Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 09-07-2015) 14-09-2015, n. 4270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 540 del 2015, proposto da:

Ministero dell’Interno, U.T.G. – Prefettura di Reggio Calabria, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n.12;

contro

E.S., rappresentato e difeso dagli avv. Guido Contestabile, Graziella Scionti, con domicilio eletto presso Giovanni Esposito in Roma, Vicolo Antoniniano, n.14;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. CALABRIA – SEZ. STACCATA DI REGGIO CALABRIA n. 00197/2014,

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di E.S.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2015 il Cons. Roberto Capuzzi e uditi per le parti gli avvocati Domenico Tropepi su delega di Guido Contestabile e di Graziella Scionti e l’avv. dello Stato Tito Varrone;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.Il sig. E.S. impugnava il decreto di divieto di detenzione d’armi emesso dal Prefetto di Reggio Calabria in data 18.11.2013.

Il provvedimento si fondava su due ordini di ragioni:

a) le frequentazioni dell’interessato con persone con pregiudizi penali;

b) il quadro di relazioni familiari che incideva negativamente sull’affidabilità richiesta, in particolare, la convivenza con due stretti familiari, che risultavano frequentare soggetti gravati da vari precedenti penali.

Si costituiva in giudizio la Prefettura di Reggio Calabria che depositava, oltre al controricorso, la nota della Questura di Reggio Calabria – Commissariato della P.S. di Gioia Tauro, del 30.10.2013, Div. III/cat.6F/PG/2013, dalla quale era scaturito il decreto prefettizio di diniego.

Il sig. S. affidava il ricorso ai seguenti motivi di diritto:

I) Illegittimità del provvedimento per violazione di legge, illogicità e carenza della motivazione – eccesso di potere;

II) Illegittimità del provvedimento per carenza di istruttoria, illogicità e/o carenza della motivazione – eccesso di potere;

III) Violazione di legge: mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.

All’udienza cautelare il Tar tratteneva il ricorso per una decisione in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a..

Il Tar riteneva che la vicenda imponeva una particolare attenzione, da un lato, rispetto ai fatti posti a fondamento dell’impugnata informativa, dall’altro, rispetto alla personalità dell’odierno ricorrente in quanto:

– le frequentazioni personali contestate al ricorrente erano del tutto occasionali e irrilevanti (una risalente al 2004, la seconda, più recente, ma con soggetto con precedenti penali attinenti a delitti in ambito familiare);

-del pari irrilevante era la frequentazione contestata al padre del sig. S. con il proprio fratello, peraltro assolto dai reati contestati;

– risalenti nel tempo erano quelle contestate alla propria sorella, due nel 2004 una nel 2007, non più convivente con il sig. S. dal 5.5.2012, giorno in cui aveva contratto matrimonio.

Occorreva valutare anche la personalità del ricorrente così come emergeva dal suo percorso professionale e di vita in quanto:

– il sig. S.E. era stato arruolato nell’Esercito Italiano a far data dal 07.06.2011, con il grado di caporale VFP1 in rafferma annuale, assegnato alla Brigata F. ed aveva ottenuto un elogio per il servizio svolto in data 10.08.2012 (attestato in atti);

-nel corso del 2013 aveva presentato domanda di partecipazione al concorso per il reclutamento di 964 allievi agenti della P.S., riservato ai volontari in ferma di un anno partecipando alle relative prove selettive, dimostrando la volontà e il desiderio di entrare a far parte delle forze di polizia;

-attualmente lavorava alle dipendenze della F.lli S. snc, società dedita alla lavorazione del legno.

Per il Tar, dai dati fattuali sopra esposti emergeva non solo l’illogicità dell’impugnato provvedimento, poiché da nessun concreto elemento poteva evincersi il pericolo di abuso nell’uso delle armi, ma anche la sua intrinseca contraddittorietà in quanto alle sporadiche frequentazioni contestate aveva fatto seguito un periodo di servizio presso le Forze armate, servizio per il quale, l’odierno ricorrente, aveva ricevuto persino un elogio dal proprio comandante.

Conclusivamente per il Tar il provvedimento impugnato presentava evidenti vizi motivazionali laddove, in primo luogo, erano state considerate rilevanti, ai fini del diniego, frequentazioni meramente occasionali; in secondo luogo, per il fatto che non era stata compiuta una valutazione della complessiva personalità del soggetto, tale da fondare in concreto l’incidenza delle contestate frequentazioni sul giudizio prognostico di abuso delle armi.

Le spese del giudizio venivano poste a carico della Prefettura di Reggio Calabria.

2. – Nell’atto di appello il Ministero dell’Interno sostiene la erroneità della sentenza per travisamento dei fatti ed erronea applicazione della normativa di riferimento evidenziando che nel nostro ordinamento portare le armi è vietato e le eccezionali deroghe al divieto sono circondate da particolari cautele a tutela dell’ordine pubblico e della pacifica convivenza; inoltre l’Autorità preposta alla cura di tali beni gode di amplissima discrezionalità, nel caso in esame bene esercitata attesa la non completa affidabilità del ricorrente.

Si è costituito l’appellato signor E.S. evidenziando la inammissibilità/improcedibilità dell’appello per nullità della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio a mezzo PEC, decadenza del diritto di impugnativa, inammissibilità e/o nullità del gravame per mancata indicazione delle specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, violazione dell’art. 101 c.p.a.. e nel merito infondatezza dell’appello.

Sono state depositate ulteriori memorie difensive.

Alla pubblica udienza del 9 luglio 2015 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

3. – La Sezione deve esaminare in via prioritaria la eccezione avanzata dall’appellato di nullità della notifica dell’Avvocatura dello Stato in quanto effettuata per mezzo della posta elettronica certificata (PEC) inviata al procuratore costituito nel giudizio di prime cure.

Deduce l’appellato, richiamando la sentenza del Tar Lazio, sede di Roma della Sez. III ter del 13 gennaio 2015 n.396 che nel processo amministrativo non è ancora consentito agli avvocati notificare l’atto introduttivo del giudizio con modalità telematiche in mancanza di espressa autorizzazione presidenziale ai sensi dell’art. 52 co.2 c.p.c. .

L’assunto non può essere condiviso.

Al riguardo il Collegio ritiene di aderire per relationem al recentissimo precedente di questo Consiglio di Stato, Sez. VI n.2682 del 28 maggio 2015 secondo il quale: “La mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, c o. 2, del c.p.a. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC atteso che nel processo amministrativo trova applicazione immediata la L. n. 53 del 1994 (ed in particolare… gli articoli 1 e 3 bis della legge stessa), nel testo modificato dall’art. 25 co. 3, lett. a) della L. 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale… a mezzo della posta elettronica certificata”.

“Nel processo amministrativo telematico (PAT) contemplato dall’art. 13 delle norme di attuazione di cui all’Allegato 2 al cod. proc. amm. è ammessa la notifica del ricorso a mezzo PEC anche in mancanza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, co. 2, del c.p.a. , disposizione che si riferisce a “forme speciali” di notifica, laddove invece la tendenza del processo amministrativo, nella sua interezza, a trasformarsi in processo telematico, appare ormai irreversibile.”

“Se con riguardo al PAT lo strumento normativo che contiene le regole tecnico -operative resta il DPCM al quale fa riferimento l’art. 13 dell’Allegato al c.p.a. , ciò non esclude però l’immediata applicabilità delle norme di legge vigenti sulla notifica del ricorso a mezzo PEC”.

Sulla base di tale precedente l’eccezione proposta dall’appellato deve essere respinta.

4. – Anche la seconda eccezione dedotta dall’appellato di nullità dell’appello del Ministero per mancata specificazione dei motivi è infondata.

Il Ministero non si è limitato a riproporre le difese formulate in primo grado ma ha sostenuto la erroneità della sentenza del primo giudice evidenziando con specificità il travisamento dei fatti e l’erronea applicazione della normativa di riferimento e dunque l’errore in cui sarebbe incorso il primo giudice che in primo luogo non si sarebbe avveduto della rilevanza e pericolosità delle frequentazioni dell’interessato e dei suoi familiari, in secondo luogo, non avrebbe rilevato che il sindacato del giudice amministrativo “si arresta al limite della ragionevolezza”.

Non si è trattato quindi di una mera riproposizione di difese svolte in primo grado ma specifiche critiche allo iussum del giudice di primo grado.

5. – L’appello nel merito è fondato.

La Sezione richiama le conclusioni della giurisprudenza amministrativa che ha osservato che ai sensi degli artt. 39 e 43 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 l’amministrazione è titolare di un potere discrezionale molto esteso in materia di rilascio e ritiro di licenze abilitanti il possesso di armi e munizioni. Tale ampia discrezionalità si evince nella previsione contenuta nel citato art. 43 ove si prevede che la licenza può essere ricusata, oltre che in confronto dei soggetti che hanno riportato condanne penali, anche nei riguardi di chi non dà affidamento di non abusare delle armi. Il fine perseguito è, infatti, la tutela dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza, non solo in caso di accertata lesione, ma anche in caso di pericolo di lesione, sicché si tratta di un potere attribuito anche con finalità di prevenzione rispetto alla commissione di illeciti.

Ne consegue che il divieto di detenzione di armi, munizioni, esplosivi, così come il diniego di licenza o la revoca della licenza di porto d’armi, non richiedono un oggettivo ed accertato abuso nell’uso delle armi, essendo sufficiente che, secondo una valutazione non inattendibile, il soggetto non dia affidamento di non abusarne.

La valutazione di inaffidabilità del soggetto è attribuita all’autorità amministrativa la quale è chiamata ad un accertamento incensurabile in sede di legittimità nel momento in cui risulta congruamente motivato avuto riguardo a circostanze di fatto specifiche.

Né può risultare indifferente, nel giudizio di valutazione complessiva, la sproporzione significativa, tra l’interesse pubblico alla tutela dell’ordine e della sicurezza dei cittadini rispetto all’interesse privato di portare armi o comunque di detenerle.

Per cui, salvo il limite dell’onere motivazionale, la valutazione cui è chiamata la Amministrazione, titolare del potere in materia di pubblica sicurezza, può essere contestata nel merito solo per illogicità e travisamento dei fatti sfuggendo invece al sindacato di legittimità l’apprezzamento amministrativo relativo alla prognosi di non abuso delle armi da parte del soggetto che ne sia possessore.

Nel caso in esame la amministrazione ha indicato espressamente le ragioni che hanno indotto ad adottare il gravato provvedimento negativo nei confronti del ricorrente.

Il provvedimento si fondava, come rilevato in fatto, sia sulle frequentazioni dell’interessato con persone con pregiudizi penali, sia sul quadro di relazioni familiari che incideva negativamente sull’affidabilità richiesta, in particolare, la convivenza con due stretti familiari, che risultavano frequentare soggetti gravati da vari precedenti penali.

Quanto alla ricorrenza nel tempo di tali frequentazioni occorre considerare che le stesse hanno coperto un arco di tempo significativo, dal 2004 al 2007, con persone interessate da ipotesi di reato o comportamenti affatto marginali riguardanti gravi reati contro il patrimonio o contro la persona o in ambito familiare; tale ultimo tipo di reati (tra le mura domestiche) non rappresentava certo una attenuante della pericolosità delle frequentazioni, come ritenuto dal Tar, rientrando invece tra le ipotesi di reato più pericolose ed odiose.

Il fatto che il ricorrente abbia svolto per un periodo di tempo con diligenza il servizio nelle forze armate presentando anche domanda come allievo nelle forze di polizia non assume significatività tale da ribaltare la prognosi di non affidabilità circa la detenzione delle armi in relazione al tipo di frequentazioni intrattenute.

Si tenga comunque conto che la esperienza nell’esercito si era oramai conclusa e quella nelle forze di polizia, cui pure accennava il primo giudice, non era mai iniziata tanto che l’appellante oggi lavora in tutt’altro campo.

D’altro canto non può trascurarsi il contesto ambientale, noto per fatti di criminalità organizzata, in cui si inquadrava la vicenda ed il fatto che le frequentazioni dimostravano che il ricorrente, se certo è esente direttamente da dinamiche criminali, comunque non era del tutto lontano da ambienti criminali, cosa, occorre sottolinearlo, diversa dall’affermare che il soggetto sia un criminale.

6. – Conclusivamente le motivazioni del provvedimento impugnato sono idonee a supportare il giudizio ampiamente discrezionale di possibile rischio di abuso del titolo che la legge affida alla autorità prefettizia nella attività di emissione delle autorizzazioni aventi ad oggetto armi, giudizio fondato, nel caso in esame, prevalentemente nell’ambiente sociale e familiare in cui concretamente si esplicava la vita di relazione dell’interessato che evidenziava la possibilità di incidenza di detto ambiente sul modus agendi del medesimo.

Con l’effetto che, del tutto ragionevolmente, il provvedimento impugnato ha valutato sussistente un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica sulla base di un giudizio prognostico ex ante circa la possibilità di abuso delle armi .

7. – L’appello quindi merita accoglimento.

8. – La sentenza appellata deve essere riformata, il ricorso di primo grado respinto.

Tuttavia per l’andamento e la peculiarità dei due gradi di giudizio le spese e gli onorari possono essere compensati.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo accoglie, e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente

Angelica Dell’Utri, Consigliere

Roberto Capuzzi, Consigliere, Estensore

Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere

Alessandro Palanza, Consigliere


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 23/06/2015) 24/06/2015, n. 3202

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4843 del 2015, proposto da:

Istituto di Istruzione Superiore “N.D.F.” – “G.Prestia”Di Vibo Valentia – Ipsia “G.Prestia”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12;

contro

T. e Costruzioni Servizi-Società Cooperativa, C. Srl, Consorzio I. e Servizi-Società Cooperativa, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avv. Giovanni Battista Conte, con domicilio eletto presso Giovanni Battista Conte in Roma, Via E.Q. Visconti 99;

nei confronti di

Provincia di Vibo Valentia – Stazione Unica Appaltante, Provincia di Vibo Valentia, Cpl Polistena, E.F.C. Srl;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE I n. 00554/2015, resa tra le parti, concernente

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di T. e Costruzioni Servizi-Società Cooperativa, di C. Srl, di Consorzio I., di Servizi-Società Cooperativa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Conte e l’avvocato dello Stato Basilica;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Considerato che sussistono i presupposti per pronunciare sentenza in forma semplificata atteso che il contraddittorio è integro, l’istruttoria è completa, le parti sono state avvertite ai sensi dell’art. 60 c.p.a. e la definizione del giudizio dipende dalla risoluzione di una pregiudiziale questione di diritto;

Ritenuto che è fondato il primo motivo di appello con cui si lamenta la nullità della notifica del ricorso di primo grado perché avvenuta direttamente presso l’Istituto scolastico e non presso l’Avvocatura dello Stato (che nel relativo giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale non si è costituito);

Ritenuto, in particolare, che:

– gli istituti scolastici, sebbene forniti della personalità giuridica, rimangono Amministrazioni dello Stato, come tali soggetti al patrocinio obbligatorio ed esclusivo dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art.1 t.u. 30 ottobre 1933 n.1611;

– a tale conclusione non osta il riconoscimento della personalità giuridica, in quanto, come la giurisprudenza ha avuto modo di precisare (cfr. Cass. 10982/96), la personalità giuridica è rilevante nei confronti dei terzi, finalizzata all’imputazione alla scuola delle attività negoziali e della responsabilità civile, e quindi ad una maggiore agilità di operazioni, ma nei confronti dello Stato, l’istituto dotato di personalità giuridica permane nella sua qualità di organo, sia pure con l’autonomia riconosciuta (cfr. anche Cass., sez. III 2605/1997);

– in senso contrario non può richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale che, invece, con riferimento alle Università, ha ritenuto facoltativo e non obbligatorio il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato: le Università, a differenze degli istituti scolastici, sono, infatti, enti pubblici non statali e soltanto tale qualifica giustifica la conclusione che qualifica come “facoltativo” il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;

– non rileva neanche la previsione normativa contenuta nell’articolo unico del D.P.R. 26 novembre n. 1027 che, non senza ambiguità, prevede che l’Avvocatura dello Stato “può assumere” la rappresentanza e la difesa degli istituti professionali per l’industria e l’artigianato. Tale disposizione, che ha rango regolamentare, non può, infatti, prevalere sulle norme di rango primario (art. 1 R.D. n. 1611 del 1933) che per tutte le Amministrazioni dello Stato prevedono l’obbligatorietà e l’esclusività del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;

Considerato, quindi, che la nullità della notifica determina l’inammissibilità del ricorso di primo grado, per non essere lo stesso stato notificato, nel termine di decadenza, all’Amministrazione resistente;

Ritenuto, infine, che la peculiarità e la parziale novità della questione di diritto giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Maurizio Meschino, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Gabriella De Michele, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

 


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 14-04-2015) 28-05-2015, n. 2682

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 1671 del 2015 proposto da C. snc di C.P. e D. (in seguito, C.), rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Comand, Michela Bacchetti e Gigliola Mazza Ricci, con domicilio eletto presso l’avv. Gigliola Mazza Ricci in Roma, Via di Pietralata n. 320;

contro

G.I. spa, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Cudini e Nicola Nanni, con domicilio eletto presso l’avv. Nicola Nanni in Roma, Via della Giuliana, 73;

nei confronti di

Istituto Statale d’Istruzione Superiore “D.A.” di Gorizia (in seguito, l’Istituto) – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. FRIULI-VENEZIA-GIULIA -TRIESTE, n. 39/2015, resa tra le parti, concernente affidamento servizio per fornitura di distributori automatici di snack, bevande calde e fredde presso Istituto scolastico;

visto il ricorso, con i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio della G.I. spa e dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “D.A.” di Gorizia e del MIUR;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del 14 aprile 2015 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Comand e Cudini;

visti gli articoli 60 e 74 cod. proc. amm. ;

accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e ritenuto, a scioglimento della riserva formulata al riguardo, di potere definire il giudizio nel merito con sentenza in forma semplificata e con motivazione abbreviata;

sentite sul punto le parti costituite;

richiamato quanto esposto dalle parti stesse negli atti difensivi;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Nell’agosto del 2014 l’Istituto Superiore d’Istruzione Statale D.A. di Gorizia ha indetto una gara, con il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la fornitura quinquennale del servizio di distribuzione automatica di snack e di bevande calde e fredde presso i locali dell’Istituto medesimo, prevedendo l’assegnazione di un massimo di 50 punti per l’offerta tecnica e di 30 per l’offerta economica.

Nell’àmbito dei criteri di valutazione dell’offerta tecnica era prevista, per quanto rileva in questo grado d’appello, l’attribuzione di “max punti 5” per “tempi diintervento per rifornimento”, e di “max punti 5” per “tempi di intervento per guasto”.

Alla gara hanno partecipato due concorrenti, la ditta C. e il G.I..

La commissione ha assegnato 10 punti (5 + 5) per le voci suddette sia alla C., sia al G.I., attribuendo al termine delle operazioni alla C. 50 punti per l’offerta tecnica e 23 per quella economica, per un totale di 73 punti, e alla società G.I. 50 punti per l’offerta tecnica e 17 per quella economica, per un punteggio complessivo di 67.

All’esito della gara il contratto è stato dunque aggiudicato alla C..

2. Il G.I. ha impugnato dinanzi al Tar Friuli Venezia Giulia aggiudicazione e atti presupposti e connessi, deducendo svariati motivi e chiedendo la declaratoria d’inefficacia del contratto eventualmente “medio tempore” stipulato e il diritto della ricorrente all’aggiudicazione ovvero al subentro nel contratto medesimo ai sensi degli articoli 121 e ss. cod. proc. amm. .

Con la sentenza in epigrafe il Tar, nella resistenza dell’Amministrazione e della C. ha, per quanto qui più rileva:

-respinto l’eccezione d’irricevibilità del ricorso per “tardiva notifica” dello stesso, formulata dalla C.;

-rigettato tutti i motivi fatta eccezione per quello attinente al dedotto “eccesso dipotere. Manifesta illogicità e erroneità dei presupposti di fatto”, relativo proprio ai 10 punti assegnati dalla commissione alla C. per le due voci dell’offerta tecnica relative ai tempi d’intervento per il rifornimento e ai tempi d’intervento per il guasto. L’impegno assunto dalla C. a intervenire, sia per il rifornimento, sia per il caso di guasto, in pochi secondi, è stato considerato in sentenza non serio, “perché la prestazione non può di certo essere adempiuta nello spazio temporale indicato dall’offerente, nemmeno volendo ipotizzare che personale e mezzi siano costantemente in attesa al di fuori dei locali dell’Istituto scolastico. Per di più si tratta di un’ipotesi assolutamente irragionevole, perché – secondo nozioni di comune conoscenza – non sostenibile economicamente…”. Venendo in discussione “unobbligo non suscettibile di essere adempiuto. Il che incide sulla affidabilità di colui che formula siffatta offerta…ne discende la illegittimità della scelta tecnico -discrezionale dell’Amministrazione di attribuire un punteggio, per di più un punteggio massimo, a un’offerta che lo stesso offerente, già a priori, sapeva sarebbe rimasta quanto a tempistica inadempiuta. L’inattendibilità della valutazione operatadalla commissione di gara emerge così pacificamente dalla documentazione versata in atti, che non può che conseguirne l’annullamento…” . Il giudice di primo grado, “ben conscio dei limiti del proprio sindacato nei confronti di atti di esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione”, ha giudicato la valutazione in parola “non semplicemente opinabile, ma assolutamente errata e illogica” nell’avere ritenuto “seria e affidabile” “una tempistica di intervento che non può assolutamente essere attuata”.

Accolto il ricorso in relazione al terzo motivo e annullata l’aggiudicazione alla C., la sentenza ha dichiarato l’inefficacia del contratto tra l’Istituto e la controinteressata “limitatamente alle prestazioni ancora da eseguirsi” e ha disposto il subentro del G.I. “nell’esecuzione della concessione”, non comportando, all’evidenza, “la sostituzione di un fornitore di snack e bevande…particolaridifficoltà tecnico -organizzative”, entro 15 giorni.

3. Appella la C., con due motivi.

Resiste il G.I..

L’Avvocatura dello Stato ha concluso per l’accoglimento dell’appello e l’annullamento della sentenza impugnata.

4. L’appello va respinto.

Entrambi i motivi dedotti sono infondati.

4.1. E’ anzitutto infondato, e perciò il Collegio può esimersi dal sottoporre a disamina le obiezioni svolte in rito sul punto dall’appellato G.I., il motivo d’appello della C. imperniato sull’affermata irricevibilità del ricorso al Tar del G.I. a causa della tardività della notifica -asseritamente nulla, in quanto effettuata per mezzo della posta elettronica certificata (PEC)- mancando, così si sostiene nell’appello, la prova del momento e della regolarità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado (che risulta depositato presso la segreteria del Tribunale amministrativo soltanto il 23 ottobre 2014, ovverosia oltre il termine di 30 giorni di cui all’art. 120, comma 5, del c.p.a.), in assenza dell’autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52, comma 2, del c.p.a. , alla notificazione del ricorso via PEC.

L’appellante muove dall’assunto che l’art. 46 del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni nella L. 11 agosto 2014, n. 114, nell’aggiungere all’art. 16 quater del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, aggiunto dall’articolo 1, comma 19, L. 24 dicembre 2012, n. 228, un nuovo comma 3 bis, in base al quale “le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano alla giustizia amministrativa”, avrebbe sancito l’inapplicabilità, al processo amministrativo, del meccanismo della notificazione in via telematica -a mezzo PEC dell’atto introduttivo del giudizio da parte degli avvocati (in mancanza dell’espressa autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52, comma 2, del c.p.a. ). In particolare, nell’appello si enuncia la tesi per cui nel processo amministrativo il legale non può certificare la conformità delle copie di documenti spediti per via telematica e che la notifica per il destinatario del ricorso non si perfeziona nel momento in cui si genera la ricevuta, dato che regole tecniche e procedure utilizzate nel processo civile e disciplinate dal regolamento approvato con il D.M. 3 aprile 2013, n. 48, “non si applicano alla giustizia amministrativa”, che ne è stata espressamente esclusa.

La premessa interpretativa e le conclusioni non convincono.

In realtà, il sopra citato art. 46 esclude l’applicazione, al processo amministrativo, dei commi 2 e 3 non della L. 21 gennaio 1994, n. 53, ma dell’art. 16 quater del D.L. n. 179 del 2012, conv. con mod. nella L. n. 221 del 2012 il quale, al comma 2, demanda a un decreto del Ministro della giustizia l’adeguamento alle nuove disposizioni delle regole tecniche già dettate col D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, mentre al comma 3 stabilisce che le disposizioni del comma 1 “acquistano efficacia a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del decreto di cui al comma 2”.

La mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC atteso che nel processo amministrativo trova applicazione immediata la L. n. 53 del 1994 (e, in particolare, per quanto qui più interessa, gli articoli 1 e 3 bis della legge stessa), nel testo modificato dall’art. 25 comma, 3, lett. a) della L. 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale … a mezzo della posta elettronica certificata”.

Nel processo amministrativo telematico (PAT) -contemplato dall’art. 13 delle norme di attuazione di cui all’Allegato 2 al cod. proc. amm. – è ammessa la notifica del ricorso a mezzo PEC anche in mancanza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. , disposizione che si riferisce a “forme speciali” di notifica, laddove invece la tendenza del processo amministrativo, nella sua interezza, a trasformarsi in processo telematico, appare ormai irreversibile (sull’ammissibilità e sull’immediata operatività della notifica del ricorso a mezzo PEC nel processo amministrativo vanno segnalate le recentissime sentenze del Tar Campania -Napoli, n. 923 del 6 febbraio 2015 e del Tar Calabria -Catanzaro, n. 183 del 4 febbraio 2015).

Se con riguardo al PAT lo strumento normativo che contiene le regole tecnico -operative resta il DPCM al quale fa riferimento l’art. 13 dell’Allegato al c.p.a. , ciò non esclude però l’immediata applicabilità delle norme di legge vigenti sulla notifica del ricorso a mezzo PEC.

Sulle regole tecnico -operative applicabili, viene in rilievo il D.P.R. n. 68 del 2005, al quale fa riferimento l’art. 3 bis della L. n. 53 del 1994.

Nel caso in esame le norme di legge suddette, e l’art. 136 del c.p.a. , risultano essere state osservate dal G.I..

Considerato dunque che:

-risultano rispettate le previsioni di cui alla L. n. 53 del 1994 e all’art. 136 del c.p.a. ;

-i risultati della procedura comparativa erano stati pubblicati nel sito web dell’Istituto il 2 settembre 2014 e la notifica del ricorso di primo grado alla C. risulta regolarmente eseguita il 15 ottobre 2014;

-trova applicazione anche al “rito appalti”, in mancanza di disposizioni di segno contrario, la norma di carattere generale sulla sospensione feriale dei termini di cui all’art. 1 della L. n. 742 del 1969;

il primo motivo d’appello va respinto.

4.2. Nel dedurre, col secondo motivo, svariati profili del vizio di eccesso di potere che, peraltro, ruotano essenzialmente attorno al rilievo per cui il Tar avrebbe sostituito propri apprezzamenti e valutazioni a quelli della commissione, invadendo la sfera delle attribuzioni della P. A. , la C. rimarca in particolare che dalla relazione tecnica sui tempi d’intervento (doc. 4 fasc. app. ) si evince come la ditta intenda impegnarsi “in un servizio giornaliero di assistenzatecnica e ricarica dei distributori se necessario 2 volte al giorno” e come in aggiunta la ditta precisava che, su richiesta, era in grado d’intervenire in pochi secondi per il rifornimento e in caso di guasti, cosicché il punteggio assegnato all’offerta, “comecomplessivamente esposta nella relazione”, non era sindacabile in sede giurisdizionale e l’offerta tecnica non poteva essere considerata inattendibile o priva di serietà se valutata nel suo complesso. La sentenza di primo grado, nell’estrapolare e analizzare una parte soltanto dell’offerta della C., e nel non tener conto che anche i cinque minuti dichiarati dal G.I. per gli interventi risultano “inattuabili illogici e inattendibili”, sarebbe incorsa in un’inammissibile invasione della sfera riservata all’azione della P. A. . L’uguale punteggio -massimo- assegnato dalla commissione sia alla C. sia al G.I., se considerato sotto un profilo comparativo, non appare né irragionevole né affetto da macroscopici vizi logici o da errori manifesti o da disparità di trattamento. L’apprezzamento compiuto dalla commissione, rientrante nelle attribuzioni esclusive di quest’ultima, non poteva essere sostituito da un giudizio con il quale il Tar ha attribuito zero punti alla C. lasciando invariati i 10 punti riconosciuti al G.I..

Il motivo è infondato, La sentenza del Tar è corretta e va confermata.

In via preliminare e generale dev’essere rammentato che “costituisce jus receptum che le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte tecniche presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (Cons. St., sez. V 26 marzo 2014, n. 1468; sez. III, 13 marzo 2012, n. 1409) ovvero ancora salvo che non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (Cons. St., sez. III, 24 settembre 2013, n. 4711). È stato al riguardo precisato anche (Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2013, n. 2458) che gli atti amministrativi espressione di valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato giurisdizionale esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione abbia effettuato scelte che si pongono in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica, aggiungendosi che non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire – in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri – proprie valutazioni a quelle effettuate dall’autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte…” (Cons. Stato, sez. V, n. 257 del 2015).

Ciò posto, e guardando adesso più da vicino il caso in esame, nell’offerta tecnica la C. aveva dichiarato in maniera testuale, sui tempi di intervento per rifornimento, che “è nostra volontà impegnarci in un servizio giornaliero di assistenza tecnica e ricarica deidistributori se necessario 2 volte al giorno. Se richiesto si interviene in pochi secondi”; e, relativamente ai tempi di intervento per guasto, che “ciò che ci contraddistingue maggiormente è la garanzia al cliente di un’assistenza tempestiva ed efficiente utilizzando le più avanzate tecnologie, segnalando la chiamata al nostro automezzo più vicino a voi per l’intervento tecnico richiesto, in caso di guasto siamo presenti sul luogo entro pochissimi secondi essendo presenti in zona tutti i giorni…”.

La G.I. (v. p. 4.3. dell’offerta tecnica -tempi di intervento tecnico per guasto e per rifornimento) aveva dichiarato che “avendo una sede per il reparto tecnico in Gorizia, in caso di intervento tecnico urgente derivato da chiamata del cliente o dell’operatore addetto ai rifornimenti siamo in grado di intervenire entro 5 minuti dalla chiamata, in quanto i nostri distributori automatici possono essere dotati di telemetria remota. I rifornimenti sono garantiti giornalmente dal lunedì al sabato e i nostri operatori possono essere presenti entro 5 minuti dalla chiamata in quanto dotati di computer palmare e la chiamata arriva in tempo reale, oltremodo siamo sempre presenti dato che serviamo quasi tutti gli Istituti scolastici in Gorizia”.

La commissione, come detto, ha attribuito a entrambe le concorrenti punteggi identici (10 punti = 5 +5, il massimo previsto dalla “lex specialis”).

Senonchè, bene ha fatto il Tar, nell’evidenziare i passaggi salienti dell’offerta tecnica della C. sul punto, a sottolineare come “non si tratti di un impegno serio, perché la prestazione non può di certo essere adempiuta nello spazio temporale indicato dall’offerente, nemmeno volendo ipotizzare che personale e mezzi siano costantemente in attesa al di fuori dei locali dell’Istituto scolastico. Per di più si tratta di un’ipotesi assolutamente irragionevole, perché – secondo nozioni di comune conoscenza – non sostenibile economicamente…”; mettendo poi in rilievo che l’ assunzione, da parte della concorrente, di un “obbligo non suscettibile di essere adempiuto, il che incide sull’affidabilità di colui che formula siffatta offerta”, comporta la conseguente illegittimità della scelta tecnico -discrezionale “di attribuire un punteggio, per di più un punteggio massimo, a un’offerta che lo stesso offerente, già a priori, sapeva sarebbe rimasta quanto a tempistica inadempiuta”; valutazione della commissione palesemente inattendibile, “assolutamente errata e illogica” e non “semplicemente opinabile” laddove “ritiene seria e affidabile, e come tale meritevole di punteggio (per di più nella misura massima prevista dalla “lex specialis” di gara), una tempistica di intervento che non può assolutamente essere attuata”.

La struttura motivazionale della sentenza, che non si concreta in una sostituzione indebita alla commissione nell’esercizio di poteri valutativi riservati a quest’ultima e che non sconfina nel merito delle valutazioni rimesse alla commissione, essendosi il giudice di primo grado limitato a sindacare la (non) manifesta irragionevolezza degli apprezzamenti compiuti dalla commissione medesima, resiste alle critiche sollevate nel gravame.

Sotto un primo profilo, la sentenza ha giustamente posto in risalto quello che oggettivamente appare essere il nucleo essenziale, l’elemento preminente e caratterizzante l’offerta tecnica sotto l’aspetto dei “tempi di intervento”, vale a dire la tempistica d’intervento a richiesta “in loco”, asseritamente in “pochi secondi” per il rifornimento, e, in caso di guasti, “entro pochissimi secondi”.

Sotto un secondo profilo, se da un lato la tempistica d’intervento che “contraddistingue” l’offerta C. è oggettivamente inverosimile, e tale è stata giustamente considerata in sentenza, con il conseguente accertamento giudiziale della illegittimità della relativa attribuzione di punteggi, senza sconfinamenti nella sfera delle attribuzioni riservate alla P. A. ; dall’altro, il tempo d’intervento dichiarato dal G.I. (cinque minuti dalla chiamata), qualificato dal medesimo, in sede difensiva, come “adeguato alle sue possibilità e potenzialità imprenditoriali”, risulta comunque non manifestamente inattendibile, per come plausibilmente motivato nell’offerta tecnica mediante i già visti riferimenti al reparto tecnico in Gorizia (a un km. di distanza dall’Istituto) e alla costante presenza “in loco” di addetti dato che I. serve “quasi tutti gli Istituti scolastici in Gorizia”.

Inoltre la C. ha contestato per la prima volta in appello l’attendibilità dell’offerta tecnica di I. per ciò che attiene alla tempistica d’intervento quando invece l’odierna appellante avrebbe dovuto dedurre la ipotetica “inattuabilità illogicità e inattendibilità” dell’elemento dell’offerta dei “cinque minuti dalla chiamata” dichiarati dal G.I. quale “tempo d’intervento tecnico per guasto e rifornimento” proponendo, in modo speculare, ricorso in via incidentale.

In questa situazione, diversamente da quanto rimarcato dall’appellante, emerge il carattere abnorme dell’offerta tecnica “in parte qua”e la conseguente, palese inattendibilità della valutazione compiuta dalla commissione alla quale ha fatto seguito l’attribuzione, alla C., del punteggio in discussione, atti giustamente censurati dal giudice di primo grado senza che residuino spazi per rivalutazioni comparative.

Le conclusioni cui è pervenuto il Tar sono motivate in maniera puntuale e vanno condivise, fondandosi su considerazioni di carattere oggettivo ed evidente, senza che sia configurabile “l’invasione di campo” denunciata dall’appellante.

Il ricorso va dunque respinto e la sentenza impugnata confermata.

Le spese del grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo, nei confronti dell’appellato G.I..

Spese compensate nei riguardi dell’Amministrazione, tenuto conto della posizione difensiva assunta dalla stessa.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso in appello lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Condanna l’appellante a rifondere alla G.I. le spese, i diritti e gli onorari del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00 (Euro tremila/00), comprensivi del rimborso delle spese generali, oltre a IVA e a CPA. .

Spese del grado di giudizio compensate nei riguardi dell’Amministrazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 aprile 2015 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere, Estensore


Cons. Stato, Sez. IV, Sent., (data ud. 17/06/2014) 13/10/2014, n. 5046

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6109 del 2013, proposto da:

Ba Service Spa, in persona del rappresentante legale, rappresentato e difeso dagli avv.ti Stefano Zironi, Giorgio Borelli, Valentino Capece Minutolo, con domicilio eletto presso Valentino Capece Minutolo in Roma, via dei Pontefici N. 3;

contro

A.D., rappresentato e difeso dagli avv.ti Giovan Ludovico Della Fontana, Guglielmo Della Fontana, con domicilio eletto presso Giuseppe Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

Comune di Modena, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Vincenzo Villani, Adriano Giuffre’, con domicilio eletto presso Adriano Giuffrè in Roma, via De Gracchi N.39;

Regione Emilia Romagna;

sul ricorso numero di registro generale 6350 del 2013, proposto da:

Comune di Modena, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti Vincenzo Villani, Adriano Giuffre’, con domicilio eletto presso Adriano Giuffre’ in Roma, via dei Gracchi N. 39;

contro

A.D. ed altri., rappresentati e difesi dagli avv.ti Guglielmo Della Fontana, Giovan Ludovico Della Fontana, con domicilio eletto presso A. Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

nei confronti di

Regione Emilia Romagna;

Ba Service S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Valentino Capece Minutolo, Giorgio Borelli, Stefano Zironi, con domicilio eletto presso Valentino Capece Minutolo in Roma, via dei Pontefici 3;

entrambi per la riforma

quanto al ricorso n. 6109 del 2013:

della sentenza del T.A.R. Emilia-Romagna – Bologna: Sezione I n. 00342/2013, resa tra le parti, concernente adozione ed approvazione nuovo PRG del Comune di Modena;

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di A.D., del Comune di Modena, di A.D. e di A.D. e di G.D. e di A.M.V. e di M.P. e di Ba Service S.p.A.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 giugno 2014 il Cons. Umberto Realfonzo e uditi per le parti gli avvocati Borelli, Zironi, Della Fontana, Francesca Giuffrè, per delega dell’Avv. Adriano Giuffrè;

Svolgimento del processo
Si deve premettere che, su ricorso dei vicini confinanti (odierni controinteressati), il TAR Bologna con una precedenza sentenza n. 298 del lontano 1990 aveva annullato:

— la delibera consiliare n. 807 in data 16 luglio 1987 con cui il Comune di Modena aveva approvato una variante urbanistica al PRG;

— la concessione edilizia n. 617/88 in data 1 aprile 1988 assentita alla Fiorano Due S.p.A. per la costruzione di un edificio ad uso garage con annessa attività commerciale in viale Trento e Trieste n. 31.

Con i separati appelli di cui in epigrafe, rispettivamente la Soc. BA Service S.p.a. ed il Comune di Modena, impugnano la successiva sentenza n. 342/2013 con cui è stato accolto in parte il ricorso e, assorbite le censure dirette avverso l’adozione e l’approvazione del nuovo PRG del Comune di Modena (di cui rispettivamente alla Delib. n. 310 in data 3 marzo 1989 del Consiglio comunale di Modena ed alla Delib. n. 5353 in data 26 novembre 1991 della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna) è stato annullato il provvedimento prot. gen. n. 28176/93 del 18 novembre 1994 con cui il Comune ha disposto il rinnovo della concessione edilizia già annullata nel 1990, per la violazione dei limiti volumetrici di cui all’art. 7 del D.M. n. 1444 del 1968 per le Zone B).

Con il primo appello n. 6109/2013 la BA Service spa chiede l’annullamento di quest’ultima sentenza deducendo il difetto di contraddittorio, in violazione degli articoli 27 e 41 del c.p.a. per la mancata evocazione in giudizio della medesima società (nonostante il fatto che questa che avesse acquistato gli immobili 6 anni dopo il provvedimento di rinnovo del 1994); e per la mancata interruzione del processo dopo lo scioglimento della Fiorano Due S.p.A., in violazione dell’art. 49 c.p.a. e dell’articolo 300 c.p.c. .

Il Comune di Modena, con l’appello n. 6350/2013, chiede l’annullamento della medesima decisione deducendo:

— in linea preliminare: la tardività del ricorso di primo grado; l’inammissibilità per omessa notifica alla controinteressata Fiorano Due spa; la mancata dichiarazione dell’interruzione del processo fin dal 1 febbraio 2006 conseguente alla dichiarazione di estinzione che sarebbe stata dimostrata in giudizio con il deposito del bilancio finale di liquidazione;

– nel merito: l’errata applicazione dell’articolo 7 del D.M. n. 1444 del 1968 il quale non si applicherebbe ad un’opera di urbanizzazione non frazionabile, ad uso “a pubblico parcheggio” ai sensi dell’articolo 81 delle NTA, localizzata dal PRG del 1991 all’interno della “zona elementare n. 443” proprio per sopperire alla carenza di standard di parcheggi delle zone A e B.

In entrambi i giudizi si è costituita la controinteressata D. la quale, in linea preliminare ha eccepito specifici profili di inammissibilità dei due gravami per l’inesistenza e/o la nullità delle notifiche; nel merito ha confutato le censure degli appellanti insistendo per il rigetto.

Sul ricorso n. 6109 si è costituito in giudizio ad adjuvandum il Comune di Modena chiedendo in linea preliminare la riunione per connessione con il proprio gravame e nel merito l’accoglimento del ricorso.

Analogamente la BA Service si è costituita ad adjuvandum sul ricorso 6350.

Con le ulteriori memorie per la discussione e le relative repliche e controrepliche le parti, sui due diversi gravami hanno confutato le contrapposte eccezioni ed hanno sottolineato le proprie argomentazioni.

Con le ordinanze n. 288 e 289 del 2014, la Sezione ha respinto la richiesta di sospensione cautelare della decisione su entrambi due appelli.

Chiamata all’udienza pubblica, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata ritenuta in decisione.

Motivi della decisione
_ 1. Ai sensi dell’art. 70 del c.p.a. deve disporsi la riunione degli appelli di cui in epigrafe, essendo evidente la connessione oggettiva e soggettiva di entrambi i gravami.

Nell’ordine logico delle questioni deve essere esaminata preliminarmente le due analoghe eccezioni di inammissibilità di entrambi i gravami per difetto di notifica sollevata dalla Difesa di D.A.;

_ 2. Per quanto concerne l’appello della BA Service n.6109, secondo la controinteressata vi sarebbe la nullità della notifica dell’appello sotto tre profili. L’art. 44 c.p.a. prevederebbe la nullità del ricorso se non vengono rispettate le formalità di cui all’articolo 40 c.p.a. in base al quale il ricorso deve contenere distintamente gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto.

Nel caso, la notifica effettuata a “D.A. + altri” lascerebbe nell’incertezza assoluta la reale identità dei destinatari nei cui confronti l’appello è proposto, in quanto:

_ I. mentre dalle relate di notifica in calce all’atto di appello risulterebbe che le notifiche sono state effettuate ai sensi della L. n. 53 del 1994 dal difensore della B.A. Service, il predetto atto non risulta spedito utilizzando le speciali singole buste previste dall’art. 2 L. n. 53 cit., ma in un unico plico, che risulta inviato dall’Ufficio Unico – Ufficiali Giudiziari presso il Tribunale di Modena, sul quale, oltre a ciò, non sarebbe stata apposta la sua sottoscrizione e la menzione dell’autorizzazione del Consiglio dell’ordine;

_ II. la notifica effettuata a “D.A. + altri” sarebbe inesistente e o comunque nulla in quanto non risulterebbe specificamente indirizzata ai domiciliatari avv.ti Guglielmo e Ludovico della Fontana, come sarebbe richiesto dall’articolo 330 c.p.c. a norma del quale la notificazione deve essere effettuata ai sensi dell’articolo 170 c.p.c. al difensore costituito nel domicilio eletto;

_ III. analogamente l’altra notifica effettuata a “D.A. + altri” effettuata al domicilio eletto in 1^ grado presso la Segreteria del T.A.R. sarebbe inesistente perché la busta non risulta intestata ai difensori.

Inoltre, la costituzione in giudizio del presente grado della signora A.D. non varrebbe a sanare la nullità della notifica in quanto sarebbe da tempo già scaduto il termine di impugnazione della sentenza decorrente dalla notifica del 22 maggio 2013.

_ 2. Con il medesimo ordine di considerazioni la controinteressata D. eccepisce in linea pregiudiziale la nullità dell’appello del Comune di Modena n.6350 che sarebbe stato notificato a mezzo posta mediante una busta indirizzata direttamente ai signori D., V. e P. nel loro domicilio eletto in primo grado presso la segreteria del Tar di Bologna e non indirizzata ai loro difensori costituiti, come richiesto dall’articolo 330 c.p.c. ai sensi della quale notificazione deve essere effettuata ex 170 c.p.c. al difensore costituito.

_ 3. Entrambe le eccezioni meritano adesione nei sensi che seguono.

In linea generale, ai sensi dell’art. 44, IV co. c.p.a. si configura la nullità sanabile — e non l’inesistenza — della notifica dell’appello solo quando la stessa non è andata buon fine per fatti non addebitabili al notificante (cfr.: Consiglio di Stato sez. VI 24/11/2011 n. 6207; Consiglio di Stato sez. V 12/02/2013 n.816; Cassazione civile sez. I 04/06/2014 n. 12539), la sanabilità è esclusa ove la nullità sia riconducibile a causa imputabile al notificante (Corte Cost. n. 18/2014).

Al contrario la notifica deve ritenersi “inesistente” quando manchi il collegamento fra il destinatario dell’atto e il luogo o la persona, irregolarmente indicati sul plico dell’atto come destinatari della notifica stessa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI 18/04/2012 n. 2211).

Nelle fattispecie in esame le notifiche di entrambi gli appelli devono ritenersi inesistenti o, quantomeno, (ma le conclusioni non mutano) affette da radicale nullità per cause imputabili al notificante.

Quanto al primo appello n.6109/2014 l’appello avrebbe dovuto essere notificato ai sensi dell’art. 93, I co. del c.p.a., “…nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza”.

Tuttavia, come risulta dalle copie delle buste, dall’estratto delle notificazioni e dalle cartoline relative alla relativa relata (versate in atti in data 4.1.2014) la notifica è stata indirizzata unitariamente ai diversi controinteressati “D.A. + altri” in una busta unica per tutti gli “altri” controinteressati senza indicarne i nominativi, e, soprattutto, non risulta indirizzata all’avvocato che, nella sentenza risultava come domiciliatario.

In linea di principio, il Collegio ritiene che qualora il domicilio eletto in sentenza sia la Segreteria del Tar, la notifica debba necessariamente essere effettuata indirizzandola ai procuratori costituiti e non già alle parti del giudizio.

Facendo proprio in tal senso la ratio sostanziale posta a base dall’indirizzo della Cassazione ricordato dall’appellata (cfr. Cassazione 26 agosto 2013 n. 19556; 13 gennaio 2010 n. 384; 18 febbraio 2008 n. 3970), ritiene il Collegio che la notifica dell’appello indirizzata direttamente alla parte — qualora venga effettuata nella segreteria del giudice — si risolve in un espediente che impedisce, di fatto, alla parte cui la notifica dovrebbe essere diretta, di venire fisiologicamente a conoscenza dell’impugnativa della controparte.

Al riguardo infatti, non solo nessuna norma obbliga i privati ad effettuare continui accessi presso la segreteria del giudice al fine di verificare l’inesistenza di gravami relativi alle sentenze nelle quali sono risultati vittoriosi, ma, sopratutto, nella realtà delle cose, sono solo i difensori ed i loro incaricati, ad accedere normalmente agli uffici giudiziari per il ritiro degli atti di loro pertinenza e interesse e per i propri incombenti.

Pertanto la notifica fatta direttamente alla parte presso la segreteria del TAR è da ritenere inesistente in quanto, in tal caso, non sussiste nessuna astratta possibilità perché la parte stessa possa venire ordinariamente in possesso del plico.

Né come vorrebbe la BA Service sussisterebbe un differente regime normativo dell’appello (e delle relative sanzioni) per cui, ai sensi del 5º comma dell’articolo 95 c.p.a., non trattandosi di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza, il giudice avrebbe dovuto integrare il contraddittorio ai sensi del 2º comma del ricordato articolo, perché l’appello sarebbe stato ritualmente notificato ad almeno “una delle parti interessate a contraddire”, e cioè, al Comune di Modena, nei cui riguardi la notifica ritualmente effettuata sarebbe stata quindi idonea a incoare il processo di appello perché litisconsorte necessario.

Al contrario il Collegio osserva come la notifica al comune di Modena sia del tutto inidonea al corretto radicamento del giudizio d’appello.

L’art. 95 c.p.a. nell’indicare le parti cui l’impugnazione va notificata dispone al secondo comma che questa, a pena di inammissibilità, va notificata almeno ad una delle parti interessate a contraddire. Pertanto è evidente il riferimento ai contraddittori necessari, vale a dire ai portatori di un interesse sostanziale contrario a quello delle parti che notificano l’appello.

Al riguardo è dunque evidente, nel caso di specie, che l’Amministrazione Comunale non è assolutamente un controinteressato in senso sostanziale (ma un cointeressato all’appello) come dimostrano sia le sue conclusioni “ad adiuvandum” dell’appello della Società e sia la proposizione di un autonomo appello sostanzialmente coincidente con le ragioni della BA Service.

Pertanto non può aderirsi alla richiesta della BA Service S.p.A. di assegnare un termine perentorio per la notifica dell’appello alle parti non costituite.

L’appello infatti doveva essere imprescindibilmente notificato nei modi di legge alle uniche parti interessate a contraddire, vale a dire ad almeno uno dei ricorrenti vittoriosi di primo grado, e non certo al Comune di Modena che era risultato soccombente in quel giudizio.

Di conseguenza, in difetto di rituale intimazione ad almeno un controinteressato in appello non è possibile disporre l’integrazione del contraddittorio ex art. 95 terzo comma c.p.a..

Sotto altro profilo ha ragione la Difesa della controinteressata D. anche quando afferma che la nullità non poteva essere stata successivamente sanata con la costituzione solo dell’intimata, dato che questa era intervenuta dopo la scadenza del termine di impugnazione.

Al riguardo il Collegio osserva che, anche prescindendo dalla radicale inesistenza, l’articolo 44, comma 3 c.p.a., infatti, stabilisce bensì che “la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso ma tuttavia fa anche “salvi i diritti quesiti anteriormente alla comparizione”.

Quest’ultima locuzione va interpretata, sul piano processuale, nel senso che l’effetto di sanatoria derivante dalla costituzione in giudizio della parte intimata non opera se sono scaduti i termini di costituzione, dato che comunque restano ferme le eventuali decadenze già maturate, in danno del notificante, prima della costituzione in giudizio del destinatario della notifica (cfr. Consiglio di Stato, sezione IIIª 29 agosto 2012 n. 4651). Se così non fosse, la salvaguardia dei diritti quesiti non avrebbe infatti alcuna ricaduta pratica.

In definitiva, sul ricorso della B.A. Service, deve concludersi che, essendo del tutto inesistente la notifica a “D.A. + altri” e non potendo qualificarsi come controinteressato il Comune di Modena, la mancata notificazione dell’impugnazione ad almeno una delle parti necessariamente interessate a contraddire comporta l’inammissibilità dell’impugnazione a norma del citato comma 2 dell’art. 95 cod. proc. amm..

Analogamente deve concludersi poi relativamente all’appello n. 6350 del Comune di Modena la cui notifica effettuata direttamente alle parti evidenzia analogamente modalità del tutto irrituali.

In proposito, contrariamente a quanto afferma l’appellante Amministrazione, di nessun rilievo è la specifica tra parentesi (“già rappresentate dall’Avv. Guglielmo Della Fontana e Lodovico Della Fontana” ) che era riportata sulla relata di notifica apposta in calce al medesimo atto di appello.

Tale inciso, infatti, restava comunque un’annotazione posta all’interno della busta inaccessibile ab externo. Contrariamente a quanto auspica il Comune di Modena, quello che rilevava ai fini dell’esistenza della notifica era il rispetto delle formalità concernenti il plico postale recapitato in Segreteria.

Né la notifica poteva ritenersi esistente perché uno degli addetti della Segreteria del TAR aveva spontaneamente ritenuto di aprire il plico postale e, una volta verificato chi era l’avvocato difensore in prime cure, aveva ritenuto autonomamente di dover aggiungere l’annotazione del relativo nominativo sull’esterno del medesimo plico notificato.

Tale procedura extra ordinem infatti costituisce un elemento successivo alla notifica medesima, di carattere del tutto eventuale e comunque irrilevante in quanto integrazione postuma fatta da un terzo estraneo senza alcun potere o obbligo al riguardo. L’esistenza della notifica non può infatti assolutamente dipendere da un fattore casuale del tutto estraneo alla notificazione medesima.

In sostanza non vi sono dubbi dell’inesistenza della notifica dell’appello del Comune di Modena, in quanto l’unico plico — indirizzato cumulativamente e direttamente solo ai cinque i ricorrenti vittoriosi in primo grado e non ai loro difensori — era stato depositato presso la Segreteria del Tribunale come risulta anche dal prescritto registro delle notificazioni effettuate presso il TAR e dalla copia della busta (versate in atti il 14.1.2014).

Per tutti gli altri profili si rinvia alle precedenti ed analoghe considerazioni che precedono.

Pertanto deve concludersi che, essendo del tutto inesistente la notifica a “D.A. + altri” anche l’appello del Comune di Modena deve essere dichiarato inammissibile.

_ 4. In conclusione l’inesistenza delle notifiche nei sensi di cui sopra implica che entrambi gli appelli debbano essere dichiarati inammissibili a norma del comma 2 dell’art. 95 cod. proc. amm..

Resta assorbito ogni altro motivo od eccezione.

Le spese per entrambi i gravami seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando:

_ 1. Dispone, ai sensi dell’art. 70 del c.p.a. la riunione dei gravami di cui in epigrafe;

_ 2. Dichiara inammissibili entrambi gli appelli nei sensi di cui in motivazione;

_ 3. Condanna la BA Service al pagamento delle spese di giudizio relative all’appello n. 6109/2013 in favore di D.A. che vengono liquidate in Euro 3.000,00 oltre all’IVA e CPA;

_ 4. Condanna il Comune di Modena al pagamento delle spese di giudizio relative all’appello n. 6109/2013 in favore di D.A. che vengono liquidate in Euro 3.000,00 oltre all’IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2014 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio, Presidente

Fabio Taormina, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere, Estensore


Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021

Si deve ritenere precluso alla P.A. fondare il provvedimento conclusivo su ragioni del tutto nuove rispetto a quelle rappresentate nella comunicazione ex art. 10-bis legge 241, pena la violazione del diritto dell’interessato di effettiva partecipazione al procedimento, che si estrinseca nella possibilità di presentare le proprie controdeduzioni utili all’assunzione della determinazione conclusiva dell’ufficio. L’obbligo dell’Amministrazione inerente al contraddittorio partecipativo non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dall’interessato, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione dell’Amministrazione alle deduzioni difensive del privato

Leggi: Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021


Cons. Stato Sez. IV, Sent., 16-07-2014, n. 3735

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2005 del 2014, proposto da:
P.M., rappresentato e difeso dall’avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Luigi Napolitano in Roma, via Sicilia. 50;
contro
Consiglio Superiore della Magistratura, Ministero della Giustizia, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
G.C., rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Lattanzi, Francesco Cardarelli, con domicilio eletto presso Filippo Lattanzi in Roma, via G.P. Da Palestrina,47;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I n. 01126/2014, resa tra le parti, concernente attribuzione ad altro magistrato delle funzioni di Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consiglio Superiore della Magistratura e di G.C. e di Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 maggio 2014 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Riccardo Marone, l’avvocato dello Stato Giustina Noviello e Francesco Cardarelli;
Svolgimento del processo
1. Con l’appello in esame, il dott. P.M. impugna la sentenza 29 gennaio 2014, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha dichiarato irricevibile il suo ricorso proposto avverso il Provv. 2 maggio 2012, con il quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha nominato il dott. G.C. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.
Il Tribunale – rilevato che il dott. C. non si è costituito in giudizio – ha innanzi tutto chiarito, in fatto, quanto segue:
– il ricorso è stato inizialmente spedito per la notifica a mezzo posta al dott. C. “presso la sede della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli”, ma “non risulta che l’atto sia stato consegnato personalmente al C.”;
– un secondo originale, spedito per la notifica tramite ufficiale giudiziario, è stato notificato il 17 luglio 2012 a mani del canc. Esposito Raffaele;
– sempre il 17 luglio 2012, il difensore del dott. M. ha chiesto al CSM ed al Ministero della Giustizia “la residenza del dott. G.C., essendo la stessa riservata, in considerazione della carica rivestita dallo stesso dott. C., ai fini della notifica del ricorso in qualità di controinteressato”;
– il successivo 26 luglio 2012, il CSM rappresentava al difensore di non poter fornire i dati richiesti, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, potendo esso comunicare solo l’indirizzo dell’ufficio giudiziario di servizio;
– in data 21 ottobre 2013, il difensore del dott. M. – confermato che il rifiuto di fornire i dati di residenza del dott. C. era stato ribadito il 14 settembre 2012 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli – chiedeva al Presidente del TAR di “ordinare alle amministrazioni di fornirgli l’indirizzo del controinteressato . . . ovvero, in via gradata, qualora dovesse ritenere prevalente l’interesse del controinteressato alla riservatezza e sicurezza personale, voglia autorizzare il ricorrente a notificare il ricorso e i motivi aggiunti tramite forme alternative di notifica”. Ciò sempre che, in primis, non fosse stata ritenuta rituale la notifica effettuata presso l’ufficio del dott. C. (come invece sostenuto dal ricorrente).
La sentenza impugnata – anche richiamando conforme giurisprudenza – afferma, in particolare:
– la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato;
– ne consegue che è da ritenere inammissibile per nullità della notificazione, il ricorso che sia stato notificato al controinteressato, presso l’ufficio ove questi presti attività per effetto di un rapporto di lavoro dipendente, ma non nelle sue mani bensì in quelle di altro dipendente della medesima amministrazione;
– nel caso di specie, “le peculiarità del caso concreto possono scusare l’omessa tempestiva notifica, ma non possono evidentemente modificare il precetto che la disciplina”, di modo che “la notifica effettuata dal difensore del M. presso la Procura della Repubblica è sicuramente nulla, quali che possano essere i concreti motivi che hanno indotto ad effettuarla in tal forma”;
– al caso di specie non risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa (in base al quale “il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla”), poiché trova invece applicazione l’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili;
– anche a ritenere “non conferente” tale ultima disposizione, il M. avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) error in iudicando; violazione art. 139, co. 2 c.p.c.; ciò in quanto deve ritenersi corretta la notifica effettuata presso l’ufficio, ma non a mani proprie dell’interessato, essendo sufficiente che, in questo caso, esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, gravando inoltre sulla parte che eccepisce la irregolarità della notifica la prova della mancanza di tale rapporto. Nel caso di specie, l’atto è stato notificato a mani del direttore di cancelleria della Procura di Napoli e avrebbe dovuto essere la parte (Avvocatura dello Stato) a dimostrare l’inesistenza del rapporto tra funzionario più alto in grado della Procura e Procuratore;
b) error in iudicando; violazione e falsa applicazione art. 44, co. 4, Cpa. Ciò in quanto: per un verso, non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato; per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni; per altro verso ancora, non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.. Infine, risulta al contrario applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
Ciò premesso, l’appellante riporta i motivi di ricorso non esaminati dal giudice di I grado, per effetto della impugnata pronuncia di irricevibilità (pagg. 10 – 23 app.).
Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Giustizia ed il Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Si è altresì costituito in giudizio il dott. G.C., che ha concluso anch’egli per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente rimessione della causa al giudice di I grado ex art. 105 Cpa, per le ragioni di seguito esposte.
Il Collegio deve innanzi tutto confermare quanto sostenuto nella sentenza impugnata (e correlativamente rigettare il primo motivo di appello), con riferimento ai limiti della notificazione effettuata presso l’ufficio ove il dipendente pubblico rende la propria prestazione lavorativa.
Ed infatti, come affermato dal primo giudice, la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato; e tale non può essere certamente considerato un ufficio pubblico.
Sul punto, questa Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi (Cons. Stato, sez. IV, 21 gennaio 2013 n. 328), con considerazioni dalle quali non vi è motivo di discostarsi nella presente sede:
“Nel processo amministrativo la regola generale è che la notificazione a persone fisiche è la consegna a mani proprie ex artt.3 R.D. n. 642 del 1907 e 137 e 138 c.p.c.
In particolare, sul versante strettamente processuale amministrativo, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che sia affetta da nullità la notificazione effettuata, come verificatosi nel caso de quo, nella sede di lavoro del destinatario ma non a mani proprie ( Cons. Stato Sez. .V 3 febbraio 2006; idem 25agosto2008 n.4078) .
Quanto poi alla possibilità di notificare il ricorso alla persona addetta all’ufficio, trattasi di ipotesi, per così dire derogatoria della regola sopra indicata, applicabile solo agli uffici privati”.
A fronte di ciò, occorre ritenere estranea ai compiti del personale dell’ufficio pubblico la ricezione di notifiche di atti giudiziari diretti ad altri pubblici dipendenti, pur incardinati nel medesimo ufficio, non essendovi alcun obbligo di portare detti atti a conoscenza degli interessati, né potendosi al contempo presumere che – in ragione di rapporti di “colleganza” o “dipendenza” gerarchica e/o funzionale – l’atto sia giunto nella sfera di conoscenza del suo effettivo destinatario.
Per le ragioni esposte, quindi, non può trovare accoglimento il I motivo di appello.
3. Risulta, invece, fondato il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), con il quale l’appellante, lamentando la violazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, rileva:
– per un verso, che non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato;
– per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni;
– per altro verso ancora, che non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.; mentre risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
La sentenza appellata ha ritenuto:
– che la notificazione effettuata presso l’ufficio sia nulla;
– che non risulti applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa, poiché, posto che “la residenza, la dimora ed il domicilio del C. erano, all’epoca, ignoti e non conoscibili”, occorre invece fare applicazione dell’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili, procedura invece non osservata nel caso in esame;
– che, in ogni caso, anche a voler considerare applicabile il citato art. 44, co. 4, Cpa, l’”esito negativo della notificazione”, ivi indicato quale presupposto perché il giudice possa concedere un termine perentorio per rinnovarla ed impeditivo della decadenza, è stato causato anche dallo stesso M. che, entro il termine decadenziale di sessanta giorni, avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Questo Collegio non ritiene di poter condividere le affermazioni della sentenza oggetto di impugnazione.
Il problema più generale che il caso di specie solleva consiste nello stabilire le forme da utilizzarsi nelle ipotesi in cui il destinatario della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo (nella specie, controinteressato), in virtù di particolari circostanze – quali possono essere eccezionali ragioni di riservatezza, ovvero misure di protezione conseguenti alla delicatezza delle funzioni svolte – abbia una residenza o domicilio non già sconosciuti, bensì non comunicabili, da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto, a colui che contro l’atto medesimo intende esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale.
In tali ipotesi, dunque, a fronte dell’art. 41 Cpa che obbliga, a pena di decadenza, a notificare il ricorso giurisdizionale “ad almeno uno dei controinteressati, che sia individuato nell’atto stesso”, si pone una Pubblica Amministrazione che ha emanato l’atto, e che è certamente a conoscenza della residenza del soggetto contemplato dall’atto predetto (a maggior ragione, nel caso in cui questi sia un pubblico dipendente), la quale ritiene di non poter fornire i dati indispensabili (residenza) perché la notificazione possa avvenire.
Nel caso considerato, la residenza, la dimora o il domicilio – la cui mancata conoscenza è indicata dall’art. 143 c.p.c. a presupposto per la propria applicazione – sono ben conoscibili, proprio perché conosciuti dalla Pubblica Amministrazione emanante l’atto.
Ne consegue che non ricorre una ipotesi di mancanza assoluta di conoscenza – il che renderebbe applicabile l’art. 143 cit. – ma la ben diversa ipotesi di impossibilità di acquisizione della conoscenza del dato per rifiuto di comunicazione del medesimo da parte del soggetto (pubblico) che ne è in possesso.
E ciò si determina, per di più, nel caso di specie, per effetto del comportamento non già di un (qualsivoglia) soggetto terzo depositario di atti o dati il cui contenuto non ritiene di estendere al richiedente, quanto per rifiuto della stessa amministrazione emanante l’atto, e dunque, di una parte processuale necessaria dell’instaurando giudizio.
In definitiva, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale di una parte viene in tal modo reso difficoltoso, se non impossibile, in conseguenza del comportamento tenuto da una parte del medesimo (instaurando) giudizio.
Al tempo stesso, ove si intendesse seguire il rito della notifica agli irreperibili, anche il diritto di difesa del controinteressato ne risulterebbe compresso, poiché questi non riceverebbe, in tal caso, direttamente e tempestivamente, copia dell’atto processuale nella propria sfera di conoscenza, posto che questo deve essere depositato, a seconda dei casi, “nella casa comunale dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario” (art. 143, co. 1); ovvero presso l’ufficio del pubblico ministero (co. 2).
In definitiva, si intende affermare che l’art. 41 Cpa, nel momento in cui prevede, a pena di decadenza, la notificazione entro un termine perentorio del ricorso giurisdizionale ad almeno un controinteressato “che sia individuato nell’atto”, pone al tempo stesso un obbligo a carico della Pubblica Amministrazione emanante, di comunicare a chi intende ricorrere contro l’atto (e ne faccia richiesta) i dati essenziali concernenti il soggetto “individuato”, onde rendere possibile la notificazione del ricorso e, dunque, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, ex artt. 24 e 113 Cost.
Tali dati, peraltro, non risultano acquisibili dal ricorrente aliunde, posto che l’art. 1 L. 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente), se pur qualifica gli “atti anagrafici” come atti pubblici, per un verso non sottrae i medesimi alle regole generali disciplinanti l’accesso agli atti amministrativi ed i suoi limiti; per altro verso, richiede comunque, sul piano concreto, la conoscenza della residenza o del luogo di nascita dell’interessato, onde poter procedere alla ricerca ed alla richiesta dei dati medesimi.
Una conclusione diversa da quella innanzi esposta proporrebbe profili di possibile illegittimità costituzionale dell’art. 41 Cpa.
Ed infatti, diversamente opinando, si otterrebbe che, mentre, da un lato, tale norma impone un obbligo di notifica entro un termine decadenziale a pena di inammissibilità del ricorso, al soggetto individuato dall’atto amministrativo, dall’altro lato si esime l’amministrazione (parte processuale necessaria) dal rendere possibile l’adempimento dell’onere processuale previsto, in tal modo consentendo ad una controparte (appunto, la P.A.) di incidere sull’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dei propri atti. Ed allo stesso tempo verrebbe a determinarsi una categoria di atti (quelli contemplanti beneficiari i cui dati anagrafici non sono, in tutto o in parte, ostensibili), per i quali vi sarebbero condizioni di limitazione di tutela giurisdizionale, in violazione dell’art. 113, co. 2, Cost.
4. Il Collegio non esclude che l’amministrazione possa opporre giustificazioni (valide e/o ragionevoli, e dunque legittime), tali da fondare il dubbio sulla possibilità di comunicare i dati indispensabili per la notifica del ricorso, ovvero sulle quali fondare il rifiuto espresso di comunicazione di detti dati.
Ma questa ora descritta costituisce proprio una delle ipotesi rientranti nella astratta previsione dell’art. 44, co. 4, Cpa, in base al quale “nei casi in cui sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza”.
Tale disposizione del Codice del processo amministrativo ben può essere a sua volta integrata dall’art. 151 c.p.c., che consente al giudice di prescrivere “che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”, proprio valutando, tra l’altro, particolari esigenze di riservatezza del soggetto destinatario.
Ovviamente, perché possa trovare applicazione tale norma, occorre che il ricorrente abbia effettivamente dato luogo ad un tentativo di notificazione e che dimostri di avere effettuato quanto nelle sue possibilità, onde raggiungere lo scopo di una corretta vocatio in ius, e che ciò sia stato impedito da cause a lui non imputabili, come il rifiuto opposto dall’amministrazione di fornire dati, da essa conosciuti, idonei alla reperibilità del soggetto individuato dall’atto da essa emanato.
5. Nel caso di specie, il ricorrente dott. M. ha dato dimostrazione di avere effettuato quanto possibile per giungere ad una corretta notificazione del ricorso instaurativo del giudizio al controinteressato dott. C..
Ciò è affermato dalla stessa sentenza impugnata, laddove sottolinea (pag. 7), che le indagini espletate “possono ritenersi necessarie e sufficienti secondo l’ordinaria diligenza”.
In considerazione di ciò, e per le ragioni innanzi esposte, il primo giudice – come rilevato con il secondo motivo di appello – avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non risultando applicabili né l’art. 143 c.p.c., né l’art. 51 Cpa (riguardante la diversa ipotesi dell’intervento iussu iudicis).
D’altra parte, ai fini della possibile applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non occorre che il ricorrente si rivolga al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, affinché questi possa disporre forme di notifica diverse: per un verso, tale condizione non è prevista dalla norma; per altro verso, essa risulterebbe non avere integrale riscontro fattuale, ben potendo la nullità della notifica (per ipotesi richiesta l’ultimo giorno utile) risultare solo a termine decadenziale spirato.
Per le ragioni esposte, ed in accoglimento del secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), occorre dichiarare, ai sensi dell’art. 105 Cpa, la nullità della sentenza impugnata (ritenendo tale domanda ricompresa nei motivi di appello innanzi indicati), per essere stata la medesima sentenza pronunciata a contraddittorio non integro (in violazione dell’art. 24 Cost.).
Ne consegue la rimessione della causa al giudice di I grado, innanzi al quale il processo sarà riassunto ai sensi dell’art. 105, co. 3, Cpa.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello proposto da M.P. (n. 2005/2014 r.g.):
a) accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione;
b) per l’effetto, dichiara la nullità della sentenza impugnata e rimette la causa al giudice di I grado;
c) compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 maggio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


Consiglio di Stato n. 01768 del 11/04/2014

Una ricca rassegna di massime, in tema di accesso agli atti delle Pubbliche Amministrazioni, è contenuta nella sentenza N. 01768/2014 del 11/04/2014 del Consiglio di Stato

Leggi: Il diritto di accesso alla documentazione amministrativa Consiglio di Stato 2014-1768


Cons. Stato Sez. IV, Sent., (ud. 20-12-2013) 04-03-2014, n. 1024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5953 del 2011, proposto da:

M.S.M.T., rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Montano, con domicilio eletto presso Francesca Maria Esposito in Roma, piazza Prati degli Strozzi N.32;

contro

Comune di Lamezia Terme in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Mariannina Scaramuzzino, con domicilio eletto presso Bruna D’Amario in Roma, via Varrone, 9;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE II n. 00590/2011, resa tra le parti, concernente approvazione progetto preliminare dei lavori di riqualificazione – decreto di esproprio

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Lamezia Terme;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2013 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Mariannina Scaramuzzino;

Svolgimento del processo
Il Comune di Lamezia, nel 2006 approvava un progetto preliminare di lavori per la riqualificazione della piazza Romagna in fraz. Zangarona; l’1/3/2007 approvava il progetto definitivo dei lavori, contemplanti, tra l’altro la costruzione di un auditorium, previo esproprio di edifici fatiscenti.

Il progetto implicante dpu era impugnato dalla sig.ra T., proprietaria di immobili interessati dai lavori, dinanzi al TAR Calabria. L’amministrazione proseguiva nella sua azione e, in data 28/08/2009, emanava decreto di esproprio, prendendo possesso dell’immobile in data 18/11/2009. Quest’ultimi atti erano impugnati con motivi aggiunti.

Il TAR (per quanto in questa sede ancora rileva) ha respinto le censure relative all’approvazione del progetto (incompetenza del Comune; insufficienza della motivazione, irragionevolezza della localizzazione); ha dichiarato inammissibili in quanto tardive, quelle relative al decreto di esproprio.

Propone ora appello la sig.ra T..

I motivi aggiunti sarebbero tempestivi, poiché il Comune sapeva che la medesima era domiciliata presso altro indirizzo (ove aveva precedentemente notificato altri atti); in ogni caso il procedimento di notifica, condotto ex art. 140 c.p.c. non si sarebbe perfezionato in ragione di vizi relativi al secondo avviso ed alla compiuta giacenza.

Nel merito: il progetto e la dpu sarebbero illegittimi in quanto non preceduti da vincolo preordinato all’esproprio (l’opera non era prevista, quindi avrebbe dovuto procedersi in variante, ex art. 11 TU espropri); I termini indicati nella dpu sarebbero di due anni, al momento dell’inizio dell’espropriazione ampiamente scaduti; la localizzazione sarebbe altresì irragionevole.

Si è costituito il Comune di Lamezia Terme insistendo per la reiezione del gravame.

La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 20 dicembre 2013.

L’appello non è fondato per i motivi che seguono:

Motivi della decisione
Preliminare ed assorbente appare il motivo d’appello con il quale è dedotta erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha ritenuto tardiva l’impugnazione del decreto di esproprio n. 2 del 28/09/2009.

Il provvedimento sarebbe stato conosciuto solo a seguito di accesso agli atti in data 9/3/2010. La notifica effettuata da messo comunale in data 9/10/2009, in applicazione dell’art. 140 c.p.c.., non sarebbe valida, in quanto: a) la raccomandata sarebbe stata spedita all’indirizzo di residenza anagrafica e non al domicilio, ben conosciuto dall’amministrazione; b) la raccomandata spedita ex art. 140 c.p.c., a seguito della temporanea assenza constata in occasione dell’accesso del messo, non sarebbe stata mai consegnata, essendo stata restituita al mittente con la scritta “irreperibile”. La giurisprudenza avrebbe chiarito che ai fini della validità della notifica è invece necessaria la prova della ricezione della seconda raccomandata.

Il motivo non è fondato.

E’ pur vero che l’art. 140 c.p.c. è stato oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale (3/2010) che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

Tuttavia la pronuncia non giova all’appellante poiché nel caso di specie, dopo il vano tentativo del messo comunale, la raccomandata è stata spedita dal messo e recapitata dall’agente postale all’indirizzo del destinatario, anche se, neanche questa volta il destinatario era presente, sicchè la raccomandata è stata restituita al mittente.

Si vuol cioè dire che, ne caso di specie, non è in discussione il principio della spedizione, atteso che il ricorso sarebbe tardivo anche se si prendesse quale dies a quo della conoscenza quello successivo al decorso dei 10 gg dalla spedizione.

L’appellante è conscio di questa circostanza ed infatti focalizza le sue argomentazioni difensive sul valido decorso dei 10 gg ai fini della presunzione di legale conoscenza (che denomina, in realtà impropriamente “compiuta giacenza”), ritenendo che ove la raccomandata sia restituita immediatamente dall’agente postale al mittente, e non trattenuta in giacenza presso l’ufficio postale per almeno 10 gg. la presunzione di legge non scatti.

La tesi non può essere condivisa.

La Corte costituzionale, laddove ha ritenuto inidoneo ai fini della notifica il principio della spedizione, ha esteso la presunzione di legale conoscenza, prevista per le notifiche per posta ex art. art. 8 della L. n. 890 del 1982 e succ. mod. anche alla fase “postale” della notifica ex art. 140 c.p.c..

Il risultato è, nel caso di specie, che la notifica deve ritenersi perfezionata nei dieci giorni dalla spedizione della raccomandata. Null’altro.

Non può ulteriormente pretendersi che debba essere provata anche l’effettiva ricezione, né che debba essere riportata, sull’avviso di ricevimento della raccomandata non potuta recapitare per assenza del destinatario, anche la scritta “compiuta giacenza”, secondo un non ammissibile processo di tendenziale e totale equiparazione del disposto dell’art 140 c.p.c. a quello di cui art. 8 della L. n. 890 del 1982.

La scritta “compiuta giacenza” (e la sottostante giacenza presso l’ufficio postale) è piuttosto necessaria per gli atti giudiziari notificati a mezzo posta poiché in quel caso il plico contenente l’atto è detenuto dall’ufficio postale, ed al notificante è data notizia di una attività (quella di spedizione della “seconda” raccomandata) che è svolta dall’agente postale ed esula dalla sfera di conoscenza del primo.

Nel 140 c.p.c. invece la raccomandata è fatta dallo stesso ufficiale giudiziario o messo che ha tentato senza successo la consegna a mani. Egli ben sa quando ha spedito e quanto si deve conseguentemente ritenere prodotto l’effetto della presunta conoscenza ritenuto comunque applicabile dalla Corte Costituzionale.

Piuttosto, ai fini della presunzione legale di conoscenza, ed alla luce della ratio che ha ispirato la sentenza 3/2010 della Corte costituzionale è necessario avere prova (non già della consegna ma) del fatto che la raccomandata è effettivamente giunta al recapito del destinatario, e che non si sia invece smarrita o finita erroneamente presso altro recapito. E la prova è raggiunta a mezzo della produzione dell’avviso di ricevimento, sia esso sottoscritto dal destinatario (o persone abilitate) sia esso annotato dall’agente postale in ordine all’assenza di quest’ultimo.

Siffatta disciplina non è del resto irragionevole ove si consideri che a differenza delle notifiche a mezzo posta, il 140 c.p.c. contempla un primo tentativo di accesso da parte dell’ufficiale giudiziario (quindi non una semplice raccomandata) nonché il successivo deposito di copia nella casa comunale, ed avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario.

Era invece irragionevole la coincidenza degli effetti della notifica con la semplice spedizione della raccomandata, ma a tale aporia ha posto rimedio la Corte costituzionale imponendo che la decorrenza degli effetti si abbia al momento del recapito della raccomandata o comunque decorsi 10 giorni dalla spedizione. La previsione di tale ultima presunzione è stata in particolare giustificata, nel ragionamento della Corte, nel bilanciamento tra le esigenze di certezza nella individuazione della data di perfezionamento del procedimento notificatorio, di celerità nel completamento del relativo iter e di effettività delle garanzie di difesa e di contraddittorio, nei termini già operati dall’art. 8 della L. n. 890 del 1982.

Tornando al caso in esame, la raccomandata è stata spedita dal messo comunale in data 9/10/2009 e restituita dall’agente postale per constatata assenza del destinatario, indi la notifica si è perfezionata, per il destinatario il 29/10/2009, decorsi 10 giorni dalla spedizione.

I motivi aggiunti sono stati notificati il 2 aprile 2010, ictu oculi dopo lo scadere del termine decadenziale.

Prive di pregio, in proposito, sono le ulteriori considerazioni circa la divergenza fra il domicilio (asseritamente conosciuto dall’amministrazione) e la residenza anagrafica.

L’amministrazione ha dimostrato, non solo che la residenza è stata storicamente sempre la medesima, ma anche che il diverso indirizzo indicato dall’appellante quale effettivo domicilio, è stato in passato utilizzato per la notifica di precedenti atti amministrativi dello stesso procedimento, con identici esiti di irreperibilità.

La tardività del gravame avverso il decreto di esproprio, rende privo di reale interesse il vaglio dei motivi concernenti gli atti pregressi, atteso che, anche ove di addivenisse ad una pronuncia caducatoria della dpu, essa non sarebbe idonea a determinare una caducazione automatica dell’esproprio non tempestivamente impugnato.

In ogni caso, il Collegio ritiene che le statuizioni di prime cure, meritino condivisione anche in relazione all’accertata legittimità degli atti pregressi, in punto di competenza del Comune e di localizzazione dell’opera. Sul punto è sufficiente limitarsi a richiamare quanto già affermato dal Giudice di prime cure, non senza rilevare che il motivo d’appello ruotante sull’assenza di una valido vincolo preordinato all’esproprio, sia in gran parte nuovo rispetto a quanto stringatamente e non del tutto perspicuamente dedotto in sede di ricorso introduttivo.

In conclusione, l’appello è respinto.

Avuto riguardo alla peculiarità delle questioni trattate, le spese possono essere compensate.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 dicembre 2013 con l’intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Giulio Veltri, Consigliere, Estensore


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 23-07-2013) 09-10-2013, n. 4968

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 3097 del 2005, proposto da:

T.P.L., rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Vinti, con domicilio eletto presso Stefano Vinti in Roma, via Emilia, n. 88;

contro

COMUNE DI PARMA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Guido Francesco Romanelli, con domicilio eletto presso Guido F. Romanelli in Roma, via Cosseria, n. 5;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA, sezione staccata di Parma, 26 febbraio 2004, n. 61, resa tra le parti, concernente risarcimento del danno per il ritardo nel rilascio di concessione edilizia per costruzione di magazzino;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Parma;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 luglio 2013 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati G. Pafundi e Romanelli;

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia – Romagna, sezione staccata di Parma, con la sentenza n. 61 del 26 febbraio 2004, nella resistenza dell’intimato Comune di Parma, respingeva il ricorso proposto dal sig. P.L.T. per la condanna di quell’amministrazione comunale al risarcimento del danno causato dal ritardo con cui gli era stata assentita, solo in data 11 ottobre 1996, la concessione edilizia, richiesta il 23 febbraio 1989, per la costruzione di un magazzino per la stagionatura del formaggio grana, in Malandriano di San Lazzaro Parmense.

Ad avviso del predetto tribunale, la domanda risarcitoria, pur astrattamente ammissibile, era in concreto infondata, in quanto: a) innanzitutto dal 12 dicembre 1989 fino al 25 giugno 1992 l’intervenuta adozione di una variante all’allora vigente piano regolatore generale e la doverosa applicazione delle misure di salvaguardia aveva impedito il rilascio del titolo richiesto; b) il ritardo nel rilascio del titolo non era dovuto ad inerzia dell’amministrazione, quanto piuttosto a quella dell’interessato che, per un verso, aveva genericamente ed occasionalmente sollecitato il riscontro della propria richiesta solo due volte, in particolare nel febbraio del 1992 e nel giugno del 1996, e che, per altro verso, aveva tenuto pertanto un comportamento acquiescente, non avendo impugnato il silenzio – rifiuto su di essa formatosi ex art. 31, comma 6, della L. 17 agosto 1942, n. 1150; c) difettava in ogni caso l’elemento psicologico della colpa nella pretesa inerzia dell’amministrazione, non essendo mai stata ritualmente diffidata e messa in mora.

2. Con atto di appello ritualmente notificato il 6/7 aprile 2005 l’interessato ha impugnato tale sentenza, chiedendone la riforma alla stregua di quattro articolati motivi di censura, rubricati, rispettivamente, “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 31, comma 6, della L. 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dalla L. 6 agosto 1967, n. 765”, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. con riferimento all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito commesso dall’Amministrazione Comunale”, “Contraddittorietà, erroneità, manifesta illogicità di motivazione” e “Difetto di pronuncia su punti decisivi della controversia”.

E’ stata così riproposta la domanda risarcitoria formulata in primo grado, di cui sono stati minuziosamente illustrati tutti i presupposti di fatto e di diritto (suffragati anche dalle conclusioni contenute nella relazione di consulenza svolta nel corso del procedimento penale per gli stessi fatti avviato presso la Procura della Repubblica di Parma), sottolineando le macroscopiche illegittimità compiute dagli uffici dell’amministrazione comunale, integranti, secondo l’appellante, la fattispecie dell’illecito aquiliano, inopinatamente sottovalutate e negate dai primi giudici con motivazione approssimativa e superficiale, conseguenza di un insufficiente apprezzamento dei fatti e della documentazione probatoria in atti, oltre che di una falsa applicazione ed interpretazione dell’art. 2043 c.c..

Con altro specifico motivo l’appellante ha poi quantificato i danni subiti a causa del dedotto ritardo in Euro. 2.236.120,88 (di cui Euro. 197.479,58 per maggiori oneri e costi sopportati in conseguenza del ritardato rilascio della concessione edilizia; Euro. 1.780.412.85, per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi nel periodo settennale di attesa del rilascio della concessione edilizia; Euro. 258.228,45 per perdita di clientela e danno all’immagine), chiedendo l’ammissione di consulenza tecnica d’ufficio, se ritenuta necessaria, in ordine al quantum, ed anche di prove testimoniali, in relazione all’an, con particolare riguardo a specifici fatti che avevano causato il ritardato rilascio del titolo edilizio, come emersi dalle dichiarazioni testimoniali rese da funzionari e dipendenti del Comune di Parma nel corso del procedimento penale avviato dalla locale Procura della Repubblica.

Il Comune di Parma, sottolineata la correttezza della sentenza impugnata, ha chiesto il rigetto del gravame, deducendo la pretestuosità e la manifesta infondatezza dei motivi di appello oltre alla macroscopica abnormità della somma chiesta a titolo di risarcimento del danno, priva – a suo avviso – di qualsiasi adeguato riscontro probatorio.

3. Nell’imminenza dell’udienza di trattazione, le parti hanno puntualmente illustrato con apposite memorie le proprie rispettive tesi, richieste e conclusioni, replicando a quelle avverse; in particolare il Comune di Parma ha eccepito l’inammissibilità della nuova produzione documentale depositata dall’appellante il 7 maggio 2013.

All’udienza pubblica del 23 luglio 2013, dopo la rituale discussione, la causa è stata introitata per la decisione.

Motivi della decisione
4. L’appello è fondato, atteso che, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, la domanda risarcitoria proposta dal sig. P.L.T., di cui non è dubbia l’appartenenza alla cognizione del giudice amministrativo, è meritevole di favorevole considerazione alla stregua delle osservazioni che seguono.

4.1. In punto di fatto occorre premettere quanto segue.

4.1.1. Il Sig. P.L.T. in data 23 febbraio 1989 chiedeva al Comune di Parma (prot. n. 390) il rilascio di una concessione edilizia per la costruzione di un magazzino per la stagionatura dei formaggi (da eseguirsi in Parma, Malandriano, via Traversetolo, foglio catastale n. 61, mappale n. 65, del Comune di S. Lazzaro).

Su tale richiesta intervenivano i pareri favorevoli dei competenti uffici comunali, in particolare: nulla osta dell’ufficio istruttoria delle richieste di concessione edilizia in data 2 marzo 1989, salvo assegno di linea prima dell’inizio dei lavori e a condizione che il capannone abbia un’altezza esterna non superiore a metri 10; parere favorevole in data 6 maggio 1989 degli uffici “strade – fognature – verde pubblico”, a seguito dell’integrazione documentale richiesta il 31 marzo 1989; parere favorevole del Servizio Medicina Preventiva ed igiene del lavoro in data 11 marzo 1989.

Esprimeva invece parere sfavorevole (di cui peraltro non è noto il contenuto) in data 8 maggio 1989 la 6^ circoscrizione cittadina.

La Commissione Edilizia Integrata nell’adunanza del 12 luglio 1989 rinviava l’esame della richiesta del sig. T. “per supplemento di indagini”, senza ulteriori precisazioni.

Tale decisione non è mai stata comunicata all’interessato, né vi è traccia di ulteriore attività istruttoria d’ufficio svolta al riguardo.

4.1.2. Con delibere consiliari n. 1544 e n. 1545 del 12 dicembre 1989 il Comune di Parma adottava una variante al piano regolatore generale e nuove norme tecniche d’attuazione, per effetto delle quali (art. 35 ter) le concessioni edilizie per i magazzini di stagionatura potevano essere assentite solo se i magazzini fossero annessi ai caseifici.

Anche del verificarsi di tale nuova situazione, ostativa al rilascio del titolo edilizio richiesto, l’interessato non è stato mai informato (e del resto dalla documentazione versata in atti risulta che essa fu meramente annotata sul fascicolo d’ufficio in data 29 maggio 1990).

Solo con la nota del 9 aprile 1992 (prot. gen. n. 18809, prot. spec. n. 3784) l’amministrazione, peraltro riscontrando l’apposito sollecito del 25 febbraio 1992 dell’interessato, gli comunicava l’impossibilità di assentire l’intervento richiesto a causa dell’adottata variante al piano regolare generale ed alle norme tecniche di attuazione, aggiungendo che “…l’iter burocratico percorso dalla pratica in questione è tuttora sospeso e pertanto la stessa deve considerarsi in regime di salvaguardia”.

4.1.3. Con delibera della Giunta regionale dell’Emilia – Romagna n. 1184 del 31 marzo 1992 la predetta variante veniva approvata (peraltro, come risulta pacificamente dalla documentazione in atti ed in particolare dalla relazione della consulenza disposta dalla Procura della Repubblica di Parma, con un’ulteriore modifica dell’art. 35 ter delle Norme Tecniche di Attuazione che, pur consentendo la realizzazione di magazzini per la stagionatura dei formaggi solo se annessi ai caseifici, salvaguardava tuttavia le attività esistenti e prevedeva la possibilità di rilasciare, previa approvazione del Consiglio comunale, nuove concessioni per la realizzazione dei predetti magazzini, anche non annessi ai caseifici, qualora la relativa domanda fosse stata presentata prima del 12 dicembre 1989, qual’era proprio la condizione dell’istanza presentata il 23 febbraio 1989 dal sig. T.).

La ricordata delibera della giunta regionale, superato positivamente il vaglio dell’organo di controllo, espletate le pubblicazioni di legge, diveniva efficace il 25 giugno 1992.

Neppure di tale circostanza l’interessato è stato reso edotto; né, venuta meno la causa di sospensione del procedimento, l’amministrazione ha proceduto alla relativa riattivazione d’ufficio.

4.1.4. Con nota del 25 giugno 1996 il sig. T., richiamando la precedente risposta dell’amministrazione del 9 aprile 1992, insisteva per l’immediato rilascio della concessione richiesta il 23 febbraio 1989, rilevando di aver più volte fatto presente all’ufficio di essere titolare di caseificio.

Infine, in data 11 ottobre 1996 veniva rilasciata la concessione edilizia n. 390/89, essendo tra l’altro intervenuti i pareri favorevoli dell’ufficio urbanistica in data 20 settembre 1996 (“Viste le integrazioni prodotte si è verificato che l’intervento richiesto è conforme al dettato dell’art. 35 ter delle norme vigenti in quanto presentata prima della adozione alla variante al PRG 1989 avvenuta il 12.12.1989 e all’art. 35 ter delle norme adottate il 11.10.1995 che consente la stagionatura dei prodotti lattiero – caseari. Prima dell’inizio dei lavori dovrà essere richiesto l’assegno di linea”) e della Commissione Edilizia Integrata nell’adunanza del 30 settembre 1996 (“a condizione che venga presentata perizia geologico – tecnica”).

4.2. Così delineato il (peraltro pacifico) substrato fattuale della controversia, la Sezione è dell’avviso che sussistano effettivamente gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito aquiliano, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, sussistendo effettivamente il ritardo con cui è stato assentito (l’11 ottobre 1996) al sig. P.L.T. il titolo edilizio (richiesto il 23 febbraio 1989), quale evento dannoso conseguenza diretta ed immediata dei comportamenti, commissivi ed omissivi, non conformi alla normativa vigente, posti in essere sia dall’amministrazione comunale di Parma che dallo stesso richiedente, come emerge con sufficiente chiarezza e precisione dalla documentazione versata in atti, il che esclude la necessità di accogliere la richiesta di ammissione di prove testimoniali formulata dall’appellante.

4.2.1. Quanto all’attività posta in essere dall’amministrazione si osserva quanto segue.

4.2.1.1. Occorre preliminarmente rammentare che – anche prima che con la L. 7 agosto 1990, n. 241 fosse espressamente precisato: che l’attività amministrativa deve essere ispirata a criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza; che l’amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dalla doverosa attività istruttoria; che tutti i procedimenti amministrativi devono concludersi con un provvedimento espresso e che tutti i provvedimenti amministrativi devono essere motivati – i principi di legalità, imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione, sono stati sempre ritenuti immediatamente cogenti e direttamente applicabili all’azione della pubblica amministrazione.

Sono stati ritenuti illegittimi gli atti e/o provvedimenti (sfavorevoli agli interessi dei privati) privi di adeguata motivazione e/o non supportati da adeguata motivazione (ex pluribus, C.d.S., sez. V, 20 febbraio 1990, n. 158; 11 gennaio 1989, n. 1; 20 ottobre 1988, n. 580), quelli che hanno determinato un ingiustificato arresto procedimentale, rinviando sine die il doveroso esercizio della funzione amministrativa; è stata altresì affermata la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento allorquando l’amministrazione avesse interposto un ingiustificato ritardo nell’espletamento delle attività svolte a provvedere sull’istanza legittimamente proposta dal privato, arrecandogli un pregiudizio (C.d.S., sez. VI, 2 luglio 1987).

4.2.1.2. Ciò precisato, deve innanzitutto rilevarsi che, come eccepito dall’interessato, sussiste la ingiustificata violazione dell’art. 31, comma 5, della L. 17 agosto 1942, n. 1150, secondo cui “le determinazioni del sindaco sulle domande di licenza di costruzione devono essere notificate all’interessato non oltre 60 giorni dalla data di ricevimento delle domande stesse o da quella di presentazione di documenti aggiuntivi richiesti dal sindaco”.

Infatti, risultando presentata l’istanza di concessione di cui si discute il 23 febbraio 1989, l’amministrazione avrebbe dovuto notificare le proprie determinazioni, ancorché negative, entro il 24 aprile 1989, il che non è avvenuto senza alcuna plausibile giustificazione, dando luogo ad una immotivata ed irragionevole inerzia dell’amministrazione (tanto più che, come si avrà modo anche di sottolineare in seguito, non esisteva – né è stato mai indicato – alcun elemento ostativo al rilascio del titolo richiesto, almeno fino all’11 dicembre 1989).

E’ appena il caso di aggiungere al riguardo, per un verso, che non si è in presenza di un mero ritardo nell’esercizio dell’attività amministrativa, giacché con l’avvenuto rilascio del titolo è stato inconfutabilmente ritenuto spettante all’interessato il bene della vita effettivamente perseguito, e, per altro verso, che è irrilevante ai fini della configurabilità dell’illecito aquiliano (e dell’ammissibilità della domanda risarcitoria) la circostanza, enfatizzata dall’amministrazione comunale ed inopinatamente considerata rilevante dai primi giudici, del mancato esercizio da parte dell’interessato del diritto di impugnazione del silenzio – rifiuto formatosi, ai sensi del comma 6 del citato articolo 31 della L. n. 1150 del 1942.

E’ sufficiente ricordare che il decorso del suddetto termine di sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di concessione edilizia non consuma il potere – dovere dell’amministrazione di provvedere sulla domanda del privato (C.d.S., sez. V, 28 novembre 2005, n. 6623; sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 818), costituendo piuttosto il silenzio – rifiuto un provvedimento fittizio (C.d.S., sez. V, 23 agosto 2000, n. 4564) con finalità acceleratorie del procedimento di rilascio del titolo concessorio e di semplificazione, in particolare attribuendo al privato la facoltà di liberarsi dell’inerzia dell’amministrazione e dell’onere della diffida e messa in mora di quest’ultima indispensabile per adire il giudice amministrativo (C.d.S., sez. V, 25 settembre 1998, n. 1326; sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 818); così che la mancata impugnazione del silenzio rifiuto rileva sotto il diverso profilo della sua eventuale efficacia causale alla produzione del danno (concausa) e della concreta determinazione del danno risarcibile (ex artt. 1227 c.c. e 30, comma 3, c.p.a.).

4.2.1.3. Non sfugge ad un giudizio di illegittimità la decisione del 12 luglio 1989 della Commissione Edilizia Integrata di rinviare l’esame della richiesta di concessione edilizia presentata dal sig. P.L.T. per “supplemento di indagini”.

E’ decisivo al riguardo rilevare che non solo non sono state esternate le ragioni che imponevano l’approfondimento istruttorio, per quanto non è stato neppure indicato in che cosa dovessero consistere le pretese ulteriori indagini e su chi ricadesse (uffici comunali o privato) l’onere dei relativi adempimenti: la natura sostanziale (e non meramente formale) di tale palese difetto assoluto di motivazione è ancor meglio apprezzabile se si tiene conto che, come emerge dalla documentazione in atti, gli uffici comunali non svolsero alcuna ulteriore attività istruttoria (nessun ordine o direttiva essendo stato in tal senso diramati dalla predetta commissione consiliare o da altri organi del comune) e neppure integrazioni documentali o chiarimenti (sulla documentazione già prodotta) furono richiesti all’interessato.

Ciò induce a ritenere del tutto ragionevolmente che in realtà alcun motivo ostativo al rilascio del titolo edilizio esistesse effettivamente, tant’è che di esso non solo non vi è alcuna traccia (né in tal senso vi è alcuna osservazione o indicazione da parte dell’amministrazione comunale neppure successivamente alla decisione in questione); per quanto, come si evince dalla lettura del parere favorevole espresso dall’Ufficio Urbanistica il 20 settembre 1996, nell’ambito del procedimento conclusosi con il rilascio del titolo edilizio l’11 ottobre 1996, l’intervento richiesto era “…conforme al dettato dell’art. 35 ter delle norme vigenti in quanto presentata prima dell’adozione della variante al PRG 1989 avvenuta il 12.12.1989 e all’art. 35 ter delle norme adottate il 11.10.1995 che consente la stagionatura dei prodotti lattiero – caseari”.

Quella decisione ha in definitiva, per un verso, introdotto un illogico, irragionevole ed arbitrario aggravamento del procedimento di rilascio della concessione edilizia, peraltro senza alcun vantaggio ed utilità per l’interesse pubblico, e, per altro verso, ha di fatto impedito il rilascio del titolo stesso, determinando peraltro anche l’arresto del procedimento per effetto della sopravvenuta adozione, in data 12 dicembre 1989, della variante al vigente piano regolatore generale e della conseguente doverosa applicazione delle misure di salvaguardia di cui all’art. 1 della L. 3 novembre 1952, n. 1902.

Sono pertanto prive di qualsiasi fondamento le, peraltro timide, difese dell’amministrazione sulla natura non provvedimentale del parere della predetta commissione, tanto più che tale parere non risulta emesso e che, per contro, la immotivata decisione interlocutoria ha causalmente contributo al ritardato rilascio del titolo.

Deve ancora sottolinearsi che nemmeno la decisione in questione è stata comunicata, così che sono stati anche macroscopicamente violati i principi di pubblicità e trasparenza (insiti nell’art. 97 della Costituzione, sub specie della violazione dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrata), impedendosi all’interessato di rappresentare tempestivamente le proprie eventuali osservazioni e controdeduzioni ovvero di attivarsi per fornire i necessari chiarimenti sulla propria domanda e fugare i dubbi della commissione e di evitare così la successiva sottoposizione della sua domanda alle misure di salvaguardia, per effetto della variante al piano regolatore generale adottata il successivo 12 dicembre 1989 (a distanza di circa nove mesi dalla presentazione della domanda e di circa cinque mesi dalla decisione interlocutoria).

4.2.1.4. Anche nell’ambito del segmento procedimentale concernente l’applicazione delle misure di salvaguardia, l’attività degli uffici comunali risulta caratterizzata da comportamenti non conformi alle previsioni normative.

Infatti, seppure, per un verso, non possa dubitarsi che, per effetto dell’adozione delle delibere consiliari n. 1444 e 1445 del 12 dicembre 1989, di variante al piano regolatore generale ed alle norme di attuazione, la richiesta di concessione edilizia, presentata dal sig. P.L.T. il 23 febbraio 1989, non fosse più conforme alle sopravvenute previsioni urbanistiche e dovesse pertanto essere sottoposta doverosamente all’applicazione delle misure di salvaguardia, per altro verso deve rilevarsi che l’articolo unico della L. 3 novembre 1952, n. 1902 (“Misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori”) prescrive inequivocabilmente che, a decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani regolatori generali (ed ovviamente delle loro varianti), il sindaco possa “…con provvedimento motivato da notificare al richiedente, sospendere ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione, di cui all’art. 31 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, quando riconosca che tali domande siano in contrasto con il piano adottato”.

La norma introduce a carico dell’amministrazione degli obblighi di motivazione, pubblicità e di trasparenza per la legittimità dell’applicazione delle misure di salvaguardia (particolarmente lesive dello jus aedificandi spettante al privato), onde assicurare il giusto contemperamento degli interessi, pubblici e privati, in gioco facultando, per un verso, l’amministrazione a sospendere l’esame delle richieste di concessione edilizia quando queste ultime siano in contrasto con le nuove scelte di tutela e gestione del territorio contenute nello strumento urbanistico adottato (e sino alla sua approvazione), ma consentendo, per altro verso, all’interessato di verificare l’asserito contrasto della sua richiesta con la nuova previsione urbanistica attraverso la comunicazione del provvedimento di sospensione e le relative motivazioni, obblighi – anch’essi di natura evidentemente non meramente formale – che nel caso di specie sono stati macroscopicamente violati.

L’amministrazione, infatti, non solo non ha emanato alcun provvedimento di sospensione dell’esame della richiesta di concessione edilizia avanzata dal sig. T. per l’intervenuta adozione della variante al piano regolatore generale, per quanto non ha neppure informato della conseguente sospensione del procedimento di rilascio.

Sono circostanze sintomatiche del comportamento negligente e superficiale tenuto dagli uffici, in dispregio dei canoni di legalità, imparzialità e buon andamento, sia la mera apposizione sul fascicolo d’ufficio della pratica edilizia in questione, solo il 29 maggio 1990 (a distanza di circa 6 mesi dall’avvenuta adozione della variante ed a circa 10 mesi dal rinvio della decisione della Commissione Edilizia Integrata), della seguente annotazione: “Con l’adozione della variante al PRG e alle NTA l’intervento richiesto non può essere autorizzato in quanto i magazzini di stagionatura che non siano annessi a caseifici non sono ammessi dal nuovo art. 35 ter”, sia la conoscenza, del tutto estemporanea ed occasionale, di tale situazione da parte dell’interessato il 9 aprile 1992, all’atto del ricevimento della nota dell’amministrazione prot. gen. n. 18809 – prot. spec. n. 3784, di riscontro del suo sollecito inoltrato il 25 febbraio 1992.

4.2.1.5. Sotto altro profilo, deve ricordarsi che le misure di salvaguardia, che per loro intrinseca natura hanno carattere eccezionale e temporaneo, secondo la espressa previsione dell’articolo unico, comma 3, della L. n. 1902 del 1952 (come sostituito dall’art. 1 della L. 5 luglio 1966, n. 517), “…non potranno essere protratte oltre tre anni dalla data di deliberazione” del piano.

Da ciò deriva che, intervenuta l’approvazione dello strumento urbanistico (o della sua variante) ovvero scaduto il termine massimo di durata, l’amministrazione ha l’obbligo – e non già una mera facoltà – di procedere all’esame delle richieste di concessione edilizia sospese, proprio per la doverosa applicazione della stessa L. n. 1902 del 1952 e dei più volte citati fondamentali principi sanciti nell’articolo 97 della Costituzione.

Nel caso di specie, tuttavia, intervenuta l’approvazione della variante e divenuta la stessa efficace dal 25 giugno 1992 (prima della scadenza del termine massimo triennale di validità delle misure di salvaguardia, scadente il 12 dicembre 1992), gli uffici dell’amministrazione sono rimasti ingiustificatamente inerti, invocando a giustificazione (come si ricava dalle dichiarazioni testimonianze rese dai funzionari nel corso del procedimento penale instaurato dalla Procura della Repubblica di Parma) una non meglio precisata prassi amministrativa, in ossequio alla quale in tali casi si attendeva che fosse autonomamente l’interessato a sollecitare il riesame della pratica sospesa ovvero a presentare una nuova richiesta di concessione edilizia.

Sennonché tale prassi è palesemente inammissibile e contra legem, macroscopico essendo l’ingiustificato ed insanabile contrasto con le ricordate disposizioni della L. n. 1902 del 1952 (e con la sua ratio), oltre che con i principi di buona fede e tutela dell’affidamento, cui devono essere improntati i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, tanto più che nella ricordata nota del 9 aprile 1992, la stessa amministrazione, informando (tardivamente) l’interessato dello stato di sospensione del procedimento, non aveva fatto alcuna menzione di quella prassi e quindi della necessità, dopo la cessazione delle misure di salvaguardia, di sollecitare l’esame della richiesta sospesa ovvero dell’opportunità di presentare una nuova richiesta di concessione edilizia.

Anche sotto tale profilo risulta autonomamente apprezzabile l’illegittimità del ritardo nel rilascio del titolo edilizio, avvenuto solo l’11 ottobre 1996, a seguito della nuova ulteriore sollecitazione dell’interessato del 25 giugno 1996.

4.2.1.6. Per completezza, richiamando quanto già esposto al par. 4.2.1.2., la Sezione osserva che le riscontrate illegittimità non possano considerarsi assorbite o rese irrilevanti, come sostanzialmente ritenuto dai primi giudici, per il solo fatto che l’interessato non abbia impugnato il silenzio – rifiuto che si sarebbe formato sull’istanza del 23 febbraio 1989 per l’inutile decorso del termine di sessanta giorni, come previsto dal combinato disposto dei commi 5 e 6 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, ciò influendo soltanto, come già evidenziato, sulla eventuale sussistenza del danno e sulla sua concreta determinazione.

4.2.1.7. Diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, l’attività (commissiva ed omissiva, così come fin qui rilevata dal punto di vista materiale) posta in essere dall’amministrazione comunale appellata è ad essa imputabile anche sotto il profilo soggettivo (del dolo o della colpa).

Se è vero, infatti, che ai fini dell’ammissibilità dell’azione risarcitoria non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo ovvero la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa, dovendo anche accertarsi se l’adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali deve essere costantemente ispirato l’esercizio della funzione, e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l’imperizia degli uffici o degli organi dell’amministrazione ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all’ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 7 giugno 2013, n. 3133; sez. VI, 6 maggio 2013, n. 2419; sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1406), nel caso di specie, ad avviso della Sezione, non può negarsi la ricorrenza dell’elemento psicologico della fattispecie risarcitoria, sub specie della colpa.

Le ripetute violazioni di legge (art. 31 della L. n. 1150 del 1942, art. 1 della L. n. 1902 del 1952) e dei fondamentali principi cui deve essere conformata l’attività amministrativa ex art. 97 Cost. (sub specie dell’imparzialità e del buon andamento e dei corollari di economicità, speditezza, efficienza, buona fede e della tutela dell’affidamento a causa del riscontrato difetto assoluto di motivazione degli atti emanati ovvero per la mancata adozione di atti doverosi, oltre che l’ingiustificato, illogico ed arbitrario aggravamento e conseguente arresto del procedimento) che, come rilevato, hanno caratterizzato il procedimento in esame, non possono che ascriversi quanto meno a grave negligenza o imperizia degli uffici dell’amministrazione comunale complessivamente considerati (non essendo necessario provare la sussistenza dell’elemento psicologico in capo ad ogni singolo agente, dipendente, responsabile o dirigente degli uffici comunali di volta in volta interessati che hanno contribuito causalmente ai singoli atti e/o comportamenti commissivi od omissivi, ciò costituendo una irragionevole ed inammissibile limitazione del diritto di difesa consacrato nell’art. 24 della Costituzione).

D’altra parte non sono emersi nella fattispecie in esame quelle peculiari circostanze di complessità dei fatti, di contrasti giurisprudenziali ovvero di incertezza normativa, che integrano la fattispecie dell’errore scusabile e che escludono l’elemento psicologico della responsabilità, ciò senza contare che l’onere di provare l’esistenza di tali circostanze (che costituiscono delle eccezioni di merito, in quanto modificative, impeditive o estintive dei fatti adotti in giudizio dalla controparte) incombeva proprio sull’amministrazione appellata (e non è stato minimamente adempiuto); né, come già accennato, possono essere invocate, a scusante delle illegittimità verificatesi, pretese prassi o comportamenti reiterati e consolidati degli uffici, atteso che essi non possono essere considerati neppure rilevanti allorquando, come nel caso in esame, siano contra legem e manifestamente lesivi degli interessi dei cittadini, impedendo loro l’esercizio delle facoltà di tutela riconosciute dalla legge.

4.2.2. Quanto al comportamento tenuto nel procedimento in questione dal richiedente, sig. P.L.T., anch’esso, ad avviso della Sezione, ha concorso al verificarsi dell’evento dannoso, consistito nel ritardato rilascio del titolo edilizio.

4.2.2.1. Occorre al riguardo ricordare che l’art. 1227 c.c. al comma 1 dispone che se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, aggiungendo, al successivo comma 2, che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

E’ stato ritenuto sussistente il comportamento omissivo colposo del danneggiato, comma 1, ogni qualvolta tale inerzia, contraria a diligenza, anche a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno, precisandosi che la regola contenuta nell’art. 1227, comma 1., c.c. non è espressione del principio di auto responsabilità, quanto piuttosto un corollario del principio di causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile; con la conseguenza che la colpa ex art. 1227, comma 1, c.c. deve essere intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto, ma come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato (Cass. civ., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406).

La giurisprudenza amministrativa ha d’altra parte sottolineato che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, sancita dall’articolo 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva dei principi già contenuti nell’art. 1227, comma 2, c.c., così che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro complessivo delle parti, valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con la ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (C.d.S., sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1750; così sostanzialmente anche C.d.S., sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5556, con riferimento alla specifica scelta del cittadino di non avvalersi della tutela impugnatoria che, anche in virtù delle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe probabilmente evitato in tutto o in parte il danno).

4.2.2.2. Nel caso in esame non può ragionevolmente escludersi che la tempestiva impugnazione da parte dell’interessato del silenzio – rifiuto, formatosi ex art. 31, comma 6, della L. n. 1150 del 1942, sulla richiesta di concessione edilizia presentata il 23 febbraio 1989, avrebbe potuto impedire il danno, costringendo, eventualmente, anche attraverso un non implausibile provvedimento cautelare sollecitatorio o propulsivo, l’amministrazione a rilasciare il titolo edilizio ovvero costringendola a riesaminare la decisione della Commissione Edilizia Integrata e/o ad indicare le eventuali ragioni ostative a tale rilascio, il tutto prima del 12 dicembre 1989, allorquando, essendo stata adottata una variante al piano regolatore generale vigente e alle relative norme tecniche di attuazione, è sopravvenuta la doverosa applicazione delle misure di salvaguardia.

Sotto altro profilo poi, seppure, come è stato evidenziato in precedenza, l’amministrazione comunale ha ingiustificatamente ed immotivatamente omesso di comunicare all’interessato non solo la decisione della Commissione Edilizia Integrata del 12 luglio 1989, ma anche lo stato di sospensione del procedimento a causa dell’adottata variante allo strumento regolatore e alle norme tecniche di attuazione e la successiva cessazione di tale stato, non risulta altrimenti ragionevole e giustificato, secondo l’ordinaria diligenza e secondo l’id quod plerumque accidit, che l’interessato abbia atteso circa tre anni per sollecitare una prima volta (con la nota del 9 febbraio 1992, riscontrata il successivo 25 febbraio 1992) la sua originaria domanda e altri quattro anni (dalla prima volta), il 25 giugno 1996, per insistere nella richiesta di rilascio della concessione edilizia; d’altra parte, anche ad ammettere astrattamente che non fosse agevole conoscere l’effettiva data di efficacia della delibera regionale di approvazione del piano regolatore generale (25 giugno 1992), l’interessato, proprio per effetto delle informazioni ottenute dall’amministrazione con la nota del 25 febbraio 1992, ben poteva conoscere la data della scadenza triennale di validità delle misure di salvaguardia (12 dicembre 1992) ovvero informarsi sull’effettiva scadenza delle stesse usando l’ordinaria diligenza, così che non trova alcuna adeguata giustificazione la sua inerzia protrattasi fino al 25 giugno 1996.

Pertanto, anche sotto l’esaminato profilo è più che ragionevole ritenere che un diverso, e sicuramente esigibile, comportamento dell’appellante, improntato ai fondamentali principi di solidarietà e buona fede e a salvaguardare anche gli altrui interessi, senza alcun diretto pregiudizio per i propri, avrebbe limitato considerevolmente il ritardo del rilascio del titolo edilizio.

Precisato poi che non vi è alcun elemento idoneo a far dubitare della riferibilità di tali comportamenti omissivi all’interessato anche sotto il profilo psicologico, quanto alla loro effettiva incidenza causale nella verificazione dell’evento dannoso di cui si discute (ritardato rilascio del titolo edilizio), la Sezione è dell’avviso che, sulla scorta di tutti gli elementi di fatto esaminati, esso possa equitativamente e ragionevolmente fissarsi nella misura del 50%.

4.3. Per completezza la Sezione deve rilevare che dagli atti di causa (ed in particolare dal verbale di sommarie informazioni rese dallo stesso sig. P.L.T. al Nucleo di Polizia Tributaria di Parma in data 19 marzo 1996) risulta che il caseificio, per la cui costruzione quegli aveva ottenuto la concessione edilizia n. 1269/1984, non era attivo, in quanto sin dal 5 ottobre 1989 ne era stata chiesta la trasformazione in magazzino (concessione edilizia n. 2219/1989 rilasciata il 14 agosto 1990): ciò esclude l’assentibilità della concessione richiesta il 23 febbraio 1989 per la realizzazione del magazzino di stagionatura, anche dopo l’intervenuta adozione della variante al piano regolatore, attesa la pacifica inesistenza del caseificio e l’impossibilità di considerare il primo (magazzino) annesso al secondo (caseificio).

4.4. Passando all’esame del danno, la Sezione osserva quanto segue.

4.4.1. Occorre ribadire che, sulla scorta della documentazione esaminata e delle osservazioni fin qui svolte, non può dubitarsi dell’effettiva verificazione dell’evento danno (ricollegabile causalmente ai comportamenti dell’amministrazione comunale di Parma e dello stesso interessato), consistito nel ritardato rilascio del titolo edilizio e nella conseguente tardiva realizzazione del magazzino per la stagionatura del formaggio.

Ciò posto, è priva di fondamento la apodittica eccezione della amministrazione appellata, secondo cui nel caso di specie non si sarebbe verificato alcun danno perché non sarebbe fornita dall’interessato la prova dell’effettiva realizzazione del magazzino di stagionatura assentito, tanto più che sarebbe inammissibile, ai sensi dell’art. 104, secondo comma, c.p.a., l’avvenuto deposito in data 7 maggio 2013 del certificato di collaudo del 9 dicembre 1999, della domanda di autorizzazione allo scarico dei reflui del 7 agosto 1997, della dichiarazione di versamento degli oneri del 9 ottobre 1996 e del certificato di prevenzione incendi del 3 maggio 1997.

E’ sufficiente rilevare sul punto che l’appellante ha depositato una voluminosa documentazione (fatture per acquisto di materiale vario e per compensi a professionisti) sui costi sopportati per la costruzione del predetto magazzino e che tale documentazione non è stata adeguatamente contestata dall’amministrazione appellante, che, in particolare, non ha fornito alcun elemento, anche solo indiziario, idoneo a far dubitare dell’effettiva costruzione del magazzino assentito.

Quanto ai documenti di cui è stata contestata la produzione da parte dell’appellante, la Sezione è dell’avviso che essi siano comunque del tutto irrilevanti quanto alla prova dell’effettiva costruzione del magazzino, attenendo piuttosto alla concreta utilizzabilità del magazzino (circostanza questa che potrebbe eventualmente influire solo sulla concreta determinazione del danno risarcibile).

4.4.2. In ordine alla quantificazione del danno subito, l’appellante ha chiesto a tale titolo complessivamente Euro. 2.236.120,88 (di cui Euro. 197.479,58 per maggiori oneri e costi sopportati in conseguenza del ritardato rilascio della concessione edilizia esattamente Euro. 24.468,18, a titolo di oneri urbanistici, ed Euro. 173.011,40, per maggiori costi di realizzazione delle attrezzature e degli impianti; Euro. 1.780.412.85, per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi nel periodo settennale di attesa del rilascio della concessione edilizia; Euro. 258.228,45 per perdita di clientela e danno all’immagine), allegando a tal fine, come già osservato, copiosa documentazione, costituita soprattutto da fatture e da relazioni tecnico – contabili.

4.4.2.1. Al riguardo la Sezione osserva che può essere innanzitutto riconosciuta a titolo di danni la somma di Euro. 24.468,18 per oneri urbanistici corrisposti all’amministrazione comunale (circostanza che peraltro da quest’ultima non è stata minimamente contestata) in virtù del titolo edilizio rilasciato l’11 ottobre 1996.

Invero, anche per la mancanza di alcuna specifica osservazione e controdeduzione sul punto da parte della difesa dell’amministrazione comunale di Parma, non può che ritenersi plausibile la tesi dell’appellante secondo cui, qualora la concessione edilizia fosse stata regolarmente rilasciata prima della variante urbanistica adottata il 12 dicembre 1989, allorquando cioè i magazzini per la stagionatura erano assentibili anche se non annessi ai caseifici, gli oneri urbanistici non sarebbero stati dovuti per la sua qualità di imprenditore agricolo a titolo principale (né può essere sottaciuto che, come già sottolineato, l’appellante aveva ottenuto effettivamente una concessione edilizia per la realizzazione del caseificio e che solo dal 5 ottobre 1989 – dopo la presentazione della domanda di concessione edilizia di cui si discute e prima che il titolo non fosse più assentibile per effetto della adottata variante urbanistica – egli chiese la trasformazione di quella concessione per la realizzazione di magazzini di stagionatura).

4.4.2.2. E’ del tutto ragionevole ammettere poi che il ritardato rilascio del titolo edilizio abbia inciso sui costi di costruzione del magazzino, essendo intercorsi oltre sette anni dalla sua richiesta.

Sul punto l’appellante, dopo aver provato i costi sostenuti per la costruzione del magazzino con apposite fatture (che, si ripete, non sono state contestate dall’amministrazione appellata) e con un elaborato riassuntivo, debitamente firmato da un tecnico, per un importo complessivo di L. 1.492.819.353, ha prodotto altro elaborato contabile da cui emerge che, se fossero stati eseguiti nel 1989, i lavori di costruzione del magazzino sarebbe costati L. 1.157.822.562 (essendo stato in particolare indicato un non irragionevole aumento del 20% dei costi delle opere edili, del 30% di quelli delle opere di lattonerie, del 30% di quelli delle strutture prefabbricate, del 20% di quelli di coibentazione, del 25% di quelli di impianti elettrici, del 30% di quelli di impianti idrici e di raffreddamento, del 25% di quelli delle serramenti e del 15% di quelli delle attrezzatura).

Il ritardato rilascio del titolo edilizio e la conseguente ritardata realizzazione del magazzino ha comportato per l’aumento dei costi di costruzione un danno pari a L. 334.996.791, corrispondenti ad Euro. 173.011,040.

Anche tale importo è riconoscibile a titolo di risarcimento del danno, essendo ragionevole e sufficientemente provato nelle sue singole componenti, oltre a non essere stato minimamente contestato dall’amministrazione appellata.

4.4.2.3. L’appellante ha altresì assunto di aver subito un danno pari a Euro. 1.780.412,85 per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi a causa del ritardo di oltre sette anni con il quale gli è stato assentito il titolo edilizio per la realizzazione del magazzino di stagionatura, quantificando tale danno in base ad una relazione di un dottore commercialista.

Al riguardo la Sezione rileva che se, per un verso, non può negarsi che il ritardato rilascio del titolo edilizio ed il consequenziale ritardo nella costruzione del magazzino abbia influito effettivamente anche sulla concreta attività commerciale (di vendita del prodotto), d’altra parte la somma indicata dall’appellante, ancorché non contestata dall’amministrazione appellata, non può essere interamente riconosciuta.

Innanzitutto il periodo che può essere preso in considerazione ai fini della determinazione della voce di danno in esame deve essere ragionevolmente ridotto almeno di un anno, da sette a sei anni, atteso che per la realizzazione del magazzino e per la sua effettiva utilizzabilità (compresa l’acquisizione del certificato di collaudo, permessi e nulla – osta sanitari, antincendi, etc.), oltre che per il pieno avvio dell’attività commerciale, può prudentemente ritenersi necessario un arco temporale oscillante tra i 18 ed i 24 mesi (del resto le stesse fatture prodotte dall’appellante a dimostrazione soltanto dei costi di costruzione del magazzino si collocano tra il novembre 1996 e il gennaio 1998).

Può pertanto verosimilmente ritenersi che, anche a considerare che il titolo edilizio fosse stato rilasciato nei sessanta giorni dalla sua richiesta e cioè per la fine del mese di aprile 1989, l’attività commerciale legata al realizzando magazzino di stagionatura non si sarebbe pienamente avviata prima dell’inizio dell’anno 1991, così che il periodo temporale da prendere a riferimento per il danno da mancata attività commerciale è di circa sei anni ed il relativo importo, così come risultante dalla documentazione prodotta dall’interessato, deve essere ridotto a L. 2.954.880.000, corrispondenti a Euro. 1.562.068.

Sennonché tale importo, come si evince dalla ricordata documentazione prodotta dall’appellante, attiene ai ricavi che si sarebbero realizzati dalla vendita del formaggio, ma non tiene in minima considerazione i costi di conservazione del prodotto e quelli più generali di gestione dell’intero impianto; né è plausibile ritenere che tutto il ricavo costituisse l’utile dell’attività di impresa, che solo può essere effettivamente considerato quale danno effettivamente subito.

Sotto tale profilo deve ritenersi equo che il mancato utile conseguito per effetto della attività di impresa che sarebbe stata esercitata corrisponde al 25% dei ricavi indicati e dunque al 25% di Euro. 1.562.068 e cioè a Euro. 390.517.

4.4.2.4. -Nulla può essere invece riconosciuto all’appellante, che ne ha fatto solo mera richiesta, a titolo di danno per la perdita di clientela e per danno all’immagine, perché nessuna prova è stata fornita di presunte voci di danno.

Infatti il danno per perdita della clientela presuppone necessariamente una precedente attività di vendita del formaggio ed il conseguente sviamento della clientela ad altri punti vendita, a causa del ritardato rilascio del titolo edilizio in discussione, circostanze di cui nel caso di specie non vi è traccia, tanto più che l’appellante era titolare soltanto di concessione edilizia per la costruzione di un caseificio e che l’attività casearia non è necessariamente collegata a quella di stagionatura e vendita del formaggio prodotto.

Né il ritardato rilascio del titolo edilizio, in mancanza di qualsiasi adeguato elemento anche solo indiziario in tal senso, può influire per ciò solo sulla reputazione e sull’immagine di un imprenditore (con particolare riferimento alla sua capacità, professionalità e moralità).

4.4.2.5. Posto che le voci di danno riconoscibili ammontano complessivamente ad Euro. 587.996,58 (e cioè Euro. 24.468,18 per oneri urbanistici; Euro. 173.011,40 per maggiori costi di costruzione; Euro. 390.517,00 per gli utili derivati dalla mancata vendita del formaggio prodotto), il danno effettivamente riconoscibile all’appellante a causa del ritardato rilascio del titolo edilizio di cui si tratta ascende complessivamente ad Euro. 293.998,29 (duecentonovantatremilanovecentonovantotto Euro e ventinove centesimi), per effetto del concorso causale alla determinazione del danno dello stesso appellante, secondo quanto esposto nel paragrafo 4.2.2.2.

Su tale importo, quale credito di valore, devono essere riconosciuti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali, da ritenersi comunque compresi nell’originaria domanda risarcitoria (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20943), dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2009, n. 5054 luglio 2009, n. 15928).

Il predetto importo deve essere in particolare rivalutato dalla data del fatto generatore del danno (coincidente con l’11 ottobre 1996, data di rilascio del titolo edilizio) all’attualità (data di deposito della presente sentenza), secondo gli annuali indici ISTAT; spettano inoltre gli interessi legali sulla somma rivalutata dalla data della presente sentenza sino al soddisfo; spettano altresì gli interessi legali, da calcolarsi anno per anno sulla somma originaria (Euro. 293.998,29) anch’essa annualmente rivalutata dalla data del fatto sino all’effettivo soddisfo.

5. In conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado dal sig. P.L.T., con conseguente condanna del Comune di Parma al risarcimento del danno, così come indicato in motivazione.

Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello proposto dal sig. P.L.T. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia – Romagna, sezione staccata di Parma, n. 61 del 26 febbraio 2004, così provvede:

– accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso proposto in primo grado dal sig. P.L.T.;

– conseguentemente condanna il Comune di Parma a risarcire a quest’ultimo il danno subito per il ritardato rilascio della concessione edilizia, liquidato in Euro. 293.998,29 (duecentonovantatremilanovecentonovantotto Euro e ventinove centesimi), oltre rivalutazione monetaria ed interessi, come da motivazione.

– condanna altresì il Comune di Parma al pagamento in favore del sig. P.L.T. delle spese del doppio grado di giudizio, oltre I.V.A. e CPA, se dovuti, che si liquidano in complessivi Euro. 8.000,00 (ottomila), nonché alla restituzione del contributo unificato, se versato, per la proposizione del ricorso di primo grado e per quello di appello.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 luglio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Sabato Malinconico, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere

Doris Durante, Consigliere


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 07-05-2013) 02-09-2013, n. 4344

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso r.g.a.n. 8711/2007, proposto dalla Fratelli Staffolani s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Luca Pascucci, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Luigi Mori, in Roma, via Ludovisi, 35;

contro

la Regione Marche ed il responsabile pro tempore del Servizio tutela e risanamento ambientale della Regione Marche, non costitituiti in giudizio nel presente grado;

il Comune di Camerino, in persona del sindaco in carica, non costituito in giudizio nel presente grado;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Marche, sezione I, n. 560/2006, resa tra le parti e concernente il risarcimento dei danni da ritardo, in occasione del rilascio dell’autorizzazione alla variante di un progetto di recupero di cava.

Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati, con tutti gli atti ed i documenti di causa.

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio, il Consigliere di Stato Bernhard Lageder ed udito, per la parte appellante, l’avvocato Giulio Pizzuti, per delega dell’avvocato Luca Pascucci.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Comune di Camerino, in data 7 agosto 1997, trasmetteva alla Regione Marche, Servizio per la tutela ed il risanamento ambientale, il progetto della Fratelli Staffolani s.r.l. per il recupero ambientale – in esito all’esaurimento, alla fine dell’anno 1996, del materiale estraibile autorizzato di mc. 200.000 – della cava in località Scogli di Staffe, la cui apertura era stata, a suo tempo, autorizzata con provvedimento sindacale del 6 ottobre 1983, integrato con provvedimento del 21 gennaio 1985 e seguito da volturazione in favore della Fratelli Staffolani s.r.l..

2. Il successivo 27 ottobre 1997 la società provvedeva ad inviare direttamente alla regione un progetto di variante, per la riduzione del volume estraibile a mc. 78.000, al che il Comitato regionale per il territorio (C.r.t.), con atto n. 71 del 28 ottobre 1997, esprimeva parere contrario sul primo progetto e riteneva di non poter esaminare la variante riduttiva, perché non esaminata dal Servizio per la tutela ed il risanamento ambientale e non trasmessa dal comune.

3. Il progetto di variante veniva, quindi, nuovamente inviato alla Regione Marche, tramite il Comune di Camerino, in data 13 novembre 1997, ma il Servizio regionale per la tutela ed il risanamento ambientale, con nota del 26 novembre 1997, ravvisava l’impossibilità di prenderlo in considerazione, “in quanto pervenuto dopo l’esame del progetto originario da parte del C.r.t.”

4. La Giunta regionale, con deliberazione n. 1873 del 27 luglio 1998, dichiarava la compatibilità paesistico-ambientale del progetto di variante e rilasciava l’autorizzazione paesaggistica.

5. Con nota del 4 ottobre 1999 il Comune di Camerino sottoponeva alla Regione il quesito, se sull’istanza comunale del 13 novembre 1997 si fosse formato il silenzio-assenso, ai sensi della legge reg. Marche 1 dicembre 1997 n. 71 (Norme per la disciplina delle attività estrattive), in rapporto alla nota del 26 novembre 1999, di tenore negativo, del Servizio per la tutela ed il risanamento ambientale.

6. Indi, la Fratelli Staffolani s.r.l., con ricorso rubricato al r.g.n. 177/2000, adiva il T.a.r. per le Marche, impugnando le note sub 3. (con cui il Servizio regionale per la tutela ed il risanamento ambientale aveva dichiarato l’impossibilità di esaminare il progetto di variante) e sub 5. (con cui il predetto Servizio aveva escluso la formazione del silenzio assenso), deducendone l’illogicità e la contraddittorietà rispetto alla rilasciata autorizzazione paesistica regionale e chiedendo la condanna delle amministrazioni intimate al risarcimento dei danni.

7. Accolta dal T.a.r., con ordinanza n. 145 del 25 febbraio 2000, l’istanza cautelare proposta dalla ricorrente, il direttore dell’ufficio tecnico del Comune di Camerino, nelle more del giudizio, considerando il parere del C.r.t. come favorevole, in quanto erano trascorsi oltre sessanta giorni dalla ricezione della domanda inoltrata dalla Fratelli Staffolani s.r.l., con atto dell’11 luglio 2000 autorizzava l’esecuzione dei lavori del progetto di variante della cava, per mc. 78.000 di materiale estraibile, ed imponeva precise prescrizioni di riassetto ambientale, al che la società ricorrente, con memoria depositata il 24 giugno 2006, insisteva per l’accoglimento del ricorso e, in particolare, della domanda risarcitoria, in conseguenza del ritardo con cui l’autorizzazione era stata rilasciata.

8. L’Adito T.a.r., con la sentenza in epigrafe, provvedeva come segue:

(i) dichiarava improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, la domanda di annullamento proposta con il ricorso introduttivo, di fronte al rilascio dell’autorizzazione in corso di causa (in data 11 luglio 2000);

(ii) respingeva, invece, la domanda risarcitoria sulla base dei testuali rilievi che “essa, nella fattispecie, è ascrivibile ad un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale dell’Amministrazione, ravvisabile, però, solo in presenza di un suo comportamento quanto meno colposo: tanto non può che essere escluso, in quanto l’obbligo di rilasciare immediatamente l’autorizzazione, non appena trascorso il termine di 60 giorni, previsto dal combinato disposto dell’art. 25, XVII comma, della L.R. n. 71 del 1997 e dell’art. 4 della L.R. n. 37 del 1980, per la formazione del silenzio-assenso da parte dei competenti organi regionali sull’inviato progetto-variante di cava, non era affatto di per sé evidente, se si considera che su questo progetto, dopo l’iniziale rilievo della mancata istruttoria ed invio tramite comune, il Servizio regionale per la tutela ed il risanamento ambientale si era, poi, pur sempre pronunciato, anche se in modo elusivo, e che, nella fattispecie, doveva tenersi conto anche della sospensione dei termini, disposta dal D.L. n. 364 del 1997, convertito dalla L. n. 434 del 1997, per la conclusione dei procedimenti amministrativi”;

(iii) nulla statuiva quanto agli oneri processuali, non essendosi le amministrazioni intimate costituite in giudizio.

9. Avverso tale sentenza interponeva appello la società soccombente, segnatamente impugnando la statuizione sub 8.(ii) sulla base di un unico, complesso motivo, testualmente rubricato come segue: “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, comma II, della L.R. n. 37 del 1980 e dell’art. 25, comma XVII, della L.R. n. 71 del 1997. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043, cod. civ., e dei presupposti e dei principi in materia di responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 97 della Costituzione e dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa. Travisamento dei fatti. Motivazione insufficiente e/o perplessa. Falsa applicazione del d.-L. n. 364 del 1997, convertito in L. n. 434 del 1997. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35 del D.Lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7 della L. n. 205 del 2000”.

L’appellante chiedeva dunque, in riforma dell’impugnata sentenza, la condanna delle amministrazioni appellate al risarcimento per danno emergente e lucro cessante, subiti nel periodo 1997-2000 (in cui la società era rimasta priva di autorizzazione alla coltivazione della cava in questione, con necessità di reperire altrove la materia prima della propria attività d’impresa) ed esposti nell’importo di Euro 400.000,00, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali.

In subordine, chiedeva la liquidazione dei danni in via equitativa o secondo le modalità di cui all’art. 35, D.Lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7, L. n. 205 del 2000 (cui corrisponde l’attuale art. 34, comma 4, cod. proc. amm.), previa eventuale consulenza tecnica d’ufficio.

10. Sebbene ritualmente evocate in giudizio, le amministrazioni intimate (Regione Marche e Comune di Camerino) omettevano di costituirsi in giudizio, anche nel presente grado.

11. All’udienza pubblica del 7 maggio 2013 la causa veniva trattenuta in decisione.

12. Premesso che non risulta investita da specifico motivo d’impugnazione la statuizione d’improcedibilità sub 8.(i), sicché su tale capo di sentenza si è formato il giudicato endoprocessuale ed ogni relativa questione esula dal devolutum, si osserva nel merito che l’appello proposto avverso la statuizione sub 8.(ii), reiettiva della domanda risarcitoria, è fondato entro i limiti di cui appresso.

12.1.

In punto di an debeatur, osserva il collegio che il caso sub iudice va ricondotto ad una fattispecie di danno da ritardo, non potendo gli atti impugnati – ossia, la nota del 26 novembre 1997, con cui il Servizio regionale per la tutela ed il risanamento ambientale aveva dichiarato l’impossibilità di esaminare il progetto di variante (trasmesso il 13 novembre 1997 tramite il Comune), e la nota del 26 novembre 1999, con cui il predetto Servizio aveva escluso la formazione del silenzio assenso – essere qualificati alla stregua di atti definitivi di diniego, ma costituendo essi piuttosto atipici atti soprassessori determinanti un illegittimo arresto procedimentale, superato solo dall’adozione, in corso di causa ed in esito all’ordinanza cautelare propulsiva n. 145/2000, del provvedimento finale autorizzatorio dell’11 luglio 2000, ampiamente oltre il termine di conclusione del procedimento.

Il danno lamentato dall’odierna appellante si riconnette, dunque, al ritardato rilascio dell’autorizzazione, oltre i termini di conclusione del procedimento, stabiliti, nel caso di specie, dall’art. 25, comma 15, L.R. 1 dicembre 1997, n. 71, nel termine di trenta giorni dalla trasmissione, al Comune, della dichiarazione di compatibilità paesistico-ambientale della Giunta regionale.

Essendo la dichiarazione di compatibilità paesistico-ambientale intervenuta con deliberazione n. 1873 del 27 luglio 1998, trasmessa al Comune di Camerino con nota n. 2338 del 7 agosto 1998, il termine di conclusione del procedimento dev’essere individuato in coincidenza con il 7 settembre 1998.

Né, alla predetta data, avrebbe potuto ritenersi mancante il prescritto parere del Comitato regionale per il territorio (di cui alla legge reg. Marche 5 agosto 1992 n. 34), essendosi tale parere, a norma del combinato disposto degli artt. 25, comma 17, L.R. 1 dicembre 1997, n. 71, e 4, L.R. 22 maggio 1980, n. 37 – da ritenersi applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio, anche tenuto conto della proroga del regime transitorio di cui al citato art. 25, comma 17, L.R. n. 71 del 1997, per effetto dell’art. 1, D.L. 27 ottobre 1997, n. 364 (Interventi urgenti a favore delle zone colpite da ripetuti eventi sismici nelle regioni Marche e Umbria), convertito dalla L. 17 dicembre 1997, n. 434 – perfezionato per intervenuto silenzio assenso, espressamente previsto dal citato art. 4, secondo cui, “trascorso inutilmente il termine, il parere s’intende favorevole”.

Infatti, in presenza della trasmissione del progetto di variante all’amministrazione regionale, avvenuta rispettivamente in data 27 ottobre 1997 (su iniziativa dell’istante) ed in data 13 novembre 1997 (tramite il Comune di Camerino), al momento della maturazione del termine di conclusione del procedimento (7 settembre 1998), il termine di sessanta giorni per la formazione del silenzio-assenso era ampiamente maturato (anche, in ipotesi, tenendo conto della sospensione, sino al 31 marzo 1998, dei termini in scadenza nel periodo dal 26 settembre 1997 al 31 marzo 1998, disposta dall’art. 1, D.L. 27 ottobre 1997, n. 364, con conseguente irrilevanza di ogni questione attorno all’eventuale incidenza della menzionata sospensione legale dei termini anche sulla formazione del silenzio-assenso).

Peraltro, la stessa Regione, nella nota del 12 maggio 2000, ammette che avrebbe dovuto ritenersi che le fasi procedimentali di competenza della Regione Marche erano da tempo concluse e, nelle premesse del provvedimento autorizzatorio comunale dell’11 luglio 2000, si dà espressamente atto che “il parere del C.r.t. (Comitato regionale per il territorio) può essere inteso come favorevolmente espresso, in quanto trascorsi oltre 60 giorni dal ricevimento da parte della Regione Marche della richiesta di che trattasi”.

Il fatto stesso che il provvedimento autorizzatorio finale (dell’11 luglio 2000) sia stato adottato senza che nelle more fossero sopravvenuti ulteriori circostanze procedimentali o novità normative incidenti sui tempi procedimentali, e dunque sulla base della situazione, di fatto e di diritto, venutasi a determinare in esito all’adozione della dichiarazione regionale di compatibilità paesistico-ambientale del 27 luglio 1998, conferma l’assenza di ogni plausibile giustificazione del ritardo nell’emanazione del provvedimento autorizzatorio finale.

Né – contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza – può ravvisarsi un’ipotesi di errore scusabile in capo alle amministrazioni, attese la chiarezza e l’univocità del dato normativo sulla formazione del silenzio-assenso con riguardo al parere del Comitato regionale per il territorio e stante l’assenza di ostacoli all’emanazione tempestiva dell’autorizzazione finale in esito all’intervenuta dichiarazione di compatibilità paesistico-ambientale, risultante dalle stesse premesse motivazionali del provvedimento autorizzatorio, emanato sulla base degli elementi di fatto e diritto di cui l’amministrazione comunale era, da tempo, in possesso.

Concludendo, alla luce delle considerazioni che precedono e tenuto conto della tempistica connotante il concreto svolgimento del procedimento autorizzatorio in esame, quale risultante dall’esposizione in fatto, di cui sopra sub 2., 3., 4. e 5., devono ritenersi integrati sia l’elemento dell’antigiuridicità del ritardo connotante l’azione amministrativa, posta in essere non iure, in violazione delle prescritte cadenze procedimentali, oltre che contra ius, ledendo l’interesse pretensivo dell’odierna appellante ad ottenere il provvedimento favorevole nel rispetto dei termini di legge, sia l’elemento soggettivo della colpevolezza, atteso il manifesto carattere dilatorio delle condotte tenute dalle amministrazioni coinvolte (regione e comune), insito nella ripetuta adozione di atti soprassessori, privi di oggettive ragioni giustificative ed accompagnati da un comportamento d’inerzia giuridicamente rilevante, sebbene il provvedimento favorevole avesse potuto e dovuto essere rilasciato ab origine, sin dalla trasmissione, all’amministrazione comunale, della dichiarazione regionale di compatibilità paesistico-ambientale (sul principio, secondo cui il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario, v., per tutte, Cons. St., sez. IV, sent. 7 marzo 2013 n. 1406; sent. IV, 23 marzo 2010 n. 1699).

La parte interessata ha, altresì, fornito la prova della sussistenza di danni patrimoniali, sub specie di danno emergente e lucro cessante, collegati da un nesso di derivazione causale immediato e diretto alla ritardata emanazione del provvedimento autorizzatorio (v. la copiosa documentazione, contabile e fiscale, prodotta dalla citata appellante a comprova dei maggiori costi di approvvigionamento con materia prima e dei mancati utili d’impresa), sicché risultano integrati tutti gli elementi della fattispecie di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione.

Né è ravvisabile un eventuale concorso colposo dell’odierna appellante nella causazione (anche solo parziale) dei danni dedotti in giudizio (per gli effetti di cui agli artt. 30, comma 3, cod. proc. amm., e 2056, 1227, cod. civ.), essendo l’impresa danneggiata tempestivamente insorta avverso gli atti soprassessori delle amministrazioni intimate ed essendo il provvedimento finale di autorizzazione stato emanato solo nel corso del giudizio di primo grado, in esito ad ordinanza cautelare propulsiva, sulla base di una situazione di fatto e diritto che imponeva l’adozione del provvedimento finale entro il 7 settembre 1998.

12.2. In punto di quantum debeatur, rileva il collegio che, per quanto esposto sopra sub 12.1., i danni risarcibili devono essere limitati al periodo dal 7 settembre 1998 (data di scadenza del termine legale di conclusione del procedimento) al 11 luglio 2000 (data di adozione del provvedimento favorevole), nel quale è maturato il ritardo addebitabile alle amministrazioni investite del procedimento, onde a tale periodo va ridotto il referente temporale d’individuazione dei danni (indicato dall’interessato nel maggiore periodo 1997-2000).

Da un esame complessivo e globale della prodotta documentazione contabile e fiscale, relativa agli anni dal 1996 al 2003, l’aumento dei costi di produzione e la riduzione degli utili relativi al periodo 7 settembre 1998-11 luglio 2000 possono essere determinati, con sufficiente grado di approssimazione e sulla base di una valutazione prudenziale, integrata da criteri liquidatori di natura equitativa (ex artt. 2056 e 1226 cod. civ.), nell’importo complessivo di Euro 100.000,00 (centomila/00), espresso in moneta attuale (ossia, comprensivo di rivalutazione monetaria ed interessi maturati ad oggi), da porre in solido a carico delle due amministrazioni responsabili (ex art. 2055, cod. civ.).

Su tale importo sono dovuti gli ulteriori interessi corrispettivi, al saggio legale, dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al saldo.

12.3. Per le esposte ragioni, in parziale accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza, s’impone la condanna delle amministrazioni appellate al risarcimento dei danni, in favore della società appellante, nella misura sopra liquidata, con assorbimento di ogni altra questione, ormai irrilevante ai fini decisori.

13. In applicazione del criterio della soccombenza, le amministrazioni appellate devono essere condannate a rifondere all’appellante gli oneri processuali del doppio grado, come liquidati nella parte dispositiva.

P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione VI, accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione (r.g.n. 8711/2007), e, in riforma dell’impugnata sentenza ed in parziale accoglimento della domanda risarcitoria proposta in primo grado, condanna le amministrazioni appellate (Regione Marche e Comune di Camerino), in solido tra di loro, al pagamento, in favore dell’appellante Impresa Staffolani, dell’importo di Euro 100.000,00 (centomila/00), con gli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al saldo, ed alla rifusione, in favore della stessa appellante, degli oneri processuali del doppio grado di giudizio, liquidati in complessivi Euro quattromila/00 (in ragione di metà a carico della regione e metà a carico del comune), oltre ai dovuti accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2013, con l’intervento dei magistrati:

Aldo Scola, Presidente FF

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore

Silvia La Guardia, Consigliere

Claudio Boccia, Consigliere


Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 07-06-2013) 10-07-2013, n. 3711

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4843 del 2007, proposto da:

Comune di Genova, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Aurelio Domenico Masuelli, dall’Avv. Gabriele Pafundi e dall’Avv. Edda Odone, con domicilio eletto presso l’Avv. Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14/A;

contro

C.Z., rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Cocchi e dall’Avv. Carlo Zanardi, con domicilio eletto presso l’Avv. Giovanni Corbyons in Roma, via Maria Cristina, n. 2;

nei confronti di

Ministero dell’Interno, Ufficio Territoriale Governo di Genova – Prefettura di Genova, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LIGURIA – GENOVA: SEZIONE II n. 00085/2007, resa tra le parti, concernente la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Carlo Zanardi;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 giugno 2013 il Cons. Massimiliano Noccelli e uditi per le parti l’Avv. Pafundi, l’Avv. Mazzeo, su delega dell’Avv. Cocchi, e l’Avvocato dello Stato Maria Luisa Spina;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il sig. C.Z. è stato assunto alle dipendenze del Comune di Genova con il profilo professionale di Vigile Urbano – già V qualifica funzionale – in esito alla partecipazione a corso-concorso pubblico indetto dall’amministrazione.

2. Poiché nel corso del 1997 il sig. Z. subiva quattro ricoveri presso l’Istituto di Psichiatria dell’Ospedale San Martino di Genova, rimanendo assente dal lavoro, a causa di una sindrome depressiva, per lunghi periodi, il Comune decideva di inoltrare relazione al Prefetto di Genova per l’adozione dei provvedimenti ritenuti più opportuni.

3. Il Prefetto, con Provv. n. 171 del 15 settembre 1997, disponeva, nei confronti dell’interessato, la revoca della qualifica di agente di P.S., in precedenza conferita al momento dell’immissione in ruolo.

4. Il Comune, sulla scorta del rilievo che la qualifica di agente di P.S. costituisse indispensabile requisito di appartenenza al Corpo di Polizia Municipale, adottava determinazione di mutamento del profilo del sig. Z., inquadrandolo nel profilo amministrativo – collaboratore professionale – corrispondente alla ex qualifica di appartenenza.

6. Il provvedimento di revoca della qualifica di agente di P.S., adottato dal Prefetto di Genova, veniva quindi impugnato dal sig. Z. con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ricorso di cui non è dato conoscere, a tutt’oggi, l’esito.

7. La determinazione dirigenziale di mutamento del profilo, adottata dal Comune di Genova, veniva impugnata dal sig. Z. avanti al T.A.R. Liguria che, con ordinanza n. 73 del 12.2.1998, respingeva la proposta domanda cautelare di sospensione.

8. Il Prefetto di Genova, nelle more, adottava il 21.12.1999 un nuovo provvedimento di revoca della qualifica di agente di P.S., emendando il precedente, che non recava l’autorità alla quale proporre eventuale ricorso e i relativi termini.

9. Avverso tale provvedimento proponeva ricorso avanti al T.A.R. Liguria l’interessato.

10. All’udienza del 7.12.2006 il T.A.R. Liguria, Sez. II, riuniti i due ricorsi, con sentenza n. 85 del 24.1.2007, dichiarava inammissibile quello proposto avverso la revoca della qualifica di agente di P.S., adottato dal Prefetto, e accoglieva quello avverso la determinazione dirigenziale di mutamento del profilo.

10. Il giudice ligure riteneva assorbente il vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente violazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990.

11. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di Genova, lamentandone l’erroneità per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5 e 10 della L. n. 65 del 1989, degli artt. 2 e 20 del D.M. 4 marzo 1987, n. 145, degli artt. 4 e 73, comma 2, del Regolamento del Corpo dei Vigili Urbani di Genova, dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 e dell’art. 114 Cost., e ne ha chiesto la riforma, con conseguente reiezione di entrambi i ricorsi proposti dal sig. Z. in prime cure.

12. Si sono costituiti in giudizio il sig. Z. e il Ministero dell’Interno, chiedendo entrambi la reiezione dell’appello.

13. Alla pubblica udienza del 7.6.2013 il Collegio, udita la discussione, ha trattenuto la causa in decisione.

14. L’appello va respinto.

15. Il giudice di prime cure ha ritenuto sussistente e assorbente il vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento culminato con la modifica del profilo professionale dell’interessato, disattendendo le deduzioni della difesa comunale che, al contrario, ha sostenuto che il mutamento del profilo professionale dovesse considerarsi necessitato alla luce della sopravvenuta impossibilità di svolgere tutte le funzioni proprie dell’agente di polizia municipale.

16. Il Comune appellante ha riproposto in questa sede, con un unico articolato motivo di censura, le medesime deduzioni disattese dal primo giudice.

17. Esso assume che l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, che pure non contesta essersi realizzata, non assumerebbe rilievo viziante, invocando l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, c.c., perché il mutamento della qualifica professionale da vigile urbano in collaboratore professionale sarebbe conseguenza necessitata dalla revoca della qualifica di agente di P.S. subita dal sig. Z..

18. Tale assunto si giustifica, secondo il Comune, sulla base del rilievo che l’idoneità al conferimento della qualifica di agente di P.S. costituirebbe un requisito indispensabile per lo svolgimento di tutti i compiti istituzionali degli appartenenti al Corpo di Polizia Municipale e, quindi, sarebbe essenziale tanto ai fini dell’assunzione quanto ai fini della permanenza nel profilo.

19. Da tale premessa l’appellante trae la conclusione che l’apporto dell’interessato non avrebbe potuto modificare l’esito necessitato del procedimento di mutamento del suo profilo professionale da vigile urbano in collaboratore professionale, una volta intervenuta la revoca della qualifica di agente di P.S., sicché erroneamente il T.A.R. ligure avrebbe ritenuto il provvedimento illegittimo per omessa comunicazione di avvio del procedimento stesso.

20. L’argomento è fallace.

21. Si evince infatti chiaramente dal complessivo impianto della L. n. 65 del 1986 (“Legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale”) e del D.M. n. 145 del 1987 (“Norme concernenti l’armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza”), che lo status di agente di pubblica sicurezza costituisce una prerogativa accessoria ed eventuale rispetto alle funzioni di servizio dell’agente di polizia municipale.

21.1. Questi è infatti chiamato a svolgere, nel nostro ordinamento, molteplici, complesse e delicate funzioni, tra le quali possono rientrare anche quelle attinenti alla pubblica sicurezza, con conseguente possibile uso delle armi.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che le competenze attribuite dall’ordinamento (artt. 3 e 5 della L. 7 marzo 1986, n. 65) al corpo di polizia municipale “consistono, in misura assolutamente prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza sull’osservanza di norme e di regolamento nei settori di competenza comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti sanzionatori” e che “a queste attività di aggiunge l’espletamento di funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in determinate circostanze, di pubblica sicurezza” (Cons. St., sez. V, 12.8.1998, n. 1261).

21.2. Il nostro ordinamento non prevede nemmeno, in via generale, che l’agente di polizia municipale, nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, debba necessariamente far uso delle armi, in quanto l’art. 5, comma 5, della L. n. 65 del 1986 contempla la dotazione e, quindi, l’utilizzo delle armi esclusivamente per gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali sia conferita dal Prefetto la qualità di agente di pubblica sicurezza.

21.3. Non vi è, quindi, né vi può essere alcun automatismo tra la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza e il mutamento del profilo professionale dell’agente di polizia municipale, essendo la prima qualifica requisito indispensabile solo all’esercizio di funzioni che implichino l’uso delle armi da parte dei vigili urbani, ma non certo per l’espletamento dei compiti che, ordinariamente, competono all’agente di polizia municipale in base alla legislazione vigente.

21.4. Né a tale fondamentale differenza, ben delineata dal legislatore nazionale, possono sovrapporsi o, addirittura, contrapporsi discipline normative di rango inferiore, dettate eventualmente dai regolamenti comunali, anche preesistenti, i quali ultimi non sarebbero con essa compatibili ai sensi dell’art. 20, comma 1, della L. n. 65 del 1986.

21.5. E del resto, anche nel caso di specie, il Regolamento comunale del Corpo dei Vigili Urbani di Genova del 1956, diversamente da quanto assume il Comune appellante, agli artt. 4 e 73 prevede solo, in armonia con le – pur successive – previsioni del legislatore nazionale, che i vigili urbani possano ottenere dal Prefetto il riconoscimento aggiuntivo della qualità di agente di pubblica sicurezza, senza che ciò costituisca requisito obbligatorio per rivestire la qualifica di agente di polizia municipale.

22. Ne segue che la tesi dell’appellante, in quanto erronea, deve essere disattesa, con conseguente reiezione dell’appello.

23. Le spese del presente, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza del Comune nei confronti dell’appellato Z., non avendo il Ministero svolto, al di là della mera costituzione mediante atto di controricorso, sostanziale attività difensiva.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il Comune di Genova a rifondere in favore di C.Z. le spese del presente grado di giudizio, che liquida nell’importo di Euro 3.000,00, oltre gli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 giugno 2013 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Lignani, Presidente

Roberto Capuzzi, Consigliere

Hadrian Simonetti, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore

Alessandro Palanza, Consigliere


Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 17-05-2013) 27-05-2013, n. 2894

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38, 60 e 116 cod. proc. amm.

sul ricorso numero di registro generale 2050 del 2013, proposto da:

E.P., rappresentata e difesa dall’avv. Alba Giordano, presso il cui studio ha eletto il domicilio in Roma, via Muzio Clementi, 58;

contro

Azienda Usl Roma A, in persona del Direttore Generale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Filippo Pacciani ed Alessandro Botto, con domicilio eletto presso Assoc. Legance Studio Legale in Roma, via XX Settembre, 5;

nei confronti di

E.P.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: sezione III QUA n. 115/2013, resa tra le parti, concernente il diniego all’accesso ai documenti relativi all’attribuzione delle somme a titolo di retribuzione di risultato per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare ad alta intensità

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Azienda Usl Roma A;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 maggio 2013 il Cons. Hadrian Simonetti, uditi per le parti gli Avvocati Giordano e Pacciani.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:

– l’odierna appellante, in passato in servizio sino ad agosto del 2011 presso l’Azienda USL Roma A, con lettera raccomandata del 3.9.2012 ha chiesto il pagamento delle somme in tesi a lei dovute per la retribuzione di risultato 2011; ha chiesto altresì di accedere agli atti concernenti il pagamento della medesima voce retributiva in favore dei dirigenti della medesima USL, limitatamente allo stesso periodo temporale;

– l’Azienda ha respinto entrambe le richieste; quanto all’istanza di accesso, ha giustificato il diniego adducendo unicamente la natura privatistica degli atti in questione;

– proposto ricorso avverso il diniego dell’accesso, il Tar, pur non condividendo i motivi esposti dall’Azienda, lo ha respinto con l’argomento che la richiesta appariva preordinata ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, in assenza di uno specifico interesse concreto ed attuale della ricorrente;

– con il presente appello l’interessata deduce l’erroneità della sentenza ed assume che l’interesse della ricorrente sia sufficientemente differenziato, essendo stata uno dei dirigenti dell’Usl tra i quali andrebbe ripartito il fondo unico da dividersi tra tutti (gli altri dirigenti), ed avendo bisogno dei documenti riguardanti le posizioni dei suoi colleghi del tempo, per meglio tutelare i propri interessi;

si è costituita l’USL eccependo la tardività dell’appello, sul presupposto che ai sensi dell’art. 116, co. 1, c.p.a., il termine di impugnazione sia di soli 30 giorni dalla notifica e/o dalla pubblicazione della sentenza di primo grado, e nel merito la sua infondatezza per le stesse ragioni evidenziate dal Tar;

Considerato che:

– l’appello è tempestivo: dal combinato disposto dell’art. 116 co. 1 e dell’art. 87, co. 3 è ragionevole ricavare che nel rito dell’accesso i termini di impugnazione sono di 30 giorni, in caso di notifica, e di 3 mesi in caso di pubblicazione della sentenza di primo grado; al contrario, la tesi di parte appellata finirebbe per applicare sempre e comunque lo stesso termine breve, di 30 giorni, facendo così venir meno qualunque distinzione tra sentenza notificata e sentenza (solamente) pubblicata; d’altra parte, la tesi dell’appellata si basa sul presupposto che nel rito speciale dell’accesso il termine per appellare la sentenza di primo grado si identifichi con quello stabilito per la proposizione del ricorso in primo grado, ma in tutti gli altri tipi di processo davanti al giudice amministrativo il termine per appellare è regolato autonomamente rispetto al termine per ricorrere in primo grado, e perciò, pur se si voglia ammettere che la formulazione letterale dell’art. 116, comma 5, dia adito a qualche dubbio, pare ben più ragionevole risolvere la questione in coerenza con il sistema complessivo;

– l’appello è anche fondato nel merito, sul fondamentale e duplice rilievo che:

(a) l’istanza dell’avv. P. è preordinata a tutela di un interesse puntuale ed attuale (il pagamento della retribuzione di risultato per il 2011) e l’oggetto della domanda di accesso può intendersi circoscritto (almeno in una prima fase) ai criteri e ai metodi applicati dall’Azienda nella determinazione e nell’applicazione di tale voce retributiva, nello stesso periodo temporale, in una vicenda che peraltro ha interessato un numero definito (circa 20) di dirigenti;

(b) la conoscenza dei criteri e dei metodi appare utile alla ricorrente per comprendere le ragioni del diniego opposto dall’amministrazione, sulla richiesta di pagamento; d’altra parte, se l’Aziende intende (a quanto pare) operare una sorta di compensazione fra reciproche pretese creditorie, ciò non toglie che la ricorrente abbia ragione ed interesse a conoscere in dettaglio i relativi conteggi ed i criteri adottati;

(c) l’insegnamento giurisprudenziale, consolidato e condivisibile, è nel senso che in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l’art. 22 della L. n. 241 del 1990 garantisce l’accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego “privatizzato”, anche se le eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del Giudice Ordinario (cfr., per tutti, T.A.R. Campania Napoli, VI Sezione, 3 Febbraio 2011 n. 645);

Ritenuto che:

– per le ragioni sin qui evidenziate l’appello è fondato e va accolto con la conseguenza che, in riforma della sentenza impugnata, va annullato il diniego ed ordinato all’amministrazione di esibire i documenti richiesti, entro 30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, con il limite che l’accesso dovrà riguardare atti già formati dall’amministrazione (nei quali potranno essere oscurati i nominativi dei percettori della retribuzione) e non dati ed informazioni che per essere forniti richiedano una specifica attività di indagine e di elaborazione, circostanza quest’ultima che, dato il tenore dell’istanza di accesso, allo stato il Collegio non è in grado di valutare in riferimento alle singole tipologie di atti relativi alla ricordata istanza del 3.9.2012;

– le spese seguono il principio della soccombenza, nel rapporto processuale con l’Usl, e sono liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado annullando il diniego opposto ed ordinando all’Usl l’esibizione dei documenti richiesti, nel termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza.

Condanna l’Usl al pagamento delle spese processuali in favore dell’appellante, liquidandole in misura pari ad Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 maggio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Lignani, Presidente

Roberto Capuzzi, Consigliere

Hadrian Simonetti, Consigliere, Estensore

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Pierfrancesco Ungari, Consigliere


Cons. Stato Sez. IV, Sent., (ud. 12-02-2013) 19-03-2013, n. 1609

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2234 del 2009, proposto da:

C.F., rappresentata e difesa dagli avv ti Stefano Tosi, Silvio Crapolicchio, con domicilio eletto presso il secondo, in Roma, via Belsiana, 100;

contro

Casa Circondariale di Bologna, Provveditorato Regionale Amm. Penitenziaria Emilia Romagna, Ministero della Giustizia, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA – BOLOGNA: SEZIONE I n. 00108/2008, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzione disciplinare della censura – ris. danni

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Casa Circondariale di Bologna e di Provveditorato Regionale Amm. Penitenziaria Emilia Romagna e di Ministero della Giustizia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 febbraio 2013 il Cons. Andrea Migliozzi e uditi per le parti gli avvocati Stefano Tosi e l’avvocato dello Stato Cristina Gerardis;

Svolgimento del processo
La sig.ra C.F., ispettore capo della polizia penitenziaria , in servizio presso la Casa circondariale di Bologna, proponeva innanzi al Tar dell’Emilia Romagna ben sette ricorsi volti ad ottenere l’annullamento di provvedimenti ritenuti lesivi delle posizioni giuridiche soggettive inerenti lo status da lei ricoperto.

Con riferimento a ciascuno degli atti gravati con le relative impugnative l’interessata chiedeva altresì per ognuno dei suddetti ricorsi la declaratoria del diritto al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’illecita condotta tenuta dal datore di lavoro ( l’Amministrazione penitenziaria), riconducibile a suo dire a fenomeni di mobbing e comunque produttiva di lesioni all’integrità psicofisica ( danno biologico ) e alla qualità della vita ( danno esistenziale ) della stessa ricorrente.

L’adito TAR con sentenza n.108/2008 riuniva i detti sette ricorsi, accoglieva alcune delle impugnative proposte con conseguente annullamento degli atti gravati, mentre rigettava tutte le azioni risarcitorie pure inoltrate con i citati rimedi giurisdizionali; inoltre condannava l’Amministrazione resistente al pagamento in favore della ricorrente delle spese del giudizio nel limite di 1/3, compensandole tra le parti per i restanti 2/3.

La sig. C. ha impugnato in parte qua la suindicata sentenza, contestando le statuizioni negativamente assunte dal primo giudice in ordine alla domanda risarcitoria avanzata in ogni singolo ricorso.

Secondo parte appellante in base ai fatti accaduti e agli atti di contenuto negativo assunti nei suoi confronti scaturisce un giudizio di grave responsabilità datoriale della P.A. di appartenenza.

In particolare, gli atteggiamenti illeciti posti in essere nell’ambiente di lavoro avrebbero dato luogo a fenomeni di mobbing, con conseguente dequalificazione professionale e demansionamento. In ogni caso dai provvedimenti di tipo vessatorio adottati nei suoi confronti si evincono i presupposti per la sussistenza di un pregiudizio suscettibile di risarcimento per danno esistenziale e danno morale.

Parte appellante in sede conclusiva ha chiesto che in parziale riforma della impugnata sentenza, questo giudice di appello :

a) disponga CTU medico legale “al fine di valutare le conseguenze dannose dei fatti lamentati sulla persona della ricorrente”;

b) condanni l’Amministrazione intimata al risarcimento “dei danni tutti , patrimoniali e non patrimoniali”, quantificati nella “complessiva misura di Euro 500.000 o nella somma ritenuta di giustizia”;

c) condanni l’Amministrazione penitenziaria al pagamento delle spese del giudizio di primo grado nella loro integralità.

Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia che ha contestato la fondatezza dei motivi d’appello chiedendone la reiezione.

Parte appellante ha poi prodotto ad ulteriore sostegno delle proprie ragioni apposite memorie difensive.

All’odierna udienza pubblica la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione
L’appello è infondato, con conferma delle statuizioni rese con l’impugnata sentenza.

Occorre preliminarmente , ai fini di una compiuta disamina dei motivi d’impugnazione,

procedere a definire il precipuo petitum avanzato con il gravame all’esame.

Oggetto di contenzioso è la richiesta di accertamento, disattesa dal primo giudice, del diritto al risarcimento dei danni variamente sussumibili sotto le voci di danno biologico, sub specie del pregiudizio psico- fisico, di danno esistenziale e di danno morale che l’appellante assume di aver patito per ragioni appartenenti a due autonomi titoli :

a) in via principale e in gran parte per l’ attività di mobbing posta in essere nei confronti della C. dall’Amministrazione di appartenenza ;

b) per l’avvenuta violazione da parte dell’Amministrazione dei doveri propri del datore di lavoro di osservanza dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa oltrechè di tutela del dipendente.

Tanto debitamente precisato, la pretesa risarcitoria avanzata in riferimento ad entrambi i capi di domanda si rivela palesemente infondata.

Il danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire , quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art.2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro ( cfr Cassazione sezione lavoro 25 maggio 2006 n.1244).

Il concetto di mobbing sia in punto di fatto che in punto di diritto è alquanto indeterminato, ancorchè, quanto ad una ragionevole sua definizione , possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio ( in tal senso, Cass. Sezione Lavoro 26 marzo 2010 n.1307).

Attesa la indeterminatezza della nozione , la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva nei sensi sopra esposti , come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.

Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi ( Cass. Sezione lavoro n.4774/2006; Trib. Roma 7marzo 2008 n.69).

Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro.

Se quelli testè esposti sono rispettivamente i parametri del mobbing e la linea di demarcazione della nozione giuridica di siffatto fenomeno, nella fattispecie è da escludere che nei confronti dell’appellante sia sta posta in essere da parte dell’Amministrazione penitenziaria , quale datrice di lavoro, provvedimenti, atti e/o comportamenti di tipo mobizzante.

Indubbiamente la sig.ra C. è stata destinataria di una serie di provvedimenti che hanno inciso negativamente sulle sue posizioni giuridiche soggettive e alcuni dei quali il Tar ha correttamente censurato come illegittimi, ma tutto ciò non vale a far configurare la sussistenza di una condotta di mobbing suscettibile di una pretesa risarcitoria.

Invero, i provvedimenti recanti sanzioni disciplinari e l’attribuzione di una valutazione in sede di rapporto informativo ingiustificatamente peggiorativa , non rivelano alcun indizio sintomatico del mobbing e cioè l’esistenza di un atteggiamento sistematicamente persecutorio o vessatorio a nulla rilevando che l’interessata abbia avuto un aspecifica ” percezione “che tali vicende manifestino l’ intento dell’Amministrazione di emarginarla ed essendo gli episodi sottesi ai provvedimenti adottati a suo carico unicamente riconducibili al clima di conflittualità esistente tra il personale di custodia all’interno della struttura carceraria.

Ne deriva che alcun fondamento può rivestire la richiesta di risarcimento del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniali sotto le varie forme di danno avanzata dall’interessata : se mobbing non sussiste, parimenti non vi può essere danno ( risarcibile ) da mobbing, sotto nessuna delle voci di danno dedotte in giudizio, per l’assenza materiale e giuridica del titolo cui far scaturire l’invocato ristoro

La sig.ra C. ha pure richiesto il risarcimento di danni in ragione della ritenuta condotta violativa dei doveri del datore di lavoro ravvisata comunque in capo all’Amministrazione( di cui al suindicato punto sub b) , ma neppure in relazione a tale più generale titolo appare configurabile una pretesa risarcitoria.

Invero, non sussistono nel caso di specie gli elementi costitutivi di una responsabilità causativa di danno imputabile in capo alla P:A. sia perché che gli atti e i provvedimenti in contestazione, ancorchè illegittimi non rilevano una condotta colposa sia perché dall’adozione degli stessi non è dato rilevare un nesso causale tra le determinazioni assunte e il danno lamentato e vuoi ancora perché non è dato configurare un danno ingiusto.

E’ allora, sul punto, il caso di dare atto come l’assenza delle suindicate condiciones iuris appare preclusiva di quale che sia richiesta risarcitoria.

Pure infondata si rivela l’impugnativa nella parte in cui contesta la conclusione del Tar in ordine alla parziale compensazione delle spese del giudizio di prime cure: fermo restando che il giudice ai fini della relativa statuizione può legittimamente valutare ogni elemento ( Cons. Stato Sez. IV 28 maggio 2009 n.3349 ) , nella parte del decisum è chiaramente spiegato che la parziale compensazione avviene in ragione della reciproca soccombenza e tale circostanza ben giustifica la resa statuizione.

In forza delle suestese considerazioni,l’appello, in quanto infondato, va respinto .

Sussistono giusti motivi, avuto riguardo alla peculiarità della vicenda all’esame, per compensare tra le parti le spese e competenze del presente grado del giudizio

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo Rigetta.

Spese e competenze del presente giudizio compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 febbraio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Fabio Taormina, Presidente FF

Andrea Migliozzi, Consigliere, Estensore

Umberto Realfonzo, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Giulio Veltri, Consigliere


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 13-07-2012) 18-10-2012, n. 5351

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2438 del 2003, proposto da:

D.C.E., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Di Gioia, con domicilio eletto presso Giovanni Di Gioia in Roma, piazza Mazzini, n. 27;

contro

Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Sportelli dell’Avvocatura Comunale, con domicilio in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II BIS n. 00596/2002, resa tra le parti, concernente concorso interno per conferimento di 29 posti a primo dirigente amministrativo

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 luglio 2012 il Cons. Carlo Schilardi e uditi per le parti gli avvocati Sommovigo, per delega dell’Avvocato Di Gioia, e Graglia, per delega dell’Avvocato Sportelli;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con bando in data 6.3.1995 il Comune di Roma ha indetto, in esecuzione della deliberazione di Giunta comunale n. 463 del 24.2.1995 un concorso interno per titoli di servizio e di cultura integrato da colloquio, ai sensi dell’art. 28, nono comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, per il conferimento di 29 posti di primo dirigente amministrativo.

Al concorso venivano ammessi a partecipare “i dipendenti dell’area amministrativa e contabile – profilo professionale amministrativo – in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza o equipollente ad essa, provenienti dalla ex carriera direttiva dell’Amministrazione che abbiano maturato un’anzianità di nove anni di effettivo servizio nella predetta carriera direttiva”.

La dott.ssa E.D.C., dipendente del Comune di Roma con la settima qualifica funzionale, collocata nell’area socio-sanitaria e in possesso della laurea in sociologia, ha impugnato il bando di concorso e la precedente delibera di G.M., deducendone la illegittimità e chiedendone l’annullamento.

La ricorrente sostiene che il bando, nella parte in cui limita l’ammissione al concorso soltanto ai dipendenti in possesso della laurea in giurisprudenza o equipollente e collocati nell’area amministrativa e contabile, sarebbe illegittimo in quanto in contrasto con la disposizione di cui all’art. 28, nono comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, in attuazione della quale il concorso è stato bandito.

La predetta disposizione non prevede , a suo avviso, ulteriori specificazioni e quindi non consente discriminazioni né in ordine al tipo di laurea posseduta né in relazione all’area di provenienza, dovendosi anche considerare che, ancorché collocata in area professionale diversa da quella amministrativo-contabile, ella svolge comunque mansioni amministrative.

L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio, sostenendo l’infondatezza delle censure proposte dalla ricorrente.

Con sentenza del 6.12.2001 il T.A.R. per il Lazio ha respinto il ricorso.

Avverso la sentenza ha prodotto appello la dott.ssa E.D.C. con i seguenti motivi di censura.

1- La disposizione dell’art. 29, IX comma del D.Lgs. n. 29 del 1993, che permette alle amministrazioni pubbliche di indire concorsi interni per l’accesso alla qualifica dirigenziale, ha carattere transitorio, per permettere alle professionalità interne alle amministrazioni, uno sviluppo di carriera prima di rendere definitiva ed intangibile l’affermazione del principio che si accede alla qualifica dirigenziale solo attraverso pubblico concorso e ciò nel presupposto che la notevole anzianità di servizio richiesta potesse supplire alla mancanza di un titolo specifico e che il generico possesso di un diploma di laurea (e, quindi, di un’istruzione universitaria) fosse il requisito sufficiente ad essere ammesso alle procedure concorsuali.

2- La qualifica dirigenziale negli enti locali, individuata dal D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni, non è articolata per profili professionali e mentre il possesso di un particolare diploma di laurea è necessario per svolgere le funzioni direttive di alcuni profili (quali quello tecnico), per svolgere funzioni direttive in genere di cui la ricorrente è stata incaricata sin dalla data di assunzione non ve ne sarebbe bisogno e del resto la stessa amministrazione avrebbe fatto transitare un numero cospicuo di dirigenti farmacisti (cioè laureati in farmacia) nella qualifica dirigenziale unica affidando loro incarichi amministrativi.

3- L’art. 13 del D.Lgs. n. 29 del 1993 escluderebbe per gli Enti locali l’immediata applicabilità delle disposizioni del capo II del titolo II, prevedendone l’applicazione solo previa modifica dei rispettivi ordinamenti.

L’appello è infondato e va rigettato.

Preliminarmente si osserva che non vi sono motivi per discostarsi da quanto ritenuto dal T.A.R. circa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 28, comma 9, del D.Lgs. n. 29 del 1993, quanto ai requisiti di ammissione al concorso.

Il Comune di Roma ha infatti recepito tale norma, con delibera commissariale n. 983 del 16.7.1993, prendendo atto del disposto dell’art. 13 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e ha inteso così conformarsi, in via complessiva, alla norma generale in materia di concorsi per l’accesso alla dirigenza e quindi della possibilità che siano ammessi alle selezioni solo i dipendenti in possesso di laurea, oltre che della richiesta anzianità di servizio nella ex carriera direttiva della stessa amministrazione.

Tanto premesso, giova evidenziare che la individuazione poi da parte della pubblica amministrazione di specifici tipi di laurea quale requisito di ammissione alla procedura concorsuale per posti dirigenziali non trova limiti nel dettato dell’art. 28 del D.Lgs. n. 29 del 1993.

La norma, nel prevedere la possibilità di partecipazione al concorso pubblico per esami ai soggetti muniti di laurea, non ha inteso affermare la sufficienza di tale titolo di studio, ma ha unicamente individuato la imprescindibile necessità del diploma di laurea per l’accesso alla qualifica dirigenziale, lasciando alla singola amministrazione, in relazione al posto da ricoprire, la concreta individuazione del tipo di laurea ritenuto necessario per la partecipazione al concorso.

Né può ritenersi illegittima la scelta di uno specifico titolo di studio in relazione all’affermato carattere necessario ed imprescindibile delle esperienze maturate e capacità organizzative già dimostrate nelle attività svolte nei profili di appartenenza.

Al riguardo, va in primo luogo evidenziato che la normativa in materia, nel richiedere quale requisito di partecipazione al concorso il possesso sia del titolo di studio che di pregressa esperienza di servizio (elementi minimi entrambi inderogabili e, per l’effetto, non sostituibili l’uno con l’atro), ha inteso attribuire concorrente e pari rilevanza tanto alla qualificazione culturale che alla concreta esperienza professionale del candidato.

Conseguentemente, non risulta illogica o irragionevole la scelta dell’amministrazione la quale, per assicurarsi già in sede di predeterminazione delle regole della procedura concorsuale, la migliore qualificazione possibile in relazione al posto da ricoprire, indirizzi la richiesta di specifici elementi di qualificazione non solo al tipo di servizio già svolto all’interno della pubblica amministrazione, ma al titolo di studio necessario per partecipare al concorso.

Ciò è avvenuto nel caso in esame, laddove, a fronte della “esperienza di servizio … di almeno nove anni … in posizione di lavoro corrispondente, per contenuto, alle funzioni della ex carriera direttiva del personale degli enti locali…”, la specificità della qualificazione in relazione al posto per il quale il concorso è stato indetto (dirigente amministrativo), è stata indirizzata al diploma di laurea da possedere, individuato nel …”diploma di laurea in giurisprudenza o equipollente”.

Da un punto di vista oggettivo non appare affetta da irragionevolezza la scelta riferita in via esclusiva al diploma di laurea in giurisprudenza (o equipollente), considerato che la stessa risulta la più aderente alle problematiche ed alle complesse materie di ordine giuridico amministrativo da trattare da parte dei dirigenti.

La prescrizione in questione è correlata con lo specifico potere dell’organo politico di conferimento degli incarichi dirigenziali all’interno dell’ente, al fine di consentirne il concreto esercizio.

Invero, la previsione dei requisiti di ammissione e, tra questi, del titolo di studio è finalizzata alla instaurazione di un rapporto di lavoro dirigenziale ad alto contenuto tecnico professionale e non può affermarsi l’esistenza di una qualsiasi omogeneità tra la laurea in giurisprudenza e quella in sociologia.

Allorché, come nel caso di specie, il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva – ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa – di un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.8.2009, n. 4994).

Legittimamente quindi l’appellante non è stato ammesso alla partecipazione al concorso per la copertura del posto di dirigente amministrativo essendo in possesso di titolo di studio (laurea in sociologia) diverso da quello richiesto dal bando.

Non privo di rilievo è poi quanto evidenziato nella sentenza appellata che il regolamento generale per il personale del Comune di Roma, vigente all’epoca del concorso, prevedeva la possibilità di accesso alla prima qualifica dirigenziale solo per il candidato “in possesso del titolo di studio richiesto e di una esperienza acquisita in posizione di lavoro corrispondenti, per contenuto, alle funzioni della qualifica funzionale immediatamente inferiore al posto messo a concorso…perché acquisita nella stessa area del posto messo a concorso”.

L’appello è pertanto infondato e va rigettato.

Attesa la complessità interpretativa della materia trattata, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

Carlo Schilardi, Consigliere, Estensore


Cons. Stato, Sez. V, Sent., (data ud. 10/01/2012) 28/05/2012, n. 3119

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 4824 del 2011, proposto da:

CISA S.P.A., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Pietro Quinto e Luigi Mariano, con domicilio eletto presso Placidi Studio in Roma, via Cosseria, n. 2;

contro

COMUNE DI MARTINA FRANCA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Olimpia Cimaglia, con domicilio eletto presso Eugenio Felice Lorusso in Roma, via Cola di Rienzo, n. 271;

B.F., non costituito in giudizio;

COMUNE DI GINOSA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Angela Rita Semeraro, con domicilio eletto presso Giuseppe Pecorilla in Roma, via Flaminia, n. 56;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA – SEZ. STACCATA DI LECCE, Sez. I, n. 825/2011, resa tra le parti, concernente PROVVEDIMENTO COMMISSARIO AD ACTA DI DETERMINAZIONE TARIFFA PER IL CONFERIMENTO DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Martina Franca e del Comune di Ginosa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2012 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Quinto e Lorusso, per delega degli Avvocati Cimaglia e Semeraro;

Svolgimento del processo
1. Con la sentenza n. 825 del 12 maggio 2011 il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Comune di Ginosa per l’annullamento del provvedimento del Commissario ad acta, privo di data, con cui è stata dichiarata legittima l’applicazione analogica a favore di CISA S.p.A. (che gestisce un impianto di discarica per rifiuti solidi urbani di titolarità del Comune di Massafra, in regime di concessione di pubblico servizio, impianto posto a servizio del bacino d’utenza TA/1 in cui ricadono i comuni di Massafra, Castellaneta, Crispiano, Ginosa, Laterza, Martina Franca, Montemesola, Mottola, Palagiano, Palagianello, Statte e Taranto) della clausola revisionale inserita in contratti analoghi, secondo cui l’indice ISTAT di riferimento concordato con la stazione appaltante per la determinazione degli incrementi revisionali è quello dei “Prezzi alla produzione dei prodotti industriali (fornitura di acqua, reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento).

Secondo il Tribunale, infatti, era fondato ed assorbente il primo motivo di censura, essendo nullo il provvedimento impugnato, in quanto privo di sottoscrizione, elemento essenziale dell’atto amministrativo.

2. CISA S.p.A. con atto notificato il 7 giugno 2011 ai Comuni di Ginosa e di Massafra, oltre che al commissario ad acta, ha chiesto la riforma di tale sentenza, sostenendo innanzitutto che non poteva dubitarsi della riferibilità del provvedimento impugnato al commissario ad acta, arch. F.B. (che aveva firmato la nota di trasmissione della documentazione depositata in adempimento dell’ordinanza istruttoria n. 52 del 5 marzo 2010 dei primi giudici), tanto più che il provvedimento commissariale recava su ogni pagina il timbro del predetto professionista e che quest’ultimo aveva anche avanzato istanza di liquidazione del compenso per l’incarico espletato, così che in definitiva la mancanza della firma doveva essere considerata una mera irregolarità, inidonea a determinare l’invalidità o l’inesistenza dell’atto.

L’appellante ha poi confutato la fondatezza delle ulteriori censure sollevate col ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non esaminate dai primi giudici in quanto assorbite, negando che l’atto impugnato potesse essere considerato meramente apparente ovvero nullo per violazione del giudicato formatosi sul precedente atto del commissario ad acta in data 18 agosto 2006, contestando la pretesa erroneità della determinazione della tariffa spettante, anche quanto alla decorrenza degli aggiornamenti tariffari.

Il Comune di Ginosa si è costituito in giudizio, deducendo l’inammissibilità dell’avverso gravame (in quanto erroneamente notificato al Comune di Massafra invece che a quello di Martina Franca, intervenuto nel giudizio di primo grado, e non notificato al Consorzio ATO TA/1, cui invece era stato notificato il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado) e la sua infondatezza.

CISA S.p.A. con memoria in data 15 luglio 2011, oltre ad insistere nei motivi di gravame e nelle conclusioni già rassegnate, ha fatto presente di aver provveduto ad integrare ritualmente, nei termini per la proposizione dell’appello, il contraddittorio nei confronti sia del Comune di Martina Franca che del Consorzio ATO TA/1.

Si è costituito in giudizio anche il Comune di Martina Franca che ha dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza dell’avverso appello.

3. Con ordinanza n. 3175 del 20 luglio 2011 è stata sospesa l’efficacia della sentenza impugnata ed è stata fissata per la discussione l’udienza pubblica del 10 gennaio 2012.

Le parti hanno illustrato con apposite memorie le proprie rispettive tesi difensive.

4. Alla pubblica udienza del 10 gennaio 2012, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
5. Deve preliminarmente respingersi l’eccezione, sollevata dall’appellato Comune di Ginosa, di inammissibilità dell’appello per l’omessa notifica al Comune di Martina Franca, parte del giudizio di primo grado.

Come emerge dagli atti di causa, l’appello è stato infatti notificato, nei rituali termini per la proposizione dell’appello, al Comune di Martina Franca, il quale si è regolarmente costituito in giudizio, svolgendo le proprie difese (sollevando riserve solo sul mancato rispetto dei termini a difesa per la delibazione istanza cautelare, irrilevanti per la decisione di merito).

6. Non può dubitarsi dell’ammissibilità dell’impugnazione del provvedimento del giudice di primo grado che, come nel caso di specie, ha ritenuto nullo l’atto del commissario ad acta, ciò indipendentemente dal nomen juris attribuito al mezzo utilizzato per contestare l’atto commissariale (indicato come ricorso per l’annullamento dell’atto piuttosto che ricorso per incidente di esecuzione, nulla mutando quanto ai poteri del giudice dell’esecuzione ed alla natura decisoria del provvedimento impugnato.

7. Ciò premesso, ad avviso della Sezione l’appello è fondato.

7.1. Sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisce lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che la giurisprudenza ha recentemente (e condivisibilmente) osservato, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la “non leggibilità” della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano), che permettono di individuare la sua sicura provenienza (C.d.S., sez. IV, 7 luglio 200, n. 4356; sez. VI, 29 luglio 2009, n. 4712); è stato anche rilevato (Cass. sez. lav., 10 giugno 2009, n. 13375) che l’atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall’amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo.

7.2. Sulla scorta di tali principi non può dubitarsi della sicura attribuibilità, psichica e giuridica, al commissario ad acta, arch. F.B. (nominato dallo stesso Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, per dare esecuzione alla sentenza n. 3184 del 18 dicembre 2009) dell’atto che ha riconosciuto l’adeguamento ISTAT delle tariffe per il conferimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilati presso l’impianto pubblico di selezione, biostabilizzazione e produzione c.d.r. gestito dalla CISA S.p.A., dovendo pertanto considerarsi mera irregolarità la mancata apposizione della firma.

Del resto non può sottacersi che tale atto risulta essere stato inviato alla stessa segreteria del giudice che aveva nominato il commissario ad acta a comprova dell’avvenuto espletamento dell’incarico con apposita nota di trasmissione, datata 17 giugno 2010, recante in alto a destra l’intestazione “Arch. F.B.”, seguito dal suo domicilio, con firma autografa (non contestata), recante anche l’indicazione della qualità di “commissario ad acta”.

Né d’altra parte, al di là della mera contestazione formale della mancanza di firma, sono stati evidenziati ulteriori elementi di fatto idonei a far dubitare della riferibilità dell’atto al commissario ad acta; né quest’ultimo, evocato sia nel giudizio di primo grado che nel presente grado di appello, lo ha giammai disconosciuto; anzi, come si ricava dalla documentazione versata in atti, ha addirittura richiesto in data 30 novembre 2010 al citato Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, terza sezione, la liquidazione del compenso per l’attività svolta, ottenendola effettivamente, giusta decreto n. 183 del 26 febbraio 2011.

7.4. Per completezza sul punto è da rilevare che sono del tutto pretestuose ed infondate le ulteriori deduzioni di inesistenza e/o nullità dell’atto in questione per l’asserita mancanza di data e per l’impossibilità di verificare l’effettiva sussistenza dei poteri di commissario ad acta nella persona dell’arch. F.B..

Quanto al primo profilo è sufficiente rilevare che la data certa dell’atto, intesa come imprescindibile elemento di collocazione temporale dell’attività svolta, pur in mancanza di una sua puntuale indicazione, non può che coincidere, quanto meno, con quella indicata nella nota di trasmissione dell’atto stesso alla segreteria del giudice che aveva conferito l’incarico.

Quanto al secondo profilo, anche a voler prescindere dalla pur decisiva circostanza che lo stesso giudice ha liquidato al predetto funzionario il compenso per l’attività prestata, il che esclude qualsiasi dubbio sull’effettività dei sui poteri, dalla documentazione versata in atti risulta che con l’ordinanza istruttoria n. 52 del 5 marzo 2010 era stato nominato commissario ad acta il Presidente dell’Autorità di Bacino Le/1 che, con nota prot. n. 241 del 23 marzo 2010, aveva designato il più volte ricordato arch. F.B..

7.5. La delineata fondatezza delle censure d’appello, cui consegue l’annullamento della sentenza impugnata, impone alla Sezione l’esame dei motivi di doglianza spiegati in primo grado dal Comune di Ginosa, espressamente riproposti con la memoria di costituzione nel presente grado di giudizio, tutti attinenti alla correttezza intrinseca del provvedimento commissariale di adeguamento ISTAT della tariffa per il conferimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilati presso l’impianto pubblico di selezione, biostabilizzazione e produzione c.d.r. gestito da CISA S.p.A.

7.6. Al riguardo la Sezione osserva quanto segue.

7.6.1. Giova premettere in punto di fatto che la controversia in esame trae origine dalla decisione n. 1757 del 16 aprile 2008 della Quinta Sezione del Consiglio di Stato che, riunendo i ricorsi proposti dal Comune di Vinosa e da CISA S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, n. 1990/2007, avente ad oggetto la determinazione della tariffa per la raccolta dello smaltimento dei rifiuti, respingeva l’appello dell’amministrazione comunale ed accoglieva l’appello della società, sostanzialmente confermando, per quanto qui interessa, la correttezza del provvedimento commissariale (ad acta) in data 18 agosto 2006, che aveva ritenuto congrua la tariffa determinata nella misura di Euro. 76,16 per ogni tonnellata di RSU conferita presso l’impianto pubblico di “selezione, biostabilizzazione e produzione di CDR” gestito dalla soc. CISA S.p.A., precisando che tale tariffa: a) era riferita all’ipotesi di conferimento esclusivo da parte dei Comuni dell’ATO TA/1; b) era da intendersi al netto della incidenza stabilita per l’utilizzo energetico del CDR prodotto nell’impianto; c) avrebbe dovuto essere aggiornata al termine del periodo di ammortamento dei “macchinari ed attrezzature specifiche” previsto pari ad 8 anni.

CISA S.p.A. ha rivendicato l’adeguamento ISTAT della predetta tariffa e successivamente, essendo rimasta inerte l’amministrazione, ha ottenuto dall’adito Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, sez. III, con la sentenza n. 3184 del 18 dicembre 2009 la declaratoria dell’obbligo di provvedere sulla predetta istanza di adeguamento, tanto più che lo stesso decreto n. 296/2002 del Commissario delegato per l’emergenza ambientale in Puglia, dopo aver determinato e calcolato la tariffa di smaltimento dei rifiuti, all’art. 8 aveva stabilito che “la tariffa come sopra calcolata deve intendersi valida per un anno a partire dall’entrata in esercizio dell’impianto con successiva indicizzazione annua nella misura dell’indice ufficiale ISTAT”.

Per l’esecuzione di tale sentenza, come già ricordato, è stato nominato commissario ad acta il Presidente dell’Autorità di Bacino Le/1, che ha delegato tale funzione all’arch. F.B..

7.6.2. Ciò precisato in punto di fatto, la Sezione è dell’avviso i motivi di doglianza spiegati dal Comune di Ginosa non siano meritevoli di favorevole considerazione.

7.6.2.1. In ordine relazione alla dedotta inammissibilità della richiesta di adeguamento della tariffa ISTAT, accolta dal commissario ad acta (eccezione fondata sulla circostanza che l’atto del commissario del 18 febbraio 2006 aveva stabilito che la tariffa doveva essere aggiornata solo dopo otto anni dalla data di avvio dell’impianto, avvenuto nel 2004 e quindi non prima del 2012), è sufficiente osservare che, come sottolineato convincentemente dall’appellante, la previsione contenuta nel provvedimento commissariale correla l’aggiornamento tariffario all’ammortamento degli investimenti (stimato in otto anni), ma non esclude l’adeguamento tariffario secondo gli indici ISTAT, peraltro previsto dallo stesso art. 8 del decreto del Commissario delegato per l’emergenza ambientale in Puglia n. 296/2002.

In realtà l’aggiornamento tariffario previsto dopo otto anni consiste nella determinazione di una nuova tariffa (che tenga conto cioè del nuovo ammontare delle voci che l’hanno determinata ovvero della considerazione di eventuali nuove voci), tra l’altro proprio per l’effetto dell’ormai avvenuto ammortamento degli investimenti e non può quindi ragionevolmente precludere l’adeguamento tariffario annuale secondo gli indici ISTAT.

7.6.2.2. Anche in ordine alle voci su cui calcolare l’adeguamento annuale ISTAT possono condividersi le prospettazioni di CISA S.p.A., la quale ha affermato, senza peraltro che sul punto siano state svolte adeguate controdeduzioni da parte degli enti appellanti, che il costo della c.d. ecotassa non è soggetto a detto adeguamento ed è stato già scorporato ai fini del calcolo dell’adeguamento.

7.6.2.3. Non vi è poi alcun fondato motivo per discostarsi dalla ragionevole decisione del commissario ad acta che, ai fini dell’adeguamento tariffario in questione, ha ritenuto applicabile l’indice ISTAT di riferimento relativo ai “Prezzi alla produzione dei prodotti industriali (fornitura di acqua, reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento)”, precisando che ciò costituisce un “riferimento idoneo e coerente con la specificità della gestione legata ad un impianto di produzione di un CDR”.

Al riguardo è appena il caso di rilevare che la pretesa della controparte di applicare gli indici ISTAT relativi al consumo delle famiglie risulta privo di fondamento, oltre che irragionevole ed illogico, a nulla rilevando che l’adeguamento della tariffa, comportando un aumento dell’imposta per la rimozione dei rifiuti, si scaricherà sui cittadini, trattandosi evidentemente di un effetto indiretto ed in ogni caso comune a tutte le dinamiche conseguenti alle modifiche di tariffe dei servizi pubblici.

8. In conclusione l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado dal Comune di Vinosa.

La peculiarità delle questioni trattate giustifica la integrale compensazione tra le parti del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposta da CISA S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, n. 825 del 12 maggio 2011, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della impugnata sentenza, respinge il ricorso proposto in primo grado dal Comune di Ginosa.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Trovato, Presidente

Francesco Caringella, Consigliere

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Manfredo Atzeni, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere