Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.4.2012, n. 2451

Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.4.2012, n. 2451

N. 02451/2012REG.PROV.COLL.
N. 10718/2004 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10718 del 2004, proposto dal sig. Cascione Giovanni, rappresentato e difeso dall’avv. Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso l’avv. Gianluigi Pellegrino in Roma, corso del Rinascimento, 11;
contro
Comune di Galatina, rappresentato e difeso dall’avv. Lino Spedicato, con domicilio eletto presso l’avv. Laura Maria Mocavero in Roma, via Dardanelli, 46;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA – SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE II n. 06797/2003, resa tra le parti, concernente CORRESPONSIONE DIFFERENZE RETRIBUTIVE PER SVOLGIMENTO FUNZIONI SUPERIORI

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2012 il Cons. Marzio Branca e uditi per le parti gli avvocati Pellegrino e Cimino, per delega dell’Avv. Spedicato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso proposto dal sig. Giovanni Cascione, dipendente del Comune di Galatina con qualifica di collaboratore (IV livello), per l’annullamento della deliberazione della Giunta comunale n.812 del 5/08/1994 con la quale veniva respinta l’istanza di corresponsione di differenze retributive in relazione allo svolgimento dal 1983 di mansioni proprie della qualifica di VI livello, nonché per l’accertamento del relativo diritto.
2. Il Sig. Cascione ha proposto appello denunciando l’erroneità della sentenza di primo grado, posto che i primi giudici, pur dando atto che a norma dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, reso operativo dall’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, il diritto alle differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori da parte di pubblici dipendenti è stato riconosciuto con carattere di generalità, hanno rigettato il ricorso sul rilievo che la nuova disciplina della materia non poteva ricevere applicazione retroattiva, ossia con riguardo al momento in cui è stata formulata la domanda.
L’appellante, inoltre, ha osservato che, in ogni caso, sussistevano le condizioni per l’accoglimento del ricorso alla stregua dei principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa precedente, quanto al dato oggettivo delle mansioni superiori, ed alla volontà dell’Amministrazione di avvalersi delle prestazioni espletate dall’istante.
Il Comune di Galatina si è costituito in giudizio per sostenere l’infondatezza del ricorso.
Alla pubblica udienza del 21 febbraio 2012 la causa veniva trattenuta in decisione.
3.  L’appello non può essere accolto.
Va disatteso, in primo luogo, il rilievo secondo cui la fondatezza della domanda dedotta in giudizio doveva essere giudicata alla stregua delle modificazioni normative nella materia della retribuibilità delle mansioni superiori, svolte di fatto dai pubblici dipendenti, che siano sopraggiunte in epoca successiva al provvedimento negativo impugnato, ovvero al momento il cui il diritto venne rivendicato.
Ove una determinata pretesa non risulti sorretta da idonei precetti normativi al momento in cui fu dedotta in giudizio, e si ritenga che successive sopravvenienze risulterebbero favorevoli al deducente, si rende necessaria la proposizione di una nuova domanda, poiché, diversamente opinando, si perverrebbe ad una inammissibile modificazione del thema decidendum, oltre che ad una violazione del principio tempus regit actum.
4. Tanto premesso, come più volte ribadito da questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, VI, n. 2365 del 2010; 3 febbraio 2011 n. 758), in difetto di espresse previsioni normative che consentano l’ utilizzo del dipendente in posizione diversa da quella formalmente rivestita ed attribuiscano a questa destinazione effetti modificativi del suo status di dipendente, vige il principio di irrilevanza delle mansioni superiori svolte in via di fatto, agli effetti sia dell’inquadramento che della retribuzione.
Ostano alla attribuzione di effetti giuridici alla destinazione in via di mero fatto diversi elementi: il carattere rigido delle dotazioni di organico delle amministrazioni e i relativi flussi di spesa; l’assenza di un potere del preposto al vertice dell’ufficio di gestire in via autonoma la posizione di status dei dipendenti e il relativo trattamento economico;la garanzia della parità di trattamento di tutti i soggetti che operano nella struttura organizzativa e che possano aspirare di accedere alle mansioni di qualifica superiore in condizioni di parità, trasparenza e non discriminazione.
Il quadro normativo delineatosi con l’emanazione dell’art. del d.lgs. n. 29 del 1993 è stato più volte oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
La norma, infatti, ha previsto la retribuzione dello svolgimento delle mansioni superiori, rinviandone tuttavia l’attuazione alla nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza ivi stabilita, disponendo altresì che “fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore” (art. 56, comma 6).
Le parole “a differenze retributive” sono state poi abrogate dall’art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, ma “con effetto dalla sua entrata in vigore” (Cons. Stato, ad. plen., n. 22 del 1999), con la conseguenza che l’innovazione legislativa spiega effetto a partire dall’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo n. 387 e cioè dal 22 novembre 1998.
E’ stato però esplicitamente affermato che il diritto al trattamento economico per l’ esercizio di mansioni superiori ha la sua disciplina in una disposizione (art. 15 d.lgs. n. 387 del 1998) avente carattere innovativo, e non meramente interpretativo della disciplina previgente, per cui il riconoscimento legislativo “non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse” (Cons. Stato, ad. plen., n. 11 del 2000 e n. 3 del 2006).
5. L’appellante, tuttavia, invoca gli orientamenti assunti in materia dalla Corte Costituzionale, cui la questione è stata rinviata anche nel corso del giudizio di primo grado, per dedurne che l’orientamento dell’Adunanza Plenaria, sopra ricordato, dovrebbe considerarsi superato a sostituito da principi favorevoli all’accoglimento della domanda.
La tesi non può essere condivisa, perché i pronunciamenti del giudice delle leggi si sono risolti nella affermazione della conformità alla costituzione di interventi del legislatore che accolgano il principio della retribuzione delle prestazioni corrispondenti ad una qualifica superiore, ma non hanno mai direttamente disposto l’annullamento di precisi precetti normativi.
6. Il Collegio non ignora che, anche in tempi non lontani, il diritto ad una retribuzione corrispondente alle mansioni svolte in via di fatto sia stato riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, in presenza di determinati presupposti (vacanza del posto in organico, atto formale di incarico adottato dall’autorità competente, esercizio effettivo di mansioni superiori).
Tale orientamento, tutt’altro che univoco, come riconosce lo stesso appellante, non potrebbe ormai essere ulteriormente condiviso una volta che il quadro normativo sia stato chiarito e consolidato con le ricordate sentenze dell’Adunanza Plenaria, e tenuto anche conto della vincolatività di tali pronunce ai sensi dell’art. 99, comma 3, del c.p.a.
Va però soggiunto, che, anche con riferimento al pregresso indirizzo giurisprudenziale, cui si è fatto cenno, l’appello non avrebbe potuto essere accolto, dovendosi condividere l’avviso dei primi giudici circa il difetto di un atto di incarico emesso dall’autorità competente a modificare le mansioni spettanti in forza del provvedimento di inquadramento.
I ripetuti riconoscimenti dell’utilità delle mansioni superiori svolte e della volontà della Amministrazione, nel senso della prosecuzione di tale prestazione, non sono idonei a costituire il diritto al relativo compenso, in quanto mere prese d’atto successive non rilevanti.
L’appello, in conclusione, deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado.
Condanna l’appellante al pagamento il favore del Comune di Galatina delle spese del presente grado di giudizio e ne liquida l’importo in euro 2.500,00.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2012 con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Marzio Branca, Consigliere, Estensore
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere

L’ESTENSORE        IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 27/04/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 28-02-2012) 13-04-2012, n. 2098

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 634 del 2012, proposto da:

C.S., rappresentato e difeso dall’avv. Paolo Coronati, con domicilio eletto presso l’avv. Paolo Coronati in Roma, via Tacito, n. 7;

contro

REGIONE LAZIO, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica, rappresentata e difesa dall’avv. Renato Marini, con domicilio eletto presso l’avv. Renato Marini in Roma, via dei Monti Parioli, n. 48;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA, SEZIONE I TER, n. 9193 del 23 novembre 2011, resa tra le parti, concernente CONCORSO PUBBLICO PER LA COPERTURA DI 24 POSTI DI DIRIGENTE AREA AMMINISTRATIVA;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Regione Lazio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2012 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Mazzarolli, per delega dell’avvocato Coronati, e Marini;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
PREMESSO CHE

– con determinazione n. A7282 del 23 dicembre 2010 del Direttore Regionale Organizzazione, Personale, Demanio e Patrimonio della Regione Lazio ha indetto un concorso pubblico, per esami, per la copertura di n. 24 posti, a tempo pieno ed indeterminato, di cui il 50% riservato al personale interno, di Dirigente Amministrativo, nel ruolo del personale della Giunta Regionale, approvandone il bando ed i relativi allegati;

– con sentenza n. 9193 del 23 novembre 2011 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I ter, ha respinto il ricorso proposto dal dr. Stefano Coronari, dipendente di ruolo della Regione Lazio con qualifica di istruttore direttivo tecnico addetto allo sviluppo delle comunitarie ed in possesso della laurea in agraria, per l’annullamento della predetta determinazione, ritenendo infondate tutte le censure sollevate, imperniate sulla omessa inclusione della laurea in agraria tra i titoli di studio validi per l’ammissione al concorso, sulla mancata specificazione delle peculiarità dei posti messi a concorso e sulla prevalenza tra le materie di esame del concorso di quelle giuridiche;

– l’interessato ha chiesto la riforma di tale sentenza, deducendone l’erroneità alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione – violazione della par condicio – eccesso di potere in tutte le sue forme sintomatiche – genericità e confusione dell’azione amministrativa – eccesso e sviamento di potere – contraddittorietà dell’azione amministrativa” e lamentando, in particolare, la non corretta valutazione del suo profilo professionale e della laurea da lui posseduta (a suo avviso del tutto coerente con le lauree individuate nel bando di concorso), nonché delle conseguenze sulla sua progressione di carriera, della omessa previsione tra i requisiti di partecipazione della laurea in agraria, l’inesistenza di una specifica normativa che imponga per l’accesso alla carriera dirigente dell’area amministrativa il possesso della sola laurea in giurisprudenza o di laurea equipollente;

– la Regione Lazio si è costituita in giudizio, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’avverso gravame;

CONSIDERATO CHE:

– i motivi di doglianza sono manifestamente infondati, basandosi sull’inammissibile presupposto secondo cui la Regione Lazio, nel determinare i requisiti di ammissione al concorso in questione ed in particolare i titoli di studio, avrebbe dovuto tener conto del profilo professionale dell’interessato, delle funzioni dallo stesso effettivamente svolte nell’ambito dell’ente esso e delle possibili progressioni di carriera, così intendendo il concorso strumento per l’eventuale valorizzazione delle professionalità interne o per consentire un ragionevole sviluppo della carriera dei dipendenti, laddove esso, secondo i principi delineati dall’articolo 97 della Costituzione, ha la funzione di assicurare il corretto funzionamento degli uffici pubblici, preponendovi quelli che risultano essere i migliori all’esito di un’obiettiva selezione volte ad accertare il possesso di specifici requisiti professionali e culturali;

– non può negarsi peraltro l’esistenza in capo all’amministrazione di un ampio potere discrezionale nell’individuazione dei titoli di studio ritenuti indispensabili per l’ammissione ad un concorso pubblico, potere sindacabile sotto il profilo della legittimità solo nell’ipotesi di manifesta inadeguatezza, irragionevolezza, illogicità o arbitrarietà di tale scelta rispetto alle funzioni inerenti al posto messo a concorso, fattispecie che non si rinviene nel caso di specie;

– è stato affermato inoltre che, quando un bando “richieda il possesso di un determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico concorso, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una norma di legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva di un potere discrezionale nella individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire” (Cons. di Stato, VI, 3 maggio 2010, n. 2494; 19 agosto 2009, n. 4994);

RITENUTO in conclusione che l’appello deve essere respinto, con conseguente condanna alle spese del presente grado di giudizio, come da dispositivo;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento in favore della Regione Lazio delle spese del presente grado di giudizio che liquida complessivamente in Euro. 2.500,00 (duemilacinquecento).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Vito Poli, Consigliere

Francesco Caringella, Consigliere

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Raffaele Prosperi, Consigliere


Consiglio di Stato, sent. n. 1635 del 22.03.2012

“… conformemente alla univoca giurisprudenza qui in rilievo, deve ritenersi, che il ricorrente, che riveste la qualifica di vigile messo, è tenuto ad effettuare l’attività di notificazione di tutti gli atti in relazione ai quali si assume il relativo  compito, normativamente previsto, la stessa amministrazione comunale da cui dipende e, dunque, anche gli atti di altre  amministrazioni, siccome rientranti tra gli ordinari compiti di ufficio, senza che vi sia titolo ad emolumenti differenziati.

L’attività è svolta, infatti, alle dipendenze del comune e con carattere di abitualità, in quanto compresa nella qualifica di vigile urbano (peraltro, il Comune di Torino ha soppresso la qualifica di messo notificatore con deliberazione G.M. del 2004, assorbendola in quella di vigile urbano, tra le cui mansioni rientra quella di “vigile messo” ).

Leggi: Consiglio di Stato 1635-2012


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 02-12-2011) 22-03-2012, n. 1635

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4102 del 2001, proposto da:

P.B., rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Contaldi e Claudio Dal Piaz, con domicilio eletto presso Mario Contaldi in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 63;

contro

Comune di Torino, rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Antonietta Caldo, Massimo Colarizi, Giambattista Rizza e Mariamichaela Li Volti, con domicilio eletto presso Massimo Colarizi in Roma, via Panama, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO: SEZIONE II n. 00427/2000, resa tra le parti, concernente MESSI NOTIFICATORI – DIRITTO A COMPENSO PER LE NOTIFICHE DI ATTI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Torino;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 dicembre 2011 il Consigliere Doris Durante;

Uditi per le parti gli avvocati Contaldi, Colarizi e Li Volti;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- P.B., dipendente del Comune di Torino con la qualifica di messo notificatore, con ricorso al TAR Piemonte chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del comportamento del Comune di Torino che, in asserita applicazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 191 del 1979, e quindi del principio di onnicomprensività del trattamento economico, aveva disposto, a decorrere dal 1 dicembre 1979, la soppressione di proventi, compensi e indennità ai dipendenti con qualifica di messo comunale per la notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria.

Il ricorrente deduceva violazione delle L. 27 febbraio 1985, n. 83 : L. 24 febbraio 1971, n. 114, nonché dell’art. 4 della L. 10 maggio 1976, n. 249 e dell’art. 14, L. 20 novembre 1982, n. 890; violazione ed erronea interpretazione dell’art. 19 del D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191; eccesso di potere per carenza di motivazione e disparità di trattamento e richiamava il precedente giurisprudenziale (Consiglio di Stato, quinta sezione, n. 1183 del 1994) che aveva accolto il ricorso di un gruppo di messi notificatori tutti dipendenti del Comune di Torino.

2.- Il TAR Piemonte respingeva il ricorso, affermando che l’art. 19 del D.P.R. n. 191 del 1979 ha escluso la corresponsione di indennità aggiuntive alla retribuzione annua lorda derivante dal trattamento economico di livello e di progressione economica orizzontale; che la portata tassativa della norma è inequivocabile e non consente alcuna eccezione; che l’attività svolta dai messi notificatori è ricompresa nelle mansioni tipiche dell’ufficio a cui essi sono preposti, trattandosi di incarico ricollegabile ai compiti d’ufficio, affidato dall’amministrazione di appartenenza e svolto nell’orario di lavoro, sicché non può dar luogo ad alcun compenso aggiuntivo.

3.- Con l’atto di appello qui in esame, il ricorrente chiede l’annullamento o la riforma della sentenza perché erronea in fatto ed in diritto, alla stregua dei seguenti motivi:

violazione e falsa applicazione di legge con riferimento alle L. n. 83 del 1955; L. n. 114 del 1971; L. n. 249 del 1976 e dell’art. 14 della L. n. 890 del 1980.

Si è costituito in giudizio il Comune di Torino che ha riproposto l’eccezione già sollevata in primo grado di inammissibilità del giudizio per omessa notifica del ricorso all’amministrazione finanziaria; nel merito ha chiesto il rigetto del ricorso, richiamando la copiosa e ormai consolidata giurisprudenza che ha negato il diritto dei messi notificatori comunali ad ottenere un compenso aggiuntivo.

4.- Alla pubblica udienza del 2 dicembre 2011, il giudizio è stato assunto in decisione.

5.- L’appello è infondato e va rigettato, sicché si può prescindere dall’esame dell’eccezione in rito sollevata dalla difesa del Comune di Torino.

6.- E’ pacifico in giurisprudenza (per tutte, cfr. Cons. Gius. Amm. 28 settembre 1998, n. 546; Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 1985, n. 280; 30 settembre 1992, n. 910; 12 febbraio 2008, n.493; 2 agosto 2010, nn. 5090 – 5099; 6 dicembre 2010, n. 8542) che il principio di omnicomprensività della retribuzione introdotto dall’art. 19 del D.P.R. 1 giugno 1079, n. 191 impedisce di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici e che in tale ambito si colloca anche l’attività di notificazione svolta dai messi comunali nell’interesse dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni dello Stato, tenendo conto dell’evoluzione dell’ordinamento.

La notificazione degli atti, invero, è mansione tipica e specifica della categoria del messo comunale già secondo la definizione contenuta nell’art. 273 del TULCP n. 383 del 1934 (“il messo comunale e quello provinciale sono autorizzati a notificare gli atti delle rispettive amministrazioni….Possono anche notificare atti nell’interesse di altre amministrazioni pubbliche che ne facciano richiesta …”) e viene svolta nel normale orario di ufficio e mediante l’utilizzo degli strumenti organizzativi messi a disposizione dell’amministrazione di appartenenza.

7.- Correttamente il TAR Piemonte ha, quindi, affermato che l’art. 19 del D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191 – confermato dalle successive norme dettate dalla contrattazione collettiva per il personale dipendente degli enti locali – ha escluso la corresponsione di indennità aggiuntive alla retribuzione annua lorda derivante dal trattamento economico di livello e di progressione economica orizzontale, in quanto inglobante qualsiasi retribuzione per prestazioni a carattere sia continuativo che occasionale, ad eccezione di quelle indennità specificatamente individuate, tra cui non sono ricompresi i diritti invocati dal ricorrente; ha in connessione evidenziato, altresì, che la ratio della disposizione, derivando dall’esigenza di uniformare il trattamento economico dei dipendenti pubblici, in specie degli enti locali, e di globalità della previsione della connessa spesa pubblica, ha in via generale portata preclusiva della corresponsione di compensi ulteriori alle complessive voci retributive individuate in sede contrattuale, con la conseguenza che possono essere esclusi dal divieto normativo i soli compensi dovuti a seguito dello svolgimento da parte dei dipendenti di compiti ulteriori ed estranei alle ordinarie mansioni, e dunque non direttamente ricollegabili allo status professionale, mentre la notifica degli atti effettuata per conto dell’amministrazione finanziaria, rientra nelle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del dipendente comunale con la qualifica di messo notificatore, sicché non può dar luogo a compenso aggiuntivo.

8.- Fermo tanto, quanto alle leggi delle quali il ricorrente assume la violazione, l’art. 4 della L. n. 249 del 1976 è stato abrogato dall’art.4 della L. 12 luglio 1991, n. 201 che fissa la nuova misura dei compensi esclusivamente per i notificatori speciali mentre nulla prevede per i messi comunali, eliminando qualunque collegamento tra i messi comunali (vigile urbano con funzioni di notificatore) e i notificatori speciali; l’art. 14, secondo comma della L. n. 890 del 1982 è stato, di conseguenza, implicitamente abrogato, atteso il rinvio al primo comma dell’abrogato articolo 4 della L. n. 249 del 1976.

9.- Il ricorrente sostiene che la norma regolamentare (art. 19 del D.P.R. n. 191 del 1979) non può abrogare una norma primaria (art. 4, L. n. 249 del 1976).

In disparte l’inammissibilità della censura siccome proposta per la prima volta in appello, essa è, comunque, infondata, atteso che il trattamento retributivo dei dipendenti pubblici è materia riservata alla contrattazione collettiva di comparto, come disposto dalle leggi n. 43 del 1978 e la L. 29 marzo 1983, n. 93 (legge quadro sul pubblico impiego).

10. – E’, poi, del tutto irrilevante ai fini del riconoscimento del diritto il fatto che le notificazioni riguardino atti dell’amministrazione finanziaria, essendo il Comune l’unico soggetto legittimato a riscuotere le indennità per l’attività di notifica come testualmente dispongono l’art. 10, della L. n. 265 del 1999 (Notificazione degli atti delle pubbliche amministrazioni), che al comma 2 stabilisce testualmente “Al comune che vi provvede spetta da parte dell’amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, oltre alle spese di spedizione a mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento, una somma determinata con decreti dei Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, dell’interno e delle finanze” ed il decreto del Ministero del Tesoro del Bilancio e della Programmazione Economica del 14 marzo 2000 “Al Comune che vi provvede spetta da parte dell’amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, la somma di lire …”.

11.- Invero, il conferimento da parte dell’amministrazione finanziaria al Comune del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione degli atti finanziari, va inquadrato nella figura giuridica del mandato ex lege in favore del comune e come tale insuscettibile sia a determinare l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione dell’amministrazione richiedente che ad attribuirgli diritti nei confronti della medesima amministrazione.

Il messo municipale, in altri termini, rimane comunque dipendente dell’ente locale ed agisce, anche nell’esecuzione del compito di cui si discute, in adempimento degli obblighi ad esso rivenienti dal rapporto di impiego con il comune (in tal senso, Cass. Civ. 30 ottobre 2008, n. 26118 e da ultimo Cass. Sez. Unite, 27 gennaio 2010, n. 1627, che in materia di responsabilità per errori e ritardi nella notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria, ha escluso la responsabilità del messo notificatore, affermando che unico responsabile è il Comune nei cui confronti si instaura un rapporto di preposizione gestoria che deve essere qualificato come mandato “ex lege”, la cui violazione costituisce, se del caso, fonte di responsabilità esclusiva a carico del comune, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra l’amministrazione finanziaria e i messi comunali, che operano alle esclusiva dipendenza dell’ente territoriale.

12.- In conclusione, conformemente alla univoca giurisprudenza qui in rilievo, deve ritenersi, che il ricorrente, che riveste la qualifica di vigile messo, è tenuto ad effettuare l’attività di notificazione di tutti gli atti in relazione ai quali si assume il relativo compito, normativamente previsto, la stessa amministrazione comunale da cui dipende e, dunque, anche gli atti di altre amministrazioni, siccome rientranti tra gli ordinari compiti di ufficio, senza che vi sia titolo ad emolumenti differenziati.

L’attività è svolta, infatti, alle dipendenze del comune e con carattere di abitualità, in quanto compresa nella qualifica di vigile urbano (peraltro, il Comune di Torino ha soppresso la qualifica di messo notificatore con deliberazione G.M. del 2004, assorbendola in quella di vigile urbano, tra le cui mansioni rientra quella di “vigile messo” ).

13.- Per le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto.

Le spese di giudizio vanno compensate tra le parti, tenuto conto di una iniziale, risalente, incertezza giurisprudenziale sulla questione.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando per l’effetto la sentenza impugnata.

Compensa le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Francesco Caringella, Consigliere

Roberto Chieppa, Consigliere

Francesca Quadri, Consigliere

Doris Durante, Consigliere, Estensore


Consiglio di Stato, sent. n. 5091del 2.08.2010

La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto dal Messo Comunale, dipendente del Comune di Brindisi, svolgente mansioni di Messo Comunale, volto all’accertamento del diritto ad ottenere la corresponsione del compenso per le notifiche degli atti che la Prefettura di Brindisi e l’Amministrazione finanziaria delegano al Comune.

Leggi: Consiglio di Stato 201005091


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 09-03-2010) 03-05-2010, n. 2494

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 1111 del 2005, proposto da:

Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia, rappresentato e difeso dall’avv. Ruggero Frascaroli, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, viale Regina Margherita 46;

contro

Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del TAR LAZIO – ROMA:Sezione III n. 14064/2004, resa tra le parti, concernente ESCLUSIONE DA CONCORSO A 10 POSTI DI PRIMO DIRIGENTE RUOLO TECNICO.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 marzo 2010 il consigliere Marcella Colombati e uditi per le parti l’avvocato Frascaroli e l’avvocato dello Stato Varone;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con ricorso proposto al Tar del Lazio l’Ordine degli architetti di Roma e provincia ha chiesto l’annullamento del decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 13.11.1991 avente ad oggetto “corsoconcorso di formazione dirigenziale, concorso speciale per esami e concorso pubblico per titoli ed esami, a complessivi 10 posti di primo dirigente nel ruolo tecnico”, nella parte in cui, all’art. 1, “ammette la partecipazione al corsoconcorso pubblico di cui sopra soltanto di coloro che sono in possesso del diploma di laurea in ingegneria, con esclusione degli architetti”.

L’Ordine ricorrente ha rilevato la discriminazione operata a danno degli architetti, dal momento che il bando riserva praticamente tutti i posti agli ingegneri; difatti l’art. 1, comma 2, lett. 1a, del bando ammette la partecipazione del corsoconcorso di formazione dirigenziale a 4 posti della carriera tecnicodirettiva di tutti gli impiegati appartenenti all’amministrazione dei lavori pubblici, senza distinzione di titolo di laurea posseduto (ingegneri ed architetti), mentre limita tale partecipazione ai soli ingegneri se appartenenti ad altre amministrazioni statali.

Inoltre la stessa discriminazione si ha nel concorso pubblico a 2 posti di primo dirigente, per il quale l’art. 4, lett. 1c del bando consente la partecipazione del personale ministeriale dei lavori pubblici in possesso della sola laurea in ingegneria.

In sostanza mentre gli ingegneri possono partecipare sia al corsoconcorso, sia al concorso speciale, sia al concorso pubblico, gli architetti sono esclusi dal corsoconcorso se appartenenti ad altre amministrazioni dello Stato e dal concorso pubblico anche se appartenenti alla stessa amministrazione dei lavori pubblici.

Il ricorrente ha osservato che, nell’ambito della carriera tecnica direttiva dell’Amministrazione dei lavori pubblici, gli ingegneri e gli architetti sono inquadrati nel medesimo livello funzionale e svolgono mansioni di pari importanza e qualità sotto il profilo tecnicoprofessionale, sicché anche i secondi devono poter concorrere per i posti disponibili di primo dirigente.

Sarebbero così violati gli artt. 3 e 97 Cost. e vi sarebbe eccesso di potere per sviamento, illogicità, contraddittorietà manifesta, disparità di trattamento e difetto assoluto di motivazione.

2. Con la sentenza n. 14064 del 2004, il Tar del Lazio, sede di Roma, ha respinto il ricorso osservando che si tratta di tre distinte procedure concorsuali, con differenti requisiti di partecipazione:

– il corsoconcorso di formazione dirigenziale a 4 posti, riservato agli appartenenti al ruolo della carriera tecnica direttiva dell’amministrazione dei lavori pubblici, in possesso di una determinata anzianità di servizio effettivo nella qualifica (9 anni), ovvero agli omologhi dipendenti di altre amministrazioni in possesso della laurea in ingegneria;

– il concorso speciale per esami a 4 posti, riservato ai dipendenti del Ministero LL.PP. con 9 anni di anzianità di servizio effettivo nella qualifica;

– il concorso pubblico, per titoli ed esami a 2 posti, riservato ai dipendenti statali con l’anzianità di servizio di 5 anni e il possesso della laurea in ingegneria, nonché ai professori universitari di ruolo, assistenti universitari e ricercatori con almeno 2 anni di servizio e la laurea in ingegneria ovvero ai dirigenti e liberi professionisti con la laurea in ingegneria e con almeno 5 anni di servizio.

Il giudice ha rilevato che non sussiste la dedotta disparità di trattamento fondata sul mancato riconoscimento della equiparazione tra le due lauree, perché deve ritenersi ancora persistente la ripartizione di competenze professionali tra ingegneri ed architetti, sancita dagli artt. 51 e 52 del r.d. n. 2537 del 1925; l’equiparazione tra le due lauree è stata introdotta dal d. lgs. n. 129 del 1992 solo ai fini della libera circolazione di tali professionisti nell’area comunitaria e del mutuo riconoscimento dei titoli da parte degli ordinamenti degli Stati membri in attuazione della direttiva 85/384/CEE, ed il medesimo decreto legislativo n. 129 fa salve le disposizioni che regolano in Italia le attività riconducibili alle due professioni.

3. La sentenza è appellata dall’Ordine degli architetti, il quale rileva che le competenze riconosciute alle due professioni sono promiscue e che solo in via di eccezione vi sono attribuzioni riservate all’una o all’altra professione “quando una tale privativa risulti espressamente regolata dalla legge”; che la direttiva comunitaria, in quanto dettagliata, è self executing ed è in grado di attribuire “veri e propri diritti soggettivi in capo ai cittadini dei singoli Stati membri, indipendentemente dal fatto che lo Stato abbia emanato o meno una specifica normativa”; che la circolare del Ministero dell’Istruzione e dell’università n. 2126 del 28.5.2002 ha definitivamente chiarito che i laureati in architettura e in ingegneria edile possono partecipare all’esame di Stato di ingegnere per il settore civile ed ambientale.

Con successiva memoria l’appellante ha ribadito le proprie tesi difensive, rilevando che con l’avvento del nuovo ordinamento universitario (d.m. n. 509 del 1999, sostituito dal d.m. n. 274 del 2004) i corsi di laurea del vecchio ordinamento in architettura e in ingegneria sono stati accorpati nell’unica classe di laurea specialistica quinquennale denominata “Architettura e Ingegneria edile – classe 4/S); che il d.p.r. n. 328 del 2001 ha previsto all’art. 2 l’istituzione due sezioni degli albi professionali (A e B), cui si accede previo esame di Stato rispettivamente con la laurea specialistica quinquennale o con la laurea triennale; che di conseguenza lo studente che consegue la laurea quinquennale in architettura e ingegneria edile ha titolo a sostenere l’esame di Stato per l’iscrizione nelle pertinenti sezioni dei relativi albi professionali, sia per l’esercizio della professione di ingegnere che per quella dell’architetto; che infine il d.m. 5.5.2004 ha sancito l’equiparazione “ai fini dei pubblici concorsi” della precedente laurea in architettura con la nuova laurea specialistica.

4. Si è costituito in giudizio il Ministero intimato, opponendosi genericamente all’appello.

All’udienza del 9.3.2010 la causa è passata in decisione.

5. 1. L’appello è infondato e va respinto.

5. 2. In primo luogo, nella specie si tratta di concorsi pubblici che sono stati banditi nel 1991 e non dello svolgimento di libere professioni.

La invocata direttiva comunitaria n. 384 del 1985 non prevede nessuna equiparazione fra le lauree in architettura e in ingegneria, ma anzi all’art. 11 distingue proprio i due diplomi come rilasciati in Italia; quello che le norme comunitarie intendono perseguire è soltanto il mutuo riconoscimento dei titoli ai fini della libera circolazione dei professionisti nell’ambito comunitario.

Anche la Corte di giustizia CE, con ordinanza in data 5 aprile 2004, ha affermato che la direttiva in esame “non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione”.

Né l’appellante dimostra che la direttiva in questione abbia carattere self executing in relazione alla pretesa avanzata (parificazione di titoli di studio ai fini dell’ammissione al pubblico impiego).

La pure invocata disciplina dettata dal d. lgs. n. 129 del 1992, di attuazione della predetta direttiva comunitaria, ha ad oggetto il riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli rilasciati a cittadini comunitari dagli Stati membri per l’esercizio di attività nel settore dell’architettura, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi nello stesso settore.

Restano esplicitamente salve le norme interne che attengono all’individuazione delle rispettive competenze di ingegneri e architetti.

Ma soprattutto la suesposta disciplina, successiva all’indizione dei concorsi presso l’allora Ministero dei lavori pubblici, non può esplicare su di essi nessuna influenza.

5. 3. L’asserito identico svolgimento di funzioni da parte di ingegneri e architetti nell’amministrazione pubblica, in quanto inquadrati nella stessa qualifica professionale (VII), non è di per sé idoneo a disconoscere che in una medesima qualifica ben possono essere inquadrati dipendenti con profili differenti e con mansioni diverse e la scelta organizzativa correlata alle competenze professionali ritenute dalla p.a. utili al migliore esercizio delle attività cui la stessa è preposta, unitamente alla individuazione dei profili professionali richiesti ai propri dirigenti, rientrano nell’ambito di un’ampia discrezionalità sindacabile in sede di legittimità solo se palesemente illogica e contraria ai principi della buona amministrazione degli uffici; il che nella specie non ricorre.

5. 4. La giurisprudenza amministrativa ha affermato che, quando un bando “richieda il possesso di un determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico concorso, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una norma di legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva…di un potere discrezionale nella individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire” (Cons. di Stato, VI, n. 4994 del 2009).

Nella specie, la asserita equiparazione delle due lauree è comunque successiva alla data di indizione del concorso. Infatti, l’art. 9, comma 6, della legge n. 341 del 1990 rimette ad apposito decreto del presidente della Repubblica, all’esito di un articolato procedimento, la individuazione delle equipollenze tra i diplomi di laurea ai fini dell’ammissione ai pubblici concorsi; ma il primo di detti provvedimenti attuativi, nel quale effettivamente sono a tali fini equiparate le lauree in architettura e in ingegneria edile (classe 4/S), è stato emanato con d.m. 5.5.2004, che ratione temporis non si applica alla fattispecie.

6. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese processuali.

P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sesta sezione, respinge l’appello in epigrafe; spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 marzo 2010 con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone, Presidente

Paolo Buonvino, Consigliere

Domenico Cafini, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere

Marcella Colombati, Consigliere, Estensore


Consiglio di Stato, Sent. n. 2055 del 13-04-2010

N. 02055/2010 REG.DEC.

N. 08304/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 8304 del 2009, proposto da:

Ericsson Telecomunicazioni S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv. Massimiliano De Luca, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via Po, 24;

contro

Comune di Gattico, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandro Crosetti, con domicilio eletto presso Segreteria Sezionale Cds in Roma, piazza Capo di Ferro 13;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati di Roma, rappresentato e difeso dagli avv. Corrado Morrone, Luca Di Raimondo, con domicilio eletto presso Studio Legale Panunzio Romano in Roma, viale Xxi Aprile, N.11; Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati di Rossano, rappresentato e difeso dall’avv. Corrado Morrone, con domicilio eletto presso Studio Legale Panunzio Romano in Roma, viale 21 Aprile, N.11; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Sartorio, con domicilio eletto presso Giuseppe Sartorio in Roma, via Luigi Luciani N.1; Consiglio Ordine Avvocati di Salerno, rappresentato e difeso dagli avv. Gaetano Paolino, Giovanni Zucchi, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli 180; Associazione Forense di Reggio Emilia, Consiglio Dedell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia, rappresentati e difesi dall’avv. Daniele Turco, con domicilio eletto presso Luigi Gardin in Roma, via L. Mantegazza, 24;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO – SEZIONE I n. 01018/2009, resa tra le parti, concernente REALIZZAZIONE DI INFRASTRUTTURE DI COMUNICAZIONE ELETTRONICA – RIS. DANNI.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Gattico;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 gennaio 2010 il consigliere Gabriella De Michele e uditi per le parti gli avvocati De Luca, Buccellato per delega di Crossetti, Morrone, Di Raimondo, Sartorio Zucchi e Turco;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con atto di appello notificato il 5.10.2009, la società Ericcson Telecomunicazioni s.p.a. impugnava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, sez. I, n. 1018 del 10.4.2009 – che non risulta notificata – nella quale si dichiarava irricevibile il ricorso proposto dalla medesima società avverso la nota n. 8678 del 24.12.2008, con cui il Comune di Gattico ordinava la non effettuazione di un intervento, oggetto di dichiarazione di inizio attività (n. 2370 del 28.3.2008), per la realizzazione di infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, con potenza inferiore a 20 W.

Nella citata sentenza si rilevava come la notifica fosse stata effettuata in proprio dall’avvocato, tramite il servizio postale, ex art. 3, comma 3 della legge 21.1.1994, n. 53, con perfezionamento della stessa il 3.3.2009, data della consegna del plico al destinatario in base alla relativa ricevuta.

Non si estenderebbe infatti all’avvocato la sentenza della Corte Costituzionale n. 477/2002, che solo con riferimento agli ufficiali giudiziari – quali pubblici ufficiali deputati “specificamente ed istituzionalmente ad effettuare notifiche di atti giudiziari” – avrebbe stabilito, per quanto riguarda il notificante, il noto “meccanismo anticipatorio del momento perfezionativo della notifica alla consegna del plico all’Ufficiale notificante”.

Le ragioni sopra sintetizzate erano contestate dall’originaria società ricorrente (nonché, con atti di intervento ad adiuvandum, dagli ordini e dalle associazioni forensi specificati in epigrafe); la medesima società, inoltre, riproponeva nella presente sede i motivi di gravame non esaminati in primo grado di giudizio ed insisteva nel chiedere l’annullamento degli atti impugnati, nonché il risarcimento del danno.

Il Comune di Gattico, a sua volta costituito in giudizio, si difendeva nel merito, riconoscendo l’avvenuto superamento della tesi interpretativa, posta a base della sentenza appellata; secondo la difesa comunale, infatti, non avrebbe potuto ritenersi assentibile la collocazione degli impianti di cui trattasi nella zona prescelta dall’appellante, trattandosi di zona boschiva, soggetta a vincolo idrogeologico ed inedificabile, a norma dell’art. 27 della legge regionale n. 56/1977 (riferita a costruzioni ed opere di urbanizzazione nelle aree di bosco ad alto fusto) e dell’art. 45, comma 5, delle N.T.A. al P.R.G., sussistendo – peraltro – la possibilità di altra localizzazione idonea, in area adiacente. L’iter procedurale, previsto per la formazione del silenzio assenso, sarebbe stato inoltre sospeso con nota n. 3132 del 28.4.2008, in cui si esternavano le ragioni ostative per la collocazione dell’impianto.

L’atto impugnato, inoltre, avrebbe avuto “significato e portata” di annullamento, in via di autotutela, dell’eventuale assenso tacito, non potendo ritenersi che il codice delle comunicazioni elettroniche abbia sottratto agli enti locali le funzioni di tutela del territorio.

DIRITTO

Il Collegio è chiamato a valutare, in via preliminare, la data di perfezionamento delle notifiche effettuate dagli avvocati per mezzo del servizio postale, a norma dell’art. 3 della legge 21.1.1994, n. 53; quanto sopra, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 477 del 26.11.2002, riferita al combinato disposto dell’art. 4, comma 3, della legge 20.11.1982, n. 890 (secondo cui “l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’avvenuta notificazione”) e dell’art. 149 c.p.c., disciplinante le modalità di effettuazione delle notifiche a mezzo posta, originariamente senza esplicita disciplina del momento perfezionativo della notifica stessa. Nella citata pronuncia, la suprema Corte riconosceva la fondatezza della questione di costituzionalità, in quanto “l’inequivoco tenore testuale del comma terzo della legge n. 890/1982” non avrebbe consentito “interpretazione diversa da quella del perfezionamento della notificazione, anche per il notificante, alla data di ricezione del plico da parte del destinatario”; tale interpretazione, d’altra parte, si sarebbe posta in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, imponendo questi ultimi sia garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario, sia il non addebito al notificante dell’eventuale esito intempestivo di un procedimento, sottratto ai poteri del medesimo dopo la fase di impulso. Era ritenuto, pertanto, “palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante”che un effetto di decadenza potesse discendere dal ritardo nel compimento di un’attività, riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale). Fermo restando, pertanto, il principio del perfezionamento della notificazione, per il destinatario, solo alla data di ricezione dell’atto, nella medesima sentenza n. 477/02 veniva affermato il principio “di portata generale”, riferibile “ad ogni tipo di notifica e dunque anche alle notificazioni a mezzo posta”, secondo cui gli effetti di tale notificazione debbono essere collegati, per quanto riguarda il notificante, “al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto l’agente postale) sottratta in toto al controllo e alla sfera di disponibilità del notificante medesimo”. A seguito della sentenza sopra riportata, come è noto, all’art. 149 c.p.c. è stato aggiunto – con legge 28.12.2005, n. 263, art. 2, comma 1, lettera e) – il seguente comma: “la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha legale conoscenza dell’atto”.

Nonostante i principi in precedenza riportati, tuttavia, nella sentenza appellata si assume un indirizzo di non riferibilità dei medesimi alle notifiche effettuate a norma del ricordato art. 3 L. n. 53/1994, essendo la dichiarazione di incostituzionalità riferita formalmente – come già ricordato – solo al combinato disposto dell’art. 149 c.p.c., nella versione originaria, e dell’art. 4, comma 3, della legge n. 890/1982. Tale interpretazione non è condivisa dal Collegio, per ragioni già in parte recepite in alcune precedenti pronunce (pur meno numerose, sul principio specifico, di quelle ricordate dal Comune di Gattico: cfr. Cons. St., sez. V, 9.3.2009, n. 1365, Cass. Civ., sez. II, 25.9.2002, n. 13922).

Deve essere in primo luogo sottolineato, infatti, come i principi di cui si discute siano esposti in una sentenza interpretativa di accoglimento di tipo additivo, idonea ad esprimere i criteri da applicare, in via generale, in tema di notifiche, per una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in materia; detti criteri, inoltre, sono direttamente applicabili alle notifiche effettuate dagli avvocati, per rinvio recettizio – da ritenersi di natura dinamica, per il tenore letterale e le finalità della norma – contenuto nel terzo comma dell’art. 3 della citata legge n. 53/1994, in rapporto agli articoli 4 e seguenti della legge n. 890/1982, la cui lettura non può che essere effettuata nei termini in precedenza indicati, anche in collegamento al nuovo testo dell’art. 149 c.p.c.. In accoglimento delle tesi difensive, al riguardo prospettate nell’atto di appello, nonché negli atti di intervento specificati in epigrafe, la sentenza appellata non appare dunque condivisibile e se ne deve disporre l’annullamento senza rinvio. A quest’ultimo riguardo, sembra opportuno sottolineare come non sia ravvisabile nel caso di specie, in applicazione dell’art. 35 della legge 6.12.1971, n. 1034, un “difetto di procedura o vizio di forma”, secondo l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene attinenti al contenuto della decisione – e non identificabili con difetti procedurali (come quelli riferiti a non corretta valutazione di sussistenza, o meno, di giurisdizione) – erronee declaratorie di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso, identificate come contenuto della sentenza appellata, con conseguente ritenzione della causa, per pronunce di quest’ultimo tipo, da parte del giudice di secondo grado (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. V, 6.12.1988, n. 797; Cons. St., sez. IV, 15.1.1980, n. 13; Cons. St., sez. IV, 23.10.1984, n. 774; Cons. St., sez. VI, 17.4.2003, n. 2083; Cons. St., sez., IV, 7.6.2004, n. 3608; Cons. St., sez. V, 10.5.2005, n. 2348, 14.4.2008, n. 1605 e 2.10.2008, n. 4774).

Nel merito, la questione sottoposta all’esame del Collegio è quella della disciplina urbanistica, a cui dovrebbero considerarsi soggette, alla data di emanazione del provvedimento contestato (24.12.2008), le strutture tecnologiche di telecomunicazione e radiodiffusione.

Alla data sopra indicata, in effetti, risultava già dichiarato incostituzionale – con sentenza della Corte costituzionale n. 303 in data 1.10.2003 – il decreto legislativo 4.9.2002, n. 198, che nell’art. 3, comma 2, aveva sancito la compatibilità “con qualsiasi destinazione urbanistica “ e la realizzabilità “in ogni parte del territorio comunale” delle infrastrutture in questione, “anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento” (con eccezione prevista solo per alcuni manufatti di particolare consistenza, quali torri e tralicci, relativi alle reti di televisione digitale terrestre). L’incostituzionalità era stata dichiarata in quanto – nel consentire l’insediamento generalizzato sul territorio degli impianti di cui si discute – la norma in questione(lesiva della potestà pianificatoria della Regione: una potestà da esercitarsi anche a livello di legislazione concorrente, in base al nuovo articolo 117, comma 3, della Costituzione, che tra le materie oggetto di tale attribuzione cita il “governo del territorio”, la “tutela della salute” e l’”ordinamento della comunicazione”) era stata posta in eccesso di delega.

Si deve quindi rilevare, in primo luogo, che la disciplina degli impianti di telecomunicazione e radiotelevisivi coinvolge profili sia di tutela dell’ambiente che di governo del territorio, in quanto impone standards di protezione dalle onde elettromagnetiche – uniformi su tutto il territorio nazionale – a garanzia del diritto alla salute, ma anche modalità di localizzazione degli impianti stessi, tali da consentire il rispetto sia dei parametri urbanistici che di corrette regole di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, nonché di ottimale diffusione delle reti di comunicazione, secondo un ben preciso riparto di competenze.

Come ribadito dalla stessa Corte Costituzionale con la successiva sentenza n. 307 del 7.10.2003 – in armonia peraltro con l’indirizzo giurisprudenziale, già formatosi sulla legge quadro n. 36/01 – la determinazione degli standards di protezione dall’inquinamento elettromagnetico è competenza dello Stato (sotto il profilo di valori-soglia, non derogabili dalle Regioni), mentre è materia di legislazione concorrente (ovvero, rientrante anche nella potestà legislativa regionale, ma nel rispetto di principi fondamentali, fissati da leggi dello Stato) il trasporto dell’energia e l’ordinamento della comunicazione; è infine rimessa alle Regioni e agli enti territoriali minori la localizzazione degli impianti, come questione attinente alla disciplina d’uso del territorio, purché la pianificazione, a quest’ultimo riguardo dettata, non sia tale “da impedire o da ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli impianti stessi”.

L’interprete è quindi chiamato ad affrontare problematiche, che attengono sia allo sviluppo del territorio, sia a fattori di inquinamento ambientale, questi ultimi solo in parte superabili attraverso il verificato rispetto dei parametri, fissati dallo Stato come “limiti di esposizione” ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, mentre – sul piano dell’edificazione – gli impianti tecnologici di cui trattasi trovano parametri di riferimento anche nelle norme urbanistico-edilizie, come recepite nel D.P.R. 6.6.2001, n. 380.

Queste ultime prevedono una disciplina differenziata, in caso di rapporto di strumentalità necessaria degli impianti tecnologici rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili), ovvero di autonomia funzionale dei medesimi quali nuove costruzioni (come nel caso, appunto, di tralicci ed impianti, destinati ad essere parte di una rete di infrastrutture).

Solo per i primi, fra gli impianti sopra indicati, risulta applicabile – in base al citato T.U. – la disciplina dettata per gli interventi edilizi ritenuti minori, soggetti a mera denuncia di inizio attività (cosiddetta D.I.A.) a norma dell’art. 4 del D.L. 5.10.1993, n. 398, convertito con modificazioni dalla legge 4.12.1993, n. 493 e modificato sia dall’art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662, sia dall’art. 1, comma 6, della legge 21.12.2001, n. 443 (fino all’entrata in vigore – il 30.6.2003 – del D.P.R. 6.6.2001, n. 380 – testo unico delle disposizioni legislative in materia edilizia – che raccoglie le disposizioni legislative e regolamentari contenute nel D.Lgs. n. 378/01 e nel DPR n. 379/01). Per “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione” (espressamente catalogata come intervento di nuova costruzione), d’altra parte, il citato D.Lgs. n. 378/01 prescrive, nel combinato disposto degli articoli 3, comma 1, lett. e.5 e 10, comma 1, il permesso di costruire, introdotto dalla medesima normativa come nuova qualificazione formale della concessione edilizia.

Giova sottolineare, al riguardo, che la regolamentazione sopra ricordata non risulta sovvertita anche dopo l’introduzione delle nuove procedure autorizzatorie, previste per le infrastrutture di cui trattasi dagli articoli 86, 87 e 88 del codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con D.Lgs. 1.8.2003, n. 259: una disciplina, quest’ultima, che affronta i molteplici profili di interesse pubblico coinvolti e prevede al riguardo lo svolgimento di apposite conferenze di servizi, circoscrivendo una peculiare fattispecie, soggetta a denuncia di inizio attività (“installazione di impianti, con tecnologia UMTS o altre, con potenza in singola antenna uguale o inferiore ai 20 watt”), mentre per le altre installazioni è prescritto il rilascio – in forma espressa o tacita – di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione.

Secondo l’indirizzo, ormai più volte espresso dalla Corte Costituzionale, la predetta nuova disciplina può ritenersi conforme a criteri – rilevanti anche sul piano comunitario – di semplificazione amministrativa, con prevista confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche, rilevanti per le installazioni in questione: quanto sopra, tuttavia, senza che sia cancellata l’incidenza delle installazioni stesse sotto il profilo urbanistico-edilizio, tenuto conto della concreta consistenza dell’intervento e senza esclusione delle conseguenze penali, connesse ad ipotesi di abusivismo, ex art. 44 D.P.R. n. 380/01 (cfr. in tal senso Corte Cost. 28.3.2006, n. 259; Corte Cost. 18.5.2006, ord. n. 203).

E’ pertanto ammesso che i Comuni adottino misure programmatorie integrative per la localizzazione degli impianti di cui si discute, in modo tale da minimizzare l’esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici, ma anche in un’ottica di ottimale disciplina d’uso del territorio (cfr. Cons. St., sez. VI, 3.6.2002, n. 3095; 20.12.2002, n. 7274; 10.2.2003, n. 673; 26.8.2003, n. 4841).

Non può ritenersi ancora oggi superata dunque – ed era pertanto rilevante alla data di adozione del provvedimento impugnato – la problematica inerente al titolo abilitativo, previsto per tutte le installazioni in questione dal più volte citato T.U. dell’Edilizia.

In considerazione dei principi generali sopra enunciati, le ragioni esposte nell’atto di appello in esame non appaiono condivisibili.

Anche a prescindere, infatti, dall’avvenuta emanazione, o meno, della normativa regolamentare di cui all’art. 8, comma 6, della legge 22.2.2001, n. 36 (disciplina comunale per la localizzazione degli impianti, prevista dalla legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) l’intervento edilizio di cui trattasi non poteva che restare soggetto – sotto il profilo urbanistico – ai principi di carattere generale, che vedono tralicci ed antenne valutabili come strutture edilizie, soggette a permesso di costruire (ora assenso autorizzativo, assorbente rispetto a tale permesso) e dunque, deve ritenersi, non collocabili in zone di rispetto, o comunque soggette a vincolo di inedificabilità assoluta, pur dovendosi considerare tali manufatti – in quanto parte di una rete di infrastrutture e qualificate come opere di urbanizzazione primaria, nonché in quanto impianti tecnologici e volumi tecnici – compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate e non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. VI, 29.5.2006, n. 3243, 7.6.2006, n. 3425 e 1767 del 21.4.2008).

Non precludeva, pertanto, l’assentibilità dell’intervento di cui si discute – essendo le strutture di cui trattasi complementari a qualsiasi tipo di insediamento – l’assenza di una disciplina specifica, volta ad individuare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (nei limiti di ragionevolezza e rispetto delle norme statali, in cui tale localizzazione è ritenuta possibile dalla giurisprudenza, ormai pacifica sul punto: cfr., fra le tante, Cons. St., sez. VI, 13.6. 2007, n. 3162, 3.3.2007, n. 1017, 28.3.2007, n. 1431 e 25.9.2006, n. 5593); risultava però preclusiva, nel caso di specie, l’inedificabilità assoluta dell’area, interdetta anche per le opere di urbanizzazione – a norma dell’art. 30 della legge della Regione Piemonte 5.12.1977, n. 56 (richiamata dall’art. 45, comma 5, delle NTA al PRG del Comune di Gattico) – in quanto interessata da alberi ad alto fusto e soggetta a vincolo idrogeologico. Di tale quadro normativo, cui si aggiungeva la segnalata possibilità di localizzazione degli impianti in aree limitrofe, il citato Comune rendeva edotta la società appellante con nota n. 3132 del 28.4.2008, dopo circa un mese dalla presentazione della D.I.A. (avvenuta il 28.3.2008). Tale comunicazione, recando ragioni ostative dell’intervento, poteva ad avviso del Collegio ritenersi già preclusiva del silenzio assenso, in quanto intervenuta prima del termine di 90 giorni, a tal fine previsto dall’art. 87, comma 9 del D.Lgs. 1.8.2003, n. 259. Ove però si volesse ritenere che il procedimento fosse stato solo sospeso dalla predetta richiesta (non potendo ritenersi perentorio il termine di 15 giorni, di cui al quinto comma del medesimo art. 87 D.Lgs. n. 259/03), la sospensione sarebbe durata fino al contestato ordine di non effettuazione dell’intervento (n. 8678/08), non risultando proposte controdeduzioni in ordine all’omesso invio, da parte dell’attuale appellante, di comunicazioni integrative (in merito, deve presumersi, alle diverse ubicazioni ritenute possibili). Sembra appena il caso di precisare, in ogni caso, che anche l’affermata (e qui non condivisa) maturazione del silenzio assenso non avrebbe impedito l’esercizio della potestà di autotutela, identificabile anche nel predetto ordine n. 8678/08, essendo tale potestà giustificata da superiori ragioni di interesse pubblico, in presenza di un assenso tacito, contrastante col regime vincolistico gravante sull’area.

Tenuto conto di quanto sopra, nessuna delle ragioni difensive dell’appellante (riferite a violazione del citato D.Lgs. n. 259/03 e della legge n. 241/90, nonché ad eccesso di potere sotto vari profili) appare meritevole di accoglimento. Le ragioni della preclusa localizzazione degli impianti di cui trattasi in un’area, in cui risultava esplicitamente non consentita anche l’ubicazione di opere di urbanizzazione (cui vanno assimilati gli impianti stessi) risultavano infatti inequivocabili e non certo di difficile comprensione, tanto da richiedere uno sforzo collaborativo della società interessata, che avrebbe dovuto – eventualmente – indicare quali ragioni tecniche impedissero in modo assoluto qualsiasi localizzazione alternativa, a fini di eventuale convocazione di una conferenza di servizi, in cui si potessero bilanciare gli interessi pubblici sottesi alla procedura di cui trattasi, in relazione alla difesa del suolo ed allo sviluppo delle telecomunicazioni.

In assenza dell’apporto collaborativo in questione, viceversa, la denegata autorizzazione per l’installazione delle strutture tecnologiche in questione non poteva che ritenersi atto dovuto, in rapporto alla disciplina giuridica dell’area interessata.

Per le ragioni esposte, in riforma della sentenza appellata, il Collegio ritiene che il ricorso di primo grado debba essere respinto; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, ne rendono equa la compensazione – ad avviso del Collegio stesso – la complessità della normativa di riferimento, nonché la difficile coordinazione fra Testo Unico dell’Edilizia e Codice delle Comunicazioni Elettroniche

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie limitatamente alla questione preliminare nel medesimo prospettata, e in riforma della appellata sentenza, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Compensa tra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 gennaio 2010 con l’intervento dei Signori:

Giuseppe Barbagallo, Presidente

Domenico Cafini, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere

Manfredo Atzeni, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE                                                IL PRESIDENTE

Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 13/04/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione


Cons. Stato Sez. V, 12-02-2008, n. 493

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 5196/1999, proposto da P.B., L.B., I.B., R.B., R.B., L.B., D.C., A.C., S.C., C.C., M.G.D.M., E.D.C., V.F., G.M.F., F.A., N.F., B.F., A.F., D.L., M.M., S.M., P.M., E.N., M.P., P.P., A.R.S., P.T., A.T., S.Z., rappresentati e difesi dagli Avvocati Gilberto Gualandi e Federico Gualandi ed elettivamente domiciliati presso lo studio del Dott. Gian Marco Grez, in Roma, Lungotevere Flaminio, n. 46, Palazzo IV, scala B.

CONTRO

il comune di Bologna, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli Avvocati Luisa Simoni, Annamaria Capello Castagna e Prof. Giorgio Stella Richter, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Via Orti della Farnesina, n. 126.

Nonché contro il Ministero delle finanze, non costituito in giudizio.

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Sezione Seconda, 21 ottobre 1998, n. 346.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;

Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti di causa;

Relatore alla pubblica udienza del 23 ottobre 2007, il Consigliere Marco Lipari;

Uditi GLI AVV.TI Saporito per delega di Gualandi e Sanino per delega di Stella Richter, come da verbale di udienza;

Svolgimento del processo
1. La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto dagli attuali appellanti, e da altri 3 ricorrenti, dipendenti del comune di Bologna, volto all’accertamento del loro diritto ad ottenere la corresponsione del compenso per gli atti notificati a richiesta dell’amministrazione finanziaria dello Stato.

2. Gli appellanti ripropongono e sviluppano gli argomenti difensivi disattesi dal tribunale.

3. Il comune resiste al gravame.

Motivi della decisione
1. Gli appellanti, ricorrenti in primo grado, sono dipendenti del comune di Bologna, inquadrati nella IV qualifica funzionale, con il profilo professionale di “addetto al servizio di notificazione degli atti”, nell’Area giuridica e amministrativa.

2. In tale veste rivendicano il diritto al compenso per l’effettuazione delle notifiche di atti nell’interesse dell’amministrazione finanziaria dello Stato, pari a lire tremila per ogni atto.

3. L’appello è infondato.

4. Infatti, il principio di omnicomprensività della retribuzione impedisce di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici.

5. In tale ambito si colloca anche l’attività di notificazione svolta dai messi comunali nell’interesse dell’amministrazione finanziaria, tenendo conto della evoluzione dell’ordinamento.

6. Il Collegio è consapevole della decisione della Sezione, 20 ottobre 1994, n. 1183, la quale ha affermato la sussistenza del diritto dei dipendenti comunali messi notificatori ad ottenere un compenso aggiuntivo per l’espletamento del servizio delle notificazioni, qualificato come aggiuntivo e autonomamente disciplinato, quanto all’aspetto retributivo.

7. Detta pronuncia, tuttavia, si riferisce ad un contesto ordinamentale e temporale, nel quale il principio della onnicomprensività retributiva e della contrattualizzazione della disciplina dei compensi spettanti al personale non era ancora completamente attuato.

8. In ogni caso, poi, occorre considerare con attenzione anche il quadro mansionario concretamente attribuito, di volta in volta, ai dipendenti addetti al servizio di notificazione. In tale prospettiva, non può essere trascurato che le attività assegnate agli attuali appellanti consistono proprio “nella funzione di notificazione degli atti di pertinenza del comune e nelle altre incombenze spettanti per legge e per regolamento al messo comunale”.

9. Non risulta smentita, poi, l’affermazione del comune di Bologna, secondo il quale anche la notificazione degli atti nell’interesse dell’amministrazione finanziaria dello Stato si svolge nel normale orario di ufficio e mediante l’utilizzo degli strumenti organizzativi messi a disposizione dall’amministrazione.

10. Numerose disposizioni succedutesi nel tempo, poi, hanno evidenziato la sussistenza del dovere istituzionale dei messi comunali di effettuare le prescritte attività di notifica anche in relazione agli atti di competenza dell’amministrazione finanziaria (fra le tante: art. 32 del D.P.R. n. 636/1972; art. 60 del D.P.R. n. 600/1973.

11. Solo il quadro normativo preesistente al 1979 permetteva il riconoscimento, in favore dei messi comunali, di un compenso aggiuntivo per ogni atto dell’Amministrazione finanziaria notificato. Vi erano, infatti, almeno tre disposizioni che portavano a tale conclusione:

– l’art. 1 della legge 27 febbraio 1955 n. 83, che riconosceva ai messi comunali un compenso di lire 25 per ogni atto notificato ad istanza dell’Amministrazione finanziaria;

– l’art. 1 della legge 24 febbraio 1971 n. 114, che elevava a lire 50 o a lire 100 il compenso per le dette notifiche);

– l’art. 1 della legge 10 maggio 1976 n. 249, che fissava il compenso in una misura variabile da lire 500 a lire 750, a seconda della classe demografica del comune.

12. Successivamente, le tre disposizioni richiamate sono state superate, per abrogazione implicita o esplicita.

13. In particolare, l’art. 19, comma 4, del D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191 ha espressamente stabilito che “al personale dipendente degli Enti locali di cui all’art. 1 compete esclusivamente la retribuzione annua lorda derivante dal trattamento economico di livello e dalla progressione economica orizzontale, inglobante qualsiasi retribuzione per prestazioni a carattere sia continuativo che occasionale ad eccezione del compenso per lavoro straordinario, dell’indennità di missione e trasferimento, dell’indennità per la funzione di coordinamento di cui all’art. 24, del compenso per servizio ordinario notturno e festivo nonché delle indennità per maneggio valori, per radiazioni ionizzanti e per profilassi antitubercolare da determinare con le modalità di cui al regolamento di attuazione della legge n. 734 del 1973, approvato con D.P.R. n. 146 del 1975, e successive modificazioni, nonché con le modalità previste dalla legge n. 310 del 1953”,

14. Mediante tale norma è stata cristallizzato esplicitamente il principio di onnicomprensività del trattamento economico del personale degli enti locali, con la conseguente abrogazione di tutte le disposizioni, anche di valore legislativo, prevedenti componenti retributive non rientranti nell’elencazione prevista dall’art. 19, comma 4.

15. Alla modifica del 1979 sono poi seguiti altri due interventi normativi di rilievo. L’art. 4, comma 2, della legge 12 luglio 1991 n. 202 ha abrogato l’art. 4, comma 1, della legge n. 249 del 1976. L’art. 34 della legge 18 febbraio 1999 n. 28 ha previsto una nuova disciplina, ad efficacia retroattiva, dei compensi di notifica, affermando che “a decorrere dal 27 luglio 1991 e fino all’entrata in vigore della disciplina concernente il riordino dei compensi spettanti ai Comuni per la notificazione degli atti a mezzo dei messi comunali su richiesta di uffici della Pubblica amministrazione, al Comune spetta, ove non corrisposta, la somma di lire tremila per ogni singolo atto dell’Amministrazione finanziaria notificato”.

16. In base a tale norma, il compenso per le notificazioni va corrisposto alle amministrazioni comunali e non già ai dipendenti.

17. Una ulteriore conferma della correttezza di questa interpretazione, deriva dal tenore dell’art. 10 della legge 3 agosto 1999 n. 265, secondo il quale “le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 comma 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, e successive modificazioni, possono avvalersi, per le notificazioni dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle altre forme di notificazione previste dalla legge. Al Comune che vi provvede spetta da parte dell’Amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, oltre alle spese di spedizione a mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento, una somma determinata con decreto dei Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, dell’interno e delle finanze”.

18. In tale solco si è inserita la interpretazione giurisprudenziale successiva, che sottolinea il rapporto di immedesimazione organica diretta tra Amministrazione finanziaria e singolo messo notificatore.

19. In particolare, in sede interpretativa giurisprudenziale si è chiarito che:

– il diritto dei messi notificatori al compenso per gli atti notificati a richiesta dell’Amministrazione finanziaria, previsto da specifiche norme di legge, è stato soppresso dall’art. 19 del D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191; peraltro la disposizione dell’art. 34 della legge 18 febbraio 1999 n. 28 – concernente il riordino dei compensi spettanti ai Comuni per la notificazione degli atti a mezzo dei messi comunali su richiesta di uffici della Pubblica amministrazione – prevede come unica destinataria l’Amministrazione comunale, con la conseguenza che deve essere esclusa, almeno a livello implicito, qualsiasi volontà legislativa di attribuire un particolare compenso per ogni atto notificato al singolo messo comunale (cfr. T.A.R. Basilicata 13 luglio 2004 n. 725 e T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, 20 settembre 2001 n. 5415 e 10 maggio 2000 n. 2343);

20. In senso analogo, la giurisprudenza ha affermato che, in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti degli Enti locali, fissato dall’art. 19 D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191, ai dipendenti comunali con la qualifica di messo non spetta alcun compenso aggiuntivo per l’attività di notificazione di atti richiesta al Comune dall’Amministrazione finanziaria, rientrando tali funzioni tra gli ordinari compiti d” ufficio spettanti ai detti dipendenti (cfr. T.A.R. Piemonte, Sez. II, – 25 gennaio 2003 n. 117 e 15 aprile 2000 n. 421);

21. Ancora, si è stabilito che, in tema di notifica degli avvisi di accertamento tributario, qualora l’Amministrazione finanziaria, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 600 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, richieda al Comune di provvedere all’incombente a mezzo di messi comunali, si instaura, tra Amministrazione statale ed Ente locale, un rapporto di preposizione gestoria che deve essere qualificato come mandato ex lege, la cui violazione costituisce, se del caso, fonte di responsabilità esclusiva a carico del Comune, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra Amministrazione finanziaria e messi comunali, che operano alle esclusive dipendenze dell’ Ente territoriale (cfr. T.A.R. Veneto 22 agosto 2002 n. 4508);

22. Infatti, deve escludersi che tra i messi comunali e l’Amministrazione richiedente la notifica corra un rapporto diretto (Cass., SS.UU., 6 giugno 1997 n. 5069, Cass. 16 giugno 1998 n. 5987 e T.A.R. Toscana, Sez. I, 14 novembre 1997 n. 527).

23. Da ultimo, appare significativa la circostanza che sia intervenuto, in epoca successiva, un nuovo assetto della materia, costituito dall’art. 54 del C.C.N.L. del 14 settembre 2000, secondo il quale i messi notificatori sono stati destinatari del compenso pari al 35% degli introiti per le notifiche.

24. Tale evenienza conferma come sia indispensabile, per il riconoscimento della pretesa indennità in favore del personale dipendente, una norma specifica che lo consenta.

25. È appena il caso di osservare che le recenti decisioni della IV Sezione (19 febbraio 2007, n. 850 e 14 febbraio 2006, n. 604), citate dagli appellanti, non alterano la conclusione raggiunta, perché esse si limitano ad affermare la persistente vigenza dell’obbligo dell’amministrazione finanziaria di corrispondere ai comuni un compenso per l’effettuazione delle notifiche, senza prendere alcuna esplicita posizione sulla fondatezza della pretesa economica fatta valere dai dipendenti.

26. Al riguardo, è necessario chiarire che, contrariamente a quanto ritenuto dagli appellanti, le somme liquidate dall’amministrazione finanziaria non sono incassate dal comune di Bologna “senza titolo”. Infatti, dette somme sono destinate a compensare, almeno in parte, il servizio erogato dall’ente locale a vantaggio dell’amministrazione statale.

27. Ma ciò non significa affatto che si tratti di somme destinate alla retribuzione dei singoli messi comunali.

28. In definitiva, quindi, l’appello deve essere respinto.

29. Le spese possono essere compensate, considerando la complessità delle questioni giuridiche trattate.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, respinge l’appello, compensando le spese;

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 23 ottobre 2007, con l’intervento dei signori:

RAFFAELE CARBONI Presidente

MARCO LIPARI – Consigliere Estensore

CARO LUCREZIO MONTICELLI – Consigliere

MARZIO BRANCA – Consigliere –

NICOLA RUSSO – Consigliere


Cons. Stato Sez. IV, 08-02-2008, n. 430

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

composto dai Signori:

Gaetano Trotta Pres.

Luigi Maruotti Est. Cons.

Pier Luigi Lodi Cons.

Giuseppe Romeo Cons.

Carlo Deodato Cons.

ha pronunciato la presente

DECISIONE

nella Camera di Consiglio del 05 Febbraio 2008

(Ai sensi degli artt. 21 e 26 della legge n. 1034/1971, come modificata dalla legge n. 205/2000)

Visto l’appello proposto da:

E.C. S.R.L.

rappresentato e difeso dagli Avv.ti ANDREA MANZI, ANTONIO SARTORI e CLAUDIO CODOGNATO con domicilio eletto in Roma VIA F. CONFALONIERI N.5 presso ANDREA MANZI

contro

G.D.

non costituitosi;

e nei confronti di

REGIONE VENETO

non costituitosi;

COMUNE DI VENEZIA rappresentato e difeso dagli Avv.ti ANTONIO IANNOTTA, GIULIO GIDONI, GIUSEPPE VENEZIAN, M.M. MORINO, MAURIZIO BALLARIN, NICOLETTA ONGARO e NICOLÒ PAOLETTI con domicilio eletto in Roma VIA BARNABA TORTOLINI 34 presso NICOLO’ PAOLETTI per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della sentenza del TAR VENETO – VENEZIA: Sezione II 3493/2007, resa tra le parti, concernente ANNULLAMENTO PERMESSO DI COSTRUIRE.

Visti gli atti e documenti depositati con l’appello;

Vista la domanda di sospensione dell’ efficacia della sentenza di accoglimento, presentata in via incidentale dalla parte appellante.

Visto l’atto di costituzione in giudizio di:

COMUNE DI VENEZIA

Udito il relatore Cons. Luigi Maruotti e uditi, altresì, per le parti l’avv. A. Manzi e l’avv. Paoletti;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
che alle parti è stato prospettato che la definizione del secondo grado del giudizio può avere luogo in questa sede e rilevato che esse hanno sul punto concordato;

Rilevato che – come dedotto col primo motivo di appello – il ricorso di primo grado non è stato ritualmente notificato alla società controinteressata (odierna appellante), poiché l’ufficiale giudiziario, in data 27 settembre 2007, pur essendosi recato presso la sua sede (nel domicilio anche indicato nella originaria domanda di permesso di costruire), ha avuto notizia del “trasferimento” della società, senza porre in essere le ulteriori attività necessarie per il perfezionamento della notifica;

Considerato che sussistono i presupposti per applicare il beneficio dell’errore scusabile, poiché l’originaria ricorrente ha tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario gli atti volti alla notifica del ricorso alla controinteressata;

Considerato che, in ragione del mancato rispetto del principio del contraddittorio in primo grado, la sentenza gravata va annullata con rinvio al TAR per il Veneto, il quale si pronuncerà anche in ordine alle spese e agli onorari dei due gradi della presente fase del giudizio;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’appello n. 9852 del 2007 e annulla la sentenza del TAR per il Veneto n. 3493 del 2007, con rinvio allo stesso TAR, per la definizione del ricorso di primo grado n. 1879 del 2007.

Spese al definitivo.

La presente decisione sarà eseguita dalla Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Roma, 05 Febbraio 2008


Cons. Stato, Sez. IV, Sent., (data ud. 17-04-2007) 11/05/2007, n. 2325

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE
(SEZIONE QUARTA)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso iscritto al NRG 3258\2005, proposto dal comune di Pianezze in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Orsoni e Mario Sanino ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli n. 180;

contro

I.H. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Piva e Luigi Manzi, domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5;

e nei confronti di

O.M., non costituita.

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, sezione II, n. 3762 del 25 ottobre 2004;

Visto il ricorso in appello;

visto l’atto di costituzione in giudizio e contestuale appello incidentale della I.H. s.r.l. (in prosieguo società I.);

viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

visti gli atti tutti della causa;

data per letta alla pubblica udienza del 17 aprile 2007 la relazione del consigliere Vito Poli, uditi gli avvocati come da verbale di udienza;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La società I. ha presentato domanda di permesso di costruire al comune di Pianezze in data 15 gennaio 2004.

A seguito di una lunga istruttoria, nel corso della quale venivano acquisiti tutti gli avvisi favorevoli, il responsabile del servizio tecnico comunale, dopo aver espresso la determinazione di rilasciare il permesso, liquidava il contributo di costruzione (cfr. nota 27 ottobre 2004, priva di numero di protocollo, comunicata in pari data a mani del titolare della società, come risulta dalla dicitura apposta a mano alla sommità del documento, e sottoscritta, in calce, con firma autografa dal responsabile del servizio apposta sotto la dicitura a stampa IL RESPONSABILE DEL SERVIZIO Geometra A.M.).

1.1. In pari data veniva rilasciato permesso di costruire n. 2004/04 comunicato personalmente al titolare della società in data 6 maggio 2004 (tale comunicazione era attestata in calce al permesso di costruire, in un unico contesto documentale); il 5 maggio 2004 la società provvedeva al pagamento del contributo di costruzione.

1.2. Con delibera del Consiglio comunale – n. 16 del 28 aprile 2004 – veniva adottata la variante n. 23 al p.r.g., in forza della quale veniva drasticamente abbattuta la volumetria edificabile nella zona oggetto dell’intervento costruttivo assentito con il menzionato permesso.

Con determinazione del direttore generale del comune di Pianezze datata 4 giugno 2004, il permesso di costruire – identificato al n. 2004/04 del 6 maggio 2004 – veniva annullato nel presupposto esclusivo della sua posteriorità rispetto alla delibera di adozione della variante e dunque perché emesso in spregio della norma sancita dall’art. 12, comma 3, t.u. edilizia, che vieta il rilascio di titoli edilizi in contrasto con gli strumenti urbanistici in itinere (nel caso di specie il contrasto era con l’art. 32 delle n.t.a. della variante).

1.3. Avverso tale atto e la deliberazione consiliare recante l’adozione della variante insorgeva la società I., deducendo tre autonomi motivi, il primo dei quali imperniato sul travisamento dei fatti in cui era incorso il comune, che non si era avveduto che alla data del 28 aprile 2004 il permesso di costruire oggetto di annullamento in sede di autotutela, era stato già rilasciato.

2. L’impugnata sentenza – T.a.r. del Veneto, sezione II, n. 3762 del 25 ottobre 2004 -:

a) ha riconosciuto la fondatezza del primo motivo dopo aver dato atto che il permesso di costruire era stato rilasciato in data 27 aprile 2004;

b) ha annullato il solo atto di autotutela;

c) ha compensato integralmente fra le parti le spese di lite.

3. Con ricorso notificato il 14 aprile 2005, e depositato il successivo 21 aprile, il comune di Pianezze ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza del T.A.R. deducendo:

a) violazione dell’art. 12 t.u. edilizia, degli artt. 29 e 30, l.r. n. 11 del 2004, erronea interpretazione dei fatti di causa, eccesso di potere, difetto di presupposto, contraddittorietà;

b) violazione dell’art. 42, r.d. n. 642 del 1907, il giudice di prime cure avrebbe dovuto sospendere il processo onde consentire la proposizione della querela di falso avverso la nota di determinazione dei contributi di costruzione;

c) tardività delle censure proposte avverso la variante urbanistica n. 23 comunicata personalmente alla società Ittierre con nota del 13 maggio 2004.

4. Si costituiva l’intimata società deducendo l’infondatezza del gravame in fatto e diritto e insistendo, mediante appello incidentale, per la condanna del comune al risarcimento di tutti i danni subiti quantificati in euro 500.000, nonché alla condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

5. Con memoria conclusionale del 5 aprile 2007 la società I. ha ridotto la pretesa risarcitorie a 160.000 euro.

Con memoria conclusionale del 4 aprile 2007 il comune di Pianezze ha insistito, fra l’altro, per la sospensione del presente giudizio onde consentire la proposizione della querela di falso.

6. La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 17 aprile 2007.

7. L’appello principale è infondato e deve essere respinto.

7.1. Il primo motivo è incentrato, nella sostanza, sulla errata individuazione della data di adozione del permesso di costruire; rileva il comune, in particolare, che nella copia del permesso versata nel proprio fascicolo di parte, mancherebbe la sottoscrizione autografa, a fianco dell’indicazione a stampa del nominativo del funzionario, e che la data del 27 marzo 2004 apposta in calce al permesso (sempre a stampa) sarebbe frutto di un errore materiale.

Il mezzo è infondato sia in fatto che in diritto.

7.1.1. E’ emerso dalla ricostruzione degli aspetti salienti della vicenda per cui è causa, che lo stesso giorno (27 aprile 2004) il responsabile del servizio tecnico comunale ha prima individuato l’ammontare dei contributi concessori e poi rilasciato il permesso di costruire debitamente numerato secondo la serie progressiva.

Nella copia del permesso esibito dal comune, oltre alla stampigliatura (con mezzi chiaramente informatici), della data e dell’indicazione del nominativo del funzionario responsabile, sotto la dicitura “IL RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO”, è apposto anche un timbro a secco rotondo del comune di Pianezze.

Nella copia del permesso di costruire esibita dalla società I. (produzione n. 3 del fascicolo T.a.r.), sotto la indicazione a stampa del nominativo del funzionario responsabile è apposta anche la sottoscrizione autografa.

7.1.2. Ma la tesi sostenuta dal comune è errata anche in diritto.

Dopo l’entrata in vigore dell’art. 6 quater d.l. n. 6 del 1991, conv., con modif., nella l. 15 marzo 1991 n. 80 (con riguardo agli atti degli enti locali), e dell’art. 3 d.leg. 12 febbraio 1993 n. 39 (con riguardo agli atti di qualsiasi p.a.), l’autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza o validità giuridica degli atti amministrativi, allorquando, come nel caso di specie, i dati esplicitati nel contesto documentativo dell’atto consentano di accertare la sicura attribuibilità dello stesso a chi deve esserne l’autore; in questi casi, infatti, secondo le su indicate norme, nel caso di emanazione di atti amministrativi attraverso sistemi informatici e telematici, la firma autografa è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile (cfr. Cass. sez. I, 14 settembre 2005, n. 18218; 31 maggio 2005, n. 11499; Cons. Stato, sez. IV, 22 aprile 2004, n. 1856, ord.).

Quanto alle oggettive discrasie rilevabili per tabulas – nella specie la diversità dei caratteri di stampa dei permessi esibiti dalle parti, la presenza della sottoscrizione autografa nel solo permesso depositato dalla società, la presenza nel corpo del testo del permesso dell’attestazione dell’intervenuto pagamento dei contributi di costruzione in realtà avvenuto successivamente in data 5 maggio 2004 – alcune delle quali evidenziate dalla difesa comunale, il collegio osserva che trattasi di conseguenze di prassi amministrative invalse in molti enti pubblici, in forza delle quali del medesimo provvedimento vengono rilasciati più duplicati, sottoscritti solo nella versione consegnata al privato.

L’arbitrarietà di una siffatta prassi (e l’errore commesso nel corpo del permesso di costruire) può condurre a conseguenze diverse, sul piano giuridico, ma non consente di escludere, nel peculiare caso di specie, che la data di adozione del permesso di costruire sia identificabile nel 27 aprile 2004.

7.1.3. Nel sistema precedente il t.u., la misura di salvaguardia era riferita all’istanza di rilascio del permesso; pertanto, non poteva operare laddove il titolo fosse stato già rilasciato al momento dell’adozione dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1993 del 1998) sia con provvedimento espresso che mediante la formazione del silenzio assenso; in ogni caso, una volta formatasi la determinazione positiva sull’istanza di concessione, il rilascio del documento formale era ritenuto atto dovuto da parte del comune (cfr. Cons. Stato sez. V, 21 maggio 1984, n. 376), né tantomeno il titolo edilizio avrebbe potuto considerarsi annullato per il solo fatto di essere in contrasto con la proposta di modificazione dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n. 847).

Attesa l’autonomia dei due procedimenti si era ritenuto che non solo la determinazione dell’onere potesse avvenire successivamente al rilascio del titolo ma, qualora tale determinazione fosse avvenuta al momento del rilascio, l’amministrazione avrebbe potuto effettuare i necessari conguagli dell’ammontare del contributo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 1996, n. 426).

Alcune delle acquisizioni della giurisprudenza formatasi antecedentemente al nuovo t.u. possono essere utilmente richiamate anche nell’esegesi della nuova disciplina edilizia.

Nel sistema del t.u. deve ritenersi che sia sempre necessario un atto formale conclusivo del procedimento adottato dal dirigente (o funzionario responsabile del servizio).

Si badi che il procedimento di rilascio del permesso di costruire e quello di determinazione dei contributi continuano ad avere natura distinta ed autonoma anche nel t.u., fermo restando che il contenuto minimo essenziale del permesso richiede, a differenza che in passato, la determinazione del contributo di costruzione, oltre che, per quanto di interesse ai fini della presente controversia, la proposta finale motivata del responsabile del procedimento, il parere della commissione edilizia (se imposto dal regolamento edilizio), i termini di inizio e conclusione dei lavori; ciò che non è essenziale è che il pagamento dei contributi preceda il rilascio; tale pagamento, infatti, di norma deve avvenire al momento del rilascio ma può anche essere rateizzato e, limitatamente alla quota corrispondente al costo di costruzione, può intervenire in corso d’opera.

Nel caso di specie, il permesso rilasciato alla società I. in data 27 aprile 2004 era munito di tutti i requisiti essenziali non dovendosi ritenere tale l’antecedente pagamento del contributo di costruzione intervenuto nel periodo intercorrente fra il rilascio del titolo e la sua comunicazione (il 6 maggio 2004) da parte del responsabile del servizio tecnico nella qualità di messo comunale. Cadono così le ulteriori argomentazioni difensive sviluppate dalla difesa del Comune di Pianezze.

7.2. Miglior sorte non tocca al secondo motivo.

7.2.1 Ai sensi dell’art. 41, r.d. n. 642 del 1907 cit., la domanda di prefissione di un termine per la proposizione della querela di falso può trovare accoglimento solo allorché si riconosca che la pretesa falsità di documenti si presenta influente e rilevante ai fini del giudizio, non potendo la controversia essere decisa indipendentemente dai documenti in questione.

In ogni caso:

– l’istanza deve essere corredata da adeguati indizi e congruamente motivata ex art. 221 c.p.c. (cfr. Cons. Stato 3 maggio 2000, n. 2622);

– la sospensione del processo può essere concessa se non emergono elementi tali da far escludere con certezza che le circostanze addotte possano essere fondate (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2001, n. 1707; 27 marzo 2000, n. 1751).

7.2.2. Nel caso di specie non ricorrono le condizioni dianzi evidenziate.

Il termine richiesto per la querela di falso al T.a.r. concerneva un atto irrilevante ai fini del presente giudizio (la determinazione del contributo di costruzione), giacché l’accoglimento dell’originario ricorso si fonda correttamente sulla presenza di un formale permesso di costruire antecedente all’adozione della variante.

In secondo luogo, è dirimente la circostanza che il responsabile del servizio tecnico, indagato per i reati di abuso d’ufficio e falsità ideologica per aver retrodatato il permesso di costruire in questione, sia stato prosciolto allo stato da ogni addebito su richiesta del P.M. (del 21 gennaio 1006), con decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Bassano del Grappa (del 1 marzo 2006), stante l’inidoneità degli elementi acquisiti nel corso dell’indagine a sostenere l’accusa in giudizio.

Infine, è appena il caso di notare che il comune potrà autonomamente proporre querela di falso in un separato giudizio.

Coerentemente con quanto fin qui esposto, deve essere respinta la richiesta di sospensione del presente giudizio formulata nelle conclusioni dell’atto di appello e ribadita in memoria conclusionale.

Cadono così le ulteriori argomentazioni difensive sviluppate dalla difesa del comune di Pianezze nell’atto di appello e nella memoria conclusionale.

7.3. Quanto al terzo motivo la sezione ne rileva la palese inammissibilità per carenza di interesse all’appello non essendosi verificata soccombenza relativamente alla domanda di annullamento dell’atto di adozione della variante.

Esattamente il primo giudice, infatti, si è limitato ad annullare il solo provvedimento di autotutela ritenendo tale statuizione integralmente satisfattiva del bene della vita cui aspirava il privato.

8. Può scendersi all’esame della domanda di risarcimento del danno contenuta nell’appello incidentale.

La domanda è sia inammissibile che infondata e và respinta nella sua globalità.

La domanda risarcitoria è inammissibile perché è stata effettivamente proposta per la prima volta solo in grado di appello in violazione del divieto sancito dall’art. 345, comma 1, c.p.c.

Dall’esame analitico del ricorso di primo grado emerge che la quantificazione dei danni operata in quella sede e pari ad euro 1.210.030 (pagine da 16 a 18) aveva come finalità esclusiva quella di sostenere la domanda cautelare.

Nelle sole richieste conclusive (pagina 18) la società instava per la condanna del comune al risarcimento del danno; ma questa formula deve intendersi come richiesta alternativa alla concessione della misura cautelare.

Esattamente il T.a.r., avendo definito l’incidente cautelare con sentenza in forma semplificata a meno di due mesi dalla notificazione del ricorso di primo grado, non ha preso in considerazione la domanda risarcitoria proposta in via alternativa dalla società Ittierre.

In ogni caso la domanda di risarcimento è infondata anche nel merito, mancando la prova della sussistenza dei lamentati danni.

In particolare:

a) come evidenziato in precedenza, fra la data di emanazione del provvedimento di autotutela oggetto del presente giudizio e quella di annullamento giurisdizionale sono trascorsi solo tre mesi;

b) l’interevento costruttivo è stato iniziato e concluso nel pieno rispetto dei termini indicati dal permesso di costruire;

c) la società lamenta la minaccia di risoluzione di alcuni contratti ma non fornisce la prova dell’avvenuta risoluzione;

d) difetta la prova che il mancato inizio dei lavori, nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione dell’impugnata sentenza, sia attribuibile a condizionamenti negativi discendenti dal provvedimento annullato anziché a scelte imprenditoriali; lo stesso è a dire per la stipula di un nuovo contratto di appalto a condizioni asseritamene deteriori rispetto a quello concluso antecedentemente (in data 11 maggio 2004), specie alla luce delle clausole contenute in quest’ultimo contratto (in particolare artt. 6 e 15) che sancivano il pagamento dell’acconto e dell’ulteriore corrispettivo solo dopo l’inizio dei lavori ed in base allo stato di avanzamento;

e) manca la prova del nesso causale fra la riduzione del fido concesso dalle banche e l’adozione del provvedimento di autotutela nonché fra quest’ultimo ed il ricorso all’autofinanziamento da parte dei soci.

8.1. Parimenti infondata è la domanda di risarcimento del danno per lite temeraria non ravvisando il collegio, nel contegno preprocessuale e processuale del comune, vagliato alla luce delle particolarità evidenziate in precedenza, gli estremi della malafede e della colpa grave, presupposti indispensabili della fattispecie illecita delineata dall’art. 96 c.p.c.

9. Sulla scorta delle rassegnate conclusioni devono essere rigettati sia l’appello principale che quello incidentale.

Nella reciproca soccombenza delle parti il collegio ravvisa giusti motivi per compensare integralmente fra le stesse le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe:

– respinge l’appello principale proposto dal comune di Pianezze e quello incidentale proposto dalla I.H. s.r.l. e per l’effetto conferma la sentenza impugnata;

– dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 aprile 2007, con la partecipazione di:

Paolo Salvatore – Presidente

Luigi Maruotti – Consigliere

Pierluigi Lodi – Consigliere

Antonino Anastasi – Consigliere

Vito Poli Rel. Estensore – Consigliere


Cons. Stato Sez. VI, (ud. 30-01-2007) 20-03-2007, n. 1309

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto da D.A., rappresentato e difeso dall’avv. Domenico Condemi, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, via Costantino Morin, 45

contro

l’I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Valerio Mercanti e dall’avv. Patrizia Tadris, e con loro elettivamente domiciliato in Roma, via della Frezza, n. 17, presso l’Ufficio Legale dell’Istituto;

per l’annullamento

della sentenza n. 10729 del 2001 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. III, resa inter partes..

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti della causa;

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

Viste le memorie delle parti a sostegno delle rispettive difese;

Alla pubblica udienza del 30 gennaio 2007, relatore il Consigliere Giuseppe Romeo, uditi l’avv. Condemi e l’avv. Tadris;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- Il TAR Lazio, con la sentenza di cui si chiede la riforma, ha respinto il ricorso dell’istante avverso la deliberazione del Consiglio di Amministrazione dell’INPS di rigetto della sua domanda intesa ad ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle lesioni dallo stesso subite a seguito di incidente stradale, in cui era rimasto coinvolto con la propria autovettura, mentre si recava al luogo di lavoro.

Il TAR ha individuato la ragione dell’infondatezza del ricorso, nel fatto che l’incidente in questione è stato causato da un errore di guida inescusabile del ricorrente, che si è immesso in una importante via di comunicazione, senza fermarsi allo “stop”. Sotto questo profilo, è parso legittimo il deliberato del Consiglio di Amministrazione che ha denegato il riconoscimento richiesto, dal momento che la condotta del ricorrente integra gli estremi della colpa grave, per cui, ai sensi dell’art. 1 del regolamento Organico, deve essere escluso il nesso di causalità tra il servizio prestato e l’infortunio subito “in itinere”.

2.- Appella l’interessato, il quale contesta la sentenza impugnata, giacché questa non avrebbe tenuto conto della normativa in materia (D.P.R. n. 411/1976; D.P.R. n. 1092/1973; D.P.R. n. 1124/1965) e avrebbe avallato acriticamente “la descrizione della dinamica” dell’incidente, che i Carabinieri avrebbero fatto in modo lacunoso. In ogni caso, se volesse ravvisarsi nella specie la colpa grave del ricorrente, al fine di escludere il nesso di causalità ai sensi dell’art. 1 del Regolamento Organico, occorre evidenziare che tale disposizione regolamentare è illegittima, perché contrasta con la normativa avanti citata. La consulenza tecnica di parte, la cui perizia è stata depositata in giudizio, dimostrerebbe però che la responsabilità del sinistro “è attribuibile al conducente dell’altra autovettura”, e immotivatamente il Consiglio di Amministrazione avrebbe recepito “il verbale dei Carabinieri”.

3.- Resiste l’INPS, chiedendo la reiezione del ricorso, siccome infondato.

4.- Il ricorso è stato trattenuto in decisione all’udienza del 30 gennaio 2007.

Il Consiglio di Amministrazione dell’INPS, pronunciandosi sulla domanda dell’interessato volta ad ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle lesioni dallo stesso subite a seguito di un incidente stradale nel quale è rimasto coinvolto, mentre si recava, con la sua autovettura, al lavoro, ha escluso nella specie il nesso di casualità tra servizio prestato e infortunio “in itinere” occorso. La ragione del contestato diniego (riconosciuta legittima dal TAR) è stata esplicitata nel provvedimento impugnato: il dipendente “ometteva di fermarsi allo “stop”, secondo quanto risulta dal verbale redatto dai Carabinieri di Cisterna intervenuti sul luogo dell’incidente”.

La motivazione è chiara, precisa e circostanziata, e il Collegio non può che condividerla, non essendo chiamato a ricostruire (come pretende l’appellante, il quale analizza in dettaglio “la dinamica dell’incidente” con l’ausilio di una consulenza tecnica di parte) le modalità dell’incidente.

Una adesione alla versione dell’incidente, tendente ad escludere la responsabilità dell’interessato per attribuirla all’altro conducente, che “procedeva ad alta velocità nonostante l’incrocio segnalato ed il pericolo di uscita di automezzi”, non era nella disponibilità del Consiglio di Amministrazione dell’INPS, a fronte di una attenta ricostruzione dell’incidente da parte dei Carabinieri, “intervenuti sul luogo dell’incidente”.

Per questo, non possono giovare all’istante i successivi sviluppi (relativi ai profili risarcitori) che la vicenda ha avuto nel giudizio promosso dall’altro conducente incidentato (accordo transattivo con accettazione del concorso di colpa al 50%). Neppure giova all’appellante la ulteriore considerazione che il Consiglio di Amministrazione non poteva “sottoporre a verifica” il giudizio del Collegio Medico, che, diversamente da quanto sostiene il ricorrente (pag. 3 del ricorso), non si è pronunciato sul nesso causale tra “le malattie denunciate” ed il servizio, ma ha dichiarato che “le infermità in diagnosi ad eccezione della patologia a carico del ginocchio sinistro sono in rapporto causale diretto tra l’infortunio occorso”.

Il Consiglio di Amministrazione non ha, quindi, “sottoposto a verifica” il parere del Collegio Medico, ma, nell’ambito della sua competenza, ha deliberato, in modo convincente e chiaro, sulla domanda del ricorrente, non riconoscendo la sussistenza di un nesso causale diretto tra le infermità subite dall’interessato e il servizio (non l’incidente).

L’appellante introduce un’altra problematica, relativa alla distinzione tra dolo e colpa grave, e richiama un orientamento giurisprudenziale del giudice ordinario, secondo il quale (con la sola eccezione di casi caratterizzati da “rischio elettivo) “la possibile colpa del lavoratore nella causazione dell’incidente non interrompe il nesso di causalità”.

In effetti, l’orientamento del giudice ordinario non conferma le conclusioni alle quali intende pervenire l’interessato, dal momento che è stato statuito in modo univoco che “la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare (secondo una valutazione rimessa al giudice) un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di tutela da escludere la stessa in radice”(si veda, Cass. Sez. Lav. n. 11885 del 6.8.2003). E nella specie, il dubbio che il ricorrente abbia violato gravemente le norme del codice della strada, per non essersi fermato allo “stop”, non è stato per nulla fugato, sicché è irrilevante, ai fini che interessano, che, in ipotesi, vi sia stato un concorso di colpa dell’altro conducente.

L’appello va, pertanto respinto.

Sussistono motivi per disporre la compensazione delle spese.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello in epigrafe. Compensa le spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) nella Camera di Consiglio con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone Presidente

Carmine Volpe Consigliere

Giuseppe Romeo Consigliere est.

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Lanfranco Balucani Consigliere


Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n. 850 del 19-02-2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

A) Sul ricorso in appello n. 214 del 1999 proposto dal Ministero delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege presso i suoi uffici in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

C O N T R O

Comune di Firenze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Maria Athena Lorizio e Claudio Visciola ed elettivamente domiciliato presso la prima in Roma, Via Dora n.1;

B) Sul ricorso in appello n. 452 del 1999 proposto dal Comune di Firenze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Maria Athena Lorizio e Claudio Visciola ed elettivamente domiciliato presso la prima in Roma, Via Dora n.1;

C O N T R O

Ministero delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege presso i suoi uffici in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

ENTRAMBI PER L’ANNULLAMENTO

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, sez.I, n.527/1997 in data 14 novembre 1997;

Visti i ricorsi con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Firenze (nel ricorso n.214/99) e del Ministero delle Finanze (nel ricorso n.452/99);

Vista la memoria difensiva del Comune di Firenze;

Visti gli atti tutti delle cause;

Alla pubblica udienza del 31 ottobre 2006, relatore il Consigliere Carlo Deodato, ed uditi, l’Avv. Lorizio e l’Avvocato dello Stato Varrone;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con la sentenza appellata veniva annullata la delibera della Giunta Municipale di Firenze n.2202/2243 del 5 luglio 1996 (impugnata dal Ministero delle Finanze), di disciplina dell’espletamento del servizio notifiche in favore di altre amministrazioni da parte dei messi comunali, nella sola parte in cui veniva subordinata l’esecuzione delle notificazioni alla compatibilità della relativa attività con le potenzialità dell’ufficio, essendo state, invece, ritenute legittime, con conseguente reiezione delle pertinenti censure, le altre disposizioni contestate dall’Amministrazione ricorrente (e, cioè, la previsione della debenza del contributo anche nei casi in cui la legge prevede la notifica gratuita da parte dei messi comunali, la prescrizione che la richiesta di notifica deve avvenire con congruo anticipo e la determinazione del compenso dovuto per gli atti dell’Amministrazione finanziaria).

Avverso quest’ultimo capo della decisione proponeva appello il Ministero delle finanze, criticando la correttezza degli argomenti addotti a sostegno della gravata pronuncia reiettiva, insistendo nel sostenere l’incompetenza del Comune nella regolamentazione dei compensi dovuti per l’attività di notificazione dei messi comunali e nella disciplina dei tempi e delle condizioni dell’espletamento di quest’ultima, ed invocando la riforma parziale della sentenza appellata ed il conseguente annullamento della delibera commissariale, anche nella parte contestata con l’appello.

Il capo di annullamento della delibera citata veniva, invece, impugnato, con autonomo ricorso, da parte del Comune di Firenze, che contestava il giudizio di illegittimità della parte della determinazione con cui si condizionava l’espletamento del servizio alla compatibilità delle richieste con la potenzialità dell’ufficio e che concludeva, pertanto, per la sua riforma.

Alla pubblica udienza del 31 ottobre 2006 i ricorsi venivano trattenuti in decisione.

2.- Occorre preliminarmente provvedere alla riunione degli appelli indicati in epigrafe, in quanto rivolti avverso la medesima decisione.

3.- Si deve, ancora, premettere che le questioni dedotte dalle parti, in entrambi i ricorsi, sono state già esaminate e definite dalla Sezione con una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2006, n. 604), con la quale si è, in particolare, ritenuto che non spetti al Comune la competenza relativa alla determinazione dei compensi spettanti ai messi comunali, in quanto riservata al legislatore statale, e che la potestà di autoregolamentazione dell’attività in questione non possa estendersi fino a condizionare la stessa possibilità di utilizzo del servizio in questione da parte delle amministrazioni statali, con la previsione di modalità, di condizioni e di termini per l’accesso allo stesso del tutto incompatibili con le esigenze postulate dal rispetto della normativa primaria che regola, con forza inderogabile e vincolante, le notifiche degli atti giudiziari.

4.- In coerenza con i principi appena enunciati, dai quali la Sezione non ravvisa ragioni di diritto od elementi di fatto per discostarsi, si deve, quindi, giudicare fondato l’appello del Ministero delle finanze, siccome rivolto a contestare la stessa sussistenza della potestà del Comune di dettare disposizioni relative alla debenza ed alla misura del contributo per l’attività di notificazione da parte dei messi comunali ed alle modalità temprali di presentazione delle richieste di notifica.

E’ sufficiente, al riguardo, ribadire che “il convincimento della spettanza al Comune della competenza a determinare i compensi dei messi comunali non può fondarsi sul rilievo dell’avvenuta delegificazione della materia, ad opera dell’art.4 della legge 12 luglio 1991, n.151 che, avendo abrogato il precedente regime delle tariffe del predetto servizio, aveva automaticamente riservato ai Comuni, secondo la ricostruzione della fattispecie operata in prima istanza, la potestà di disciplinare, in via regolamentare, tale aspetto dell’attività di notificazione.

Sennonché, a ben vedere, l’avvenuta abrogazione dell’art.4 della legge 10 maggio 1976, n.249 (per effetto dell’art.4, comma 2, l. n.151/91) non implica l’immediata e conseguente devoluzione ai Comuni della competenza alla determinazione dei compensi dovuti ai messi comunali; e ciò per un duplice ordine di considerazioni.

Innanzitutto, perché l’abrogazione di una norma di rango primario, ancorché produttiva di una lacuna nell’ordinamento (da colmarsi con gli ordinari strumenti ermeneutici), non comporta l’automatico effetto dell’assegnazione della competenza – alla regolamentazione della fattispecie originariamente disciplinata dalla disposizione abrogata – ad una fonte normativa secondaria o, addirittura, amministrativa (come in questo caso), se non in presenza di una esplicita clausola di delegificazione (nella specie mancante).

In secondo luogo, in quanto la conclusione raggiunta dai primi giudici si fonda sull’impropria qualificazione dell’attività di notificazione svolta dai messi comunali come direttamente pertinente alle competenze dei Comuni (donde la potestà alla loro regolamentazione), mentre, di contro, la legge 24 febbraio 1971, n.114 (che contiene la determinazione originaria delle tariffe) qualifica espressamente i compensi contestualmente stabiliti come spettanti ai messi comunali, e non ai Comuni, con la conseguenza che la fonte del potere in questione non può essere in alcun modo rinvenuta nella titolarità, da parte dell’ente locale, del servizio in questione e, dunque, del diritto alla sua remunerazione, viceversa intestato direttamente e personalmente ai messi comunali” (Cons. Stato, sez. IV, n. 604/06 cit.).

Con la conseguenza che il Comune di Firenze era del tutto sprovvisto della competenza alla determinazione dei presupposti (della relativa obbligazione) e della misura dei compensi spettanti ai messi comunali, da ritenersi ancora riservata alla legge statale.

In ordine alla seconda questione sollevata dal Ministero appellante, relativa alla parte in cui la Giunta aveva disciplinato i termini per la consegna degli atti da notificare, si osserva che “pur ammettendo la (peraltro dubbia) competenza del Comune all’autoregolamentazione dell’attività di notificazione assegnata ai messi comunali (ovviamente per profili diversi da quelli relativi al compenso dovuto a questi ultimi), deve, in ogni caso, escludersi che tale potestà possa estendersi fino a condizionare la stessa possibilità di utilizzo del servizio in questione da parte delle amministrazioni statali, con la previsione di modalità e di termini per l’accesso allo stesso del tutto incompatibili con le esigenze postulate dal rispetto della normativa primaria che regola le notifiche degli atti giudiziari.

Ne consegue che la delibera commissariale scrutinata risulta viziata anche nella parte in cui si occupa di fissare termini rigidi per la presentazione delle richieste di notifica, del tutto incompatibili con l’osservanza della disciplina legislativa sulle notificazioni, rispetto alla quale la determinazione in esame si appalesa contrastante” (Cons. Stato, sez. IV, n.604/06 cit.).

5.- Per le medesime ragioni da ultimo esposte, va anche confermato il giudizio di illegittimità, già reso in prima istanza e gravato con l’appello del Comune, del capo della delibera di Giunta con cui veniva subordinato l’espletamento del servizio alla sua compatibilità con le potenzialità dell’ufficio, posto che, anche qui, il potere di autoregolamentazione dell’attività non può spingersi fino a condizionare la stessa prestazione del servizio a fattori, quali l’organizzazione amministrativa interna, diversi ed estranei, rispetto a quelli che, secondo la normativa primaria, esonerano i Comuni dal servizio in questione od escludono il suo carattere necessario ed indefettibile.

6.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, l’accoglimento dell’appello del Ministero delle finanze e la reiezione di quello del Comune di Firenze, con il conseguente annullamento della delibera impugnata in primo grado, in tutte le parti contestate con il ricorso originario.

7.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, riunisce i ricorsi indicati in epigrafe, respinge l’appello del Comune di Firenze (n. 452/99), accoglie quello del Ministero delle finanze (n.214/99) e, in parziale riforma della decisione appellata, annulla la delibera della Giunta Municipale di Firenze n.2202/2243 del 5 luglio 1996, relativamente a tutte le parti contestate con il ricorso di primo grado; condanna il Comune di Firenze a rifondere al Ministero delle finanze le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.000,00;

ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 31 ottobre 2006, con l’intervento dei signori:

CARLO SALTELLI – Presidente f.f.

CARLO DEODATO – Consigliere, Estensore

SALVATORE CACACE – Consigliere

SERGIO DE FELICE – Consigliere

EUGENIO MELE – Consigliere


Cons. Stato Sez. V, (ud. 21-04-2006) 02-10-2006, n. 5718

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE

Sezione Quinta

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 10337 del 2005, proposto dal sig. C.M., rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo Mascolo, elettivamente domiciliato presso il medesimo in Roma, via P. Frisi 18

contro

l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Perugia, rappresentato e difeso dall’avv. Goffedo Gobbi e dall’avv. Claudio Marcello Leonelli, elettivamente domiciliato presso il primo in Roma, via Maria Cristina 8

e nei confronti

della signora F.M., non costituita in giudizio

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, 29 luglio 2005 n. 383, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurgi e Odontoiatri di Perugia;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla camera di consiglio del 21 aprile il consigliere Marzio Branca, e uditi gli avv.ti Mascolo, L. Gobbi per delegadi G. Gobbi;

Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso proposto dal sig. C.M. per l’annullamento della nota 25 febbraio 2005 n. 602 con la quale l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Perugia ha negato l’accesso dell’istante al verbale relativo alla audizione della dr. F.M., medico psichiatra, sentita dall’Ordine predetto a seguito di esposto inoltrato dal medesimo sig. M., ai fini dell’apertura di un procedimento disciplinare.

Il TAR ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per accogliere la richiesta in ragione della natura riservata dell’atto e della sostanziale irrilevanza del medesimo in funzione della tutela di posizioni giuridiche qualificate.

Il sig. M. ha proposto appello assumendo l’erroneità della sentenza e chiedendone la riforma, con contestuale accertamento del diritto all’accesso al documento.

L’Ordine intimato si è costituito in giudizio per resistere al gravame.

Entrambe le parti hanno depositato memoria per ostenere le rispettive ragioni.

Alla pubblica udienza del 21 aprile 2006 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
La vicenda in esame si inserisce nel contenzioso che contrappone l’odierno appellante alla suocera, medico psichiatra, a carico della quale pende un procedimento penale per sottrazione di minore, e che in data 31 marzo 2004 ha inviato una nota al Tribunale dei minorenni di Perugia attribuendo al ricorrente precedenti penali ed una forma di patologia mentale ossessiva.

Il ricorrente, oltre a sporgere denuncia per diffamazione, e domanda di risarcimento del danno, ha inviato un esposto all’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Perugia, accusando la suocera di violare il codice deontologico, avendo usato per fini personali le proprie competenze professionali.

L’Ordine ha proceduto all’audizione dell’interessata ed ha disposto la archiviazione del procedimento.

E’ appunto al verbale di tale audizione che l’appellante ha domandato l’accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990, allegando l’esigenza di tutelare la propria onorabilità dalle accuse che, verosimilmente, la suocera avrebbe reiterato in quella sede nei suoi confronti.

Il giudizio di primo grado, instaurato per contestare il diniego opposto dall’Ordine, è stato definito con sentenza di rigetto, considerando che l’obbligo della trasparenza dell’azione amministrativa, imposto dalla legge n. 241 del 1990, incontra un limite nell’esigenza della tutela della riservatezza dei terzi, ma tale limite può essere superato quando “il soggetto che richiede l’accesso è destinatario o comunque risente, nella sua sfera giuridica, degli effetti di una attività amministrativa che abbia, quali diretti destinatari, altri soggetti.”.

Con la conseguenza che, in difetto di una attività amministrativa che in qualche modo coinvolga il soggetto richiedente, il problema di verificare l’imparzialità dell’Amministrazione neppure si pone, e ciò accade quando, come nella specie, la domanda di acceso si riferisce a controversie tra privati che non coinvolgono l’organo pubblico o l’esercizio delle competenze ad esso spettanti.

L’appellante ha criticato la detta motivazione facendo leva sull’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, del testo sostituito dall’art. 16 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, a norma del quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.”.

Osserva il Collegio che la norma invocata dall’appellante costituisce lo sviluppo logico della statuizione di cui all’art. 22, comma 1, lett. b) della medesima legge, nel testo novellato, ma non sostanzialmente innovativo, dove si stabilisce che può esercitare il diritto di acceso chi abbia “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso;”.

Entrambe le disposizioni pongono l’accento sulla strumentalità del diritto di acceso rispetto alla tutela di una posizione soggettiva qualificata dall’ordinamento, e da ciò la giurisprudenza consolidata fa discendere il potere del giudice di verificare la effettività e la concretezza del collegamento dell’acceso al documento con la dichiarata esigenza di tutela (Cons. St., Sz. V, 13 dicembre 1999 n. 2109; Ad. Plen., 28 aprile 1999 n. 6; Sez. V, 8 luglio 2003 n. 4049). Tale verifica, poi, non può che essere più rigorosa allorché si tratti di un documento che raccolga, come nella specie, dichiarazioni di terzi su profili attinenti alla propria attività professionale, poiché in tal caso il diritto all’accesso entra in conflitto con il diritto alla riservatezza, cui pure la legge accoda particolare tutela (art. 22, comma 6, lett. d) della legge n. 241 del testo novellato).

Alla stregua dei detti principi, il Collegio ritiene che la domanda di accesso dell’appellante non sia sorretta da quella plausibile esigenza di difesa dei propri interessi cui la legge subordina la sussistenza del diritto.

L’istanza, infatti, è fondata sul sospetto che il verbale della audizione resa dalla congiunta dinanzi all’Ordine professionale, per difendersi dalla accusa di abuso delle proprio titolo, contenga affermazioni lesive della persona dell’appellante, dello stesso tenore di quelle già esternate a carico del medesimo con nota al Tribunale per i minorenni di Perugina, e per le quali già pendono procedimenti penali e civili ad iniziativa dell’interessato.

Ne consegue che, mentre l’appellante, pur essendo l’autore di un apposito esposto, non ha titolo per replicare alle tesi difensive della sua avversaria con riguardo alla ipotetica responsabilità disciplinare della stessa (Cons. St., Sez. I, parere 19 novembre 2003 n. 2764/2002 e giurisprudenza ivi citata), nessuna utilità potrebbe ricavare dalla conoscenza della presunta reiterazione dei medesimi addebiti negativi a suo carico, nei cui confronti ha già esperito i mezzi di tutela giudiziaria ritenuti opportuni.

In tale situazione, la dedotta esigenza di conoscere un documento necessario alla difesa di una posizione soggettiva minacciata, degrada ad interesse meramente speculativo, legittimo in sé, ma non idoneo a prevalere sulla naturale riservatezza che deve proteggere le dichiarazioni rese da un terzo nello svolgimento di una attività difensiva della propria figura professionale, nel corso di un procedimento cui l’appellante è totalmente estraneo.

L’appello deve quindi essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l’appello in epigrafe;

condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi Odontoiatri di Perugia, e ne liquida l’importo in Euro 3.000,00=;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 aprile 2006 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Iannotta Presidente

Raffaele Carboni Consigliere

Giuseppe Farina Consigliere

Paolo Buonvino Consigliere

Marzio Branca Consigliere est.


Cons. Stato Sez. IV, 14-12-2004, n. 8072

Svolgimento del processo
Gli odierni appellati sono proprietari di immobile di civile abitazione, sito in S.G. L. alla Via N. S. n. 15, e confinante con altro immobile di proprietà dei coniugi P., del quale il Comune, con c.e. n. 1407 del 2001, ha autorizzato la ristrutturazione con aumento di volumetria.

Adito dagli interessati il TAR Basilicata ha annullato, con la sentenza in epigrafe indicata, tale concessione ritenendola viziata per violazione dell’art. 10 delle Norme Tecniche del Piano di recupero di Zona.

La sentenza stessa è impugnata, con separati ricorsi, dal Comune e dai controinteressati soccombenti in prime cure, i quali ne chiedono l’integrale riforma.

Gli appellanti privati ripropongono le eccezioni in rito già versate in primo grado e disattese dal Tribunale.

Si sono costituiti gli appellati, insistendo per il rigetto dell’appello.

All’Udienza del 13 luglio 2004 i ricorsi sono stati trattenuti in decisione.

Motivi della decisione
Gli appelli, proposti avverso la stessa sentenza, vanno perciò riuniti.

Essi non sono fondati.

Con il primo motivo gli appellanti privati tornano ad eccepire la tardività del ricorso originario, asseritamente proposto quando era già scaduto il termine perentorio nella specie decorrente dalla pubblicazione all’albo pretorio della concessione, o in subordine dalla data di inizio dei lavori o, infine, dalla data di acquisita conoscenza fattuale dell’esistenza del titolo.

Come osservato dal Tribunale l’eccezione non ha pregio, avendo la giurisprudenza di questo Consiglio da tempo chiarito che la mera affissione dell’atto all’albo pretorio del Comune non costituisce formalità idonea per la decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia e che la data dalla quale far decorrere il detto termine è quella dell’ultimazione (e non dell’inizio) dei lavori, considerando che solo da quel momento gli interessati possono avere la piena consapevolezza dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche commesse (cfr. fra le recenti Csi. 7.10.2003 n.322).

D’altra parte, anche volendo far riferimento alla data in cui i ricorrenti avrebbero acquisito de facto conoscenza del titolo il gravame rimane tempestivo, dovendosi ovviamente considerare l’intervenuta sospensione feriale.

Con il secondo motivo gli appellanti tornano a dedurre la nullità della notifica del ricorso originario, perchè effettuata da U.G. incompetente.

L’eccezione va disattesa.

Al riguardo è pacifico che la notificazione del ricorso ai signori P., residenti in Milano, è stata effettuata a mezzo posta da U.G. addetto all’ufficio avente sede presso il Tribunale di Matera, da ritenersi quindi in effetti incompetente per territorio.

Come è noto, infatti, la L. 20.11.1982 n. 890 ha attribuito all’ufficiale giudiziario la facoltà di ricorrere, in genere, alla notificazione degli atti a mezzo posta, senza nulla immutare quanto alla competenza territoriale, con la conseguenza che l’ufficiale giudiziario, a norma degli artt. 106 e 107 D.P.R. 15 dicembre 1959 n. 1229, è tuttora incompetente per le notificazioni da eseguirsi al di fuori del mandamento (ora circondario: cfr. Cass. 27.3.2002 n. 3632) ove ha sede l’ufficio al quale è addetto, anche in caso di notifica a mezzo posta, eccettuata l’ipotesi – non ricorrente nel caso in esame, in cui era adito il TAR Basilicata con sede in Potenza – della notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle Autorità giudiziarie di detta sede. e degli atti stragiudiziali.

Fermo quanto sopra, si rileva però che la giurisprudenza amministrativa è da tempo orientata nel senso che la violazione delle norme sulla competenza degli ufficiali giudiziari non comporta la nullità della notificazione, ma una mera irregolarità, che assume rilievo nei confronti dell’ufficiale giudiziario incompetente ma è ininfluente sulla ritualità della notificazione (cfr. Ap. 23.3.1982 n. 4 nonchè, fra le recenti V Sez. 25.2.1999 n. 224).

D’altra parte, anche la Suprema Corte ha da tempo chiarito che l’incompetenza territoriale dell’ufficiale giudiziario determina la nullità solamente relativa della notificazione, che, quindi, è suscettibile di essere sanata con effetto retroattivo dalla costituzione dell’intimato, anche nel caso in cui questa sia avvenuta dichiaratamente al solo scopo di eccepire tale incompetenza. (cfr., con riferimento alla notifica del ricorso per cassazione, Cass. Sez. lavoro 11.6.2004 n. 11140).

Con il terzo motivo gli appellanti eccepiscono il difetto di interesse al ricorso in capo agli odierni appellati, i quali non avrebbero dimostrato nè il loro stabile collegamento col bene oggetto della concessione nè il danno che per effetto di questa deriverebbe loro.

L’eccezione non ha alcun pregio.

In proposito si ricorda che l’art. 31 L. 17.8.1942 n. 1150, modificato dalla L. 6.8.1967 n. 765, che consente a ” chiunque ” di impugnare le concessioni edilizie ritenute illegittime, deve essere inteso nel senso che – con l’ovvia esclusione di ogni azione popolare al riguardo – va riconosciuta una posizione di interesse legittimo in capo al proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla costruzione o a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, senza che, peraltro, debba essere data dimostrazione della sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale.

Ne consegue che ha interesse a ricorrere il soggetto che faccia valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, qual è quello all’osservanza delle prescrizioni regolatrici dell’edificazione, senza che occorra procedere in concreto ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione (ad es. V Sez. 15.9.2003 n. 5172).

Tanto premesso sul piano processuale, va poi osservato che da molteplici atti contenuti nel fascicolo di primo grado risulta in modo inequivocabile che i coniugi Di Cera sono – come da essi asserito nel contesto del gravame originario – comproprietari di immobile confinante con quello degli odierni appellanti ed oggetto della contestata ristrutturazione, di talchè appare realmente impossibile ipotizzare l’eccepita carenza di interesse.

Nel merito, sia il Comune che i privati censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha rilevato l’illegittimità del titolo concessorio conseguente alla violazione della disciplina edilizia applicabile.

L’assunto è infondato.

L’art. 10 delle N.T.A. del Piano di recupero della Zona B1 del P.R.G. vigente nel Comune di San G. L. (all’interno della quale ricade l’immobile in controversia) consente interventi di nuova edificazione (con ampliamento di volumetria per chiusura di spazi aperti infra-sagoma) o di sopraelevazione (con aumento di volumetria in verticale, nei limiti imposti dalle tavole di progetto) ma in entrambi i casi solo all’esito o per mezzo di demolizioni “parziali” del fabbricato esistente.

In ogni caso – sempre ai sensi delle citate Norme – gli interventi de quibus possono essere realizzati sulla base di un progetto, unitariamente definito per ciascuna unità minima di intervento, che preveda elementi di raccordo con la restante parte dell’ambito e rispetti le parti preesistenti e gli elementi strutturali di particolare rilievo o interesse.

Ne consegue, come precisamente evidenziato dal Tribunale, che in base al piano di recupero e alle disposizioni ora richiamate, nel caso in esame erano da ritenersi consentiti solo quegli interventi di ristrutturazione i quali, pur comportando incremento delle volumetrie, rispettassero il tessuto esistente, salva ovviamente la possibilità (espressamente contemplata) delle demolizioni parziali.

A fonte di tale contesto normativo, la relazione tecnica che accompagna il progetto – poi assentito con la concessione impugnata – è inequivoca nel prevedere la completa demolizione dell’esistente e la sua ricostruzione con nuova struttura in cemento armato, così disegnando una tipologia di intervento che esula palesemente dal novero delle possibilità consentite.

Diversamente da come sostengono gli appellanti, la circostanza che la successiva demolizione non abbia interessato integralmente i due muri laterali dell’edificio non appare rilevante, in primo luogo perchè non sembra ragionevolmente sostenibile che la salvaguardia di tali elementi costruttivi fosse realmente contemplata nel progetto cui si riferisce la citata relazione e la cui realizzazione è stata appunto consentita dal Comune mediante il rilascio del titolo impugnato in primo grado.

Ma, a parte tale dirimente rilievo, resta che il progetto stesso – come peraltro prescritto dalle N.T.A. – attiene al singolo edificio e non può interessare le proprietà confinanti, con la conseguenza che la demolizione dell’immobile in controversia, per come appunto contemplata nel progetto riferibile all’unità minima di intervento, rimane giuridicamente totale, nonostante la sopravvivenza dei muri di divisione con gli edifici contigui (da presumersi in comunione forzosa ex art. 880 cod. civ.), i quali del resto non avrebbero potuto essere rimossi integralmente, per ovvie ragioni pratiche, senza causare la rovina delle altrui proprietà.

Le considerazioni sin qui svolte conducono al rigetto degli appelli, con assorbimento delle ulteriori censure già non esaminate dal Tribunale e qui riproposte dagli appellati.

Le spese del grado, per quanto concerne il ricorso n. 211, seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo in favore delle parti costituite.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, respinge gli appelli in epigrafe.

Condanna gli appellanti P. e C. in solido al pagamento in favore degli appellati costituiti di Euro 2.500,00 per le spese del grado.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.