizione della fattispecie, appare apodittica l’affermazione di rilevanza della questione «ai fini della decisione dell’appello in oggetto», senza specificazione o motivazione ulteriori;

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


Corte Costituzionale n. 3 del 14.01.2010

Sentenza 3/2010

Giudizio

GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente AMIRANTE – Redattore MADDALENA

Camera di Consiglio del 04/11/2009 Decisione  del 11/01/2010

Deposito del 14/01/2010 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 140 del codice di procedura civile.

Atti decisi:

ord. 75 e 88/2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 140 del codice di procedura civile (Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia), promossi dal Tribunale di Bologna con ordinanza dell’11 febbraio 2008 e dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza del 22 dicembre 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 75 e 88 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 11 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto in fatto

1. ( Con ordinanza emessa in data 11 febbraio 2008 (reg. ord. n. 75 del 2009), il Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 111, primo e secondo comma, 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ. (Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia), nella parte in cui non prevede che il contraddittorio si instauri all’atto della consegna al destinatario o a chi per esso della raccomandata informativa, o, qualora la consegna non sia ancora avvenuta, al verificarsi della compiuta giacenza della suddetta raccomandata.

La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio nel quale si discute della tempestività dell’opposizione ad un decreto ingiuntivo la cui notificazione è stata effettuata ex art. 140 cod. proc. civ.

In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ricorda che la Corte costituzionale è intervenuta più volte (a partire dalla sentenza n. 213 del 1975, fino all’ordinanza n. 97 del 2004) a proposito dell’art. 140 cod. proc. civ., sempre disattendendo le eccezioni di illegittimità prospettate in relazione al fatto che il perfezionamento della notifica si verifica al compimento delle formalità prescritte dalla norma, e non alla ricezione della raccomandata.

Il Tribunale di Bologna osserva che il diritto vivente relativo all’art. 140 cod. proc. civ. si evince ora da due arresti delle Sezioni unite, entrambi posteriori all’ultimo intervento della Corte costituzionale.

L’ordinanza n. 458 del 2005, nell’affermare la nullità della notifica ex art. 140 cod. proc. civ. nell’ipotesi in cui non sia allegato l’avviso di ricevimento della raccomandata all’originale dell’atto notificato, ha precisato che il dettato della norma realmente impone di ritenere che il perfezionamento si realizzi con la spedizione della raccomandata, anche perché, essendo questa diretta a disciplinare un effetto legale tipico (di conoscibilità), sul piano logico è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso ancorare tale effetto ad una data certa qual è quella derivante dalla spedizione della raccomandata stessa.

Ad avviso del rimettente, con questa pronuncia la Corte di cassazione avrebbe affiancato all’effetto anticipato per il notificante un ulteriore provvisorio e anticipato effetto per il destinatario.

Secondo il Tribunale di Bologna, se appare logico che, essendo il notificante il primo soggetto che entra nel procedimento (attivandolo), l’effetto a lui rapportato sia anticipato e dunque provvisorio, non può non destare perplessità ritenere tale anche l’effetto per il destinatario, che ontologicamente dovrebbe concludere la sequenza procedimentale. E – osserva il rimettente – non si vede come sia possibile che un atto perfezionato divenga successivamente nullo per non avere raggiunto il suo scopo in base ad un quid pluris esterno.

Il giudice a quo precisa che una correzione di questo “problematico” profilo viene dall’ordinanza n. 627 del 2008, con la quale le Sezioni unite hanno affermato che, nel caso della notifica del ricorso per cassazione sia a mezzo posta sia ex art.140 cod. proc. civ., l’avviso di ricevimento non è un elemento costitutivo della notifica, bensì esclusivamente una prova dell’intervenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e dunque dell’instaurazione del contraddittorio. La sua mancata produzione, quindi, si pone ora su un piano probatorio anziché su quello della validità, per cui non sussiste più una necessità di consolidamento dell’effetto perfezionativo verso il destinatario, che è già determinato dalla spedizione della raccomandata.

Tale essendo il diritto vivente formatosi sull’art. 140 cod. proc. civ., da intendere nel senso che la spedizione della raccomandata ne rappresenta il perfezionamento per il destinatario, il rimettente si chiede come possa, da sola, la spedizione inserire l’atto nella sfera di conoscibilità di quest’ultimo, se non fondandosi su una perfetta e drastica fictio iuris. Secondo il giudice a quo, sussiste conoscibilità nel momento in cui un atto entra nella sfera del destinatario, il che accade successivamente al momento in cui viene spedito in tale direzione. Ciò troverebbe riscontro, sul piano sostanziale, nell’art. 1335 cod. civ., che pone la presunzione di conoscenza degli atti ricettizi nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, e non nel momento in cui sono spediti a tale indirizzo.

Questa realtà logica è alla radice della previsione, nell’art. 140 cod proc. civ., della raccomandata “con avviso di ricevimento”; ed è alla radice, altresì, delle considerazioni sul ruolo da attribuire a tale avviso nelle sopra citate ordinanze delle Sezioni unite.

Ad avviso del rimettente, non vi sarebbe un’adeguata tutela per il destinatario che si costituisce: «se il destinatario si costituisce, per legge egli ha avuto conoscenza non quando la raccomandata informativa è giunta al suo indirizzo, bensì quando vi è stata spedita».

Per il destinatario che si costituisce vi sarebbe una riduzione dei termini a difesa (siano quelli per proporre una opposizione, siano quelli di comparizione per una costituzione tempestiva) rispetto ai soggetti che ricevono la notifica a mani proprie oppure a mezzo posta.

Nel complessivo sistema notificatorio civile, nessuna altra ipotesi di notificazione configgerebbe così evidentemente con il principio della ricezione.

Ad avviso del Tribunale rimettente, identificare, qualora il processo sia avviato con notifica ex art. 140 cod. proc. civ., l’instaurazione del contraddittorio con il momento perfezionativo della notifica dal punto di vista solo del notificante, senza tenere conto del momento in cui l’atto informativo entra (che è cosa diversa dall’esservi spedito) nella sfera di conoscibilità del notificato, significherebbe da un lato configurare il contraddittorio come mero simulacro e non in modo effettivo (il che contrasterebbe con l’art. 111, secondo comma, Cost. nella parte in cui impone l’effettività del contraddittorio in ogni processo), dall’altro far prevalere la posizione del notificante su quella del notificato senza che ciò sia supportato da una ragionevole esigenza di tutela del notificante (il che contrasterebbe sia con il principio della parità delle parti sempre dettato dalla stessa norma costituzionale, sia con l’ancor più generale principio della “giustizia del processo”, rinvenibile nell’art. 111, primo comma, Cost.).

L’insussistenza di motivi di ragionevolezza alla base della fictio iuris che identifica l’instaurazione del contraddittorio ex art. 140 cod. proc. civ. contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, Cost., nella sua accezione di precetto impositivo della ragionevolezza come confine della discrezionalità del legislatore ordinario.

Infine, la “retrocessione” del contraddittorio, che l’art. 140 cod. proc. civ. impone tramite fictio iuris, lederebbe l’art. 24 Cost., nella parte in cui, al secondo comma, tutela il diritto di difesa come inviolabile in ogni stato del processo, e quindi anche al momento dell’instaurazione del contraddittorio: i termini di difesa che il legislatore concede a seguito della in ius vocatio sono infatti ridotti per chi subisce la notifica ex art. 140 cod. proc. civ. in misura superiore a quella necessaria per rendere attuabile in tempi ragionevoli il perfezionamento della notifica.

2. ( Nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della questione.

La questione sarebbe inammissibile, perché il Tribunale di Bologna non avrebbe indicato per quale ragione non possa essere data una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 140 cod. proc. civ.

In ogni caso, ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe infondata nel merito.

L’art. 140 cod. proc. civ. e l’art. 149 cod. proc. civ. non sarebbero utilmente comparabili, in quanto perseguono diverse finalità. Mentre la disciplina dettata dall’art. 140 cod. proc. civ. – per l’ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario, ma resa impossibile per irreperibilità o rifiuto del destinatario – è ispirata all’evidente fine di non pregiudicare il diritto di difesa del notificante, a causa di circostanze personali o di possibili comportamenti dilatori del destinatario; l’art. 149 cod. proc. civ., invece, riguarda la diversa ipotesi di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale e persegue l’inderogabile finalità di tutelare il diritto di difesa del notificatario.

La questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. sarebbe, in via preliminare, inammissibile, perché il giudice rimettente non spiegherebbe quale sarebbe il termine “normale” per la difesa ed in quale misura esso sarebbe ridotto. In ogni caso, essa sarebbe infondata nel merito. Difatti, nell’ipotesi di notifica ex art. 140 cod. proc. civ. ciò che viene spedito con la raccomandata con avviso di ricevimento è l’avviso con il quale l’ufficiale giudiziario comunica alla parte di avere effettuato il deposito dell’atto nella casa comunale; nella notificazione a mezzo posta, invece, ciò che viene spedito è proprio l’atto da notificare. Pertanto, un problema di conoscenza effettiva dell’atto in questione, per l’ipotesi di notifica ex art. 140 cod. proc. civ., non si pone mai, in quanto, appunto, anche con la ricezione della raccomandata il destinatario non viene a conoscenza del contenuto dell’atto.

La difesa erariale esclude, infine, che si ponga un problema di violazione del giusto processo e del principio dell’effettività del contraddittorio.

3. ( Con ordinanza emessa il 22 dicembre 2008 (reg. ord. n. 88 del 2009), la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, fa decorrere gli effetti della notifica, per il destinatario della stessa, dal momento in cui l’ufficiale giudiziario, dopo aver eseguito il deposito dell’atto da notificare presso la casa comunale ed aver affisso il prescritto avviso alla porta dell’abitazione del destinatario, completa l’iter notificatorio inviando al destinatario medesimo una raccomandata con avviso di ricevimento contenente notizia dell’avvenuto deposito, anziché prevedere che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata ovvero dalla data del ritiro della copia dell’atto, se anteriore, in modo analogo a quanto previsto dall’art. 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

La Corte d’appello motiva la sussistenza del requisito della rilevanza osservando che nel giudizio si discute proprio di quale sia la data di notifica del decreto ingiuntivo – effettuata ex art. 140 cod. proc. civ. – da considerare efficace per i destinatari, attuali appellanti. Seguendosi la tesi della Corte di cassazione, fatta propria dal primo giudice, secondo cui tale data coinciderebbe con il giorno in cui l’ufficiale giudiziario spedisce al destinatario la raccomandata (nella specie il 22 marzo 2004), l’opposizione dovrebbe considerarsi tardiva e quindi improcedibile, perché proposta oltre il termine decadenziale di quaranta giorni di cui all’art. 641, primo comma, cod. proc. civ. (l’atto di opposizione essendo stato notificato a mezzo posta e consegnato agli ufficiali giudiziari in data 4 maggio 2004); mentre, reputandosi che la data coincida con il giorno di effettivo ritiro del piego (30 marzo 2004) o con il decorso dei dieci giorni successivi alla spedizione (1° aprile 2004), l’opposizione monitoria dovrebbe considerarsi tempestiva e quindi procedibile.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che l’art. 140 cod. proc. civ. e l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 prevedono modalità notificatorie alquanto simili in presenza di analoghi presupposti di fatto. In entrambi i casi, la notifica non può effettuarsi direttamente al destinatario, perché questi non è reperibile in loco o perché le persone abilitate a ricevere il piego in luogo di lui rifiutano di riceverlo, ovvero perché vi è temporanea assenza del destinatario o la mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate. In un caso, quello di cui all’art. 140 cod. proc. civ., l’ufficiale giudiziario deposita la copia dell’atto da notificare nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento; analogamente, nel caso di notifica ex art. 8 della legge n. 890 del 1982, l’agente postale deposita il piego presso l’ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza, e del tentativo di notifica del piego e del suo deposito presso l’ufficio postale o una sua dipendenza dà notizia al destinatario mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In sostanza, l’unica vera differenza strutturale sarebbe che, nell’un caso, l’ufficiale giudiziario provvede al deposito della copia presso la casa comunale, mentre, nell’altro, l’agente postale provvede al deposito del piego presso l’ufficio postale.

Si tratta allora di verificare – prosegue il rimettente – se questa differenza possa ex se giustificare l’operare della successiva regola differenziatrice secondo cui solo nella notifica postale il destinatario ha dieci giorni di tempo dalla spedizione della raccomandata per ritirare l’atto presso l’ufficio postale, senza che tale periodo decorra a suo svantaggio, laddove l’art. 140 cod. proc. civ. – secondo la tradizionale interpretazione di legittimità – fa coincidere la data della notifica con la stessa data di spedizione della raccomandata.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998, il legislatore – con l’art. 2 del decreto-legge n. 35 del 2005 – non si è limitato a introdurre in modo espresso l’obbligo di spedizione della raccomandata, ma ha anche posto una regola di maggior tutela per il destinatario della notifica a mezzo posta attraverso la fissazione di un termine (massimo) di dieci giorni per il ritiro del piego, termine utile a far decorrere gli effetti della notifica per il destinatario stesso al fine dello svolgimento di ogni ulteriore e successiva attività processuale di suo interesse. Pertanto, quanto alle notifiche di atti giudiziari a mezzo posta nei casi di assenza o rifiuto di cui all’art. 8, secondo comma, della legge n. 890 del 1982, il sistema – ormai basato sul generale principio di scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio – si completa in questo senso: per il notificante, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, la notifica si perfeziona comunque al momento della consegna dell’atto da notificare; per il notificatario, si perfeziona decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.

Posto che, secondo l’esegesi consolidata della Corte di cassazione, la data di notifica ex art. 140 cod. proc. civ. coincide per il destinatario con l’invio della raccomandata, l’esistenza stessa di tale interpretazione, ad avviso del rimettente, configura e conforma il precetto normativo e non consente di percorrere una interpretazione difforme che si pretenda costituzionalmente orientata.

Così interpretata, la disposizione denunciata violerebbe l’art. 3 Cost., perché casi identici verrebbero trattati in modo ingiustificatamente diverso. Difatti, l’art. 8, quarto comma, della legge n. 890 del 1982, dando un termine (massimo) di dieci giorni per il ritiro del piego, elimina in radice l’ingiusta erosione del termine per svolgere le successive attività difensive (come nel caso di specie per proporre opposizione a decreto ingiuntivo), riportando la situazione di garanzia delle parti in equilibrio: per un verso, lascia un tempo congruo al destinatario per ritirare l’atto; mentre, per l’altro, non rende troppo onerosa la notifica per il mittente, che, comunque, potrà dare per notificato l’atto decorso il termine di dieci giorni.

Un simile effetto non è garantito dall’art. 140 cod. proc. civ., esponendo il destinatario di una notifica effettuata ai sensi di tale norma ad un trattamento meno garantista, pur in presenza di presupposti di fatto analoghi, e per di più sulla base di una scelta della tipologia di notifica che viene effettuata, di norma, da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario.

Vi sarebbe anche un contrasto con l’art. 24 Cost., per la minor tutela offerta al destinatario di una notifica ex art. 140 cod. proc. civ., essendo questi costretto a presidiare con tendenziale continuità la sua cassetta postale anche in periodo di vacanza o ferie, per evitare il rischio di perdere tempo utile al compimento di attività difensive che prendano data a partire dall’avvenuta notifica, mentre molto meno rischiosa e onerosa è la situazione del destinatario di una notifica postale ex art. 8 della legge n. 890 del 1982.

Del resto, la stessa Corte di cassazione, con l’ordinanza delle Sezioni unite n. 458 del 2005, anche se ha ritenuto che per il notificante la notifica ex art. 140 cod. proc. civ. prenda effetto dalla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, ha considerato comunque necessario che il notificante, esibendo l’avviso di ricevimento, ponga il giudice nelle condizioni di verificare se l’atto sia stato effettivamente consegnato al destinatario o sia comunque convenientemente entrato nella sua sfera di conoscibilità. Ciò, ad avviso del rimettente, significa che non ha più alcun rilievo la circostanza che, spedendo l’avviso ex art. 140 cod. proc. civ., l’ufficiale giudiziario metta il notificatario potenzialmente in grado di conoscere la natura dell’atto notificando, poiché ciò che conta, nella nuova ricostruzione interpretativa della Corte stessa, è la produzione dell’avviso di ricevimento come strumento per accertare l’effettiva conoscenza o conoscibilità dell’atto. Pertanto non vi sarebbe più motivo di distinguere le due forme di notifica in esame sulla base di una differenza – la possibilità di immediata conoscenza dei dati salienti dell’atto da notificare per la presenza delle indicazioni prescritte dall’art. 48 disp. att. cod. proc. civ. – che non rileva comunque ai fini della decorrenza di efficacia della notifica ex art. 140 cod. proc. civ., né per il notificante, né per il notificatario.

4. ( Nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione.

Dopo avere rilevato che l’art. 140 cod. proc. civ. e l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 non sarebbero utilmente comparabili, l’Avvocatura osserva che la questione sarebbe infondata anche in riferimento all’art. 24 Cost. Sotto quest’ultimo profilo, la difesa erariale premette che il problema prospettato dal rimettente si pone per tutte le notificazioni effettuate attraverso la spedizione di una raccomandata e che il termine di dieci giorni previsto dal citato art. 8 non costituirebbe idonea tutela per il destinatario.

5. ( In prossimità della camera di consiglio, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, nell’uno e nell’altro giudizio, memorie illustrative.

La difesa erariale – nel ribadire che la giurisprudenza costituzionale, sin dal 1975, ha affermato la legittimità costituzionale della norma denunciata con riguardo al perfezionamento della notificazione con decorrenza dalla data di spedizione della raccomandata e non da quella del ricevimento della stessa – osserva, con riguardo alla questione sollevata dal Tribunale di Bologna, che l’ordinanza di rimessione non prospetta profili di illegittimità nuovi o diversi da quelli già sottoposti ed esaminati dalla Corte costituzionale. La differente disciplina del perfezionamento del procedimento notificatorio dell’art. 140 cod. proc. civ. rispetto a quello della notifica a mezzo posta – si afferma – è stata ampiamente giustificata dalla Corte costituzionale. Inoltre, ad avviso della difesa erariale, il rispetto del principio dell’effettività del contraddittorio, quale corollario del più ampio principio del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost., non aggiunge nulla rispetto a quanto è stato già stabilito dalla Corte costituzionale con riferimento al diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. La questione sarebbe altresì infondata se analizzata alla luce della fattispecie concreta, avendo il debitore goduto di un lasso di tempo più che congruo (quaranta giorni) per approntare la propria difesa e per notificare l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo.

In relazione alla questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano, l’Avvocatura osserva che, con la sentenza n. 346 del 1998, la Corte costituzionale non ha affermato la necessità che tutti i procedimenti notificatori siano identici o strettamente omogenei – ciò che lederebbe la discrezionalità legislativa – bensì che viola il diritto di difesa la mancanza di un avviso del compimento delle formalità di cui all’art. 8 della legge n. 890 del 1982 e la ristrettezza del termine di dieci giorni a seguito dei quali l’ufficio postale poteva rispedire al mittente l’atto senza che il destinatario avesse più la possibilità di reperirlo.

Secondo la difesa erariale, le modalità della notifica stabilite dall’art. 140 cod. proc. civ. garantiscono i diritti di difesa ed il ragionevole trattamento, non venendo in gioco alcuna necessità di uniformarle ulteriormente senza invadere il campo della discrezionalità propria del legislatore.

Considerato in diritto

1. ( Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Bologna (reg. ord. n. 75 del 2009) e dalla Corte d’appello di Milano (reg. ord. n. 88 del 2009), investono l’art. 140 cod. proc. civ., il quale, sotto la rubrica «Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia», prevede che se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’articolo precedente, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento.

L’art. 140 cod. proc. civ. è denunciato da entrambi i rimettenti nella parte in cui, secondo il diritto vivente – quale risulta dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, anche a Sezioni unite –, fa decorrere gli effetti della notifica, nei confronti del destinatario della stessa, dal compimento dell’ultimo degli adempimenti prescritti, ossia dalla spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento.

Così interpretata, la norma denunciata – non prevedendo che il contraddittorio si instauri all’atto della consegna al destinatario o a chi per esso della raccomandata informativa o, qualora la consegna non sia ancora avvenuta, al verificarsi della compiuta giacenza della suddetta raccomandata – violerebbe, ad avviso del Tribunale di Bologna, gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, per irragionevolezza, per ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, per l’incidenza sul diritto di difesa del destinatario di atti notificati ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. e per la lesione dei principi costituzionali in materia di giusto processo (contraddittorio e parità delle parti).

Lo scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., è sollecitato dalla Corte d’appello di Milano attraverso l’indicazione, come tertium comparationis, dell’art. 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che fa coincidere il compimento della notificazione dal lato del destinatario con il decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata ovvero con la data del ritiro della copia dell’atto, se anteriore.

2. ( Entrambe le ordinanze di rimessione attengono a questioni di legittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ. e sono sollevate sotto profili analoghi; i relativi giudizi possono pertanto essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. ( Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato con riguardo all’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Bologna sul rilievo che il giudice a quo sarebbe venuto meno all’onere di sperimentare la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice.

Il giudice rimettente ha preso atto dell’essersi formata una interpretazione costante, proveniente dalla stessa Corte di cassazione, in termini di diritto vivente, ed ha richiesto l’intervento di questa Corte affinché controlli la compatibilità dell’indirizzo consolidato con i principi costituzionali.

4. ( La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Bologna è inammissibile per un’altra preliminare ragione, ossia per mancata motivazione sulla rilevanza della questione. Il giudice rimettente, infatti, ha omesso sia di descrivere compiutamente la fattispecie concreta sottoposta al suo esame sia di precisare quali effetti avrebbe, nel giudizio a quo, la sollecitata dichiarazione di illegittimità costituzionale.

5. ( La questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano è, invece, fondata.

5.1. ( Questa Corte ha già avuto occasione di scrutinare questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 140 cod. proc. civ., interpretato nel senso che la notificazione debba ritenersi perfezionata con la spedizione della raccomandata e non con il suo recapito.

La sentenza n. 213 del 1975 ha dichiarato la questione non fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Premesso che «non esistono impedimenti di ordine costituzionale a che le modalità delle notifiche siano diversamente disciplinate, in relazione ai singoli procedimenti e agl’interessi che attraverso essi debbono trovare tutela», questa Corte ha rilevato che «nell’ambito del processo civile, ai fini della garanzia del diritto di difesa del destinatario delle notificazioni per ufficiale giudiziario deve ritenersi sufficiente che copia dell’atto pervenga nella sfera di disponibilità del destinatario medesimo», essendo «ovvio che, ove questi si allontani, sia un suo onere predisporre le cose in modo che possa essere informato di eventuali comunicazioni che siano a lui dirette».

La sentenza n. 213 del 1975 ha inoltre precisato che, nell’ambito del processo civile, «il diritto di difesa di ciascuna parte va contemperato con quello dell’altra, cosicché, con riguardo alle notifiche, a ragione vengono tenuti presenti non solo gli interessi del destinatario dell’atto, ma anche le esigenze del notificante, sul quale possono gravare oneri di notifica entro termini di decadenza». Infine, ha sottolineato che non è utile la comparazione con l’art. 149 cod. proc. civ., il quale, al contrario dell’art. 140 cod. proc. civ., dispone, in caso di notificazione a mezzo posta, che l’avviso di ricevimento della raccomandata debba essere allegato all’originale, con la conseguenza che la notifica va considerata perfezionata solo alla data della ricezione della raccomandata. Secondo la sentenza, infatti, la notifica a mezzo posta non prevede per il destinatario maggiori garanzie di quelle previste dall’art. 140 cod. proc. civ.: nel caso di notifica per posta, «la ricevuta di ritorno riguarda l’unica operazione predisposta perché l’atto pervenga nella sfera del destinatario ed equivale alla relata che l’ufficiale giudiziario appone in calce all’originale dell’atto qualora questo sia notificato ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. Se il destinatario è irreperibile o il plico venga rifiutato, si ha affissione di avviso presso la casa del destinatario e se ne fa menzione nella ricevuta di ritorno (così come nel caso dell’art. 140 se ne fa menzione nella relata dell’ufficiale giudiziario), ma manca completamente il secondo avviso di cui all’art. 140 cod. proc. civ.».

Altre pronunce hanno confermato questa conclusione. Le ordinanze n. 76 e n. 148 del 1976, n. 57 del 1978 e n. 192 del 1980 hanno dichiarato la manifesta infondatezza di analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sollevate nella parte in cui questa consente di ritenere perfetta la notifica dalla data di spedizione della raccomandata da esso prescritta e non da quella della sua ricezione. La sentenza n. 250 del 1986 ricorda che la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. si perfeziona dopo il deposito della copia dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e con la spedizione a quest’ultimo della raccomandata con avviso di ricevimento, senza che rilevino ai fini della perfezione della notificazione la consegna della raccomandata al destinatario e l’allegazione all’originale dell’atto dell’avviso di ricevimento. E l’ordinanza n. 904 del 1988 precisa che «una volta realizzata la fondamentale esigenza dell’immissione della copia dell’atto da notificare nella sfera di disponibilità del destinatario – esigenza certamente soddisfatta dall’art. 140 cod. proc. civ. con l’affissione dell’avviso di deposito – l’adozione di ulteriori correttivi in senso garantista della disciplina in subiecta materia resta riservata alle scelte discrezionali del legislatore, in relazione a situazioni di volta in volta differenti».

5.2. ( I successivi sviluppi della giurisprudenza costituzionale impongono di rimeditare queste conclusioni.

5.2.1. ( In primo luogo, la ratio che giustificava la spedizione della raccomandata come momento perfezionativo della notificazione ex art. 140 cod. proc. civ. in relazione alla necessità di bilanciare gli opposti interessi del notificante e del destinatario e all’esigenza di non addossare al primo i rischi inerenti al decorso del tempo per la consegna della raccomandata, non è più riproponibile nel sistema delle notifiche derivante dalla sentenza di questa Corte n. 477 del 2002. Per effetto di detta sentenza (con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, terzo comma, della legge n. 890 del 1982, nella parte in cui prevedeva che la notificazione si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario) risulta infatti ormai presente nell’ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario; con la conseguenza che, anche per le notificazioni eseguite ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., al fine del rispetto di un termine pendente a carico del notificante, è sufficiente che l’atto sia consegnato all’ufficiale giudiziario entro il predetto termine, mentre le formalità previste dal citato art. 140 possono essere eseguite anche in un momento successivo (sentenza n. 28 del 2004; ordinanza n. 97 del 2004).

Ciò comporta che, mentre il notificante ex art. 140 cod. proc. civ., sia pure subordinatamente al buon esito della notifica, evita ogni decadenza a suo carico con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, il destinatario – in un contesto che, dal punto di vista del perfezionamento della notifica, continua ad essere ancorato alla spedizione della raccomandata informativa, trascurando la ricezione della stessa (o gli altri modi considerati dal sistema equipollenti) – soffre di una riduzione dei termini per lo svolgimento delle successive attività difensive, giacché questi cominciano a decorrere da un momento anteriore rispetto a quello dell’effettiva conoscibilità dell’atto.

Né la presunzione di conoscenza dell’atto da parte del destinatario con la semplice spedizione della raccomandata prevista dall’art. 140 cod. proc. civ. può ulteriormente giustificarsi con il ritenere che sia onere del destinatario, ove si allontani, di predisporre le cose in modo da poter essere informato di eventuali comunicazioni che siano a lui dirette. Difatti, l’evoluzione della vita moderna e gli spostamenti sempre più frequenti per la generalità delle persone fanno sì che l’onere di assunzione di misure precauzionali in vista di eventuali notificazioni non può operare anche in caso di assenze brevi del destinatario, poiché altrimenti il suo diritto di difesa sarebbe condizionato da oneri eccessivi.

5.2.2. ( In secondo luogo, è da tener presente che questa Corte, con la sentenza n. 346 del 1998, ha giudicato priva di ragionevolezza e lesiva della possibilità di conoscenza dell’atto da parte del destinatario la disciplina della consimile notificazione a mezzo posta di cui all’art. 8 della legge n. 890 del 1982, dichiarandone l’illegittimità costituzionale: (a) sia nella parte in cui non prevedeva che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, fosse data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego; (b) sia nella parte in cui prevedeva che il piego fosse restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

A questo punto, dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale, è intervenuto il legislatore, che, con l’art. 2 del decreto-legge n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005, ha sostituito, per quello che qui rileva, il secondo ed il quarto comma dell’art. 8 della legge n. 890 del 1982, prevedendo che:

(a) se le persone abilitate a ricevere il piego, in luogo del destinatario, rifiutano di riceverlo, ovvero se l’agente postale non può recapitarlo per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, il piego è depositato lo stesso giorno presso l’ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza;

(b) del tentativo di notifica del piego e del suo deposito presso l’ufficio postale o una sua dipendenza è data notizia al destinatario, a cura dell’agente postale preposto alla consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d’ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda;

(c) l’avviso deve contenere l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell’ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell’indirizzo dell’ufficio postale o della sua dipendenza presso cui il deposito è stato effettuato, nonché l’espresso invito al destinatario a provvedere al ricevimento del piego a lui destinato mediante ritiro dello stesso entro il termine massimo di sei mesi, con l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l’atto sarà restituito al mittente;

(d) la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.

Ne risulta un capovolgimento rispetto al sistema precedente, in cui era l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 a prevedere una disciplina meno garantista per il notificatario rispetto a quella apprestata, in presenza di analoghi presupposti di fatto, dall’art. 140 cod. proc. civ., perché la notifica a mezzo posta si perfeziona, per il destinatario, non con il semplice invio a cura dell’agente postale della raccomandata che dà avviso dell’infruttuoso accesso, ma decorsi dieci giorni dall’inoltro della raccomandata o nel minor termine costituito dall’effettivo ritiro del plico in giacenza. E ciò, per di più, in un contesto nel quale la scelta della tipologia di notifica viene effettuata da soggetti, l’ufficiale giudiziario ed il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario: il solo notificante, infatti, può richiedere all’ufficiale giudiziario di effettuare la notifica personalmente e, qualora ciò non faccia, l’ufficiale giudiziario può, a sua discrezione, scegliere l’uno o l’altro modo di notificazione (sentenza n. 346 del 1998).

5.3. ( Nell’attuale sistema normativo si è dunque verificata una discrasia, ai fini dell’individuazione della data di perfezionamento della notifica per il destinatario, tra la disciplina legislativa della notificazione a mezzo posta, dettata dal novellato art. 8 della legge n. 890 del 1982 – dove le esigenze di certezza nella individuazione della data di perfezionamento del procedimento notificatorio, di celerità nel completamento del relativo iter e di effettività delle garanzie di difesa e di contraddittorio sono assicurate dalla previsione che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata informativa ovvero dalla data di ritiro del piego, se anteriore – e la disciplina dell’art. 140 cod. proc. civ., nella quale il diritto vivente, ai fini del perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario, dà rilievo, per esigenze di certezza, alla sola spedizione della raccomandata, sia pure recuperando ex post la ricezione della raccomandata, da allegare all’atto notificato, o in vista del consolidamento definitivo degli effetti provvisori o anticipati medio tempore verificatisi (Corte di cassazione, Sezioni unite, 13 gennaio 2005, n. 458), o in funzione della prova dell’intervenuto perfezionamento del procedimento notificatorio (Corte di cassazione, Sezioni unite, 14 gennaio 2008, n. 627).

È evidente che la disposizione denunciata, così come interpretata dal diritto vivente, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto a lui notificato, viola i parametri costituzionali invocati dal rimettente, per il non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante, su cui ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notificatorio, e quelli del destinatario, in una materia nella quale, invece, le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità, e per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dall’art. 8 della legge n. 890 del 1982.

Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 111, primo e secondo comma, 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 gennaio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 gennaio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Corte Costituzionale Sentenza n. 275 del 19.10.2009

La lavoratrice che lavora oltre i 60 anni non deve comunicarlo

 

Presidente AMIRANTE – Redattore MAZZELLA

Camera di Consiglio del 07/10/2009 Decisione del 19/10/2009

Deposito del 29/10/2009 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 30 del decreto legislativo 11/04/2006, n. 198.

Atti decisi:

ord. 91/2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco  AMIRANTE       Presidente

– Ugo               DE SIERVO        Giudice

– Paolo            MADDALENA               “

– Alfio              FINOCCHIARO             “

– Alfonso        QUARANTA                  “

– Luigi              MAZZELLA                   “

– Gaetano        SILVESTRI                   “

– Sabino           CASSESE                    “

– Maria Rita    SAULLE                       “

– Giuseppe      TESAURO                    “

– Paolo Maria   NAPOLITANO               “

– Giuseppe      FRIGO                         “

– Alessandro  CRISCUOLO                 “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la re cedibilità ad nutum di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

Riferisce il rimettente che, con ricorso ex art. 414 c.p.c., la signora Caterina Giovinazzo aveva convenuto in giudizio l’impresa Manutencoop Facility Management S.p.A., per impugnare il licenziamento a lei intimato in data 9 maggio 2007. La ricorrente aveva esposto di essere stata licenziata in data 9 maggio del 2007 per avere raggiunto l’età pensionabile, senza anticipatamente manifestare la propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di lavoro. La difesa di parte ricorrente, insistendo per l’accertamento della illegittimità del recesso, aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 27 e 35 della Carta costituzionale, della disposizione di cui all’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, che, a suo dire, aveva reintrodotto lo stesso onere di comunicazione già dichiarato incostituzionale con ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n. 498 del 1988 e n. 256 del 2002).

Il rimettente ricorda che la Corte costituzionale aveva dichiarato dapprima l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966 e di altre disposizioni connesse (sentenza n. 137 del 1986), «nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per questo motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo», giudicando ormai venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo, e, di riflesso, illegittima qualsiasi disposizione che differenziasse l’applicazione dei diritti di tutela del posto di lavoro alla condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna.

In seguito, anche l’onere, introdotto dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato incostituzionale.

Detti principi, prosegue il rimettente, venivano poi ulteriormente ribaditi dalla pronunzia n. 256 del 2002, laddove si afferma, in sintesi, che «i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo».

Sennonché, riferisce il Tribunale di Milano, il legislatore, tramite l’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), nel ribadire il pieno diritto delle donne lavoratrici di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, di fatto ha reintrodotto le disposizioni in materia di preventiva dichiarazione di opzione al datore di lavoro, nel senso di subordinare il diritto della donna lavoratrice alla stabilità del rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno di età, ad una esplicita e preventiva manifestazione di volontà.

Tanto premesso, il Tribunale rimettente dubita che la pure constatata esistenza di una normativa di carattere previdenziale più favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela differenziata in materia di licenziamenti.

Infatti, le argomentazioni che avevano già in passato indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittima e priva di una logica giustificatrice l’introduzione di un obbligo per le lavoratrici donne, quale condizione per rendere applicabile la normativa vincolistica sui licenziamenti, non solo appaiono al rimettente di rinnovata attualità, ma addirittura rafforzate proprio alla luce delle penetranti modifiche che si sono venute a determinare nel mercato del lavoro e nella struttura della società italiana (ed europea), che sempre più valuta come radicalmente inattuale qualsiasi differenziazione di norme e/o di trattamenti in funzione del sesso.

Nella fattispecie, quindi, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro e, quindi, la diminuita tutela della lavoratrice in tema di licenziamento, sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Secondo la difesa erariale, la circostanza che la facoltà della donna di restare in servizio sino all’età massima prevista per gli uomini sia subordinata, dall’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, all’onere di una preventiva comunicazione al datore di lavoro non sarebbe discriminatoria rispetto all’uomo né sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. né sotto il profilo della violazione dell’art. 37 Cost., essendo mutato il quadro normativo di riferimento rispetto alla sentenza n. 498 del 1988.

Essendo, infatti, facoltà della lavoratrice avvalersi o meno della possibilità di prolungare il rapporto di lavoro fino al limite massimo di 65 anni, subordinare la continuazione del rapporto ad una tempestiva comunicazione al datore di lavoro, afferma l’Avvocatura, si giustifica perfettamente con le esigenze organizzative di questo e la necessità per lo stesso di conoscere per tempo le determinazioni del proprio dipendente in proposito.

Parimenti infondato, per il Presidente del Consiglio, sarebbe anche l’ulteriore parametro costituzionale invocato a sostegno della denunciata incostituzionalità della norma e basato su una presunta discriminazione delle donne lavoratrici in assenza di un analogo obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione dell’obbligo della comunicazione per le sole donne si giustificherebbe sempre con l’originaria diversa disciplina in materia di età pensionabile.

Secondo il Presidente del Consiglio, poiché è riconosciuta solo alle lavoratrici donne la possibilità prolungare la propria età lavorativa fino a quella prevista per gli uomini, in un’ottica di parificazione totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi principi e diritti, e non prevedendosi un’analoga possibilità di prolungamento del rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti ad andare in pensione al raggiungimento dei 65 anni, l’obbligo della comunicazione non potrebbe che essere imposto alla sole donne, non essendo concepibile un obbligo di comunicazione per una facoltà non riconosciuta.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum da parte di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

2. – Nella legislazione precedente, il principio di cui all’art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), che sanciva la radicale inapplicabilità della tutela contro i licenziamenti illegittimi alle lavoratrici che fossero rimaste in servizio oltre il raggiungimento della loro età pensionabile (allora prevista in 55 anni), era stato temperato successivamente dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), in base al quale, alla maturazione di detta età pensionabile, le lavoratrici ben potevano restare in servizio fino al raggiungimento dell’età lavorativa massima prevista per gli uomini (all’epoca 60 anni), a condizione che comunicassero tale loro opzione al datore di lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile.

Le ora riportate disposizioni avevano formato oggetto di due successivi interventi da parte di questa Corte. Con la sentenza n. 137 del 1986, sul presupposto che l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e di riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro aveva reso il lavoro femminile meno usurante e più sicuro, era stato dichiarato illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l’art. 11 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui prevedeva il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo. In altri termini, si riconosceva, alla medesima lavoratrice, la scelta se essere collocata a riposo alla stessa età degli uomini, conservando la piena tutela contro il licenziamento ingiustificato, o se andare in pensione anticipatamente.

Restava tuttavia in vigore la previsione, contenuta nell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, dell’onere, per la donna che scegliesse di restare in servizio oltre l’età pensionistica, di comunicare al datore di lavoro tale opzione tre mesi prima della data di scadenza, pena la perdita da parte della stessa della tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Ebbene, anche tale previsione, in tutto corrispondente a quella oggetto dell’odierna questione, veniva dichiarata illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998, “nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti”. Nella citata pronuncia, la Corte affermava che anche la previsione di un simile onere discrimina «la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto […], non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e […] risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro», e ribadiva che «l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione».

3. – La questione sottoposta ora all’esame della Corte è fondata in relazione ai medesimi parametri degli artt. 3 e 37 della Costituzione.

Nessuna delle disposizioni di legge intervenute in materia nell’arco temporale intercorso tra le disposizioni dichiarate illegittime da questa Corte e l’odierna questione di costituzionalità ha in alcun modo alterato i termini del problema.

Nel periodo indicato, ben vero, si è realizzato, a più scaglioni, un complessivo spostamento in avanti dell’età pensionistica di uomini e donne. L’art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), emesso in attuazione di tale legge, ha infatti disposto, secondo quanto indicato in una tabella allegata al decreto stesso poi sostituita dall’art. 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), per il periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999, una elevazione graduale dei limiti di età rispettivamente previsti per gli uomini e per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno e i sessantaquattro anni e per le donne tra i cinquantasei e i cinquantanove anni) fino a pervenire, con la disciplina “a regime”, decorrente dal 1° gennaio 2000, alla introduzione del limite di sessantacinque anni di età per gli uomini e sessanta anni per le donne.

Tali interventi normativi, tuttavia, non hanno inciso sulla persistente validità delle precedenti statuizioni di questa Corte, in quanto non hanno determinato alcuna alterazione della portata e dell’incidenza della disposizione oggi censurata, identica a quella già dichiarata incostituzionale.

Infatti, come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 256 del 2002, «le innovazioni introdotte […] non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 della Costituzione. Infatti, mentre le diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente introdotto dall’art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i limiti della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età, sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto per le donne la correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.».

4. – La disposizione censurata con l’odierno incidente di costituzionalità, ha dunque introdotto, in un contesto normativo non alterato, per quanto rileva in questa sede, dalle pur numerose novità legislative apportate, una norma dal medesimo contenuto precettivo dell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, la cui illegittimità costituzionale è stata dichiarata da questa Corte con la citata sentenza n. 498 del 1998. Tale disposizione, nel subordinare il riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato al rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la medesima discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già stigmatizzata in tale occasione.

Anche nella disposizione oggi censurata, l’onere di comunicazione posto a carico della lavoratrice, infatti, condizionando il diritto di quest’ultima di lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento – e, dunque, a un possibile rischio – che, nei fatti, non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

Né la reintroduzione di un istituto, quale l’onere di comunicazione, già dichiarato illegittimo da questa Corte può essere ritenuta giustificata in ragione di una maggiore considerazione delle esigenze organizzative del datore di lavoro, dato che, proprio per effetto dell’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale, quest’ultimo, nell’organizzare il proprio personale dovrà considerare come normale la permanenza in servizio della donna oltre l’età pensionabile e come meramente eventuale la scelta del pensionamento anticipato, nella prospettiva, già indicata da questa Corte, della tendenziale uniformazione del lavoro femminile a quello maschile.

5. – Va dunque dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

6. – Le questioni relative agli artt. 4 e 35 della Costituzione restano assorbite.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Corte Costituzionale n. 238 del 16.07.2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promossi con ordinanze del 17 luglio 2008 dal Giudice di pace di Catania e del 7 novembre 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, rispettivamente iscritte al n. 445 del registro ordinanze 2008 e al n. 21 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 e n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Franco Gallo.

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione proposto ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, il Giudice di pace di Catania, con ordinanza depositata il 17 luglio 2008 (r.o. n. 445 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 102, secondo comma, e VI disposizione transitoria della Costituzione, questioni di legittimità dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani».

1.1. – Il Giudice di pace rimettente premette, in punto di fatto, che:

a) il contribuente si è opposto, ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., al diritto del Comune di Catania di procedere, a séguito della notificazione di una cartella di pagamento, alla riscossione coattiva «della tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000»;

b) la convenuta s.p.a. SERIT Sicilia, agente della riscossione per la provincia di Catania, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.

1.2. – Il medesimo giudice rimettente premette altresì, in punto di diritto, che:

a) «con l’emanazione del cosiddetto decreto Ronchi» (art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, recante «Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio») la tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU), disciplinata dall’art. 58 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, è stata sostituita con un prelievo di natura non più tributaria, ma privatistica, cioè con la tariffa di igiene ambientale (TIA), determinata in base al costo complessivo del servizio, «al fine di far pagare agli utenti il costo del reale servizio usufruito»;

b) la natura non tributaria della TIA è desumibile sia dalla denominazione di «tariffa» sia dalla sua determinazione quantitativa in ragione della copertura del costo del servizio, a nulla rilevando – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006 – né il fatto che la sua disciplina presenterebbe elementi di natura tributaria e non tributaria né il fatto che essa subentra alla TARSU, cioè ad una entrata avente indiscussa natura tributaria.

1.3. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che la norma censurata – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – «comporta lo snaturamento della giurisdizione tributaria e, quindi, la violazione» degli evocati parametri costituzionali, perché, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, «la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto» (sentenza n. 64 del 2008; ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006).

1.4. – Quanto alla rilevanza, il Giudice di pace osserva che la decisione sulla controversia «non potrà prescindere dall’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto, eccezione la cui fondatezza dipende dall’applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata».

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Giudice di pace di Catania ed ha chiesto dichiararsi manifestamente inammissibili, per difetto di motivazione, le questioni sollevate in riferimento al primo comma dell’art. 25 ed alla VI disposizione transitoria Cost., nonché manifestamente infondata quella sollevata in riferimento al secondo comma dell’art. 102 Cost. In particolare, in relazione a quest’ultima questione, la difesa erariale afferma che:

a) l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha soppresso, in attuazione di direttive comunitarie, la «tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani» ed ha istituito una «tariffa» per la copertura dei costi del servizio di smaltimento;

b) l’art. 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel quale – sempre per la difesa erariale – «è stata trasfusa la disciplina della tariffa», «non presenta […] caratteri di sostanziale diversità rispetto alla previgente “tassa per lo smaltimento dei rifiuti”, considerata la sostanziale identità del presupposto oggettivo e dei soggetti passivi, nonché la confermata obbligatorietà del prelievo»;

c) l’obbligo del privato di pagare detta tariffa scaturisce, pertanto, da un fatto individuato direttamente dalla legge e non da un titolo contrattuale o da un fatto comunque fonte di un rapporto negoziale;

d) inoltre, la tariffa prevede la copertura di costi (come ad esempio le spese di spazzamento delle strade) estranei alla logica della corrispondenza tra costi e benefici e riferibili, piuttosto, alla collettività;

e) la tariffa, dunque, in considerazione della doverosità e del fondamento solidaristico della prestazione, va qualificata come “tassa”, cioè come una forma di finanziamento di un servizio pubblico attraverso l’imposizione dei relativi costi sull’area sociale che da tale servizio riceve, nel suo insieme, un beneficio.

3. – Nel corso di due giudizi riuniti aventi ad oggetto l’impugnazione, da parte del medesimo contribuente, di avvisi di pagamento della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e relativa agli anni 2007 e 2008, la Commissione tributaria provinciale di Prato, con ordinanza depositata il 7 novembre 2008 (r.o. n. 21 del 2009), ha sollevato, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., questione di legittimità del citato art. 2, comma 2, secondo periodo, del d. lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA.

3.1. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di diritto, che:

a) con le sentenze n. 130 e n. 64 del 2008 e con l’ordinanza n. 34 del 2006, la Corte costituzionale ha sottolineato che l’attribuzione della giurisdizione alle commissioni tributarie è imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto;

b) la tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006 («già art. 49 d.Lgs. n. 22/1997») non ha natura tributaria, ma di «corrispettivo per il servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani» (comma 1) ed è costituita da due quote, una commisurata alle componenti essenziali del costo del servizio (investimenti, ammortamenti), l’altra «rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti» (comma 4), così da assicurare «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (stesso comma 4);

c) il mero dato formale costituito dal fatto che il comma 15 del menzionato art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 richiama, per la riscossione coattiva della tariffa, le norme per la riscossione delle imposte sul reddito (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) non è sufficiente ad escludere che la suddetta tariffa abbia la natura di corrispettivo di un servizio, commisurato al costo di questo ed all’entità della sua fruizione da parte del privato;

d) tuttavia, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 4895 del 2006, hanno affermato che, in forza della disposizione denunciata, le controversie relative alla debenza della TIA sono devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie.

3.2. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che tale ultima disposizione – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale e, quindi, víola l’evocato parametro costituzionale.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche in questo giudizio ed ha chiesto dichiararsi la questione manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. Per la difesa erariale, l’inammissibilità deriva dal difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nell’ordinanza di rimessione manca l’esposizione dei fatti di causa e dei termini della controversia; l’infondatezza deriva, invece – per le medesime considerazioni svolte nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dal Giudice di pace di Catania – dalla natura tributaria della tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

Motivi della decisione

1. – Il Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui dispone che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani» e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/ CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Il Giudice di pace rimettente afferma che la disposizione denunciata víola:

a) l’art. 25, primo comma, della Costituzione;

b) la VI disposizione transitoria della Costituzione;

c) l’art. 102, secondo comma, Cost. In particolare, tale ultimo parametro sarebbe violato, perché la disposizione censurata, attribuendo alla cognizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti la TIA, la quale non è qualificabile come “tributo”, comporterebbe «lo snaturamento della giurisdizione tributaria […], imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto».

2. – La Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009) dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione denunciata dal Giudice di pace di Catania.

Per il rimettente, la suddetta disposizione víola l’art. 102, secondo comma, Cost., perché attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie controversie che non hanno ad oggetto tributi e, pertanto, «si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale», vietata da tale parametro.

3. – L’identità della disposizione denunciata dai due giudici rimettenti e la parziale coincidenza sia delle censure prospettate, sia dei parametri costituzionali evocati, sia delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, rendono opportuna la riunione dei giudizi, al fine di esaminare e decidere congiuntamente le questioni.

4. – Le questioni sollevate dal Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) sono manifestamente inammissibili.

4.1. – Con riferimento agli evocati art. 25, primo comma, Cost. e VI disposizione transitoria della Costituzione, il rimettente non indica le ragioni della denunciata illegittimità costituzionale. Da ciò consegue la manifesta inammissibilità di tali questioni.

4.2. – Con riferimento al parimenti evocato secondo comma dell’art. 102 Cost., il rimettente afferma che:

a) il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, come opposizione al diritto del Comune di Catania di procedere alla riscossione coattiva del credito risultante da una cartella di pagamento notificata al debitore;

b) tale credito riguarda «la tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000».

4.2.1. – In relazione all’affermazione sub a) – secondo cui il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. -, va rilevato che sia l’art. 72, comma 5, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, con riferimento alla TARSU, sia l’art. 49, comma 15, del d.lgs. n. 22 del 1997, con riferimento alla TIA, fanno espresso rinvio, per la disciplina della riscossione di tali prelievi, al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte su reddito). In particolare, l’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), di detto decreto presidenziale stabilisce che «Non sono ammesse: […]

a) le opposizioni regolate dall’art. 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni». Il rimettente, tuttavia, qualifica espressamente l’azione proposta dal contribuente non come opposizione agli atti esecutivi, ma come opposizione regolata dall’art. 615 cod. proc. civ., ed inoltre non precisa se essa abbia ad oggetto la pignorabilità dei beni. L’ordinanza, pertanto, è priva di motivazione sulle ragioni per le quali il Giudice di pace – nonostante il citato chiaro disposto dell’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), del d.P.R. n. 602 del 1973 – ha ritenuto ammissibile, nella specie, detta opposizione. In difetto di tale motivazione, non appare evidente che il giudice a quo debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.2. – Sempre in relazione all’affermazione sub a), va ulteriormente rilevato che l’art. 2, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce che «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Nell’ordinanza di rimessione viene riferito che il giudizio principale riguarda la fase della esecuzione forzata tributaria successiva alla notifica della cartella di pagamento, e cioè proprio la fase per la quale la citata disposizione prevede la giurisdizione del giudice ordinario. Dopo tale premessa, tuttavia, il rimettente non fornisce alcuna motivazione sulle ragioni per le quali, nella specie, egli ritiene sussistere – in contrasto con il sopra citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 – la giurisdizione delle commissioni tributarie, in luogo di quella del giudice ordinario. Anche in questo caso, in difetto di siffatta motivazione, non appare evidente che il giudice debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata – neppure sotto tale diverso profilo – la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.3. – Infine, con l’affermazione sub b), il rimettente dichiara, ad un tempo, che il credito per il quale si procede alla riscossione coattiva riguarda solo la TARSU e che quest’ultimo prelievo, della cui natura tributaria egli non dubita, è stato successivamente sostituito dalla TIA, della cui natura tributaria, invece, dubita. La circostanza che le cartelle di pagamento poste a base dell’esecuzione forzata attengono esclusivamente alla TARSU, e non alla TIA, rende non rilevante la sollevata questione, la quale ha ad oggetto la norma, non applicabile nel giudizio a quo, con cui sono attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA. Di qui la manifesta inammissibilità, anche sotto tale profilo, della questione.

5. – La difesa erariale ha eccepito la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009), affermando che l’ordinanza di rimessione, non avendo esposto i fatti di causa ed indicato i termini della controversia, è priva di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione non è fondata. Contrariamente a quanto dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato, infatti, il rimettente ha chiaramente precisato che il giudizio principale ha ad oggetto l’impugnazione di «avvisi di pagamento […] relativi alla TIA (tariffa igiene ambientale) per gli anni 2007 e 2008, concernente l’immobile ove ha sede l’impresa individuale» del soggetto sottoposto a prelievo. Ciò è sufficiente ad evidenziare la rilevanza della questione, perché, per affermare la propria giurisdizione, il giudice a quo deve fare applicazione proprio della disposizione denunciata.

6. – Nel merito, la questione prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato non è fondata, perché il giudice rimettente muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la TIA ha natura di corrispettivo privatistico di prestazioni contrattuali e non di tributo. Dall’erroneità di tale presupposto consegue la non fondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.

6.1. – Al riguardo, per precisare il thema decidendum, appare opportuno procedere ad una sintetica ricostruzione delle linee essenziali del complesso quadro normativo in cui si inserisce la disposizione denunciata.

L’evoluzione normativa in materia, per quanto qui interessa, è scandita da quattro diversi principali interventi legislativi.

6.1.1. – Il regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale), prevedeva, originariamente, la corresponsione al Comune di un «corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche» ed attribuiva natura privatistica al rapporto tra utente e servizio comunale. Tale configurazione sinallagmatica del rapporto è stata, però, radicalmente mutata – con un primo significativo intervento del legislatore – dall’art. 10 della legge 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), il quale ha attribuito ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), ponendo tale prelievo a carico dei soggetti occupanti i fabbricati posti nelle zone in cui si svolge (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta. L’art. 21 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (Attuazione delle direttive CEE numero 75/442 relativa ai rifiuti, numero 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), ha poi sostituito (a decorrere dal 1° gennaio 1984, come successivamente stabilito dall’art. 25 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131) l’intera sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto r.d. n. 1175 del 1931. Con tale normativa e, in particolare, con la nuova formulazione dell’art. 268 del testo unico, il legislatore ha esteso e reso obbligatorie sia l’effettuazione dei vari servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l’applicazione della «tassa» (che il comma 2 dell’art. 20 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 786, aveva già reso obbligatoria, con effetto dal 1° gennaio 1982, per i Comuni che avevano istituito il servizio) a carico di chiunque occupi o conduca locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui sono istituiti i servizi, ovvero aree adibite a campeggi, a distributori di carburante, a sala da ballo all’aperto, nonché a qualsiasi altra area scoperta ad uso privato e non costituente accessorio o pertinenza dei suddetti locali tassabili. In particolare, il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, «al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia»; e ciò in coerenza con la denominazione di «tassa» (art. 268, citato). Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, l’art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, ha previsto, con effetto dal 1° gennaio 1989, che mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento (cioè di «conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica sul suolo e nel suolo») non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico» (cosiddetti “esterni”) e che fossero tenuti al pagamento (sia pure in misura ridotta) anche gli occupanti di case coloniche e “case sparse” non ubicate nella zona di raccolta dei rifiuti. L’art. 8 dello stesso decreto-legge ha ribadito la qualificazione di «tassa» del prelievo, inserendo tale denominazione anche nella rubrica della citata sezione II del regio decreto.

6.1.2. – Un secondo essenziale intervento legislativo è costituito dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), efficace a decorrere dal 1° gennaio 1994, il quale – in attuazione del comma 4 dell’art. 4 della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n. 421 – ha stabilito, all’art. 58, che, in relazione all’istituzione ed all’attivazione del servizio relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni «debbono istituire una tassa annuale» (usualmente denominata “TARSU”), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali per i quali sussistono i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento per cento) del costo del servizio stesso, nel rispetto delle prescrizioni e dei criteri specificati negli artt. da 59 a 81 del medesimo decreto legislativo. Diversamente dal precedente regime, il prelievo non riguarda lo smaltimento dei rifiuti “esterni” ed il richiamo ai rifiuti solidi urbani «equiparati» (ai sensi dell’art. 60 del decreto legislativo) a quelli «interni» – richiamo originariamente contenuto nel comma 1 del citato art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 – è stato soppresso dalla lettera a) del comma 3 dell’art. 39 della legge 22 febbraio 1994, n. 146 (articolo che ha abrogato anche l’art. 60 del suddetto decreto legislativo). Solo con l’introduzione del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993, ad opera dall’art. 3, comma 68, lettera b), della legge 28 dicembre 1995, n. 549, hanno acquistato rilevanza anche per la TARSU i rifiuti “esterni”, perché tale disposizione stabilisce che dal costo complessivo dei servizi di nettezza urbana gestiti in regime di privativa comunale va dedotta una quota «a titolo di costo dello spazzamento dei rifiuti solidi urbani di cui all’art. 2, terzo comma, numero 3), del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915» (cioè «i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private, comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime, lacuali e sulle rive dei fiumi»). L’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, ha ampliato, dal punto di vista quantitativo, l’incidenza del suddetto costo di spazzamento dei rifiuti “esterni”.

Quanto ai soggetti passivi, la tassa è dovuta (in solido tra i componenti del nucleo familiare o tra gli utilizzatori in comune degli immobili) da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti – ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde – esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, ivi comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). I soggetti passivi hanno «l’obbligo di denuncia» dell’occupazione o detenzione dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune (art. 70, specie commi 1 e 6). In connessione con l’obbligo di presentare tale dichiarazione di scienza, è attribuito al Comune il potere di «emettere» (nel senso di “notificare”, come chiarito dal comma 1 dell’art. 72) motivati avvisi di accertamento d’ufficio (in caso di omessa denuncia) o in rettifica (in caso di denuncia infedele o incompleta), entro specifici termini di decadenza (artt. 71, 73). È prevista l’esclusione o l’esonero dal tributo in determinati casi in cui gli immobili si trovino in condizione di non potere produrre rifiuti, mentre è, di regola, irrilevante la circostanza che il soggetto passivo abbia, in concreto, autonomamente provveduto allo smaltimento (art. 62, commi 2, 3 e 5). Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall’altro, alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte dei soggetti passivi. In particolare, la tassa, mediante determinazione tariffaria da parte del Comune, «può essere commisurata […] in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile di rifiuti solidi […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, come sostituito dall’art. 3, comma 68, della legge 28 dicembre 1995, n. 549). Solo in via eccezionale ed alternativa è prevista la possibilità di commisurare la medesima tassa, «per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento» (ibidem). È coerente con tale impostazione pubblicistica l’obbligo, imposto agli occupanti o detentori «degli insediamenti comunque situati fuori dall’area di raccolta», di utilizzare il servizio pubblico di nettezza urbana, conferendo i rifiuti urbani, «interni ed equiparati», nei «contenitori viciniori» (art. 59, comma 3). È compatibile con la medesima impostazione, anche la previsione di riduzioni della tassa per le zone in cui la raccolta non viene effettuata e per i casi di non svolgimento, svolgimento per periodi stagionali, nonché per i casi in cui l’utente dimostri di aver provveduto autonomamente allo smaltimento in periodi di protratto mancato svolgimento del servizio, ove l’autorità sanitaria competente abbia riconosciuto una situazione di danno o di pericolo di danno alle persone o all’ambiente secondo le norme e prescrizioni sanitarie nazionali (art. 59, commi 2, 4, 5, 6, secondo periodo). La natura pubblicistica e non privatistica del prelievo è ulteriormente evidenziata sia dalla regola secondo cui «L’interruzione temporanea del servizio di raccolta per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo); sia dal sopra citato comma 3-bis dell’art. 61 e successive modificazioni, che ha reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni. Il d.lgs. n. 507 del 1993 prevede anche una «tassa giornaliera di smaltimento» dei rifiuti producibili mediante l’uso (autorizzato o no), per periodi inferiori a 183 giorni per anno solare, di locali od aree pubbliche, di uso pubblico, o aree gravate da servitú di pubblico passaggio (art. 77). Per la riscossione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, e del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (art. 72). Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, il Comune ha facoltà di disciplinare con proprio regolamento l’affidamento a terzi delle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione della tassa. Sanzioni specifiche sono previste dall’art. 76 (e successive modificazioni) per l’omessa o infedele denuncia e per la mancata presentazione o trasmissione di atti, documenti o dati richiesti dal Comune; sono comunque applicabili le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria stabilite dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

6.1.3. – Un terzo intervento legislativo si è realizzato con l’entrata in vigore (dal 1° gennaio 1999) dell’art. 49 del cosiddetto “decreto Ronchi”, cioè del d.lgs. n. 22 del 1997 (successivamente modificato dall’art. 1, comma 28, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, e dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 488), il quale – in dichiarata attuazione delle direttive 91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE – ha stabilito l’obbligo dei Comuni di effettuare, in regime di privativa, la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati e, in particolare, ha previsto l’istituzione, da parte dei Comuni medesimi, di una «tariffa» per la copertura integrale dei costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa – usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) – «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). Con regolamento del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, viene elaborato il metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento (comma 5). Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3). La tariffa è ridotta nei casi in cui il produttore di rifiuti assimilati dimostri (mediante attestazione rilasciata da chi effettui il recupero) di aver avviato detti rifiuti al recupero (comma 14). La tariffa è applicata e riscossa dal soggetto che gestisce il servizio (commi 9 e 13). Diversamente dalla normativa sulla TARSU, l’art. 49 del “decreto Ronchi”, pertanto: a) evita di qualificare espressamente il prelievo come “tributo” o “tassa”, pur mantenendo il riferimento testuale alla «tariffa»; b) stabilisce che la TIA deve sempre coprire l’intero costo del servizio di gestione dei rifiuti; c) dispone che detta tariffa è dovuta anche per la gestione dei rifiuti “esterni” (come già statuiva l’abrogato art. 268 del r.d. n. 1175 del 1931, quale sostituito dall’art. 21 del d.P.R. n. 915 del 1982, in relazione all’art. 9 del decreto-legge n. 66 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 1989); d) non reca, con riguardo alla TIA, specifiche disposizioni in tema di accertamento, liquidazione e sanzioni. Analogamente alla TARSU, anche per la TIA la riscossione volontaria e coattiva della tariffa può essere effettuata tramite ruolo, secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973 e del d.P.R. n. 43 del 1988 (comma 15 del medesimo art. 49). Lo stesso art. 49 ha soppresso la TARSU «a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio», da disciplinarsi con il suddetto regolamento ministeriale (comma 1) al fine di garantire la graduale applicazione del metodo normalizzato e della tariffa ed il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni (commi 1 e 5). Resta comunque ferma la possibilità, per i Comuni, di deliberare l’applicazione della tariffa, «in via sperimentale», in sostituzione della TARSU, anche prima di tali termini (commi 1-bis e 16). La completa soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA, inizialmente fissata a decorrere dal 1° gennaio 1999, è stata via via differita dal legislatore, il quale, preso atto della difficoltà di rendere operativa, per i vari Comuni, l’abolizione del prelievo soppresso, ha previsto, con numerose disposizioni contenute soprattutto nelle varie leggi finanziarie, un articolato regime transitorio, che concede termine ai Comuni – da ultimo, fino a tutto il 2008 – per sostituire la TARSU con la TIA, secondo uno scadenzario differenziato, in ragione sia del grado di copertura dei costi dei servizi raggiunto dai diversi Comuni sia della popolazione dei Comuni stessi (comma 184 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, quale modificato dall’art. 5, commi da 1 a 2-quinquies del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante «Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2009, n. 13).

6.1.4. – La quarta rilevante modifica legislativa del prelievo è costituita dall’art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in vigore dal 23 aprile 2006, il quale ha soppresso la tariffa di cui all’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, sostituendola con la diversa «tariffa per la gestione dei rifiuti urbani» (come testualmente indicato nella rubrica dell’articolo), che una disposizione successiva (l’art. 5, comma 2-quater, del citato decreto-legge n. 208 del 2008) denomina «tariffa integrata ambientale (TIA)». Tale tariffa integrata deve essere determinata ad opera dell’autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO), prevista dall’art. 201 dello stesso decreto legislativo, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento ministeriale (da emanarsi, a sua volta, entro sei mesi dalla sopra indicata data di entrata in vigore della parte quarta del decreto legislativo e, quindi, dell’art. 238 in essa compreso) con il quale sono fissati i criteri generali per la definizione delle componenti dei costi e la determinazione della tariffa (commi 3 e 6). La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (comma 1, primo periodo). Detta tariffa, in particolare, è «commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri […] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali» (comma 2), e costituisce «il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall’art. 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36» (comma 1, secondo periodo) – cioè «i costi di realizzazione e di esercizio dell’impianto per lo smaltimento in discarica, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura per il periodo fissato dalla legge – oltre ai «costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade» (comma 3, secondo periodo). La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata» (comma 3) e che la sua riscossione, volontaria o coattiva, «può» essere effettuata secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l’Agenzia delle entrate» (comma 12). La soppressione della precedente tariffa di igiene ambientale ha effetto dalla data di entrata in vigore dello stesso art. 238, ma, fino alla completa attuazione della nuova tariffa integrata (cioè con l’emanazione del sopra menzionato regolamento ministeriale ed il compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa), «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10). Nel caso in cui il regolamento ministeriale non sia stato adottato entro il 30 giugno 2009, i Comuni possono ugualmente «adottare la tariffa integrata ambientale TIA […] ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti» (art. 5, comma 2-quater, del decreto-legge n. 208 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2009).

6.2. – Da tale ricostruzione normativa emerge che, per il periodo dal 1999 a tutto il 2008, in alcuni Comuni è applicabile la TARSU ed in altri la tariffa di igiene ambientale (TIA). Fino al 2009, poi, non risulta, allo stato, ancora applicabile dai Comuni la tariffa integrata ambientale di cui all’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006. La rilevata formale diversità delle fonti istitutive delle due suddette tariffe (ancorché entrambe usualmente denominate, in breve, TIA), la successione temporale delle fonti, la parziale diversità della disciplina sostanziale di tali prelievi, il fatto che la tariffa integrata espressamente sostituisce la tariffa di igiene ambientale, nonché la circostanza che i giudizi riuniti a quibus, pendenti presso la Commissione tributaria provinciale di Prato, hanno ad oggetto solo avvisi di accertamento della tariffa di igiene ambientale per gli anni d’imposta 2007 e 2008 sono tutti elementi che impediscono di ritenere che la questione sollevata dalla suddetta Commissione tributaria riguardi, oltre alla tariffa di igiene ambientale, anche la tariffa integrata ambientale. Ne deriva che lo scrutinio di legittimità costituzionale va limitato alla norma che attribuisce alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative alla debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e non anche di quelle relative alla debenza della tariffa integrata ambientale (TIA) prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

7. – così delimitato il thema decidendum, va rilevato che, nel porre la questione di legittimità costituzionale, il rimettente muove da due diversi assunti: a) che la giurisdizione tributaria, ai sensi dell’evocato parametro, deve avere ad oggetto solo controversie tributarie; b) che la TIA prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha natura non tributaria, ma di corrispettivo contrattuale.

7.1. – Il primo dei due assunti del rimettente è esatto. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102, secondo comma, Cost. (sentenze n. 141 del 2009; n. 130 e n. 64 del 2008).

La decisione della sollevata questione esige, dunque, che si proceda alla qualificazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, in quanto solo il riconoscimento della natura tributaria di tale prelievo può escludere la dedotta illegittimità costituzionale della disposizione denunciata.

7.2. – Il secondo assunto del rimettente, circa la natura di corrispettivo privatistico, propria della suddetta tariffa di igiene ambientale, è erroneo, come sopra osservato, ove si proceda al raffronto tra la sua disciplina positiva e la nozione di tributo, quale elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

7.2.1. – Questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).

7.2.2. – Con specifico riferimento alla disciplina della tariffa di igiene ambientale, va preliminarmente preso atto che non è individuabile, allo stato, un’univoca giurisprudenza di legittimità sulla natura di tale tariffa, anche se pare maggiormente attestato l’orientamento che le riconosce natura tributaria. Infatti, ad una pronuncia della Corte di cassazione civile che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno invece ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto di contrastanti opinioni anche nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo ed analitico esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al riguardo, non rilevano né la formale denominazione di «tariffa», né la sua alternatività rispetto alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo.

Quanto all’irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris («comunque denominati»). Inoltre, il termine «tariffa» – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali «tassa» e «tributo», tanto che anche l’art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una «tassa» e, quindi, un «tributo») si applica «in base a tariffa». Va comunque rilevato che, contrariamente a quanto sembrano ritenere il rimettente e la difesa erariale, il termine «corrispettivo» non compare, con riguardo alla TIA, nel cosiddetto “decreto Ronchi”, ma solo nell’art. 238, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 ed è riferito esclusivamente alla tariffa integrata ambientale, estranea alla questione di legittimità in esame.

Quanto alla regola stabilita dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, secondo cui la TIA si applica in luogo della TARSU, va osservato che un tributo (come, nella specie, la TARSU) può ben essere surrogato da un altro tributo o sostituito da una entrata non tributaria, non incontrando il legislatore, al riguardo, alcun vincolo logico o giuridico (nel limite della non manifesta irragionevolezza).

Quanto, infine, alla possibilità per il Comune, prevista dal medesimo art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, di procedere alla riscossione della TIA mediante ruolo, deve sottolinearsi che il ricorso a tale modalità di riscossione è solo facoltativo, e, comunque, ancorché tipico delle entrate tributarie, è consentito dalla legge anche per le entrate extratributarie.

Per una corretta valutazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA), è invece opportuno muovere dalla constatazione che tale prelievo, pur essendo diretto a sostituire la TARSU, è disciplinato in modo analogo a detta tassa, la cui natura tributaria non è mai stata posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza. Conseguentemente, deve procedersi ad una approfondita comparazione tra il prelievo tributario sostituito e quello che lo sostituisce, sotto i profili della struttura, della funzione e della disciplina complessiva della fattispecie dei prelievi.

7.2.3. – Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un’identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.

7.2.3.1. – In primo luogo, quanto al fatto generatore dell’obbligo del pagamento e ai soggetti obbligati – come si è già rilevato al punto 6.1.2. – la TARSU è dovuta, per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, e comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). Analogamente, la TIA – come sottolineato al punto 6.1.3. – è dovuta, per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale, da «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997). Le differenze tra le due fattispecie sono, perciò, minime: la “occupazione o detenzione” di superfici ed il riferimento ai soli rifiuti “interni”, per la TARSU; la “occupazione o conduzione” di superfici ed il riferimento anche ai rifiuti “esterni”, per la TIA. Esse non sono, comunque, tali da far venir meno la comune circostanza che il fatto generatore dell’obbligo di pagamento è legato non all’effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento.

7.2.3.2. – In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi:

a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata;

b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi;

c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.

La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi non viene meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del 1993 individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina specificamente la fase di accertamento e di liquidazione della tassa, prevedendo sanzioni e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo alla TIA, l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel gestore del servizio il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e, dall’altro, non reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di liquidazione della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi per omesso o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l’accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio. In particolare – come visto al punto 6.1.2. – già per la TARSU il Comune aveva la possibilità, con proprio regolamento, di affidare a terzi l’accertamento e la riscossione dei tributi, ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e di delegare ad essi il potere di essere «parti del processo tributario», ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che con ciò venisse meno l’originaria posizione di soggetto attivo del Comune stesso. La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell’affidamento a terzi della gestione del servizio comporta la delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU.

Con riguardo, poi, alla disciplina dell’accertamento e della liquidazione della TIA, la lacunosità delle statuizioni contenute nel comma 9 dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (il quale si limita a prevedere che «la tariffa è applicata dai soggetti gestori nel rispetto della convenzione e del relativo disciplinare») può essere colmata con l’esercizio del potere regolamentare comunale previsto per le entrate «anche tributarie» dal citato art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 o in via di interpretazione sistematica. Analogamente, nulla osta a che, per le sanzioni ed interessi relativi all’omesso o ritardato pagamento della TIA, possano applicarsi le norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie. Così come, con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce, appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative, in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del «canone […] per lo smaltimento dei rifiuti urbani».

Non contraddice tale conclusione il fatto che fonti secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l’emissione di semplici «bollette che tengono luogo delle fatture […] sempreché contengano tutti gli elementi di cui all’art. 21» del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1, comma 1, del citato decreto ministeriale n. 370 del 2000), e cioè l’emissione di atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 come impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa – come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007, con specifico riferimento alla TIA -, un’applicazione estensiva dell’elenco di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili anche atti che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto elenco; con l’ovvio corollario che le suddette «bollette», avendo natura tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.

7.2.3.3. – In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU – quantomeno per i Comuni con popolazione non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata «in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le componenti essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle strade -, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione). I criteri di determinazione di tali due parti della TIA sono contenuti nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici costruiti, tra l’altro, sulla quantità totale dei rifiuti prodotti nel Comune, sulla superficie delle utenze, sul numero dei componenti il nucleo familiare delle utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti secondo le varie attività esercitate nell’àmbito delle utenze non domestiche. Risulta evidente, pertanto, che il suddetto «metodo normalizzato» per la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri fissati dalla legge per la commisurazione della TARSU, la quale, certamente, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali. Per entrambi i prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per tipo di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda la TIA, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, perfino l’autonomo avviamento a recupero dei rifiuti, da parte del produttore di essi, non comporta l’esclusione dal pagamento, ma determina una riduzione proporzionale della sola parte variabile di tale tariffa. Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2 dell’art. 67 del d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui il regolamento comunale «può» prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli «utenti dimostrino di avere sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il recupero da parte del gestore del servizio». I due prelievi, pertanto, sono dovuti, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento. Il che esclude per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.

7.2.3.4. – In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA – analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni” (cioè «rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico», come ricordato al punto 6.1.3., in relazione agli artt. 7, comma 2, lettere c, d, e 49, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, per la componente fissa della TIA). Ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L’unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico.

7.2.3.5. – In quinto luogo, con riferimento alla disciplina complessiva della TIA, va rilevato che l’art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma l’applicabilità del tributo provinciale «per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell’ambiente» previsto dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un’addizionale della TARSU, ne consegue che, una volta soppressa quest’ultima, esso deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri di quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato come un tributo addizionale della TIA stessa. Ciò evidenzia un ulteriore elemento di omogeneità e continuità tra la TARSU e la TIA.

7.2.3.6. – In sesto luogo, infine, un altro significativo elemento di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all’àmbito di applicazione dell’IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo – quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio, è quella prevista dall’alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell’IVA, «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici», le attività di «erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore». Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall’assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa). Non osta a tali conclusioni il secondo periodo del comma 13 dell’art. 6 della legge n. 133 del 1999, il quale stabilisce, con una formula meramente negativa, che «Non costituiscono, altresì, corrispettivi agli effetti dell’IVA le somme dovute ai comuni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani reso entro» la data del 31 dicembre 1998 «e riscosse successivamente alla stessa, anche qualora detti enti abbiano adottato in via sperimentale il pagamento del servizio con la tariffa, ai sensi dell’articolo 31, comma 7, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448». Questa disposizione non può interpretarsi nel senso che, a partire dal 1999, sia la TARSU sia la tariffa sperimentale (cioè la TIA adottata prima della definitiva soppressione della TARSU) entrino nell’àmbito di applicazione dell’IVA. Si deve escludere, infatti, che tali prelievi, pur restando invariata la loro disciplina sostanziale, mutino natura, divenendo entrambi corrispettivi, solo in forza di una norma dagli effetti meramente temporali. Tale norma, ragionevolmente interpretata, ha il solo effetto di ribadire la non assoggettabilità ad IVA dei due prelievi fino a tutto il 1998 e non quello di provvedere anche per il periodo successivo, per il quale non può che trovare applicazione la disciplina generale in tema di IVA. Non rileva, al riguardo, la diversa prassi amministrativa, perché la natura tributaria della TIA va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa.

7.2.4. – È appena il caso di rilevare che la riscontrata omogeneità tra i due prelievi in esame è compatibile sia con le direttive comunitarie di cui il d.lgs. n. 22 del 1997 istitutivo della TIA costituisce attuazione (91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE), sia con il principio comunitario “chi inquina paga” (ribadito dall’art. 15 della direttiva comunitaria 2006/12/CE), sia con le leggi di delegazione in forza delle quali il suddetto decreto legislativo è stato emanato (artt. 1 e 38 della legge 22 febbraio 1994, n. 146; artt. 1, 6 e 43 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). Nessuna di tali disposizioni, infatti, impone al legislatore di configurare in termini privatistici il rapporto tra utente e gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti. Quanto al diritto comunitario, esso, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l’istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico. Quanto alle leggi di delegazione, esse si limitano ad autorizzare il legislatore delegato ad apportare «modifiche» al d.lgs. n. 507 del 1993, al fine di attuare le direttive comunitarie, e non impongono affatto di trasformare la natura del prelievo da tributaria ad extratributaria.

8. – Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest’ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell’art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).

Le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA, dunque, hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione delle commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata, rispetta l’evocato parametro costituzionale.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, sollevate, in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 102, secondo comma, della Costituzione, nonché alla VI disposizione transitoria della Costituzione, dal Giudice di pace di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009.

TRIBUTI LOCALI

Tassa rimozione rifiuti solidi

Tributi locali in genere

Riferimenti normativi

COST Art.25

COST Art.102

L 30-12-1991 n. 413, Art. 30

DLT 31-12-1992 n. 546, Art. 2

DLT 15-11-1993 n. 507 0

DLT 05-02-1997 n. 22, Art. 49

DL 30-09-2005 n. 203, Art. 3-bis

L 02-12-2005 n. 248 0

L 02-12-2005 n. 248, Art. 1


Corte cost., Ord., (ud. 11-03-2009) 24-04-2009, n. 116

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 166 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di S.S., con ordinanza del 21 maggio 2008, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che, con ordinanza del 21 maggio 2008, il Tribunale di Trieste ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno vengano effettuate all’amministratore nominato;

che, riferisce il rimettente, nel procedimento penale a carico di S.S. per il reato di cui all’art. 424 cod. pen., dalla certificazione del casellario giudiziale era risultato che, in data 9 febbraio 2006, il Giudice tutelare di Trieste aveva dichiarato aperta l’amministrazione di sostegno a carico dell’imputato;

che il decreto di citazione era stato notificato nel domicilio eletto, a mani del difensore dell’imputato, che tuttavia aveva lamentato la mancata previsione, nell’art. 166 cod. proc. pen., che le notifiche vengano effettuate all’amministratore di sostegno, così come avviene per l’interdetto o per l’inabilitato, ove è statuita la notifica al tutore o al curatore;

che, secondo il rimettente, la disciplina che regola l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, non sarebbe qualitativamente diversa dagli strumenti già approntati dal codice civile in materia di sostegno a soggetti deboli, quali l’interdizione e l’inabilitazione, dato che la differenza tra gli istituti non si baserebbe sulla gravità dell’infermità del soggetto assistito;

che, di conseguenza, la limitazione operata dall’art. 166 cod. proc. pen. ai soli casi di interdizione ed inabilitazione, con riferimento alla assistenza del soggetto debole nella fase della notificazione e, quindi, della conoscenza di atti giudiziari, non sarebbe rispettosa del principio consacrato nell’art. 3 della Costituzione;

che, invero, tra l’amministrazione di sostegno e gli istituti della tutela e della curatela non esisterebbe una differenza qualitativa o quantitativa tale da giustificare un diverso trattamento dell’assistito nel compimento di attività, nel caso in specie, fondamentali come la ricezione di atti giudiziari;

che la norma censurata si porrebbe anche in contrasto con l’art 111, primo e terzo comma, Cost., con specifico riferimento alla disciplina del giusto processo regolato dalla legge, in quanto violerebbe il diritto all’informazione relativo alla natura ed ai motivi dell’accusa elevata a carico di un soggetto ritenuto giudizialmente non in grado di provvedere ai propri interessi;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie o, comunque, infondata nel merito;

che, riferisce il Presidente del Consiglio, questa Corte, nella sentenza n. 440 del 2005, ha chiarito i peculiari presupposti dell’amministrazione di sostegno, giustificandone la ragion d’essere nella necessità di affidare al giudice, caso per caso, la valutazione della tutela più adeguata da accordare al soggetto bisognoso di assistenza, in modo proporzionato al suo grado di inabilità, e allo scopo di limitarne il meno possibile la sua capacità giuridica;

che, sottolinea il Presidente del Consiglio, resta sempre fermo il potere del giudice penale che abbia dei dubbi sull’effettiva conoscenza dell’atto di disporre gli accertamenti previsti dagli artt. 70 e 71 cod. proc. pen.; il che escluderebbe anche la violazione dell’art. 111 Cost.;

che, con memoria depositata successivamente, lo stesso Presidente del Consiglio illustrava ulteriormente le proprie conclusioni.

Considerato che il Tribunale di Trieste dubita, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno siano effettuate all’amministratore nominato, contrariamente a quanto sarebbe disposto per il tutore dell’interdetto e per il curatore dell’inabilitato;

che, se è vero che l’art. 166 cod. proc. pen. dispone, per l’imputato interdetto, la notificazione degli atti processuali anche al tutore dello stesso, esso però, non prende affatto in considerazione l’ipotesi dell’inabilitazione, prevedendo unicamente che, nel caso in cui il processo sia sospeso dal giudice perché lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento ai sensi dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., le notificazioni debbano essere effettuate anche al curatore nominato sulla base del predetto articolo;

che tale notificazione integrativa, trascurata dal rimettente, è riferibile tanto agli imputati inabilitati, quanto a quelli sottoposti ad amministrazione di sostegno, purché il loro stato mentale sia tale da comprometterne effettivamente la loro piena e consapevole partecipazione al processo;

che, pertanto, il rimettente fonda la sollevata questione di costituzionalità su una lettura errata della norma censurata e dello stesso tertium comparationis;

che la questione, dunque, per l’evidente erroneità del presupposto interpretativo, è manifestamente infondata (in tal senso, ordinanze n. 114 del 2007, n. 130 del 2006 e n. 100 del 2003).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 166 cod. proc. pen., sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trieste con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2009.