Cons. Stato, Sez. II, Sent., (data ud. 20/06/2023) 22/08/2023, n. 7917

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5432 del 2021, proposto dal Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandro Lipani, con domicilio digitale presso il medesimo in assenza di elezione di domicilio fisico in Roma;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione Sesta, del -OMISSIS-, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del sig. -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista l’istanza di passaggio in decisione senza discussione orale prodotta dai difensori delle parti.

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 giugno 2023 il cons. Francesco Guarracino, nessuno comparso per le parti;

Svolgimento del processo
Il Ministero della difesa ha proposto appello avverso il capo della sentenza in epigrafe con cui il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, in parziale accoglimento del ricorso proposto dal sig. -OMISSIS-, luogotenente dell’Arma dei Carabinieri, avverso il diniego di rimborso delle spese di patrocinio legale sopportate per un procedimento penale per fatti connessi all’esercizio delle proprie funzioni conclusosi con la sua assoluzione, ha provveduto alla quantificazione delle somme dovute a tale titolo, in via “complessiva ed equitativa”, nella misura complessiva di € 20.000,00.

Il sig. M. si è costituito in giudizio per resistere all’appello e ha prodotto scritti difensivi.

La domanda cautelare proposta in via incidentale con l’appello è stata respinta con ordinanza della Sezione del 22 luglio 2021, n. -OMISSIS-.

L’appellato ha depositato una memoria in vista della discussione.

Alla pubblica udienza del 20 giugno 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
Sostiene l’appellante che il T.A.R., annullato il diniego di rimborso delle spese di patrocinio legale, non avrebbe potuto stabilirne il quantum, dovendo rimetterne la determinazione all’Amministrazione, previa valutazione di congruità della competente Avvocatura erariale, in ragione del carattere obbligatorio e vincolante del parere di congruità previsto dall’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con L. n. 135 del 1997.

In senso contrario l’appellato deduce che si verterebbe di un rapporto paritetico in cui il dipendente pubblico vanta, alla ricorrenza dei presupposti di legge, un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, scevro da apprezzamenti di natura discrezionale e rispetto al quale il parere rimesso all’Avvocatura dello Stato sarebbe una mera manifestazione di scienza o di giudizio.

L’appello è fondato.

Stabilisce l’art. 18 cit. che “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.

Illustrando il contenuto e la ratio della disciplina in materia di rimborso delle spese di patrocinio legale di cui alla suddetta disposizione alla luce della pregressa giurisprudenza amministrativa e civile, questo Consiglio di Stato (sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137) ha già chiarito che:

“Per i casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, rilevano i principi generali per i quali, in presenza di un potere valutativo dell’Amministrazione, la posizione del dipendente va qualificata come interesse legittimo (pur se è stata talvolta definita come di ‘diritto condizionato’ all’accertamento dei relativi presupposti: Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2017, n. 6194; Sez. VI, 21 gennaio 2011, n. 1713).

L’art. 18 sopra riportato attribuisce un peculiare potere valutativo all’Amministrazione con riferimento all’an ed al quantum, poiché essa deve verificare se sussistano in concreto i presupposti per disporre il rimborso delle spese di giudizio sostenute dal dipendente, nonché – quando sussistano tali presupposti – se siano congrue le spese di cui sia chiesto il rimborso – con l’ausilio della Avvocatura dello Stato, il cui parere di congruità ha natura obbligatoria e vincolante (Cons. Stato, Sez. II, 31 maggio 2017, n. 1266; Sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3593).

Di per sé il parere – per la sua natura tecnico-discrezionale – non deve attenersi all’importo preteso dal difensore (Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2011, n. 2054/2012), o a quello liquidato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati per quanto rileva nei rapporti tra il difensore e l’assistito (Cons. Stato, Sez. II, 31 maggio 2017, n. 1266; Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4942), ma deve valutare quali siano state le effettive necessità difensive (Cass. Sez. Un., 6 luglio 2015, n. 13861; Cons. Stato, Sez. IV, 7 ottobre 2019, n. 6736; Sez. II, 31 maggio 2017, n. 1266; Sez. II, 20 ottobre 2011, n. 2054/12) ed è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per errore di fatto, illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per violazione delle norme di settore (Cons. Stato, Sez. II, 30 giugno 2015, n. 7722)”.

La giurisprudenza invocata nelle difese dell’appellato (Cass., SS.UU. ord., 17 febbraio 2020, n. 3887) riguarda i funzionari onorari e si riferisce alla disciplina contenuta nell’art. 86 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che non prevede il parere di congruità.

Pertanto il T.A.R., dopo aver annullato il provvedimento di diniego e accertato l’an debeatur (con pronuncia che in parte qua non costituisce oggetto d’appello), si sarebbe dovuto limitare a rimetterne la quantificazione all’Amministrazione perché vi procedesse con l’ausilio dell’Avvocatura dello Stato.

Pertanto l’appello dev’essere accolto e la sentenza di primo grado riformata nella parte in cui ha stabilito il quantum debeatur nell’importo complessivo di € 20.000,00 invece di rimettere la sua quantificazione agli ulteriori atti dell’Amministrazione.

Si ravvisano nella peculiarità della vicenda i presupposti per la compensazione delle spese del presente grado del giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, riforma la sentenza appellata nella parte in cui ha provveduto alla quantificazione delle somme dovute.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2023 con l’intervento dei magistrati:

Giovanni Sabbato, Presidente FF

Antonella Manzione, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere, Estensore

Maria Stella Boscarino, Consigliere

Francesco Cocomile, Consigliere


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 04/05/2023) 06/06/2023, n. 5534

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4532 del 2022, proposto da Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Corrado Diaco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via dei Mille, n. 40;

contro

Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti

E.B.O., rappresentato e difeso dall’avvocato Dario Scognamillo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. 1697/2022.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico e di O.E.B.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 maggio 2023 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati Corrado Diaco e Dario Scognamillo;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 30 gennaio 2020 e depositato il 6 febbraio 2020, proposto in riassunzione ex art. 15 c.p.a. a seguito di ordinanza declinatoria della competenza per territorio n. 449/2020 del 15 gennaio 2020 resa dal T.A.R. per il Lazio – sede di Roma, P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno impugnato dinanzi al T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, domandandone l’annullamento, il D.Dirett. n. 127 del 28 agosto 2019 con cui il Ministero per lo sviluppo economico ha disposto lo scioglimento della prefata cooperativa ex art. 2545-septiesdecies c.c. sulla base di una ravvisata discontinuità aziendale.

1.1 A sostegno del ricorso di primo grado sono state dedotte le censure così rubricate:

1) violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990;

2) violazione dell’art. 3 comma 1 della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 – carenza e genericità della motivazione, violazione dell’art. 3, comma 3 della L. n. 241 del 1990, con riferimento all’art. 12 del D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 ed all’art. 2545 c.c. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato; difetto di motivazione;

3) Violazione di Legge – Eccesso di Potere – Difetto di istruttoria;

4) Violazione dei Principi di Corretta Amministrazione – Sproporzione.

2. Ad esito del relativo giudizio, con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. per la Campania – sede di Napoli ha respinto il ricorso.

3. Con ricorso notificato il 24 maggio 2022 e depositato l’1 giugno 2022 P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno proposto appello avverso la suddetta sentenza chiedendone la riforma previa sospensione dell’efficacia.

3.1 A sostegno dell’impugnazione ha dedotto i motivi così rubricati:

1) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono legittimo lo scioglimentoviolazione e falsa applicazione dell’art. 2545 cod. civ.;

2) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono la rituale notifica- violazione dell’art. 24 Costituzione- Violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990- nullità dell’atto;

3) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono adempiuto l’obbligo di motivazione- Violazione dell’art. 3, comma 1 e 3, della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 -ed all’art. 2545 cod. civ. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato.

4. In data 7 giugno 2022 si è costituito in giudizio, a mezzo dell’Avvocatura erariale, il Ministero dello sviluppo economico.

5. Il 23 giugno 2022 l’Avvocatura dello Stato ha depositato, nell’interesse del predetto Ministero, memorie difensive.

5.1 Il 27 giugno 2022 anche parte appellante ha depositato memorie difensive.

6. Il 24 giugno 2022 si è costituito in giudizio E.B.O., nella qualità di commissario liquidatore della cooperativa appellante in virtù di decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 20 maggio 2020 pubblicato in G. U. n. 153 del 18 giugno 2020.

7. Ad esito dell’udienza in Camera di consiglio del 30 giugno 2022 questa Sezione, con ordinanza cautelare n. 3032 dell’1 luglio 2022 ha respinto l’istanza cautelare proposta ex art. 98 c.p.a. da parte appellante osservando che “i motivi di appello, ad un giudizio sommario proprio della presente fase cautelate, non appaiono idonei a superare la statuizione di primo grado”.

8. Il 22 marzo 2023 società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del commissario liquidatore nominato, ha depositato memorie difensive insistendo per l’accoglimento dell’appello.

9. Il 27 marzo 2023 anche il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) ha depositato memorie difensive chiedendo la reiezione del gravame.

10. Il 30 marzo 2023 E.B.O. ha depositato memorie difensive chiedendo, in via preliminare, ai sensi dell’art. 89, comma II, c.p.c., di “disporre con ordinanza la cancellazione dell’espressione contenuta a pagina 2 dell’avversa memoria dell’appellante del 22/3/2023” ove si legge che “alla complessità della vicenda fin ora già descritta si sono aggiunte altre problematiche derivanti dalla circostanza che, in parallelo al giudizio, il commissario liquidatore ha continuato la propria attività operando ambiguamente. Dopo molteplici istanze dell’odierno appellante, è intervenuta l’Autorità di Vigilanza del Ministero delle Imprese e del Made in Italy che, in data 3.3.2023, ha sospeso il provvedimento prot.n. (…) del 8.11.2022 inerente la vendita senza incanto degli immobili sociali della Cooperativa prevista per il 4.3.2023 e di tutti gli atti compiuti dal liquidatore”. Per l’effetto ha chiesto, quindi, di “assegnare nella emananda sentenza al Dott. E.O.B. una somma a titolo di risarcimento del danno da liquidarsi anche in via equitativa”.

Nel merito ha, invece, chiesto la reiezione dell’appello perché manifestamente infondato.

11. All’udienza pubblica del 4 maggio 2023 la causa è stata introitata per la decisione.

Motivi della decisione
1. L’appello è infondato e deve essere respinto.

2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure ha ritenuto che il solo mancato deposito dei bilanci sia un indice sintomatico di discontinuità aziendale tale da rendere legittimo lo scioglimento ex art. 2545-septiesdecies c.c.. Più segnatamente, la sentenza meriterebbe riforma nella parte in cui, omettendo qualsiasi valutazione in ordine alla fattispecie concreta che viene in rilievo, ha affermato che “il potere di scioglimento della società a seguito del mancato deposito dei bilanci di esercizio per due anni consecutivi è espressamente contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. Con tale disposizione il legislatore ha ritenuto che il mancato deposito del bilancio societario per due anni consecutivi costituisca circostanza rilevante di per sé ai fini dello scioglimento della compagine societaria, a prescindere da ogni valutazione discrezionale circa la tenuità di tale omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata”.

Parte appellante osserva, in proposito, che, nonostante la vita societaria fosse diventata per diverse vicissitudini quasi impossibile, l’attività sarebbe tuttavia sempre regolarmente proseguita. Tanto sarebbe comprovato dalla documentazione societaria versata in atti e, in particolare, dai verbali delle assemblee ed i brogliacci contabili, risultando dalla suddetta documentazione peraltro adempiuti tutti gli obblighi della Cooperativa sia sotto il profilo di approvazione dei bilanci che sotto il profilo della tassazione.

Si sostiene, poi, alla luce della ratio della normativa in materia, che il mancato deposito dei bilanci non potrebbe giustificare ex se lo scioglimento della cooperativa atteso che, con quest’ultimo, il legislatore vorrebbe sanzionare non la trasmissione o meno dei bilanci aziendali alla Camera di Commercio bensì l’inattività dell’azienda. Più nel dettaglio, il Ministero dello sviluppo economico sarebbe, quindi, incorso in un error in iudicando nel fare applicazione dell’art. 2545-septiesdecies c.c., non potendosi ritenere P.A., presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., responsabile della mancata trasmissione dei bilanci aziendali (compito che era stato delegato in via esclusiva ad un professionista esterno, nei cui confronti la cooperativa ha pure intrapreso un giudizio civile per assistenza infedele). Per contro, ad escludere che la società cooperativa de qua sia rimasta effettivamente inattiva militerebbe la circostanza che questa ha provveduto, seppur tardivamente, alla presentazione dei bilanci dagli anni 2013 al 2019 (deliberati ed approvati negli anni di riferimento) e che in tale frangente abbia provveduto con regolarità al pagamento dei fornitori, dei tributi e delle utenze aziendali.

2.1 La censura è priva di giuridico pregio dovendosi condividere in toto le considerazioni svolte sul punto dal giudice di prime cure.

L’art. 2545-septiesdecies c.c. stabilisce, infatti, che “L’autorità di vigilanza, con provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale e da iscriversi nel registro delle imprese, può sciogliere le società cooperative e gli enti mutualistici che non perseguono lo scopo mutualistico o non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono stati costituiti o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio di esercizio o non hanno compiuto atti di gestione”.

È, quindi, di tutta evidenza, sulla scorta dell’inequivoco tenore letterale della disposizione in parola, che l’omesso tempestivo deposito del bilancio di esercizio è stato elevato dal legislatore ad autonoma fattispecie idonea ex se a fondare, anche in alternativa rispetto alla distinta ipotesi del mancato compimento di atti di gestione, lo scioglimento governativo di una cooperativa.

Deve aggiungersi che, nel caso di specie, il verificarsi della fattispecie dell’omesso tempestivo deposito dei bilanci è contestato e pacifico tra le parti né alcun rilievo esimente può essere attribuito alle presunte responsabilità del dott. P., essendo quest’ultimo un incaricato esterno, in quanto espressione di una scelta gestoria della stessa cooperativa (che resta responsabile, anche sul piano meramente omissivo ed a titolo oggettivo dell’operato del proprio ausiliario nei rapporti con l’amministrazione pubblica).

3. Con il secondo motivo di appello si lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato ritenuto che la notifica della comunicazione di avvio dell’istruttoria del procedimento culminato con l’emanazione del decreto di scioglimento impugnato in primo grado sia rituale nonostante l’amministrazione avesse ricevuto l’avviso di mancata consegna. Il T.A.R. per la Campania -sede di Napoli avrebbe errato nell’affermare che “Da tale quadro normativo, che si pone come applicazione della più generale regola della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., discende che se non ricorre “causa non imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC”.

Sotto un primo profilo parte appellante deduce che la causa della mancata consegna della PEC non sarebbe stata imputabile alla Cooperativa intesa quale persona giuridica. In proposito si rappresenta che, a seguito di plurime richieste al servizio clienti di Aruba si sarebbe venuti a conoscenza che la PEC in questione risultava attiva dal 22 ottobre 2012 al 21 gennaio 2014 poi riattivata il 24 luglio 2018 e rinnovata il 31 maggio 2019 fino alla cancellazione il 24 ottobre 2020, con la conseguenza che la casella di posta elettronica, al momento di notifica dell’avvio del procedimento avvenuta il 7 maggio 2018 non era attiva, per un lasso temporale limitato, per causa non imputabile alla Cooperativa bensì ad un terzo soggetto (id est il professionista incaricato).

Si segnala che, secondo una parte della giurisprudenza, nel caso di mancata consegna per casella piena, la notifica sarebbe irrituale imponendosi un secondo tentativo cartaceo (in tal senso si invocano le pronunce della Cassazione civile n. 3164 del 2020 e n. 7029 del 2018). Si sostiene, pertanto, che il M.I.S.E. avrebbe dovuto procedere all’invio cartaceo del provvedimento versandosi, peraltro, nell’ipotesi in esame, fuori dal caso di casella piena (ma tout court inattiva).

Si aggiunge, poi, che, nel caso di specie, in data 20 settembre 2016 l’amministrazione aveva già notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria (da cui poi è originata la procedura di scioglimento) e che, pur consapevole che la PEC di avvio del procedimento de quo non era stata consegnata alla Cooperativa, ha successivamente scelto di non procedere all’invio anche di quest’ultima a mezzo di della raccomandata A/R.

Sotto altro connesso profilo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata anche nella parte in cui essa ha ritenuto irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 (nella parte in cui non prevede espressamente che si applichino i medesimi principi di cui all’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973) per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. sollevata in seno al ricorso di primo grado, affermando che “sebbene siano pregevoli le osservazioni di parte ricorrente circa l’opportunità di un intervento legislativo che disciplini espressamente tale ipotesi, la q.l.c prospettata non può essere accolta perché priva di rilevanza ai fini della definizione del presente giudizio”. Secondo gli appellanti la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante e fondata in quanto la disparità di trattamento sarebbe evidente ove si consideri che:

– l’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, stabilisce che “Se la casella di posta elettronica risulta satura, l’ufficio effettua un secondo tentativo di consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Se anche a seguito di tale tentativo la casella di posta elettronica risulta satura oppure se l’indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido o attivo, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società I. Scpa e pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici giorni; l’ufficio inoltre dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori adempimenti a proprio carico. Ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione temporale che certifica l’avvenuta spedizione del messaggio”;

– in materia giudiziaria opera, invece, una disciplina specifica che consente al destinatario di prendere conoscenza della tentata notifica e che stabilisce, nel caso in cui la trasmissione via PEC non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario, trovi applicazione l’art. 16, comma 6, del D.L. n. 179 del 2012 (secondo cui le notifiche e le comunicazioni “sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”).

Ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie analoghe, dalla quale deriverebbe la necessità di estendere la soluzione di cui all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 anche alle altre comunicazioni – notifiche telematiche, ivi comprese quelle effettuate dalla P.A..

3.1 Le suddette doglianze non meritano positivo apprezzamento.

Anzitutto, è opportuno ribadire quanto già osservato al precedente punto 2.1 e, in particolare, che la cooperativa risponde direttamente e sul piano oggettivo, nei rapporti con la P.A., della condotta colposa del proprio incaricato come ausiliario.

Dal punto di vista giuridico, infatti, l’obbligo di tempestivo deposito dei bilanci grava a carico della cooperativa medesima in persona del legale rappresentante pro tempore sicché quello con l’eventuale professionista incaricato resta un rapporto a rilevanza meramente interna che non sottrae l’ente dalle conseguenze giuridiche di eventuali ritardi o omissioni (come, peraltro, ricavabile dalla disciplina generale delle obbligazioni e, segnatamente, dal disposto dell’art. 1228 c.c.).

3.2 Quanto al secondo profilo di doglianza è appena il caso di ribadire che, la PEC costituisce ormai mezzo ordinario (nonché esclusivo) per le comunicazioni tra P.A. e imprese (artt. 5-bis e 48 del Codice dell’amministrazione digitale – D.Lgs. n. 82 del 2005).

Il D.P.C.M. 22 luglio 2011, contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione proprio del menzionato art. 5-bis, comma 2, C.A.D., prevede, peraltro, al suo art. 3, che, a decorrere dal 1 luglio 2013, “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1) e che “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, C.A.D. (comma 2).

Ne discende che, nel caso di specie, il Ministero appellato ha fatto legittimamente ricorso, nell’inoltrare l’avviso ex art. 7 della L. n. 241 del 1990, all’unico strumento di comunicazione a sua disposizione (la PEC), essendo del tutto irrilevante che la stessa amministrazione abbia in precedenza notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria.

3.3 Né assume rilievo che la PEC dichiarata dalla società cooperativa appellante fosse temporaneamente fuori servizio.

Sulla base del combinato disposto degli artt. 5, comma 1, D.L. n. 179 del 2012 (convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 2012) e 16, comma 6, del D.L. n. 185 del 2008 e ss.mm., ogni impresa individuale o collettiva ha, infatti, l’obbligo di essere titolare di PEC ed ha, di riflesso, l’onere di mantenere la stessa in condizioni di efficienza, adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad esempio con lo spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione ovvero, per quanto qui più di interesse, col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio).

Nello stesso solco l’art. 45, comma 2, C.A.D. in tema di “Trasmissione informatica dei documenti” stabilisce che “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.

Nel vigente quadro normativo v’è, pertanto, da un lato, l’obbligo (rectius onere) giuridico dell’impresa di rendersi reperibile presso un indirizzo PEC e, dall’altro, l’obbligo della P.A. di impiegare quale unico strumento di comunicazione nei rapporti con le imprese, proprio la posta elettronica certificata.

Ne discende che, nel silenzio della legge, in caso di mancato assolvimento da parte dell’impresa dell’obbligo di munirsi di un indirizzo PEC attivo e funzionante, si determinerebbe un’insuperabile stasi procedimentale con lesione del valore costituzionale del buon andamento ex art. 97 Cost.. Tanto consentirebbe, peraltro, all’impresa di sottrarsi agevolmente all’adozione di provvedimenti limitativi della propria sfera giuridica, traendo un ingiusto vantaggio dall’inadempimento dell’obbligazione legale posta a suo carico.

Per scongiurare una simile aporia ordinamentale pare, pertanto, condivisibile la soluzione già seguita dalla giurisprudenza amministrativa (così T.A.R. per il Lazio, Roma, Sez. III-ter sentenza n. 11614 del 2016) secondo cui è applicabile, in via analogica, quale espressione del principio generale di cui all’art. 1335 c.c., anche alle comunicazioni tra P.A. e imprese, l’art. 16 del già citato D.L. n. 179 del 2012 il quale stabilisce, con riguardo al processo telematico, al comma 6, che “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti … per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario” ed, al successivo comma 8, che solo “Quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l’articolo 136, terzo comma, e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile”.

Ne discende che nell’ipotesi, come quella che occupa, di negligente gestione della casella PEC da parte del titolare, opera una presunzione legale iuris tantum di ricezione del messaggio di posta elettronica vincibile solo a mezzo della dimostrazione, a cura del destinatario medesimo, di una “causa non imputabile” allo stesso.

È, peraltro, evidente, in questa prospettiva, da un lato, che il rinnovo della casella PEC è adempimento assolutamente non gravoso e che può essere posto in essere anche senza l’assistenza di un professionista e che, dall’altro, la condotta del terzo delegato non può integrare la causa non imputabile al destinatario necessaria a superare la presunzione in parola, valendo le considerazioni già svolte supra al punto 3.1 in ordine alla responsabilità diretta dell’obbligato per fatto dell’ausiliario.

3.4 In disparte dalle considerazioni appena svolte in ordine all’intervenuto perfezionamento, nel caso di specie, della comunicazione a mezzo PEC, preme per completezza rilevare che l’eventuale violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 241 del 1990 non avrebbe comunque potuto determinare l’annullamento del provvedimento impugnato dovendo trovare applicazione il meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 essendo palese che il contenuto dispositivo dello stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Il potere amministrativo contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. ha, infatti, natura tout court vincolata sicché l’amministrazione ha il potere-dovere di disporre lo scioglimento della società cooperativa al semplice riscontro della ricorrenza di una delle fattispecie alternative contemplate dalla medesima disposizione. Ciò in quanto deve ritenersi che il legislatore, proprio attraverso detta articolata tipizzazione delle fattispecie di scioglimento coattivo-provvedimentale della cooperativa abbia operato ex ante un bilanciamento tra l’esigenza di assicurare il corretto e regolare funzionamento della società (anche in ragione della particolare meritevolezza dell’interesse mutualistico che connota questo specifico tipo societario) e quello alla prosecuzione della vita della compagine sociale. Sicché, come condivisibilmente affermato nella decisione di primo grado qui impugnata, deve ritenersi preclusa all’amministrazione ogni valutazione discrezionale circa la tenuità dell’omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata ed all’incidenza che la stessa ha avuto sul funzionamento della cooperativa.

3.5 L’operatività del meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 importa, peraltro, l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale pure prospettata in appello con riguardo all’ art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 in quanto, anche ove la pregiudiziale di costituzionalità fosse ritenuta fondata dalla Consulta, parte appellante non sarebbe comunque in condizione di ottenere l’annullamento dell’atto lesivo e, quindi, di ottenere una qualche utilità dall’accoglimento del ricorso di primo grado (non avendo, peraltro, neppure mai manifestato l’intenzione di chiedere de residuo una tutela di tipo risarcitorio).

4. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha statuito che “La natura vincolata del provvedimento gravato, a fronte del chiaro manifestarsi dei presupposti di legge per disporre lo scioglimento della società, mostra l’infondatezza anche delle censure di parte ricorrente circa la mancata osservanza dell’obbligo di motivazione. Ed infatti, il decreto impugnato assolve in pieno tale onere, mediante l’espressa indicazione del comportamento tenuto dalla società e delle norme violate consentendo così la ricostruzione dell’iter logico e giuridico seguito dall’intimato Ministero”. Parte appellante osserva che l’unica motivazione addotta dalla P.A. sarebbe costituita dall’omesso deposito dei bilanci per il biennio e che il soggetto interessato sarebbe stato, in ogni caso, privato della facoltà/diritto di proporre osservazioni e/o contestazioni, atteso il mancato recapito della comunicazione ex art. 7 L. n. 241 del 1990.

4.1 La censura non merita positivo apprezzamento.

La motivazione dedotta a sostegno del provvedimento impugnato in primo grado, per quanto sintetica, è esaustiva dando conto della circostanza (id est l’omesso deposito dei bilanci di esercizio per due annualità) che impone lo scioglimento, nell’esercizio di un potere come visto tout court vincolato, della cooperativa.

5. Per le ragioni sopra succintamente esposte l’appello è infondato e va respinto con conferma della sentenza appellata.

6. Non può essere, poi, accolta la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da parte di E.B.O. atteso che le espressioni impiegate dalla parte appellante nella memoria del 22 marzo 2023 sono inerenti l’oggetto di causa, non trasmodano nella gratuita contumelia e paiono, in ogni caso, rispettose del limite della continenza oltre che lato sensu funzionali allo svolgimento della difesa tecnica.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c. la soccombenza e sono da porre, nei rapporti tra l’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) e gli appellanti, integralmente a carico di questi ultimi in solido tra loro.

7.1 Sussistono invece, anche alla luce della peculiare qualifica soggettiva rivestita dal commissario liquidatore, giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite nei rapporti tra gli appellanti e E.B.O..

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Respinge la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da E.B.O..

Condanna gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., in solido tra loro, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore dell’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, della somma complessiva di € 3.000,00 (tremila/00) oltre accessori di legge.

Spese compensate tra gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L. e E.B.O..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Hadrian Simonetti, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Roberto Caponigro, Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere, Estensore


Cons. Stato, Sez. VII, Sent., (data ud. 24/02/2023) 17/04/2023, n. 3829

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8297 del 2018, proposto da P.P., rappresentato e difeso dagli avvocati Roberto Giromini, Federico Pardini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Bolano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 243/2018, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Bolano;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm.;

Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 24 febbraio 2023 il Cons. Fabrizio D’Alessandri e presenti le parti come da verbale;

Svolgimento del processo
L’odierna appellante ha impugnato la sentenza del T.A.R. Liguria, sez. I, n. 243/2018, pubblicata in data 26 marzo 2018, che ha respinto, previa riunione, i ricorsi R.G. 284/2016 e 285/2017 proposti rispettivamente per:

– l’annullamento del diniego di accertamento di conformità urbanistica del fabbricato residenziale di sua proprietà, successivo a un’ordinanza di demolizione, nonché della comunicazione con la quale il Comune di Bolano ha avvertito che si sarebbe tenuto un sopralluogo finalizzato alla verifica circa l’ottemperanza all’ordine di demolizione precedentemente adottato (R.G. 284/2016);

– l’annullamento della determinazione con cui il Responsabile dei Servizi Area Urbanistico Edilizia Privata e Ambiente ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita dell’area al patrimonio del Comune (R.G. 285/2017).

Più precisamente, con il primo ricorso n. 284 del 2016, l’odierna appellante ha impugnato la Det. n. 8 del 2 marzo 2016 con cui il Comune di Bolano ha dichiarato irricevibile per tardività la domanda di sanatoria presentata in data 18/11/2015, al fine di ottenere l’accertamento di conformità urbanistica del suo fabbricato residenziale sito nel predetto Comune, oggetto di una precedente ordinanza di demolizione, in quanto realizzato in mancanza dei prescritti titoli edilizi.

Ad avviso della ricorrente, il provvedimento risultava meritevole di annullamento perchè ritenuto viziato per violazione di legge, in quanto privo della firma autografa del Responsabile dell’Area, nonché per incompetenza perché adottato da personale privo di qualifica dirigenziale.

Successivamente, con atto di motivi aggiunti, la ricorrente ha impugnato la comunicazione del 12/03/2016 con la quale il Comune aveva avvertito che in data 31/03/2016 si sarebbe tenuto un sopralluogo volto a verificare l’ottemperanza all’ordine di demolizione precedentemente emesso, ossia in data 30/10/2007.

Con tale impugnativa, la ricorrente ha censurato la violazione dell’obbligo del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 e, analogamente a quanto dedotto con il ricorso principale, la mancanza di sottoscrizione autografa della Det. n. 8 del 2016 che avrebbe, a suo avviso, invalidato il successivo provvedimento.

Il 21 aprile 2016, in pendenza del giudizio, il Comune di Bolano ha notificato all’odierna appellante il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e successivamente, con Det. n. 21 del 10 febbraio 2017, ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita delle opere realizzate al patrimonio comunale, cui ha fatto seguito la nota di iscrizione presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari di La Spezia.

L’odierna appellante, pertanto, con distinto ricorso R.G. n. 285 del 2017, ha impugnato quest’ultima Det. n. 21 del 2017, censurando le modalità con cui il Comune avrebbe applicato gli articoli 31 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 45 della L.R. n. 16 del 2008, che prevedono – in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione – l’acquisizione non solo del bene o dell’area di sedime coperta dall’opera abusiva, ma anche di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive purché non superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.

Ad avviso dell’odierna appellante, infatti, il Comune, nell’individuazione dell’ulteriore superficie da acquisire, si sarebbe limitato a dar conto del rispetto del limite massimo previsto dalla richiamata normativa, senza motivare lo specifico interesse pubblico a detto ampliamento nonché le modalità di determinazione ed individuazione della superficie complessiva oggetto di acquisizione.

Inoltre, anche con tale gravame, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della determinazione per carenza di sottoscrizione autografa.

Il T.A.R. Liguria, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto i suddetti ricorsi, previa riunione, ritenendo:

– infondata la censura concernente la mancanza di sottoscrizione autografa in quanto, ad avviso del Giudice di prime cure, tale carenza non integrerebbe ex se motivo di invalidità dell’atto amministrativo, ove concorrano altri elementi testuali che consentano di individuare la sicura provenienza e attribuibilità dell’atto al suo autore;

– infondata e insufficientemente argomentata la doglianza concernente l’adozione della determinazione da parte di organo incompetente, atteso che non sono presenti figure dirigenziali all’interno dell’Amministrazione intimata;

– che il provvedimento impugnato con l’atto di motivi aggiunti non risulta affetto, pertanto, da invalidità derivata;

– che l’Amministrazione comunale non ha violato l’obbligo del preavviso di rigetto, stante la natura officiosa del procedimento di cui trattasi;

– infondata, infine, la censura riguardante l’errata modalità di individuazione della superficie ulteriore da acquisire, ritenendo che il Comune abbia adeguatamente motivato le determinazioni assunte sulla base della normativa urbanistica esistente e delle esigenze di utilizzabilità dell’area.

Avverso la suddetta sentenza, l’odierna appellante ha proposto il presente gravame, formulando i seguenti rubricati motivi di appello:

I. Error in iudicando sul primo motivo del ricorso n. rg 284/2016. violazione di legge. Eccesso di

potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

II. Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso n. rg 284/2016. Violazione di legge. Eccesso di

potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

III. Error in iudicando sul primo motivo di ricorso dei motivi aggiunti. Violazione di legge. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziali dell’atto impugnato anche in via derivata;

IV. Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso dei motivi aggiunti. Violazione di legge con

specifico riferimento all’art. 10 bis della L. n. 241 del 1990. Eccesso di potere per travisamento, sviamento, erroneità sui presupposti, ingiustizia grave e manifesta, difetto di motivazione ed istruttoria;

V. Error in iudicando sul primo motivo del ricorso 285/2017. Violazione degli artt. 31 e 45 D.P.R. n. 380 del 2001. Eccesso di potere per travisamento, sviamento, erroneità sui presupposti, illogicità, ingiustizia, difetto di motivazione;

VI. Error in iudicando sul secondo motivo del ricorso 285/2017. violazione degli artt. 18 e 19 D.P.R. n. 445 del 2000 e L. n. 69 del 2009. eccesso potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

VII. Error in iudicando sulle spese di lite.

Il Comune si è costituito in giudizio in data 26 maggio 2021, concludendo per la reiezione dell’appello, in quanto inammissibile, irricevibile e infondato.

In vista dell’udienza di trattazione l’Amministrazione comunale ha depositato documenti e una memoria, con cui ha illustrato le proprie difese e replicato in maniera puntuale alle censure ex adverso proposte.

In particolare, con memoria depositata in data 16 gennaio 2023, il Comune intimato ha eccepito l’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse, atteso che la statuizione del giudice di prime cure concernente l’intervenuto silenzio diniego, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, non sarebbe stata puntualmente censurata dalla parte appellante.

La parte resistente ha ribadito, altresì, che l’area di sedime su cui insistono gli abusi, nonché l’area necessaria alle opere analoghe a quelle realizzate sine titulo, sono state calcolate in modo esatto.

A sostegno di tale assunto, il Comune intimato ha richiamato il contenuto del documento inerente i criteri per la determinazione dell’area da acquisire, all’interno del quale risulta correttamente illustrato il procedimento seguito dall’Amministrazione nella determinazione del perimetro della c.d. pertinenza urbanistica.

L’acquisizione, infatti, sarebbe stata effettuata con quelle modalità al fine di garantire l’accesso della viabilità di uso pubblico esistente, la distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di almeno 5 metri da ogni spigolo dello stesso, nonché ogni possibilità di manovra durante le operazioni di demolizione.

In data 7 febbraio 2023, le parti hanno depositato un’istanza congiunta di passaggio in decisione della causa sulla base degli scritti difensivi depositati.

All’udienza di smaltimento del 24 febbraio 2023, svoltasi da remoto, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
1. L’appello è da rigettare.

2. In via preliminare, il Collegio deve dare atto della fondatezza, relativamente al solo primo motivo di appello, dell’eccezione di inammissibilità dell’appello per carenza di interesse formulata dalla difesa comunale.

Sul punto, il Collegio osserva che, analogamente a quanto sostenuto dal giudice di prime cure, nonché evidenziato dalla parte resistente, l’eventuale accoglimento della prima censura afferente alla carenza di sottoscrizione autografa del provvedimento di rigetto (che lo renderebbe a detta dell’appellante inesistente), non consentirebbe – in ogni caso – all’odierno appellante di conseguire il pieno soddisfacimento dell’interesse fatto valere in giudizio, atteso che l’istanza di sanatoria dovrebbe ritenersi comunque rigettata dal Comune, versandosi in un’ipotesi di silenzio-diniego prevista ex lege.

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, al silenzio serbato dal Comune sull’istanza di accertamento di conformità, possono ricollegarsi gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, essendo pacificamente annoverato tra le ipotesi di silenzio significativo cui la legge attribuisce natura provvedimentale (Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 07/04/2022, n. 3396; Consiglio di Stato, sezione VI, 06/06/2018, n. 3417).

In virtù della mancata impugnazione della statuizione del giudice di prime cure concernente tale profilo e del conseguente passaggio in giudicato del capo della sentenza non censurato, pertanto, deve dichiararsi l’inammissibilità dell’appello in ordine al primo motivo del ricorso, in considerazione della mancanza di utilità pratica che deriverebbe dall’accoglimento della doglianza, a causa della formazione del silenzio-diniego.

3. Fatto salvo quanto indicato, il Collegio rileva per completezza dell’esame come, in ogni caso, il primo motivo di ricorso risulti infondato anche nel merito.

Infatti, con il primo motivo di gravame, l’appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondata la doglianza afferente alla mancanza della sottoscrizione autografa del Responsabile Area Urbanistica Edilizia del Comune di Bolano.

Al riguardo, l’appellante ha dedotto anche in sede di appello l’illegittimità della Det. n. 8 del 02 marzo 2016 di rigetto della domanda di sanatoria per carenza del requisito essenziale della sottoscrizione ed evidenziato come la giustificazione addotta dal Comune, in ordine alle procedure utilizzate per la formazione degli originali e delle copie conformi all’epoca dell’adozione dell’atto, non potesse ritenersi sufficiente ai fini della totale irrilevanza della firma.

Ad avviso dell’appellante sarebbe stata necessaria, infatti, almeno un’attestazione di conformità della copia all’originale ad opera di un pubblico ufficiale autorizzato, non potendo ritenersi sufficiente l’apposizione della dicitura “firmato” sul duplicato del provvedimento.

In replica a quanto dedotto dalla parte appellante, l’Amministrazione comunale ha ribadito quanto già esposto in primo grado in ordine alle procedure informatiche in uso all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato, che avrebbero consentito la stampa di un unico originale cartaceo e di una pluralità di copie, la cui conformità sarebbe stata attestata dal funzionario, in qualità di autore dell’atto.

Il Collegio, ritiene corretto il ragionamento logico-giuridico proposto dal T.A.R. a sostegno della reiezione del motivo, in quanto l’assenza di sottoscrizione non può ritenersi invalidante qualora risulti possibile e inequivocabile l’accertamento circa la concreta riconducibilità dell’atto al suo autore.

Invero, in virtù del principio di correttezza e buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadino, l’autografia della sottoscrizione non può essere qualificata in termini di requisito di esistenza o validità giuridica degli atti amministrativi ove concorrano ulteriori elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che lo ha adottato), emergenti anche dal contesto documentativo dell’atto, che consentano di individuare la sicura provenienza e l’attribuibilità dell’atto al suo autore (Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 24/01/2023, n. 793; Consiglio di Stato, sez. V, 28/5/2012, n. 3119; Consiglio di Stato, sez. IV, 11/5/2007, n. 2325).

Inoltre, come già affermato, anche qualora si ritenesse che l’atto fosse inesistente, ci si troverebbe comunque al cospetto di un’ipotesi di silenzio-diniego prevista ex lege, atteso che l’art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dispone che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncino sulla richiesta di permesso in sanatoria entro il termine di sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.

4. Nel merito il Collegio ritiene infondati anche gli altri motivi di appello per le ragioni che seguono.

Con il secondo motivo di appello, l’appellante ha criticato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondata e insufficientemente argomentata la censura riguardante l’incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento impugnato.

Ad avviso dell’odierna appellante, nella fattispecie di giudizio non possono ritenersi applicabili i presupposti di cui all’art. 109, comma 2, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che consentono, in assenza di personale con qualifica dirigenziale, l’attribuzione delle competenze in materia edilizia in capo ai responsabili degli uffici o servizi, in quanto, alla data di emissione del provvedimento impugnato, nel Comune di Bolano erano presenti numerose figure dirigenziali.

Al riguardo, la difesa comunale ha ribadito la competenza del Responsabile dell’ufficio,

atteso che alla data di adozione del provvedimento impugnato non risultavano presenti figure dirigenziali nella pianta organica dell’ente, in guisa tale da poter affermare la legittimazione dell’organo che ha adottato il provvedimento.

Sul punto, il Collegio ritiene che le argomentazioni esposte in sede di appello dall’appellante non sono idonee a sovvertire la valutazione effettuata dal giudice di prime cure, in quanto non è stato acquisito alcun elemento probatorio che possa attribuire rilievo alla doglianza dedotta dalla ricorrente.

La mera indicazione del rinvio all’analisi del “portale web” dell’Amministrazione comunale in ordine all’esistenza al momento dell’adozione dell’atto di figure dirigenziali all’interno del Comune, non suffragato da alcuna produzione documentale, non può ritenersi sufficiente ai fini dell’accoglimento della censura.

L’appellante avrebbe dovuto dare ben altra evidenza rispetto a tale circostanza meramente affermata sia in primo che in secondo grado e non ammessa dall’Amministrazione resistente.

Conseguentemente, va ritenuto che il Responsabile dell’ufficio comunale abbia legittimamente adottato il provvedimento di rigetto della sanatoria, tenuto conto che, in materia edilizia, la normativa statale è univoca nel consentire ai Comuni sprovvisti di personale con qualifica dirigenziale l’attribuzione delle funzioni previste dall’art. 107, commi 2 e 3, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ai responsabili degli uffici o servizi (Cfr., ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 15/10/2009, n. 6327; Cons. Stato, sez. IV, 31/03/2009, n. 2024).

5. Con il quarto motivo di doglianza, l’appellante contesta il ragionamento logico-giuridico seguito dal Giudice di prime cure. Quest’ultimo, nel ritenere infondata la censura riguardante l’omissione del “preavviso di rigetto”, in virtù della natura officiosa del procedimento, non avrebbe analizzato correttamente le garanzie partecipative sottese all’istituto di cui all’art. 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241.

In altri termini, l’appellante ritiene che la mancata adozione del preavviso di rigetto abbia invalidato la comunicazione del 12 marzo 2016, ritenuta completamente immotivata, irrituale e, pertanto, violativa del diritto partecipativo dell’appellante.

Ad avviso del Collegio, anche tale motivo si appalesa infondato in quanto, come sostenuto correttamente dal T.A.R., l’atto impugnato risulta attinente a una procedura ufficiosa volta all’acquisizione gratuita del bene abusivo che non necessita dell’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, previsto dall’articolo 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241, soltanto per i procedimenti ad istanza di parte (ex pluris: Consiglio di Stato, sez. V, 30.12.2015, n. 5868; Consiglio di Stato, Sez. V, 3/05/2012, n. 2548).

6. Con il quinto motivo di appello, sono state contestate le argomentazioni della sentenza impugnata in ordine all’individuazione della complessiva area oggetto di acquisizione comunale.

In sintesi, l’appellante sostiene che il Comune non abbia adeguatamente motivato l’interesse pubblico sotteso all’acquisizione gratuita della porzione ulteriore rispetto a quella coincidente con l’area su cui insistono le opere contestate e che difetterebbe il nesso funzionale tra i due acquisti.

Sempre secondo l’appellante, l’area di acquisizione individuata dal Comune eccede largamente la necessità di garantire un accesso dalla viabilità ad uso pubblico esistente e una distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di 5 metri in tutti i punti.

Inoltre, l’individuazione dell’area oggetto di acquisizione si appaleserebbe errata poichè il Comune intimato non avrebbe considerato che la ricorrente è proprietaria di 30.000 mq di terreno, a fronte dei 12.682 mq riconosciuti.

Sul punto, il Collegio ritiene non sussista alcun difetto di motivazione e sia condivisibile quanto illustrato dal giudice di prime cure in ordine all’esatta individuazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita.

E invero, sulla base degli atti processuali e dei documenti versati nel giudizio, sono emerse le modalità di calcolo con cui l’Amministrazione è pervenuta all’individuazione dell’”area ulteriore”.

Dal contenuto dell’ordinanza di demolizione n. 81 del 30/10/2007, del provvedimento di rigetto della istanza di sanatoria, del provvedimento di acquisizione gratuita delle opere, nonché della planimetria catastale, della documentazione fotografica e degli allegati criteri per l’individuazione dell’area, si evince esplicitamente la superficie complessiva del fabbricato realizzato abusivamente, pari a 126,82 mq., la zona urbanistica in cui ricade il predetto manufatto, nonché le modalità di calcolo dell’area circostante acquisibile.

L’Amministrazione comunale, infatti, in ottemperanza a quanto previsto dagli articoli 31, comma 3, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 45 della L.R. n. 16 del 2008, ha esplicitato

correttamente la superficie necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle realizzate abusivamente, pari a 12.682 mq, poi ridotta a 1.268,20 mq., ai fini del rispetto del limite massimo di dieci volte la superficie utile abusivamente costruita.

A ciò si aggiunga che, come può evincersi dalla planimetria catastale, la predetta superficie garantisce l’accesso dalla viabilità ad uso pubblico esistente e una distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di almeno 5 metri, al fine di garantire la possibilità di manovra durante le operazioni di demolizione.

Tali motivazioni, peraltro, costituendo esercizio di discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, non possono essere sindacate se non per evidente violazione di criteri di ragionevolezza o illogicità o per travisamento dei fatti; profili che il Collegio ritiene non siano ravvisabili nel caso in esame.

7. Per le ragioni suindicate, che hanno confermato la legittimità degli atti gravati, devono ritenersi prive di pregio anche le doglianze, di cui al terzo e sesto motivo di appello, con cui è stata dedotta l’illegittimità, in via derivata, dell’atto impugnato con i motivi aggiunti, nonché della Det. n. 21 del 10 febbraio 2017 con cui il Comune ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita delle opere realizzate al patrimonio comunale.

8. Infondato è, altresì, il settimo motivo di appello volto a contestare genericamente la condanna alle spese in primo grado, che va rigettato in ragione della circostanza che il Collegio di primo grado ha seguito il corretto criterio della soccombenza e che la sentenza è stata confermata in questa sede di appello.

9. Per quanto suindicato, l’appello in epigrafe deve essere respinto, con conferma della sentenza di primo grado.

Le spese del grado di appello seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese e degli onorari del grado di giudizio di appello, che liquida in € 4.000,00, oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Marco Lipari, Presidente

Raffaello Sestini, Consigliere

Giovanni Tulumello, Consigliere

Laura Marzano, Consigliere

Fabrizio D’Alessandri, Consigliere, Estensore


Cons. Stato, Sez. II, Sent., (data ud. 13/12/2022) 24/01/2023, n. 793

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9040 del 2017, proposto da

-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Zaccaglino, domiciliato in via digitale come da pubblici registri;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in via digitale come da pubblici registri e domicilio fisico in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.R.G.A. – della Provincia di Trento – Sezione Unica n. -OMISSIS- resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2022 il Cons. Fabrizio D’Alessandri e nessuno presente per le parti;

Svolgimento del processo
Parte appellante impugna la sentenza n.-OMISSIS-pronunciata dalla Sezione Unica del Tribunale Regionale Giustizia Amministrativa di Trento.

In particolare, l’odierno appellante, sottufficiale dell’aeronautica militare con il grado di maresciallo di prima classe, ha prestato attività nell’ambito dei servizi di meteorologia e climatologia dell’arma, con assegnazione presso il teleposto meteo di -OMISSIS-e, da ultimo, presso il teleposto meteo del -OMISSIS-

Nel 2008 il maresciallo, a seguito di diverbi professionali, ha subito un’aggressione da parte di un collega, e, successivamente a tale episodio, si è manifestata la patologia di seguito indicata, che ha dato origine ai provvedimenti qui impugnati.

Nel 2014 l’Amministrazione ha riconosciuto l’infermità “disturbo d’ansia in trattamento”, diagnosticata all’odierno appellante, come dipendente da causa di servizio (con decreto n. 672/D datato 14.03.2014), senza l’indicazione di ascrivibilità tabellare ai fini dell’equo indennizzo, non essendo il quadro clinico stabilizzato.

Successivamente, dopo un periodo di più di due anni di assenza dal servizio, la C.M.O. ha visitato il militare in data 24.10.2016 e, con verbale modello BL/S n. ACMOII167472 datato 24.10.2016, ha diagnosticato l’esistenza di un “disturbo dell’adattamento con umore depresso in trattamento” e lo ha giudicato non idoneo permanentemente al servizio militare, con collocamento in congedo assoluto e reimpiego nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero della difesa.

E’ stato, altresì, negato l’accertamento della interdipendenza o l’aggravamento da infermità già riconosciuta dipendente da causa di servizio.

L’infermità da ultimo diagnosticata corrisponde, secondo la suddetta commissione medica, alla tabella B del D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.

In sede di visita sopra indicata, l’odierno appellante è stato assistito dal proprio medico di fiducia, specialista in medicina legale, che ha formulato osservazioni ed eccezioni, in merito a una diversa valutazione medico legale rispetto a quella effettuata dalla CMO, relativa alla menomazione dell’integrità psico-fisica-sensoriale.

Lo stesso medico ha redatto anche propria relazione peritale in data 12.12.2016, nella quale ha concluso per una corretta attribuzione delle menomazioni subite, valutandole come corrispondenti alla V categoria della precitata tabella A della norma di riferimento.

Di pari tenore risulterebbero, inoltre, altre certificazioni mediche prodotte dall’odierno appellante.

Quest’ultimo, ritenendo che la sua patologia sia ascrivibile alla V categoria della tabella A del richiamato D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, ha impugnato dinanzi al T.A.R. il provvedimento gravato, contestando la determinazione della categoria e della tabella di ascrivibilità.

In particolare, l’odierno appellante, come dallo stesso dedotto, non ha impugnato il verbale che lo ha dichiarato inidoneo permanentemente al servizio militare incondizionato, in quanto non contesta l’affezione patologica esistente, bensì l’assegnazione a tabella e categoria effettuata dall’organismo sanitario militare che ha valutato la menomazione dovuta all’infermità ritenendola corrispondente alla tabella B di cui al D.P.R. n. 834 del 1981.

A seguito della notificazione del decreto ministeriale della Direzione Generale per il personale militare, con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, con effetto dalla data del 24.10.16, l’odierno appellante ha proposto motivi aggiunti.

Nello specifico ha contestato che il decreto gravato, notificato al dipendente, non risulta sottoscritto dal dirigente della 5^ Divisione, delegato con D.Dirig. n. 0700883 del 2016. Lo stesso, infatti, non risulterebbe sottoscritto né in forma cartacea, né in forma digitale e, in ogni caso, qualora si dovesse considerare come sottoscritto, sarebbe stato sottoscritto da un soggetto non abilitato.

La parte appellante ha, altresì, lamentato l’inidoneità della copia semplice (ovverosia non autentica) del decreto notificata all’odierno appellante a finalità legali, quale quella di determinare l’interruzione del rapporto di servizio.

L’adito T.A.R., con la sentenza gravata in questa sede ha rigettato sia il ricorso introduttivo che quello per motivi aggiunti.

L’appellante ha gravato la suindicata sentenza sostenendo l’erroneità e la carenza di motivazione del giudizio della C.M.O. che ha ascritto la patologia alla tabella B, in contrasto, peraltro, con altri pareri medico-legali che l’hanno, invece, riconosciuta come rientrante nella tabella A.

Ciò a fronte della decisione del giudice di prime cure di non disporre una verificazione o consulenza tecnica d’ufficio, pur in presenza di una questione inerente a una valutazione tecnica.

Quanto al gravame sui motivi aggiunti, l’appellante invoca il travisamento dei fatti da parte del T.A.R. che ha ritenuto che il decreto di congedo depositato in atti sia stato sottoscritto digitalmente dal titolare del potere di firma.

Il Giudice avrebbe omesso di osservare che il decreto depositato in giudizio dall’Amministrazione è diverso da quello partecipato al dipendente prima della causa e della proposizione dei motivi aggiunti.

Il decreto partecipato al ricorrente è, infatti, sottoscritto digitalmente da soggetto terzo non corrispondente al titolare del potere di firma del decreto di congedo.

L’Amministrazione, in corso di causa, ha provveduto a integrare e depositare il decreto regolarmente sottoscritto digitalmente dal dirigente della divisione ma l’atto notificato al ricorrente è, in effetti, sottoscritto digitalmente da diverso soggetto e ciò sarebbe documentalmente incontrovertibile.

Per tale ragione il ricorso per motivi aggiunti avrebbe dovuto essere accolto per un vizio fondamentale dell’atto gravato e cioè la sottoscrizione da parte di soggetto sprovvisto dei poteri di firma.

Analogamente, anche la doglianza espressa avverso la notifica senza valenza legale di una mera fotocopia del decreto di congedo avrebbe dovuto essere rilevata e opportunamente considerata dal Collegio di primo grado mentre, invece, quanto attuato è stato ritenuto pienamente legittimo.

La medesima parte appellante, invocando l’effetto devolutivo dell’appello, ha, infine, riproposto per intero i motivi di impugnazione prodotti in primo grado, nel ricorso principale e in quello per motivi aggiunti, riportandoli integralmente.

Si è costituta in giudizio l’Amministrazione appellata, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Nelle more del giudizio l’Amministrazione, con verbale del 7.01.20219, ha riconosciuto all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII e, conseguentemente la spettanza del trattamento di quiescenza privilegiato a partire dal 25/10/2016. Conseguentemente l’INPS, con determina n. 166693 del 14.10.2019, ha corrisposto il pagamento del trattamento di quiescenza privilegiato.

L’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha chiesto alle parti chiarimenti “Atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”.

I richiesti chiarimenti non sono stati resi dalle parti in quanto l’Amministrazione è rimasta silente, mentre parte ricorrente si è limitata meramente a dichiarare la sussistenza dell’interesse a ottenere una sentenza di merito, senza indicarne le ragioni.

Con ordinanza n. -OMISSIS- è stata reiterata richiesta di chiarimenti “Visto che l’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha disposto adempimenti istruttori e, in particolare, ha richiesto alle parti chiarimenti con la seguente motivazione “atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”; Rilevato che l’appellante ha depositato una mera dichiarazione di persistenza dell’interesse senza indicare le ragioni per cui, alla luce dell’intervenuto riconoscimento, permangono delle ragioni di concreta utilità alla definizione del giudizio di appello, mentre nulla ha indicato in merito l’Amministrazione intimata; Ritenuta la necessità, ai fini del decidere, di acquisire dall’Amministrazione e dal ricorrente chiarimenti in ordine ai concreti effetti dell’intervenuta ascrizione, con il verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, dell’infermità alla tabella A categoria VIII, in relazione alla sussistenza dell’attualità dell’interesse a ricorrere nel presente giudizio”.

Sia l’Amministrazione che l’appellante hanno reso i richiesti ulteriori chiarimenti.

L’appello è stato trattenuto in decisione all’udienza pubblica del 13.12.2022.

Motivi della decisione
1) Il ricorso deve essere rigettato.

2) Quanto all’interesse a ricorrere oggetto di richiesta di chiarimenti per entrambe le parti, il Collegio ritiene che il suddetto interesse si possa considerare persistente.

Infatti, da un lato, l’Amministrazione non ha ammesso l’ascrivibilità inziale della patologia attribuita alla Categoria 8^ (ora riconosciuta dal verbale BL/B n. 2 del 07.01.2019 della C.M.O. di -OMISSIS-) al momento dell’impugnata valutazione da parte della C.M.O. di -OMISSIS-, nel verbale n. II154895 del 24.10.2016, che l’aveva ricondotta alla Tabella B; dall’altro, tale nuova valutazione è stata effettuata, e ha spiegato i suoi effetti, solo ai fini del trattamento pensionistico di privilegio (corrisposto dal 25/10/2016) e non rispetto all’equo indennizzo.

3) Nel merito il ricorso si rivela infondato.

Come suindicato, l’infermità “disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti cronico in trattamento” è stata riconosciuta dall’Amministrazione come ascrivibile alla tabella A categoria VIII solo a seguito dell’accertamento contenuto nel Verbale sanitario del 7.1.2019 e ai fini del trattamento pensionistico privilegiato.

Da ciò non è evincibile che a tale categoria fosse ascrivibile l’indicata infermità al momento della valutazione impugnata effettuata diverso tempo prima (verbale del 24.10.2016).

4) In sede di appello parte appellante ha altresì ribadito l’erroneità della sentenza sostanzialmente in quanto: – l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, dovendo riconnettersi a patologie classificabili nella tabella A; – nella tabella B, allegata al D.P.R. n. 834 del 1981, non si rinvengono tipologie di patologia sofferte dalla medesima parte, presenti invece nella tabella A. La medesima parte appellante deduce, altresì, la mancata assunzione da parte del giudice di primo grado di una verificazione.

Cita al riguardo precedenti giurisprudenziali che classificano la patologia disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso nell’ambito della più volte richiamata tabella A, nonché le perizie di medici specialisti di fiducia.

5) Il Collegio rileva come sia granitica la giurisprudenza che sussume i giudizi medico legali formulati dalle commissioni mediche come rientranti nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che gli stessi non sono sindacabili se non nei casi di manifesta abnormità, illogicità, travisamento ed erroneità.

Nel caso di specie, il Collegio concorda con la valutazione del giudice di primo grado secondo cui non risultano profili di manifesta illogicità, travisamento ed erroneità che soli possano giustificare il sindacato del giudice sul giudizio diagnostico in esame.

Il giudice infatti in tali casi non può sostituire la valutazione dell’organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico nell’apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione.

La parte può contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso della discrezionalità tecnica, ma in tal caso ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente (e legalmente) investito della competenza ad adottare decisioni in attuazione dell’interesse pubblico, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

La sentenza impugnata ha rilevato come la diagnosi sia coerente con quelle precedenti effettuate dalla commissione medica e con le plurime certificazioni riguardanti l’infermità dell’interessato, sin dal 2009, e come la patologia sia ascrivibile nell’ambito della voce 2207 (nevrosi ansiosa), corrispondente alla tabella B.

Sul punto la parte appellante non ha specificamente evidenziato elementi di illogicità della sussunzione della patologia sofferta nell’ambito della voce ascrivibile a nevrosi ansiosa, limitandosi a fornire interpretazioni alternative delle risultanze mediche e prospettando la sussumibilità della patologia quale “Sindrome neurosiche lievi ma persistenti”, piuttosto che “Isteronevrosi di media gravità” oppure “psiconevrosi di media entità”.

In tal senso, pertanto, la parte appellante ha chiesto al giudice di sostituire il suo giudizio alla discrezionalità tecnica dell’Amministrazione al fine di inquadrare diversamente, quando al contrario avrebbe dovuto fornire elementi volti a comprovare l’illogicità della classificazione operata dall’Amministrazione e confermata dal giudice di prime cure.

Il sindacato sulla discrezionalità tecnica si sarebbe potuto positivamente effettuare solo nel caso in cui fosse stato positivamente dimostrato che la classificazione operata dall’amministrazione fosse affetta da travisamento di fatti, manifesta illogicità, palese incongruità, potendo il giudice valutare ab externo tali profili.

6) Infondata è altresì la censura d’appello relativa alla circostanza che l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B.

Il Collegio rileva innanzitutto come l’appellante non abbia specificamente criticato il ragionamento del giudice di prime cure sul punto, limitandosi a riproporre le censure di primo grado, in violazione del principio di specificità dei motivi di appello.

In ogni caso il Collegio ritiene di condividere l’iter argomentativo del T.A.R. che ha evidenziato

l’insussistenza di espresse disposizioni di legge che impediscono il riconoscimento dell’inidoneità al servizio militare in caso di patologie sussumibili nella tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, e rileva altresì che la direttiva del comando logistico dell’esercito, dipartimento di sanità, MDE24363/33204/Sez.Med.Leg/10.3.4.1 del 18 marzo 2009 precisa che “i limiti di categoria nell’ambito delle tabelle indicati al fine della idoneità non possono comunque essere applicati in modo tassativo, e che la valutazione dell’idoneità non segue i medesimi criteri dell’invalidità e non consegue automaticamente all’ascrivibilità a una determinata categoria e tabella. Pertanto la direttiva consente margini elastici di applicazione che, nella fattispecie, risultano essere giustificati dalla rilevata assunzione di psicofarmaci, determinante l’inidoneità al servizio indipendentemente dalla tabella in cui è annoverata la patologia”

7) Anche la censura d’appello riguardante il rigetto del ricorso per motivi aggiunti è infondata.

Il Consiglio concorda con la sentenza gravata che ha rilevato come sia, comunque, determinante la circostanza che l’Amministrazione abbia prodotto in primo grado copia del decreto dirigenziale che presenta la firma digitale del Dirigente abilitato, e dalla quale si evince che lo stesso decreto è stato sottoscritto digitalmente la stessa data di protocollo dell’atto del 2.12.2016.

L’atto quindi è stato effettivamente sottoscritto e dal soggetto competente e abilitato e non vi è quindi spazio per contestare l’inesistenza della sottoscrizione – con conseguente nullità secondo il tenore della norma dell’art. 21-septies, lett. a) della L. n. 241 del 1990 – vizi di forma invalidanti o profili di incompetenza.

Semmai la questione controversa si sposta sulla valenza della circostanza, asserita dall’appellante, che allo stesso sarebbe stata notificata una copia priva di firma e non autenticata.

Sul punto il Collegio ritiene di aderire a quanto indicato in sentenza ovverosia che “non essendo prevista nel caso di specie una formale notifica e trattandosi di una comunicazione mediante consegna a mani del decreto dirigenziale con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, la copia autentica non è necessaria”.

Inoltre, la notifica in forma non corretta non sarebbe idonea a inficiare l’atto, risultando la stessa condizione di efficacia, ma non di validità dell’atto, stante anche che il collocamento a riposo ha una sua decorrenza autonoma specificamente indicata nel 24 ottobre 2016 e, pertanto, non dipende dalla data di notifica.

Anche fosse vero che la copia notificata all’appellante fosse priva di firma, la notifica ha conseguito lo scopo di rendere conoscibile l’atto, né può dirsi che non risultasse certa la provenienza dello stesso, per cui la mancanza di sottoscrizione si presenterebbe quale elemento meramente formale inidoneo a inficiare l’atto.

Ciò tanto più in presenza del principio giurisprudenziale secondo cui la stessa mancanza di sottoscrizione di un atto non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti nei casi in cui detta omissione, come nella fattispecie in esame, non metta in dubbio la riferibilità dell’atto stesso all’organo competente (T.A.R. Sicilia Catania Sez. II, 12-11-2019, n. 2713 Cons Stato sez. IV 5 ottobre 2010 n. 7309; 11 maggio 2007 n. 2325; 23 febbraio2007 n. 981;Sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3414; Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8702; 5 dicembre 2010, n. 7309; 18 settembre 2009, n. 5622;18 dicembre 2007, n. 6517).

Nell’atto in questione era, infatti, chiaramente indicata l’autorità emanante e il nominativo del firmatario.

Tale principio deve ritenersi tanto più valido qualora, come nel caso di specie, il provvedimento sia stato effettivamente sottoscritto e solo la copia notificata al privato sia priva di sottoscrizione.

8). L’appello di palesa, infine, inammissibile nella parte in cui ha riproposto integralmente i motivi di impugnazione formulati in primo grado, sia nel ricorso principale che in quello per motivi aggiunti.

E, infatti, principio consolidato che in ambito amministrativo il principio della specificità dei motivi di impugnazione, posto dalla normativa di cui all’art. 101, comma 1, del D.Lgs. n. 104 del 2010, impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo (Cons. Stato Sez. VI, 11/01/2021, n. 342).

Innanzi al Consiglio di Stato, la pura e semplice riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizioni della sentenza gravata), si pone in contrasto con il generale principio della specificità dei motivi di appello nonché con il principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice (Cons. Stato Sez. II, 04/01/2021, n. 111).

9) Per le suesposte ragioni l’appello deve essere in parte rigettato, in parte dichiarato inammissibile, nei sensi esposti in motivazione.

Le specifiche circostanze inerenti al ricorso in esame costituiscono elementi che militano per l’applicazione dell’art. 92 c.p.c., come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. e depongono per la compensazione delle spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, in parte lo rigetta, in parte lo dichiara inammissibile..

Compensa le spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2022 con l’intervento dei magistrati:

Oberdan Forlenza, Presidente

Antonella Manzione, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere

Giancarlo Carmelo Pezzuto, Consigliere

Fabrizio D’Alessandri, Consigliere, Estensore


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 24/02/2022) 04/04/2022, n. 2442

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5399 del 2021, proposto da Università degli Studi di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

D. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

C. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Chiara Clementi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), n. 00417/2021, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di C. Società Cooperativa Sociale Onlus e di D. Società Cooperativa Sociale Onlus;

Visti tutti gli atti della causa;

Viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 febbraio 2022 il Cons. Francesco De Luca e udito per la parte appellante l’avv. dello Stato Maria Teresa Lubrano Lobianco;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, l’Università degli Studi di Brescia appella la sentenza n. 417 del 2021, con cui il Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha accolto il ricorso di prime cure, proposto dalla D. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità anche D.O.) e diretto ad ottenere l’annullamento degli atti relativi alla procedura di gara per l’affidamento del servizio di portierato e custodia indetta dal medesimo Ateneo appellante.

In particolare, secondo quanto dedotto in appello:

– l’Università degli Studi di Brescia ha indetto in data 23 maggio 2019 una procedura aperta per l’affidamento del servizio di portierato e custodia dei propri uffici e dei relativi servizi ausiliari di supporto con finalità di promozione e tutela dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, per il periodo 1 maggio 2020 – 30 aprile 2026, con importo a base d’asta di € 2.047.500,00;

– alla procedura di gara hanno preso parte la C. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità, anche C.O.) e la D.O.: all’esito della valutazione delle offerte, la C.O. si è classificata alla prima posizione con 94,51 punti (di cui 64,51 per l’offerta tecnica e 30 per l’offerta economica), mentre la D.O., gestore uscente del servizio, si è classificata alla seconda posizione con il punteggio di 84,57 (di cui 59,78 punti per l’offerta tecnica e 24,79 punti per l’offerta economica);

– la D.O. ha impugnato, con un primo ricorso proposto dinnanzi al Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, il provvedimento di aggiudicazione della procedura, deducendo l’inattendibilità dell’offerta presentata dall’aggiudicataria, incentrata sulla valorizzazione di un prezzo asseritamente inidoneo a garantire la copertura dei costi dei servizi aggiuntivi promessi nell’offerta tecnica;

– il Tar adito ha accolto il ricorso, ritenendo inattendibile il giudizio di congruità dell’offerta prima classificata formulato dalla stazione appaltante, annullando per l’effetto l’aggiudicazione dell’appalto, dichiarando l’inefficacia del contratto stipulato e ordinando all’Amministrazione di riattivare la procedura valutativa dal punto in cui era intervenuto l’annullamento;

– l’Università ha rinnovato il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, provvedendo ad aggiudicare nuovamente la gara in favore della C.O.;

– la D.O. ha impugnato anche tale secondo provvedimento di aggiudicazione, ritenendo che pure la nuova valutazione di congruità dell’offerta fosse inficiata da vizi di legittimità; il ricorso è stato notificato presso la sede dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Brescia, anziché presso la sede dell’Ateneo;

– l’Ateneo, in ragione della supposta nullità della notificazione del ricorso, non si è costituito in giudizio; il Tar ha rimesso in termini la ricorrente, ritenendo scusabile l’errore in cui la stessa era incorsa nella notificazione del ricorso e, per l’effetto, ha assegnato un termine per la rinnovazione della notifica presso la sede dell’Ateno;

– l’Ateneo, ricevuta la notificazione del ricorso, si è costituito in giudizio, eccependo, in via pregiudiziale, l’illegittimità della rimessione in termini per l’insussistenza dell’errore scusabile ravvisato dal Tar;

– il Tar, rigettando l’eccezione pregiudiziale dell’Ateneo, ha accolto il ricorso, escludendo la congruità dell’offerta della prima classificata; per l’effetto, il primo giudice ha annullato l’aggiudicazione e ha dichiarato inefficace il contratto stipulato dall’Università.

2. L’Ateneo, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l’erroneità con due complessivi motivi di impugnazione.

3. Le società cooperative C. e D. si sono costituite in giudizio, la prima aderendo alle conclusioni svolte dall’Ateneo, la seconda resistendo all’appello.

4. La Sezione, con ordinanza n. 5205 del 24 settembre 2021, in accoglimento dell’istanza cautelare articolata nel ricorso in appello, ha sospeso l’efficacia dell’esecutività della sentenza appellata.

5. Le parti private, in vista dell’udienza pubblica di discussione dell’appello, hanno depositato memoria difensiva, insistendo nelle rispettive conclusionali. La Cooperativa D.O. ha pure depositato repliche alle avverse deduzioni.

6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 24 febbraio 2022.

7. Il ricorso in appello è articolato in due motivi di impugnazione: il primo, diretto a censurare il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso di primo grado per nullità della sua notificazione; il secondo, rivolto contro le statuizioni riferite al merito della vertenza e, dunque, alla ravvisata illegittimità delle operazioni valutative, svolte dall’Amministrazione, in ordine alla congruità dell’offerta selezionata.

8. In particolare, con il primo motivo di appello viene dedotta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, degli artt. 144 e 145 c.p.c., nonché dell’art. 37 c.p.a. – Inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso introduttivo – Nullità della sentenza impugnata”.

8.1 Secondo la prospettazione attorea, il Tar avrebbe errato nel ritenere scusabile l’errore commesso dalla ricorrente nell’esecuzione della prima notificazione del ricorso principale di primo grado, avvenuta nullamente in data 7.12.2020 presso l’Avvocatura Distrettuale di Brescia, in violazione degli artt. 1, 11 e 43 R.D. n. 1611 del 1933, nonché degli artt. 144 e 145 c.p.c.

In particolare, il Tar ha ritenuto che l’errore fosse giustificato dalla qualificazione erronea, recata nel Regolamento di Ateneo, del patrocinio erariale come patrocinio obbligatorio, quando, invece, dalle difese svolte dalla ricorrente in primo grado si desumerebbe che l’errore sarebbe stato provocato, più che dall’utilizzo, nell’ambito del regolamento di ateneo, della locuzione “obbligatorio” riferita al patrocinio erariale, dalla qualificazione, sempre ad opera del Regolamento di ateneo, del relativo patrocinio come “ex lege”.

Tale ultima qualificazione del patrocinio erariale delle Università come legale dovrebbe, tuttavia, ritenersi corretta ai sensi della L. n. 68 del 1989 e dell’art. 43 R.D. n. 1611 del 1933, facendosi questione, anche per le amministrazioni diverse da quelle statali, comunque di un patrocinio ex lege, nonché “organico e esclusivo”, originando il rapporto tra Avvocatura ed ente assistito direttamente dalla legge.

La distinzione tra Amministrazioni statali e amministrazioni pubbliche autonome, ai fini della sottoposizione al patrocinio erariale, dunque, non rileverebbe per la natura del relativo rapporto, discorrendosi sempre di patrocinio legale, ma per la disciplina processuale applicabile, in quanto per le Amministrazioni autonome, quale dovrebbe ritenersi l’Ateneo, non opererebbe la regola di cui all’art. 11 R.D. n. 1611 del 1933, che prescrive la notificazione degli atti processuali presso l’Avvocatura dello Stato.

Si tratterebbe di un regime delineato direttamente dalla legge, dal contenuto precettivo chiaro, che non avrebbe potuto generare alcun errore scusabile in ordine alla sua portata applicativa; né avrebbe potuto argomentarsi diversamente sulla base di quanto previsto dal Regolamento di Ateneo che, pur impiegando la locuzione “obbligatorio” (per qualificare il patrocinio dell’Avvocatura nei confronti dell’Università), non potrebbe far dubitare della natura giuridica del soggetto patrocinato e della conseguente disciplina processuale applicabile.

L’errore de quo, dunque, non potrebbe ritenersi scusabile, in quanto frutto di una non corretta interpretazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, nonché 144 e 145 c.p.c., come tale da ascrivere al soggetto notificante.

Per l’effetto, facendosi questione di errore non scusabile, il Tar avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità e/o l’irricevibilità del ricorso di primo grado: né avrebbe potuto sostenersi che la costituzione in giudizio dell’Ateneo avesse sanato l’originario vizio processuale, in quanto l’Amministrazione si era costituita soltanto dopo la rimessione in termini disposta dal Tar e al fine di eccepire l’inammissibilità del ricorso.

8.2 Il motivo di appello è infondato.

8.3 Preliminarmente, si evidenzia la necessità di procedere alla correzione della motivazionale alla base della sentenza di primo grado, in quanto il rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio, come si osserverà infra, non può essere giustificato in ragione della scusabilità dell’errore in cui è incorso il notificante (secondo quanto ritenuto dal Tar), ma per la necessità di provvedere, comunque, alla rinnovazione della notificazione nelle ipotesi di sua nullità, a prescindere dalla imputabilità o dalla scusabilità dell’errore commesso dal notificante.

La correzione della motivazione non può, tuttavia, condurre all’accoglimento del motivo di appello, non permettendo di giungere ad un diverso esito del giudizio di primo grado.

Difatti, in ragione dell’effetto devolutivo proprio dell’appello, la contraddittorietà o l’erroneità della motivazione giudiziale non determinano l’annullamento con rinvio della sentenza gravata (non ricorrendo alcuna delle fattispecie di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a.), né comportano la riforma della pronuncia di prime cure, ammissibile soltanto ove si giunga ad un diverso esito della controversia.

Pure di fronte ad una motivazione contraddittoria o erronea, occorre verificare in sede di appello se il contenuto dispositivo della decisione assunta dal Tar – nella specie di rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità opposta dall’Ateneo – sia comunque corretto.

8.4 Al riguardo, si osserva che l’appellante argomenta le proprie deduzioni sul presupposto per cui la nullità della notificazione del ricorso di primo grado, derivante da una causa imputabile al ricorrente (come tale inidonea ad integrare gli estremi dell’errore scusabile), non seguita da una spontanea costituzione della parte intimata, sia motivo di inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso.

Tale presupposto, all’esito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 44, comma 4, c.p.a., per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 9 luglio 2021, non può tuttavia essere condiviso.

Con tale sentenza, in particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, dell’Allegato 1 (codice del processo amministrativo) al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della L. 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), limitatamente alle parole “, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante,”.

A fronte di una notificazione del ricorso nulla, all’esito dell’intervento della sentenza n. 148 del 9 luglio 2021 cit., deve, dunque, sempre ordinarsi la sua rinnovazione, a prescindere dall’imputabilità o scusabilità dell’errore del notificante (Consiglio di Stato, sez. II, 20 dicembre 2021, n. 8436), con la conseguente necessità di assegnare alla parte ricorrente un nuovo termine che, ove rispettato, consente la sanatoria in via retroattiva del relativo vizio processuale.

Tale precetto, desumibile dall’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a., risultante dalla predetta dichiarazione di parziale incostituzionalità, deve trovare applicazione anche nel caso di specie, facendosi questione di un rapporto processuale ancora non esaurito.

Come precisato da questo Consiglio, infatti, “non v’è dubbio che l’efficacia ex tunc della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, alla stregua dell’articolo 30, comma 3, della L. 11 marzo 1953, n. 87, non trova in questo caso limite in “rapporti esauriti”, essendo tuttora pendenti i presenti giudizi senza che sia intervenuto alcun giudicato” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 dicembre 2021, n. 8303).

Nella presente sede, pertanto, la questione afferente alle conseguenze discendenti dalla nullità della notificazione del ricorso, non essendo preclusa dalla formazione di un giudicato interno (in quanto oggetto di apposito motivo di impugnazione), deve essere esaminata alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.

Di conseguenza, non subordinando tale disposizione la rinnovazione della notificazione nulla alla scusabilità dell’errore in cui sia incorso il ricorrente, l’Ateneo non può fondatamente contestare l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto nullamente notificato presso l’Avvocatura Distrettuale anziché presso la propria sede istituzionale.

Tale vizio non potrebbe, infatti, configurare una causa di inammissibilità o irricevibilità del ricorso di primo grado, imponendo soltanto la rinnovazione della notificazione ai fini della regolare costituzione del contraddittorio processuale; il che è puntualmente avvenuto nella specie, attraverso l’ordine di rinnovazione impartito dal Tar, la cui esecuzione ha permesso di sanare il relativo vizio di notificazione; ciò a prescindere dal riferimento (non più rilevante all’esito dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.) operato dal primo giudice alla supposta scusabilità dell’errore del ricorrente.

In conclusione, tendendo l’Ateneo a valorizzare una circostanza (inescusabilità dell’errore del notificante) non più rilevante ai fini del trattamento processuale della nullità della notificazione del ricorso, sempre da rinnovare in caso di mancata costituzione della parte intimata, non può accogliersi il primo motivo di appello, in quanto inidoneo a condurre alla riforma della decisione al riguardo assunta dal primo giudice.

9. Con il secondo motivo di appello vengono censurate le statuizioni riferite al merito della vertenza, con cui il Tar ha ritenuto anomala ed incongrua l’offerta presentata dalla prima classificata.

9.1 L’Ateneo, prendendo specifica posizione sulle singole voci di costo reputate incongrue dal primo giudice – alla base del giudizio di inaffidabilità dell’offerta recato nella sentenza gravata – deduce la correttezza dell’operato del RUP e della Commissione di gara, ritenendo che sia stata verificata con ogni legittimo strumento (ivi compresa una ricerca di mercato) l’attendibilità dei costi proposti dall’aggiudicataria

In particolare:

– con riferimento alle divise in dotazione al personale, la stima dei costi effettuata dalla società aggiudicataria sarebbe risultata in linea con il prezzo di analoghi prodotti reperibili sul mercato, come confermato da apposita verifica in rete legittimamente svolta dalla stazione appaltante; il Tar, peraltro, avrebbe errato nel ritenere necessaria una sostituzione integrale con cadenza annuale delle divise in dotazione, non risultando un tale impegno dall’offerta tecnica dell’aggiudicataria, stante l’emersione di una spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale, come confermato dai giustificativi dell’aggiudicataria; del resto, l’usura di un capo di abbigliamento sarebbe soggetta a variabili in ragione della tipologia del capo, che comunque potrebbe avere una durata ben superiore a quella annuale;

– con riferimento alle bacheche elettroniche, si sarebbe in presenza di “migliorie a costo zero” relative a “B.E.G.C.: Sistema Automatizzato di gestione chiavi”, descritte al punto 1.1.c come “cassetta portachiavi” e oggetto di rappresentazione fotografica; in assenza di ulteriori specifiche, dunque, la descrizione proposta dall’aggiudicataria e la fotografia allegata sarebbero compatibili con quanto dichiarato nelle giustificazioni; l’Amministrazione avrebbe pure valutato la compatibilità dei costi di mercato con l’offerta complessiva, non potendosi ritenere corretto il giudizio di prime cure – secondo cui il preventivo impiegato dalla stazione appaltante per valutare la congruità dell’offerta sarebbe riferito ad un prodotto diverso da quello oggetto di offerta – tenuto conto, altresì, che pure l’armadio con serratura intelligente di cui all’allegato 16 delle produzioni di primo grado consisterebbe in uno strumento di custodia delle chiavi suscettibile di essere utilizzato tramite “automazione”, attraverso l’impiego di comandi da remoto o di smartphone;

– con riferimento al responsabile sociale del progetto, parimenti, le statuizioni di prime cure non potrebbero ritenersi corrette, in quanto l’Amministrazione, sulla base di un parere di un consulente del lavoro (all’uopo acquisito) neppure esaminato dal Tar, avrebbe correttamente confermato l’inquadramento lavorativo del responsabile designato alla luce delle indicazioni fornite dal Tar Brescia con la precedente sentenza n. 598/2020, con conseguente mancata emersione di costi aggiuntivi a carico dell’aggiudicataria;

– con riferimento ai beni strumentali a magazzino, sarebbe provata la loro presenza a magazzino e, comunque, il costo indicato dall’aggiudicataria (€ 800-900) risulterebbe in ogni caso compatibile con l’utile dichiarato;

– con riferimento all’utile di impresa, alla stregua delle doglianze svolte dall’Ateneo, emergerebbe la correttezza della valutazione operata in sede amministrativa, con la valorizzazione di un utile, pari a quello dichiarato in offerta, suscettibile di sostenere l’offerta, tenuto conto pure delle dimensioni societarie della C. e della sua natura giuridica di Onlus, non avente fine di lucro e per la quale, dunque, dovrebbe ammettersi pure la presentazione di un’offerta senza utile.

9.2 Le censure impugnatorie sono infondate; il che esime il Collegio dallo statuire sull’eccezione di inammissibilità delle relative censure – per violazione dell’art. 101 c.p.a. – opposta dalla D.O. con memoria del 20.9.2021.

9.3 Preliminarmente, giova richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 167), secondo cui la verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzata ad accertare la complessiva attendibilità e serietà della stessa, sulla base di una valutazione che ha natura globale e sintetica e che costituisce, in quanto tale, espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato all’Amministrazione, in via di principio insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che per ragioni legate alla eventuale (e dimostrata) manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato dell’Amministrazione, tale da rendere palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.

Trattandosi, quindi, di valutare l’offerta nel suo complesso, il giudizio di anomalia non ha a oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze, mirando piuttosto ad accertare se essa in concreto sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto; pertanto, la valutazione di congruità, globale e sintetica, non deve concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo; con la conseguenza che, se anche singole voci di prezzo o singoli costi non abbiano trovato immediata e diretta giustificazione, non per questo l’offerta va ritenuta inattendibile, dovendosi, invece, tener conto della loro incidenza sul costo complessivo del servizio per poter arrivare ad affermare che tali carenze siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Salvo il caso in cui il margine positivo risulti pari a zero, peraltro, non è dato stabilire una soglia di utile al di sotto della quale l’offerta va considerata anomala, potendo anche un utile modesto comportare un vantaggio significativo.

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, deve verificarsi, dapprima, se la valutazione amministrativa in ordine alla congruità delle singole voci di costo in contestazione possa ritenersi frutto di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; all’esito, se gli eventuali manifesti errori così riscontrati siano idonei a determinare una complessiva inattendibilità e inaffidabilità dell’offerta selezionata.

Nello svolgere tali verifiche si deve anche tenere conto di una peculiarità dell’odierno giudizio, rappresentata dalla preesistenza di una sentenza di annullamento (n. 598 del 2020), passata in giudicato, intervenuta tra le stesse parti e in relazione alla medesima procedura, con cui il Tar Lombardia, Brescia, ha già annullato le operazioni valutative svolte dall’Amministrazione in relazione alla congruità dell’offerta selezionata.

Il pregresso giudicato di annullamento risulta, infatti, idoneo a produrre sia un effetto preclusivo, impedendo all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di ripetere le illegittimità già riscontrate in giudizio, sia un effetto conformativo, imponendo all’Amministrazione di assumere le determinazioni di competenza (relative alla stessa vicenda amministrativa in cui è stato adottato il provvedimento annullato in giudizio) nel rispetto dei criteri direttivi discendenti dalla relativa pronuncia giurisdizionale.

9.4 Sulla base di tali premesse è possibile soffermarsi sulle singole censure impugnatorie svolte dall’Ateneo, seguendo l’ordine espositivo alla base del ricorso in appello.

10. In primo luogo, deve essere esaminata la censura riguardante il costo delle divise in dotazione al personale.

Tale censura, sopra sintetizzata, è infondata.

10.1 L’incongruità del costo delle divise in parola era stata già rilevata dal Tar Lombardia, Brescia, nella sentenza n. 598 del 2020 cit., con cui erano state accolte le doglianze attoree ivi articolate, anche in relazione “alle divise complete per i 19 addetti impiegati nell’esecuzione del servizio (due per ciascun addetto), il cui costo indicato dalla controinteressata (€uro 25,00 l’una), palesemente fuori mercato, non emerge né da preventivi del fornitore, né dal documento di trasporto versato in atti. Sicché, l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimane una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità”.

Tale capo decisorio, in quanto recato in una sentenza rimasta inoppugnata, deve ritenersi espressivo di un accertamento ormai irretrattabile, idoneo a conformare il concreto rapporto amministrativo attuato inter partes, rientrando nel perimetro oggettivo del relativo giudicato di annullamento.

Al fine di delimitare la portata del giudicato, occorre infatti procedere ad una lettura congiunta di dispositivo e motivazione, da correlarsi con la causa petendi introdotta dal ricorrente, intesa come titolo dell’azione proposta, e del bene della vita che ne forma l’oggetto (“petitum” mediato): il giudicato, in particolare, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, comprese le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia – che ne costituiscono il giudicato implicito – e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione – che costituisce il giudicato esplicito – formandone l’indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248).

La sentenza di annullamento cit. pronunciata dal Tar Lombardia risultava incentrata, altresì:

– sulla genericità delle deduzioni della controinteressata, riferite alla possibilità di godere di forti sconti risultando un grande operatore del settore;

– su un preciso presupposto, dato dall’offerta, a cura dell’aggiudicatario, di divise complete per 19 addetti, due per ciascun addetto, con un costo indicato dalla controinteressata pari a € 25,00 l’una.

Ne deriva che:

– le dimensioni e la presenza nel mercato della C., di per sé, non possono costituire elementi utilmente valorizzabili per giustificare i costi esposti dal concorrente, occorrendo al riguardo una circostanziata prova da fornire a cura della controinteressata;

– l’offerta di due divise per ogni addetto costituisce una premessa alla base della sentenza n. 598/20 cit., integrando una circostanza fattuale compresa nel perimetro del pregresso giudicato di annullamento, come tale, non revocabile in dubbio in sede amministrativa o nella presente sede giurisdizionale.

10.2 Tale ultimo presupposto, peraltro, è coerente con l’offerta presentata dall’aggiudicataria e con i giustificativi dalla stessa prodotti in sede procedimentale.

In particolare, avuto riguardo all’offerta tecnica (pag. 3 – doc. 5 ricorso di primo grado), emerge che l’abbigliamento previsto per lo svolgimento del servizio constava:

– per le operatrici, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”; nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”;

– per gli operatori uomini, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”, nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”.

Con i giustificativi del 28.11.2019 (all. 6 ricorso di primo grado) la C.O. ha rappresentato che il costo annuale accantonato per ogni operatore in relazione ai costi aziendali in materia di sicurezza sarebbe stato pari ad € 150,00, di cui € 35,00 per visita, € 25,00 per divisa, € 25,00 per dpi, € 25 per corso sicurezza, € 20 per corso pulizie ed € 20,00 per varie; con la precisazione che si trattava di costo approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto pure che la fornitura di alcuni dispositivi di protezione individuale non sarebbe avvenuta in ogni singolo anno di un appalto e gli attestati in materia di sicurezza avrebbero dovuto essere già in possesso del personale attualmente svolgente il servizio, essendo comunque inclusi nel costo orario minimo tabellare.

L’aggiudicataria, nell’ambito dei giustificativi del 21.9.2020 (all. 3 ricorso di primo grado), ha preso posizione sui rilievi formulati dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020, secondo cui il costo di € 25,00 per ogni divisa sarebbe risultato fuori mercato, ritenendo “la perfetta congruità del relativo costo per come a suo tempo indicato nell’offerta tecnica”, come emergente dalla fattura emessa da un fornitore trasmessa dalla stessa aggiudicataria alla stazione appaltante, che avrebbe comprovato “la operatività di quelle economie di scala che connotano per vari settori i rapporti commerciali del presente operatore economico con i propri fornitori”.

Dalla documentazione in atti emerge, dunque, che:

– l’offerta tecnica presentata dall’aggiudicatario prevedeva due divise per ciascun addetto, utilizzabili rispettivamente nella stagione fredda e nella stagione calda di ciascun anno;

– il costo annuale per divisa è stato quantificato nei primi giustificativi del 2019 in € 25,00 annui (tali giustificativi, peraltro, riguardavano soltanto una divisa, in contrasto con quanto previsto nell’offerta, incentrata su due divise per addetto, per la stagione fredda e calda);

– nei giustificativi del 2020 si è inteso prendere posizione sui rilievi svolti dal Tar Lombardia, Brescia, secondo cui sarebbe stato ingiustificato il costo di € 25,00 per ogni divisa, ritenendo tale costo congruo, come confermato da apposita fattura all’uopo prodotta.

10.3 Ne deriva che, diversamente da quanto ritenuto dall’Amministrazione (secondo cui “il costo indicato dall’aggiudicataria in merito alle divise deve ritenersi come spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale”), i documenti in parola confermano che l’impegno contrattuale assunto dalla C.O. prevedeva l’impiego di due divise per ciascun addetto (per la stagione fredda e per la stagione calda), con costo annuale, per ciascuna divisa, quantificato in € 25,00; il che è coerente con quanto già accertato con effetti di giudicato tra le parti dal Tar Lombardia (sentenza n. 598/2020) in merito alla previsione di due divise “per ciascun addetto”, il cui costo indicato dalla controinteressata risultava pari a “€uro 25,00 l’una”.

Non potrebbe valorizzarsi, per giungere ad una diversa conclusione, la precisazione, recata nei giustificativi del 28.11.2019, in cui si chiariva che il costo annuale in materia di sicurezza per ogni operatore risultava approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto che “la fornitura di alcuni Dispositivi di protezione individuale non avviene in ogni singolo anno di un appalto”: tali precisazioni supportavano, comunque, una giustificazione del costo annuale di una divisa per € 25,00, nonché riguardavano “alcuni Dispositivi di protezione individuale”, con un’espressione letterale che, da un lato, non richiamava specificatamente il costo per divisa, dall’altro, risultava maggiormente riferibile alla diversa componente (valorizzata separatamente) dei “dpi”, aventi un autonomo costo annuale per € 25,00.

Per l’effetto, se le divise dovevano essere due per addetto, da impiegare nella stagione fredda e calda di ciascun anno, nonché se il costo per divisa risultava esposto dalla controinteressata nella misura di € 25,00 annui, doveva ritenersi che il costo per entrambe le divise fosse quantificabile in € 50,00 annui per addetto (€ 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione fredda ed € 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione calda): la commisurazione del costo su base annuale presupponeva, inoltre, una sostituzione delle divise in ciascuno degli anni in cui sarebbe stata articolata la commessa, non essendo, infatti, ragionevole la previsione dell’impiego della stessa divisa stagionale per sei anni, senza assicurare una sua sostituzione periodica, anche in ragione della fisiologica usura del capo di abbigliamento o di altri eventi, anche accidentali, incidenti sulla possibilità di un suo persistente utilizzo, suscettibili di verificarsi nel corso del periodo contrattuale.

Tali rilievi già evidenziano come nei giustificativi del 28.11.2019 cit. fosse stato preso in considerazione il costo annuo di una sola divisa, quando, invece, l’offerta tecnica prevedeva l’impiego annuale di due divise (una per la stagione fredda e una per quella calda); pertanto, avendo computato la controinteressata il costo annuo di una sola divisa, a fronte delle due previste nell’offerta tecnica, già tale circostanza avrebbe fatto emergere un maggiore costo di € 25,00 annui (pari al costo della divisa non contemplata nei giustificativi del 2019), da moltiplicare per il numero di addetti (19, come accertato dal Tar nella sentenza n. 598/20 e come emergente dai giustificativi dell’11.11.2019 – deposito C. 25.1.2021) e per il numero di anni di prestazione contrattuale (avente una durata prevista per il periodo 01/05/2020 – 30/04/2026); con conseguente maggiore costo, non considerato nei giustificativi del 2019, di € 2.850,00, prossimo all’utile di € 3.000,00 dichiarato dalla controinteressata.

10.4 Nel caso di specie, tuttavia, oltre ad emergere la mancata considerazione del costo annuale della divisa aggiuntiva, difettano adeguate giustificazioni in ordine allo stesso costo annuale di € 25,00 per divisa dichiarato dal concorrente, non comprovato dal preventivo allegato ai giustificativi del 2020, né risultante dalle autonome (e, secondo quanto si osserverà infra, illegittime) ricerche di mercato svolte dalla stazione appaltante.

10.5 Sotto il primo profilo, si osserva che, diversamente da quanto ritenuto in sede procedimentale dall’Amministrazione (cfr. verbale del 6.10.2020 in cui si attesta che “la Commissione ha potuto verificare che il preventivo della ditta … presentato dalla società C. giustifica il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa”), il preventivo allegato ai giustificativi del 2020 cit. non è idoneo a comprovare la congruità del costo della divisa in dotazione al personale impegnato nella commessa, riguardando il prezzo di capi di abbigliamento che non esauriscono le componenti delle divise previste in sede di offerta tecnica.

In particolare, tale preventivo fa riferimento a giacche (maryland e springfield), polo manica corta (piquet), nonché camicie uomo e donna, con la valorizzazione per ciascun capo di un distinto prezzo.

Il preventivo, dunque, da un lato, valorizza il prezzo di capi non compresi nell’offerta tecnica (polo), dall’altro, non contempla taluni capi invece previsti dall’offerta tecnica (pantalone o gonna per le operatrici e pantalone per gli operatori, cintura per le operatrici e per gli operatori, nonché foulard o cravatta per le operatrici e cravatta per gli operatori).

Tale preventivo non poteva, dunque, ritenersi idoneo a giustificare il costo delle divise in dotazione al personale da impiegare nella commessa, non contemplando alcuni dei capi di abbigliamento occorrenti per formare la divisa prevista nell’offerta tecnica.

Il preventivo poteva, piuttosto, giustificare (soltanto) il prezzo della giacca e della camicia, rispettivamente pari ad € 14,4 e € 7.3, con conseguente valorizzazione di un costo parziale di € 21,7 – relativo a soli due dei capi di abbigliamento componenti la divisa prevista nell’offerta presentata in gara – già prossimo a quello complessivo di € 25 per divisa indicato dalla controinteressata nei giustificativi del 2019 e del 2020.

Per ritenere congruo il costo complessivo di € 25,00, sarebbe stato, dunque, necessario dimostrare che il costo dei capi ulteriori componenti la divisa (pantalone o gonna, cintura, nonché cravatta o foulard) fosse complessivamente contenuto entro l’importo di € 3,3, corrispondente alla differenza tra costo dichiarato per divisa e costo giustificato per giacca e camicia; una tale prova, tuttavia, non risulta essere stata fornita dalla società aggiudicataria.

Per l’effetto, la valutazione della Commissione, secondo cui il preventivo de quo risultava idoneo a giustificare il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa risulta inficiata da una macroscopica erroneità, in quanto incentrata su un documento non riferibile a tutti i capi componenti la divisa in esame e, dunque, tale da non potere giustificare il costo complessivo del prodotto in dotazione al personale impegnato nell’esecuzione della commessa.

10.6 Sotto il secondo profilo di indagine, si osserva che, alla stregua di quanto risultante dal medesimo verbale del 6.10.2020 cit., “La commissione ha anche verificato che il preventivo risulta essere in linea con i prezzi di mercato facilmente reperibili on line come, ad esempio, quelli esposti nel market place … dove è esposto un costo tra i 10 e 20 USD per acquisti superiori alle 100 unità…”.

Anche tale seconda ratio decidendi alla base del giudizio di congruità del costo in parola risulta illegittima, in quanto, da un lato, la stazione appaltante non avrebbe potuto sopperire ad un difetto di giustificazioni mediante un’autonoma ricerca di mercato, dall’altro, gli elementi istruttori (illegittimamente) acquisiti non potrebbero comunque rilevare per giustificare il costo delle divise in contestazione.

10.6.1 Ai sensi dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016, “La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto: a) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 30, comma 3; b) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 105; c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui all’articolo 95, comma 10, rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture; d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16”.

Come precisato da questo Consiglio, “l’art. 97, comma 5, prevede l’esclusione dell’offerta “solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa” per i motivi di seguito elencati. La disposizione lascia quindi aperta l’opzione – ulteriore rispetto a quelle, previste, della insufficienza delle giustificazioni fornite e dell’accertamento dell’anomalia dell’offerta, conducenti per legge all’esclusione dell’offerta sospetta di anomalia – che la commissione di gara, ritenendo non integrate le due predette fattispecie, possa ritenere necessitata la produzione di altri elementi e provvedere di conseguenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Ne deriva che, a fronte di giustificazioni incomplete, fornite dall’operatore economico proponente un’offerta sospetta di anomalia, la stazione appaltante potrebbe chiedere chiarimenti all’impresa, attivando un’ulteriore fase di contraddittorio e provvedendo, all’esito, alla valutazione dell’attendibilità dell’offerta alla stregua degli elementi integrativi eventualmente acquisiti (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2021, n. 911, secondo cui “ben può accadere in concreto che, ricevuti i primi giustificativi, l’amministrazione non sia in condizione di risolvere tutti i dubbi in ordine all’attendibilità dell’offerta soggetta a verifica di anomalia e decida per questo di avanzare ulteriori richieste all’operatore economico ovvero di fissare un incontro per ricevere spiegazioni e chiarimenti”), ma non potrebbe sopperire, di propria iniziativa, all’assenza parziale di spiegazioni con un’autonoma ricerca di mercato volta a dimostrare la congruità di un costo, riferito ad alcuni dei prodotti offerti dall’operatore economico, non giustificato dall’impresa.

Avuto riguardo al caso di specie, dunque, a fronte di giustificazioni insufficienti, la stazione appaltante avrebbe potuto evitare l’esclusione dell’offerta per la sua complessiva inaffidabilità, attraverso una richiesta di chiarimenti rivolta alla società cooperativa, ma non avrebbe potuto sopperire all’incompletezza degli elementi giustificativi e probatori forniti dalla C.O. (in specie, una fattura commerciale riguardante solo alcuni dei capi componenti la divisa in dotazione descritta nell’offerta tecnica) attraverso una propria iniziativa istruttoria ufficiosa, tradottasi nella specie nello svolgimento di una ricerca di mercato on line presso un noto market place; ciò, tenuto conto pure del contesto amministrativo di riferimento, caratterizzato dalla presenza di un pregresso giudicato di annullamento, che aveva evidenziato come il costo in contestazione (riguardante le divise in dotazione al personale impiegato nell’ambito della pubblica commessa) risultasse “palesemente fuori mercato” e non documentato, con conseguente necessità, per l’operatore economico, di fornire una specifica e completa prova del costo stimato per singola divisa.

10.7 L’Amministrazione, in ogni caso, pure decidendo (illegittimamente, per quanto osservato) di sostituirsi all’impresa nel comprovare la congruità del costo di un prodotto rimasto ingiustificato (emergendo alcuni componenti non contemplati nel preventivo prodotto dall’operatore economico), ha posto alla base della propria decisione risultanze istruttorie incoerenti con la tipologia del prodotto in contestazione.

In particolare, il prezzo reperito on line dall’Amministrazione e documentato sub doc. 13 della produzione di primo grado dell’Ateneo (10,00USD-20,00USD), oltre a riferirsi ad acquisti cumulativi (con ordine minimo di 100 “parti”), non reca una descrizione puntuale delle componenti della divisa, emergendo soltanto un disegno della divisa di receptionist di hotel (con la valorizzazione, peraltro, di una figura professionale diversa da quella rilevante nella specie), che non permette di individuare con certezza i capi di abbigliamento componenti la divisa presa in esame dalla Commissione: pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica presente nella pagina del sito internet consultato dall’Amministrazione, sembrerebbe che si tratti di divise prive della giacca e della cintura (oltre che della cravatta per l’operatore), nonostante tali capi costituissero una componente della divisa prevista nell’offerta tecnica dell’aggiudicatario.

Si è, dunque, in presenza di risultanze istruttorie inconferenti in quanto, da un lato, riguardanti un prodotto non puntualmente descritto e, comunque (avendo riguardo alla rappresentazione grafica), difforme da quello previsto dall’aggiudicatario; dall’altro, presupponenti acquisti cumulativi con ordine minimo di 100 unità, sebbene il preventivo valorizzato dall’aggiudicatario fosse riferito ad acquisti per quantità estremamente inferiori (13 giacche e 17 camicie, in relazione ai capi di interesse), con conseguente emersione di una condotta di acquisto dell’aggiudicatario difforme da quella presupposta dall’Amministrazione (incentrata su acquisti cumulativi di ben maggiore consistenza).

Il doc. 13 cit., pertanto, non potrebbe essere utilmente invocato per dimostrare la congruità del costo esposto dall’operatore economico.

Non potrebbe, invece, valorizzarsi nella presente sede il doc. 14 prodotto dall’Amministrazione in primo grado, riferito ad un prezzo per divisa compreso tra 6,00 USD e 18,00USD, in quanto non coerente con le valutazioni sulla cui base è stato assunto il provvedimento impugnato in primo grado, incentrate su un costo per divise compreso tra 10,00 e 20,00 USD ed acquisti superiori alle 100 unità. Per l’effetto, la mancata valorizzazione di tale preventivo in sede procedimentale implica un giudizio di sua irrilevanza ai fini della decisione amministrativa.

In ogni caso, anche tale documento non reca una descrizione delle componenti della divisa (comparendo un mero riferimento ad un’uniforme di receptionist di hotel) e, comunque, pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica, sembra non comprendere tutti i capi di abbigliamento previsti nell’offerta tecnica (cfr. la mancata rappresentazione grafica della cintura).

10.8 Alla stregua delle considerazioni svolte, la valutazione di congruità del costo delle divise, svolta dall’Amministrazione, non risulta legittima, emergendo non soltanto la mancata considerazione del costo annuo di una divisa aggiuntiva per addetto, ma anche il difetto di giustificazioni del costo di € 25,00 annui per divisa esposto dalla controinteressata.

11. Anche la seconda censura, riferita alle bacheche elettroniche, non può essere accolta.

11.1 Al riguardo, si osserva che la C.O., nell’ambito della propria offerta tecnica ha proposto, tra “le migliorie offerte senza nessun onere per la Committenza”, delle “B.E.G.C.”, caratterizzate da un “Sistema Automatizzato di gestione chiavi”; l’offerta era relativa a “tutti i plessi” (pag. 16).

Il Tar Lombardia, Brescia, con la sentenza n. 598 del 2020 ha ritenuto che “le bacheche e il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

L’effetto conformativo discendente da tale pronuncia imponeva, dunque, all’Amministrazione di valutare il costo per le bacheche e per il restante materiale, pure ove già a magazzino.

I giustificativi forniti dall’aggiudicataria in data 21.9.2020, relativamente alle attrezzature valorizzate dal giudicato di annullamento, si soffermano sul costo del D. e sul costo delle altre attrezzature: in particolare, l’aggiudicatario ha ribadito che “le attrezzature citate in sentenza …. sono tutte presenti presso i magazzini della scrivente Cooperativa e … quindi le stesse hanno un costo finale per questa Cooperativa pari a zero”, nonché, comunque, che “per le sedie e per i pc il costo imputabile al cantiere ammonta in via presuntiva a solamente circa € 800,00 – 900,00”, come emergente dal libro cespiti.

La Commissione di gara ha ritenuto attendibili i giustificativi forniti dal concorrente, precisando che l’importo dichiarato dall’operatore economico “è stato verificato sia dal libro cespiti che dalle schede forniti dalla ditta C.” (verbale 6.10.2020 cit.).

11.2 Tale motivazione manifesta l’erroneità della valutazione amministrativa.

Premesso che le bacheche de quibus costituivano una miglioria senza oneri aggiuntivi per l’Amministrazione, configurando, di contro, un prodotto offerto dal concorrente, per il quale risultava foriero di costo, come accertato con effetti di giudicato con la sentenza n. 598/20 cit., si osserva che la Commissione di gara non ha tenuto conto che i giustificativi forniti dal concorrente non valorizzavano espressamente il costo delle bacheche elettroniche, bensì soltanto quello delle sedie e dei pc; con conseguente assenza, in parte qua, di spiegazioni in ordine al costo di un prodotto comunque offerto dall’aggiudicatario.

In assenza di giustificazioni, come rilevato sopra, l’Amministrazione, anziché reputare immediatamente non specificato e (a fortiori) non dimostrato il costo del relativo prodotto, avrebbe potuto attivare un’ulteriore fase di confronto con l’impresa, chiedendo precisazioni al riguardo; l’Amministrazione non avrebbe, invece, potuto ritenere giustificato il relativo prezzo, in assenza di elementi probatori forniti dalla società e sulla base di ricerche di mercato autonomamente condotte.

La decisione di ritenere congruo un prezzo non giustificato risulta, dunque, illegittima per violazione dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016.

11.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure rilevando che il riferimento ai beni in magazzino, recato nei giustificativi forniti dal concorrente, comprendesse anche le bacheche de quibus, ovvero che l’importo di tali beni fosse comunque tale da non erodere l’utile di commessa dichiarato dal concorrente.

11.3.1 Sotto il primo profilo, si osserva che, come rilevato dal Tar, la stessa controinteressata ha riconosciuto di non aver ancora acquistato i beni in esame (cfr. p. 6 note di udienza del 25 gennaio 2021, in cui si ammette che “Quanto, da ultimo, alle più volte citate bacheche, si osserva, da un lato, che la C. non è oggi in possesso di una fattura inerente le stesse semplicemente perché, come lecito e coerentemente con le previsioni della propria offerta tecnica oltre che con gli accordi intercorsi con la stazione appaltante, non le ha ad oggi ancora acquistate”); il che evidenzia come le bacheche non potessero ritenersi comprese tra i beni in magazzino.

In ogni caso, nel rispetto di quanto imposto dal giudicato di annullamento, formatosi sulla sentenza n. 598/20 cit., anche i beni in magazzino avrebbero dovuto essere specificatamente valorizzati con l’esposizione e la giustificazione del relativo costo; il che non risulta avvenuto nella specie.

11.3.2 Sotto il secondo profilo, l’Amministrazione richiama un preventivo autonomamente ricavato da una ricerca di mercato (doc. 16 produzione di primo grado), che attesterebbe un costo di circa 41 USD per l’acquisto della bacheca de qua.

Un tale modus procedendi, per le stesse ragioni sopra esposte – in relazione alla ricerca di mercato svolta per le divise – non può ritenersi legittimo, non potendo l’Amministrazione sostituirsi all’impresa nel ricercare gli elementi probatori idonei a comprovare la congruità dei prezzi o dei costi dei prodotti offerti dall’operatore economico e da questi non giustificati.

In ogni caso, il preventivo valorizzato dall’Ateneo non risulta conferente, riguardando un armadio con serratura intelligente, costituente un prodotto diverso da quello offerto dal concorrente.

L.C.O., infatti, non aveva offerto un prodotto caratterizzato da una serratura automatica, ma un prodotto connotato da un sistema automatizzato di gestione chiavi.

L’automatizzazione non afferiva, dunque, all’apertura della bacheca, ma alla gestione delle chiavi in essa contenute.

Per l’effetto, a prescindere da una supposta compatibilità tra la rappresentazione grafica del prodotto recata nell’offerta tecnica e quella relativa al prodotto presente nel sito internet consultato dall’Amministrazione (circostanza di per sé non significativa, occorrendo verificare la descrizione delle modalità di funzionamento del prodotto, per come riportate nell’offerta tecnica, e non la relativa immagine, meramente indicativa), l’Amministrazione ha valorizzato (peraltro, illegittimamente) un preventivo inconferente, perché non riguardante una bacheca con gestione automatizzata delle chiavi; il che conferma, per un’ulteriore e autonoma ragione, la mancata giustificazione del costo di un prodotto componente l’offerta selezionata.

12. Deve essere rigettata anche la censura riferita al responsabile sociale del progetto.

12.1 In particolare, secondo quanto statuito dal Tar Lombardia, Brescia con la sentenza n. 598/2020, “non convince l’inquadramento (E2), non coerente – a norma del CCNL delle Cooperative sociali – al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), del responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.): il corretto inquadramento al livello F1 determina da solo uno scostamento del costo del lavoro di €uro 7.525,79. A nulla vale, infatti, che, secondo le difese della controinteressata, il responsabile abbia accettato un inquadramento inferiore, perché si tratta di materia sottratta alla disponibilità delle parti, posto che diversamente si accorderebbe all’impresa che viola il CCNL un indebito vantaggio competitivo. Deve, invece, esserci coerenza tra le mansioni svolte, idoneità a svolgerle e livello retributivo accordato al dipendente”.

Il Tar, pertanto, ha accertato che:

– l’inquadramento E2 del responsabile sociale del progetto non risultava coerente, a norma del CCNL delle Cooperative sociali, al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), con la figura professionale prevista dal concorrente;

– il corretto inquadramento doveva avvenire a livello F1, foriero di uno scostamento del costo del lavoro per € 7.525,79.

12.2 A fronte di tali statuizioni, l’aggiudicatario, nell’ambito dei propri giustificativi del 21.9.2020, quanto al “lamentato non corretto inquadramento contrattuale della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”, ha ritenuto che “erri la controparte (inducendo in errore anche il Tar) nel far conseguire automaticamente alla di lui iscrizione ventennale nell’albo degli psicologi il livello F1 del CCNL Cooperative Sociali”; per l’effetto, l’operatore economico ha indicato le ragioni per le quali la figura professionale incaricata non potesse essere inquadrata al livello F1, risultando corretto e congruo rispetto alle mansioni svolte un inquadramento al livello E2.

12.3 Dalla documentazione in atti emerge che l’Amministrazione:

– dapprima, alla stregua di quanto emergente dal verbale del 6.10.2020, ha ritenuto “utile un parere di un consulente del lavoro”;

– all’esito, una volta acquisito tale parere, come attestato dal verbale del 16.10.2020 (riprodotto nel verbale del 4.11.2020), ha ritenuto corretto il livello contrattuale E2 proposto dalla cooperativa C., chiedendo comunque all’operatore economico di fornire ulteriori precisazioni in ordine alla quantificazione del tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, per la cui attività risultava incaricato il dott. M., con la precisazione che “il tempo dovrà essere espresso come percentuale rispetto al contratto in essere con il dottor G.M.”;

– infine, ricevuti i chiarimenti richiesti dal concorrente, ha rilevato che il tempo dedicato al cantiere dell’Ateneo da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali risultava pari a 2,63% rispetto al monte ore settimanale previsto dal contratto in essere tra lo stesso e l’operatore economico; ragion per cui il costo da imputare al cantiere de quo avrebbe dovuto essere valorizzato in base a detta percentuale e non per l’intero valore annuale; tale calcolo avrebbe evidenziato ampi margini anche nel caso in cui il livello contrattuale fosse stato superiore a quello attribuito; considerando il costo lordo annuo per un lavoratore inquadrato con il livello F1, quantificato in € 45.321,78 nella tabella del costo orario allegata al contratto di categoria di riferimento, ed applicando la percentuale di 2,63%, sarebbe infatti emerso un costo da imputare al cantiere dell’Ateneo di € 1.191,96 (verbale del 22.10.2020, riprodotto nel verbale del 4.11.2020).

12.4 L’operato amministrativo risulta manifestamente erroneo, in quanto, da un lato, incentrato sulla valorizzazione di un inquadramento della figura professionale del Dott. M. incompatibile con l’accertamento giurisdizionale recato nella sentenza n. 598/2020 cit.; dall’altro, basato su elementi fattuali incompatibili con gli stessi giustificativi originariamente forniti dal concorrente.

12.4.1 Sotto il primo profilo, si osserva che a pag. 24 dell’offerta tecnica, la società C. ha precisato che: “In considerazione dell’elevato numero di personale svantaggiato coinvolto nella erogazione dei servizi di portierato per l’Università di Brescia, il ruolo di Responsabile Sociale sarà attribuito, per questo appalto, al Dott. G.M., in quanto professionista con 20 anni di esperienza specifica”; il ruolo del dott. M. quale responsabile sociale è stato anche accertato con effetti di giudicato (in quanto presupposto della decisione) dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020 cit. in cui si discorre del “responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.)”, nonché è riconosciuto dall’aggiudicatario nei giustificativi del 21.9.2020, in cui si tratta dell’inquadramento contrattuale “della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”. Parimenti, l’Ateneo, nel ricorso in appello, alla pag. 16, discorre di “responsabile sociale del progetto, dott. M.”.

Nel prendere in esame l’inquadramento contrattuale del responsabile sociale, il Tar Lombardia, nella sentenza n. 598/2020, non soltanto aveva manifestato (in negativo) dubbi sull’inquadramento proposto dal concorrente, ma aveva accertato (in positivo) “il corretto inquadramento al livello F1”; con conseguente emersione di un effetto conformativo del giudicato, che imponeva all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di considerare corretto l’inquadramento al livello F1.

Se l’Amministrazione avesse ritenuto tale statuizione erronea, avrebbe dovuto appellare la sentenza di primo grado, non potendo, invece, dubitare della correttezza di tale pronuncia nella fase di riedizione del potere, al fine di pervenire ad un accertamento incompatibile con quello presupposto dal giudicato.

La circostanza per cui l’Ateneo abbia disatteso il vincolo conformativo discendente dalla sentenza di annullamento emerge manifestamente dai giustificativi dell’aggiudicatario, che discorre espressamente di una pronuncia erronea da parte del Tar (censurando la condotta della seconda classificata, che avrebbe indotto “in errore anche il Tar”): tale errore non avrebbe potuto essere corretto con i giustificativi del 2020 e con una nuova decisione amministrativa, ma avrebbe dovuto essere contestato con uno specifico motivo di impugnazione, altrimenti formandosi la cosa giudicata, espressione dell’irretrattabilità del comando giudiziale.

Pertanto, l’Ateneo, ritenendo scorretto l’inquadramento F1 e assumendo una decisione incentrata su un inquadramento (E2) diverso da quello accertato nella pregressa sentenza, ha agito in maniera illegittima, ponendo in essere un atto violativo del giudicato.

Né potrebbe diversamente argomentarsi valorizzando il parere di un consulente del lavoro acquisito in sede procedimentale: nella specie, l’attività amministrativa è illegittima in radice, in quanto tesa ad accertare fatti incompatibili con quelli emergenti dal giudicato. Il parere de quo mirava, infatti, ad asseverare un inquadramento difforme rispetto a quello ritenuto corretto dalla sentenza n. 598/20 (ormai irretrattabile, perché passata in giudicato), il che non risultava ammesso nella fase di riedizione del potere.

12.4.2 L’operato amministrativo risulta illegittimo, altresì, perché incentrato su una valorizzazione di un costo per la figura professionale in esame incompatibile con gli elementi fattuali forniti dal concorrente con i giustificativi del 2019, da cui emergeva che il responsabile sociale sarebbe stato impiegato ad un costo orario di € 23,19, per n. 310,47 ore lavorative, con la valorizzazione di un importo lordo mensile di € 100,00 ed uno lordo complessivo di € 7.200,00 (giustificativi dell’11.11.2019 e del 28.11.2019).

A fronte di tali dati, non mutati nei giustificativi del 21.9.2020, riferiti soltanto all’inquadramento del responsabile sociale, l’Ateneo ha avvertito l’esigenza di chiedere al concorrente una precisazione ulteriore in ordine al tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, da esprimere come percentuale rispetto al contratto in essere con il dott. M..

Acquisito tale dato percentuale (corrispondente al 2,63%), l’Ateneo ha ritenuto che, pure l’applicazione dell’inquadramento F1, avrebbe generato un costo lordo annuo di € 1.191,96.

Tale quantificazione risulta incompatibile con quella operata dal concorrente che, partendo da un inferiore livello contrattuale (E2), aveva quantificato per il responsabile sociale (individuato nel dott. M.) un importo lordo mensile di € 100,00, con la conseguente valorizzazione di un importo lordo annuo di € 1.200,00.

In altri termini, l’Amministrazione, sebbene avesse a disposizione il dato relativo al numero di ore lavorative riferite al responsabile sociale (indicato nei precedenti giustificativi), ha inteso chiedere ulteriori elementi, non spontaneamente forniti dal concorrente, per addivenire alla quantificazione di un costo lordo mensile che, sebbene calcolato sulla base di un inquadramento (F1) superiore a quello computato dal concorrente (E2), ha condotto ad un importo (€ 1.191,96 annui) inferiore a quello valorizzato dallo stesso aggiudicatario (€ 1.200,00 annui); il che risultava possibile soltanto calcolando un numero di ore dedicate alla commessa inferiore rispetto al numero di ore specificate negli originari giustificativi in relazione alla figura del responsabile sociale (come correttamente dedotto dalla D.O., che ha censurato anche la riduzione delle ore lavorate in relazione alla posizione del responsabile sociale del progetto).

La giurisprudenza di questo Consiglio (tra gli altri, sez. III, 19 ottobre 2021, n. 7036), pure non escludendo in radice la possibilità di una modifica dei giustificativi, ha subordinato una tale eventualità al ricorrere di talune specifiche condizioni, precisando che:

– in termini generali, è ammissibile una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo, non solo in correlazione a sopravvenienze di fatto o di diritto, ma anche al fine di porre rimedio ad originari e comprovati errori di calcolo, sempre che resti ferma l’entità originaria dell’offerta economica, nel rispetto del principio dell’immodificabilità, che presiede la logica della par condicio tra i competitori;

– tale ammissibilità incontra (di là dalla rigidità delle voci di costo inerenti gli oneri di sicurezza aziendale) il solo limite del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta che ne alteri l’equilibrio economico, allocando diversamente voci di costo nella sola fase delle giustificazioni;

– la riallocazione delle voci deve avere un fondamento economico serio allorché incida sulla composizione dell’offerta, atteso che, diversamente, si perverrebbe all’inaccettabile conseguenza di consentire un’elusiva modificazione a posteriori della stessa, snaturando la funzione propria del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che è, per l’appunto, di apprezzamento globale dell’attendibilità dell’offerta;

– ragionevoli, giustificate e proporzionate modificazioni e rimodulazioni possono interessare anche la struttura dei costi per il personale.

La modifica dei giustificativi deve, dunque, avere un fondamento oggettivo, ancorato a sopravvenienze non considerate al momento della loro originaria redazione ovvero all’esigenza di porre rimedio a taluni errori in cui sia incorso l’operatore economico nella formulazione delle precedenti spiegazioni.

Deve, dunque, essere l’operatore economico a rappresentare all’Amministrazione la ragione alla base della modifica di quanto già giustificato.

Nel caso di specie, invece, a fronte di una condotta assunta dall’aggiudicatario volta a ribadire la correttezza di un dato inquadramento professionale (E2), è stata l’Amministrazione a sollecitare l’acquisizione di un elemento informativo riferito alla percentuale dell’impegno lavorativo del dott. M. rispetto al contratto in essere, sulla cui base l’Ateneo ha provveduto al calcolo del costo complessivo lordo della relativa manodopera, implicante, tuttavia, un numero di ore impiegate nell’appalto minore rispetto a quanto originariamente giustificato dal concorrente (essendo stato valorizzato, come osservato, un costo inferiore a quello indicato nei giustificativi del 2019, sebbene calcolato sulla base di un superiore inquadramento contrattuale, il che è compatibile solo con la riduzione della base di calcolo, data dal numero di ore lavorate, come correttamente censurato dalla D.O.).

Tale modifica del giustificativo, alla luce delle precedenti coordinate ermeneutiche, non può ritenersi ammissibile, perché non originata da sopravvenienze o errori rappresentati dal concorrente, ma da un’attività della stessa stazione appaltante, riferita ad un profilo fattuale (impegno percentuale della manodopera) neppure valorizzato dal concorrente.

13. Le censure dell’Ateneo, riguardanti i beni strumentali a magazzino, non possono parimenti essere accolte nella parte in cui tendono ad escludere la necessità di computare il costo dei beni presenti in magazzino, in quanto (anche sotto tale profilo) risultano manifestamente incompatibili con il giudicato di annullamento formatosi sulla sentenza n. 598/2020 cit., che aveva chiaramente imposto di valorizzare anche il costo dei beni in magazzino: “il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

Se tale precetto, idoneo a conformare la riedizione del potere, non fosse stato condiviso, l’Ateneo avrebbe dovuto proporre appello avverso la sentenza n. 598/20, non potendo violare il relativo comando conformativo nella fase di riedizione del potere attraverso la rinnovata considerazione di attrezzature a costo zero perché già presenti in magazzino.

Le deduzioni dell’Ateneo, svolte nell’odierno ricorso in appello, nella parte in cui valorizzano in € 800-900 il maggiore costo dichiarato dall’aggiudicataria per materiali presenti in magazzino, invece, confermano un’ulteriore componente di costo non considerato dall’impresa negli originari giustificativi che, se sommato a quelli discendenti dal rigetto delle precedenti censure, rileva complessivamente per azzerare l’utile di impresa.

14. Alla stregua delle considerazioni svolte, il secondo motivo di appello deve essere rigettato.

14.1 Come osservato sopra – nella disamina dei principi giurisprudenziali espressi in materia di giudizio di anomalia – sebbene la valutazione di congruità (globale e sintetica) non debba concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, occorre comunque tenere conto dell’incidenza che le singole voci hanno sul costo complessivo del servizio, al fine di verificare se le carenze all’uopo rilevate siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Come precisato da questo Consiglio, “gli appalti pubblici devono pur sempre essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso: laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell’utile stimato, è evidente che l’offerta diventa non remunerativa e, pertanto, non sostenibile” (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. III, 10 luglio 2020, n. 4451).

L’infondatezza delle doglianze articolate dall’Amministrazione conduce alla valorizzazione di maggiori costi non computati o non giustificati dall’aggiudicatario, per un importo superiore all’utile di impresa, il che manifesta l’illegittimità del giudizio di complessiva affidabilità dell’offerta formulato con gli atti censurati in primo grado.

14.2 Basti considerare che, a fronte di un utile di commessa di € 3.000,00, già soltanto il maggiore costo per la divisa addizionale, non computata nei giustificativi del 2019 risulta idoneo ad erodere gran parte dell’utile atteso, facendosi questione di un importo annuo di € 475,00 – pari ad € 25 annui (comunque non giustificati, per quanto sopra osservato) per la divisa aggiuntiva, moltiplicato per il numero di addetti alla commessa (n. 19) – corrispondente, per i sei anni dell’appalto, ad un maggiore costo di € 2.850,00: tale importo, sommato ad € 800-900 per attrezzature in magazzino non considerate nei giustificativi del 2019 – da computare in conformità a quanto imposto dal pregresso giudicato di annullamento – dà luogo a maggiori costi non considerati dalla controinteressata per un valore economico superiore all’utile di impresa.

L’inaffidabilità complessiva dell’offerta discende ulteriormente, da un lato, dalla mancata giustificazione del costo di € 25 per divisa e dei costi delle bacheche elettroniche, dall’altro, dalla mancata considerazione dei maggiori costi derivanti dal superiore inquadramento del dott. M. (a parità di ore lavorative originariamente assunte alla base delle spiegazioni fornite dall’aggiudicatario), con conseguente valorizzazione di ulteriori costi non considerati o non giustificati insuscettibili di essere coperti tramite il valore economico dell’utile stimato.

14.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure valorizzando la natura non lucrativa dello scopo sociale perseguito dall’aggiudicataria.

Difatti, con riguardo alle cooperative sociali, sebbene possa prescindersi dalla necessità di un adeguato margine di guadagno, previsto tipicamente per le società commerciali – tenuto conto che, per gli organismi non animati da uno scopo di lucro, un utile anche modesto può comportare un vantaggio significativo per l’impiego dell’attività lavorativa dei soci (oltre che per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico) – non potrebbe, comunque, ammettersi un’offerta in perdita: “ciò che è importante ed essenziale è che non vi siano “perdite”” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Nella specie, invece, i maggiori costi non giustificati o non considerati dalla controinteressata risultano idonei a sopravanzare l’utile di commessa, con conseguente emersione di una perdita di commessa, tale da rendere illegittimo il giudizio di affidabilità svolto dalla stazione appaltante.

14.4 Infine, non potrebbero neppure valorizzarsi a sostegno dell’appello le dimensioni societarie della controinteressata, tenuto conto che il primo giudice, con capo decisorio peraltro neppure specificatamente censurato nella presente sede, ha correttamente rilevato che “le economie di scala di cui l’operatore può godere, perché parte di un più ampio consorzio di imprese, vanno dimostrati e non semplicemente allegati”; il che costituisce un principio già affermato nella sentenza n. 598/20, in cui era stato precisato in maniera ormai irretrattabile che l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimaneva una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità.

Per le ragioni svolte, nel caso in esame tale prova, riferita ai benefici derivanti dalle asserite economie di scala, non risulta tuttavia fornita, con conseguente irrilevanza delle dimensioni della cooperativa ai fini dell’odierna decisione.

15. Alla stregua di tali osservazioni, l’appello deve essere rigettato.

Le spese di giudizio del grado di appello, nei rapporti tra l’Amministrazione e la D.O., sono regolate in applicazione del criterio della soccombenza, venendo liquidate come da dispositivo a carico dell’appellante e in favore della ricorrente in primo grado; le spese di giudizio possono, invece, essere interamente compensate nei rapporti tra l’Amministrazione e la controinteressata in primo grado, attesa l’omogeneità della posizione assunta dalle due parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata anche se, parzialmente, con diversa motivazione.

Condanna l’Università degli Studi di Brescia a pagare, a titolo di spese di giudizio del grado di appello, in favore della D. Società Cooperativa Sociale Onlus, l’importo complessivo di € 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori di legge ove dovuti. Compensa le spese di giudizio nei rapporti tra l’Università degli Studi di Brescia e la C. Società Cooperativa Sociale Onlus.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere

Francesco De Luca, Consigliere, Estensore


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 21-10-2021) 16-11-2021, n. 7640

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 2297 del 2021, proposto da Ministero della Giustizia, in persona del ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandro Lipani, con domicilio digitale p.e.c. indicato nei registri di giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania – Sede di Napoli (sezione prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la domanda di monetizzazione del congedo ordinario non goduto;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del dottor -OMISSIS-;

Viste le memorie e tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 ottobre 2021 il consigliere Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati delle parti, come da verbale di udienza;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania – Sede di Napoli il dottor -OMISSIS-, già magistrato ordinario, ora in congedo, chiedeva che fosse accertato il suo diritto alla monetizzazione dei giorni di congedo ordinario non fruiti negli anni 2017 e 2018, prima del suo collocamento a riposo per limiti di età, avvenuto nell’agosto del 2018, dopo che questo gli era stato negato dal Ministero della giustizia, con provvedimento della Direzione generale magistrati in data -OMISSIS- (-OMISSIS-), di cui chiedeva l’annullamento.

2. A fondamento del diniego impugnato era posto l’art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini; convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 135), a tenore del quale le ferie “sono obbligatoriamente fruit(e) secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età”. Nella nota di diniego erano inoltre richiamate la giurisprudenza e la prassi ministeriale formatesi in relazione alla disposizione di legge, in base alle quali la monetizzazione può essere riconosciuta in “ipotesi eccezionali”, ovvero nei soli casi in cui “l’impossibilità di fruire delle ferie, sia stata imprevedibile e non riconducibile in alcun modo al dipendente”. Per il Ministero della giustizia questa ipotesi non era ravvisabile in caso di collocamento a riposo per limiti di età, da considerarsi invece un fatto “da sempre prevedibile da parte del magistrato”.

3. Nel contraddittorio con il Ministero il Tribunale amministrativo accoglieva il ricorso, ed annullato il diniego accertava il diritto del -OMISSIS- a ricevere “il trattamento economico equivalente ai giorni di ferie non goduti”. Ciò sul rilievo che nel caso di specie il ricorrente aveva richiesto di fruire dei giorni di congedo spettantigli (per un totale di 47) e si era visto sempre opporre dinieghi motivati da esigenze di servizio, per cui l’impossibilità sopravvenuta conseguente al collocamento a riposo d’ufficio non poteva essere a lui imputata.

4. Per la riforma della sentenza di primo grado il Ministero della giustizia ha proposto appello, al quale resiste il ricorrente.

Motivi della decisione
1. Nel censurare la pronuncia di primo grado di accoglimento del ricorso, l’appello del Ministero della giustizia premette che con sentenza 6 maggio 2016, n. 95, la Corte costituzionale ha interpretato il citato art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, nel senso che il divieto di monetizzazione in esso contenuto opera ogniqualvolta l’impossibilità di fruire delle ferie “sia riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore”; e che per contro esulano dal suo ambito di applicazione “le vicende estintive del rapporto di lavoro non imputabili alla volontà delle parti”. In questa linea l’appello ricorda che in fattispecie analoghe la giurisprudenza amministrativa ha respinto la domanda del magistrato di monetizzazione delle ferie formulata a ridosso del collocamento a riposo d’ufficio, non seguita dalla relativa fruizione per l’intervenuta cessazione del rapporto di impiego per tale causa (viene richiamata, e prodotta in allegato all’appello, la sentenza del 10 febbraio 2016, n. 1712, del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sede di Roma).

2. Tanto premesso, l’appello sostiene che la presente fattispecie avrebbe caratteristiche in termini con quelle del precedente ora richiamato, dal momento che il -OMISSIS- ha formulato una prima domanda di ferie il 21 ottobre 2017, respinta perché “il periodo richiesto era troppo esteso e non coerente con le esigenze di servizio”; e una seconda domanda il 19 febbraio 2018, quando il ricorrente era nel frattempo stato nominato membro della commissione di concorso a magistrato, su sua domanda; la domanda è stata quindi respinta su parere contrario del presidente della commissione di concorso. Al riguardo si sottolinea che a fronte del primo rigetto il -OMISSIS- avrebbe potuto frazionare i periodi di congedo e che il secondo rigetto non può essere ritenuto “equivalente a “rifiuto del datore di lavoro” ai sensi della giurisprudenza sopra citata”. Ad ulteriore dimostrazione dell’imputabilità al ricorrente l’appello ricorda che per il personale di magistratura ordinaria il congedo ordinario deve normalmente essere fruito in coincidenza con il periodo di sospensione feriale, salve diverse ragioni di servizio, e che è ammessa la possibilità di superare il termine massimo dato dal primo semestre dell’anno successivo (art. 15 della L. 11 luglio 1980, n. 312 – Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato) per oggettiva e comprovata impossibilità. La sentenza di primo grado avrebbe perciò errato nel considerare a favore del -OMISSIS- le “isolate” istanze di ferie del 2017 e 2018, senza invece valutare quanto sul punto dedotto da essa resistente, e cioè che “non risultano agli atti altre istanze, nel lungo lasso di tempo in cui l’interessato avrebbe potuto (e dovuto) organizzarsi con largo anticipo per poter fruire della ferie, sapendo che sarebbe stato collocato a riposo”. Sulla base di ciò, l’appello conclude nel senso che il ricorrente, in vista del collocamento a riposto previsto per l’agosto del 2018, era nelle condizioni di programmare le proprie ferie residue in modo da esaurire quelle maturate a suo favore prima della cessazione del rapporto di impiego, per cui lo stesso non può fondatamente addurre l’impossibilità a lui non imputabile in funzione della monetizzazione.

3. Le censure così sintetizzate sono infondate.

4. Deve premettersi che non è in contestazione l’interpretazione del divieto di monetizzazione delle ferie non godute sancito dal più volte menzionato art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, data dalla Corte costituzionale con sentenza 6 maggio 2016, n. 95, richiamata dall’amministrazione appellante, secondo cui esso si applica quando l’impossibilità di fruire delle ferie è correlata ad un evento prevedibile incidente sul rapporto di impiego, come nel caso di collocamento a riposo d’ufficio, il quale consente di “programmare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore”.

5. Nel caso di specie non è tuttavia possibile ritenere che l’interessato non si sia attivato a tale scopo. E’ infatti pacifico, e provato per documenti, che il -OMISSIS- ha chiesto di fruire delle ferie residue del 2017 e di quelle maturate nel 2018 fino al collocamento a riposo, e che nondimeno le istanze sono state respinte. Come deduce quest’ultimo nella propria memoria difensiva, la circostanza in questione vale a distinguere il caso oggetto del presente giudizio da quello invece deciso nel precedente del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio richiamato dal Ministero appellante (sentenza 10 febbraio 2016, n. 1712), nella cui motivazione si legge che il magistrato ricorrente in quel giudizio non aveva provato “di essere stato nella oggettiva impossibilità, per fatto a lui non imputabile, di godere delle suddette ferie. Né ha documentato di aver, in ipotesi, chiesto di poter usufruire del periodo di ferie del 2015 ed eccezionalmente, anche di quello del 2014, e di essersi visto opporre un rifiuto per esigenze di servizio o per altri motivi”. Nel caso oggetto del presente giudizio il ricorrente si è infatti attivato per evitare di perdere i giorni di ferie ancora da fruire, ed in particolare sia i residui giorni del 2017 che per quelli maturati nel 2018, anno di collocamento a riposo.

6. Il Ministero della giustizia sostiene nondimeno che le due istanze di ferie non sarebbero sufficienti a dimostrare l’oggettiva impossibilità per il magistrato di fruire del congedo spettantegli, e che, in particolare, a fronte del primo rigetto lo stesso ricorrente avrebbe potuto rimodulare il residuo annuale del 2017 di 27 giorni, richiesto al di fuori del periodo di sospensione feriale, mentre il secondo, giustificato dalle evidenti esigenze connesse all’attività della commissione di concorso a magistrato ordinario, non sarebbe imputabile al datore di lavoro, e comunque va fatto risalire alla disponibilità in precedenza data dal ricorrente ad essere nominato commissario.

7. Entrambe le deduzioni vanno respinte.

Deve in contrario affermarsi che il duplice rigetto per ragioni di servizio delle domande di ferie, che come esposto in precedenza non è contestato, è al contempo sufficiente a dimostrare che l’impossibilità di fruire delle ferie a causa del sopravvenuto collocamento a riposo d’ufficio non è imputabile al lavoratore, ma alla stessa amministrazione, in ragione delle esigenze di organizzazione del lavoro su cui tale duplice rigetto si fonda. Al medesimo riguardo sono invece irrilevanti le specifiche ragioni addotte in sede di diniego delle due domande di ferie, posto che ai fini della verifica dei presupposti relativi al diritto alla monetizzazione è sufficiente riscontrare se in vista di una causa di cessazione del rapporto di impiego prevedibile il lavoratore si sia attivato per quanto in suo potere per evitare di giungervi con periodi di congedo dal lavoro non ancora fruiti.

8. Per contro, nell’imputare l’impossibilità di fruizione al magistrato che nondimeno abbia richiesto di fruire delle ferie a lui spettanti il Ministero della giustizia pone a carico dello stesso un onere di allegazione e prova diabolico, concernente le modalità che in ipotesi avrebbero potuto rendere le sue domande accoglibili. Un simile argomentare ribalta impropriamente sul lavoratore la ricerca di soluzioni atte a contemperare l’esigenza di riposo con quelle di organizzazione del servizio, le quali invece spettano in via esclusiva alla parte datoriale.

9. Evidentemente da respingere è poi l’assunto secondo cui l’incarico di commissario per il concorso a magistrato ordinario, pacificamente afferente ai doveri d’ufficio del magistrato stesso, costituisca ragione sufficiente per ritenere che l’impossibilità di fruire delle ferie sia a questo imputabile piuttosto che non all’amministrazione della giustizia, competente sul reclutamento dei magistrati e quindi sull’indizione e lo svolgimento dei relativi concorsi. Deve in particolare escludersi che possa essere imputata alla disponibilità in precedenza dichiarata dal ricorrente ad assumere l’incarico in questione l’impossibilità di fruire delle ferie ancora spettantegli a tale momento, poiché ancora una volta con tale argomentare l’espletamento di compiti rispondenti alle esigenze dell’amministrazione viene indebitamente fatto gravare sul lavoratore sotto il profilo della mancata fruizione del congedo che questi aveva invece richiesto.

10. In forza dei rilievi svolti rimane dunque confermato l’accertamento svolto sul punto decisivo nella presente controversia dalla sentenza di primo grado, e cioè che la mancata fruizione delle ferie non è imputabile al -OMISSIS-, pur a fronte del prevedibile collocamento a riposo, dal momento che quest’ultimo si era attivato per tempo per esaurire le ferie non ancora fruite, ma si era sempre visto opporre un rifiuto dall’amministrazione.

11. In conclusione l’appello deve essere respinto. Le spese di causa sono regolate secondo soccombenza e liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna il Ministero della giustizia a rifondere al dottor -OMISSIS- le spese di causa, liquidate in € 3.000,00, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Fabio Franconiero, Presidente FF, Estensore

Federico Di Matteo, Consigliere

Alberto Urso, Consigliere

Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere

Anna Bottiglieri, Consigliere


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 16/04/2020) 22/04/2020, n. 2556

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4029 del 2019, proposto da:

L.L., rappresentata e difesa dall’avvocato Isetta Barsanti Mauceri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Francesca Buccellato in Roma, via Cosseria, n. 2;

contro

UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA, non costituita in giudizio;

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti

E.D.B., rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Zuccheretti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 1949 del 2019;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e di E.D.B.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 aprile 2020 il Cons. Dario Simeoli;

L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che il giudizio può essere definito con sentenza emessa ai sensi dell’art. 74 c.p.a.;

Rilevato in fatto che:

– con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e successivi motivi aggiunti, la dottoressa L.L. impugnava gli atti relativi alla procedura di valutazione comparativa indetta dall’Università della Tuscia per l’assunzione a tempo determinato di un ricercatore in regime di impegno a tempo definito nel Settore concorsuale 10/N, Settore Scientifico Disciplinare L-OR/12 (lingua e letteratura araba);

– il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con sentenza n. 1949 del 2019, previa estromissione del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, ha dichiarato l’impugnazione inammissibile, atteso che il ricorso, proposto nei confronti dell’Università della Tuscia, risulta erroneamente notificato presso l’Avvocatura Generale dello Stato che, tuttavia, non ne ha la rappresentanza legale;

– avverso la sentenza di primo grado, ha proposto appello la dottoressa L.L., sostenendo l’erroneità della predetta statuizione di inammissibilità e riproponendo, in conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello, i motivi di censura non esaminati dal giudice di prime cure;

– si sono costituiti la controinteressata E.D.B. e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, entrambi insistendo per il rigetto del gravame;

Ritenuto in diritto che:

– la sentenza di primo grado deve essere confermata;

– secondo un orientamento consolidato ? dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare ?, alle Università statali, dopo la riforma della L. 9 maggio 1989, n. 168 sull’autonomia universitaria, non compete più la qualità di organi dello Stato, bensì quella di enti pubblici autonomi; ne consegue che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio degli artt. da 1 a 11 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, bensì, in virtù dell’art. 56 R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio c.d. autorizzato (o facoltativo) degli art. 43 (come modificato dall’art. 11 della L. 3 aprile 1979, n. 103) e 45 R.D. n. 1611 del 1933, con i limitati effetti di una tale forma di assistenza legale, e segnatamente:

i) esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera;

ii) inapplicabilità del foro dello Stato (art. 25 cod. proc. civ.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 cod. proc. civ.), previsti per le sole amministrazioni dello Stato (ex plurimis: Consiglio di Stato sez. VI, 8 aprile 2015 che richiama Corte di Cassazione, sezioni unite, 10 maggio 2006, n. 10700);

– in ragione della stabilità del predetto indirizzo ermeneutico (quantomeno alla data di proposizione del gravame), non sussistono i presupposti per accordare il beneficio della rimessione in termini, come pure chiesto dall’appellante, in quanto l’art. 37 c.p.a., risolvendosi in una deroga al principio fondamentale di perentorietà dei termini processuali, va considerato norma di stretta interpretazione (cfr. Cons. Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 10 dicembre 2014, n. 33; sez. V, sentenza 10 febbraio 2015, n. 671; sez. IV, ordinanza 3 novembre 2016, n. 4603; sez. IV, ordinanza del 23 marzo 2017 n. 1402);

– anche ai sensi dell’art. 44 comma 4, c.p.a. il giudice può concedere un termine per la rinnovazione della notifica nulla, solo quando riconosce che la nullità della notifica dipenda da causa non imputabile al notificante;

– la mancata costituzione dell’Università intimata, in primo come in secondo grado, impedisce poi la sanatoria della nullità della notificazione del ricorso, di cui al comma 3 dello stesso art. 44;

– l’appello va dunque integralmente respinto;

– le spese di lite del secondo grado di giudizio possono essere compensate in considerazione delle ragioni della chiusura in rito della presente controversia;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 4029 del 2019, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa interamente tra le parti le spese di lite del secondo grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere, Estensore


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 10-10-2019) 14-10-2019, n. 6972

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6960 del 2018, proposto da

C.D., L.M., R.F., rappresentati e difesi dagli avvocati Diego Vaiano, Alvise Vergerio Di Cesana, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Diego Vaiano in Roma, Lungotevere Marzio n.3;

contro

Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Ministero per la Semplificazione e La Pubblica Amministrazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica, Commissione Interministeriale per L’Attuazione del Progetto Ripam, Società F.P. non costituiti in giudizio;

F. P.A. – C.S. delle P.A., rappresentato e difeso dall’avvocato Franco Gaetano Scoca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Giovanni Paisiello n. 55;

Ministero per i Beni e Le Attivita’ Culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 06223/2018, resa tra le parti, concernente avviso, pubblicato in gazzetta ufficiale 4 serie speciale concorsi ed esami n. 41 del 24 maggio 2016, relativo alla pubblicazione dei nove bandi di concorso per l’assunzione, a tempo indeterminato presso il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, di 500 funzionari da inquadrare nella III area del personale non dirigenziale, posizione economica f1 – atto di costituzione ex art.10 D.P.R. n. 1199 del 1971 -mcp;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di F. P.A. – C.S. delle P.A. e di Ministero per i Beni e Le Attività Culturali;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 ottobre 2019 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Vergerio Alvise, Senatore per dichiarata delega di Scoca Franco e dello Stato Greco.;

Svolgimento del processo
Con l’appello in esame l’odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 6223 del 2018 con cui il Tar Lazio aveva respinto l’originario gravame, proposto dalla medesima parte – insieme ad altri concorrenti – al fine di ottenere l’annullamento dell’esclusione disposta dall’Amministrazione al concorso pubblico per l’assunzione di 500 funzionari da inquadrare in vari profili della III area del personale non dirigenziale, posizione economica F1; in particolare, l’esclusione si basava sul difetto del titolo di accesso previsto dall’art. 3 dei relativi bandi settoriali e in particolare di un “diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale” o di un titolo equipollente/equivalente nella disciplina di riferimento.

Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i motivi di appello attraverso la riproposizione della articolata censura di primo grado e la critica delle argomentazioni di cui alla sentenza appellata:

– erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso, violazione dell’art. 2 del T.U. pubblici concorsi, dell’allegato A del CCNL ARAN, nonché dell’art. 3, Decreto MIUR 22 ottobre 2004 n. 270 e del principio del favor partecipationis, oltre che eccesso di potere per manifesta arbitrarietà, disparità di trattamento, irragionevolezza, ingiustizia grave e manifesta.

La parte appellata si costituiva in giudizio chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado ed il rigetto dell’appello.

Con decreto cautelare n. 4157\2018 e successiva ordinanza n. 4867\2018 veniva accolta la domanda cautelare di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata.

Alla pubblica udienza del 10\10\2019, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione

Motivi della decisione
1. La controversia ha ad oggetto l’esclusione dell’odierno appellante dal concorso pubblico per l’assunzione di 500 funzionari da inquadrare nella III area del personale non dirigenziale, posizione economica F1. Per quanto di interesse, nel bando di concorso per il Profilo Funzionario architetto, l’Amministrazione ha stabilito, all’articolo 3, tra i requisiti di ammissione, oltre alla laurea, il possesso di ulteriori titoli tassativamente determinati, ostativi alla partecipazione di parte appellante. In particolare, il bando prevedeva la necessità di un “diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale” o di un titolo equipollente/equivalente nella disciplina di riferimento. Parte appellante risultava pertanto esclusa avendo i seguenti titoli: laurea in architettura, Master di II livello in “Exhibition Design – allestimento museale”, di durata inferiore al biennio; abilitazione alla professione di architetto.

2.1 Tanto precisato, in via preliminare deve essere esaminata la riproposta – in quanto non esaminata dal Tar – eccezione di inammissibilità del ricorso, per carenza di interesse, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. a), del cod. proc. amm.; carenza di interesse determinata secondo la prospettazione dell’Amministrazione appellata dall’omessa impugnazione dell’art. 2 del D.I. 15 aprile 2016, n. 204, che prevede il requisito di partecipazione ai concorsi oggetto di contestazione avversaria (art. 2, comma 1, lett. b), (“Requisiti di partecipazione”), poi recepito in modo pedissequo dagli artt. 3 dei bandi di concorso.

2.2 L’eccezione deve essere respinta, analogamente ai precedenti specifici della sezione, già richiamati in sede cautelare. Invero il ricorso si rivolge anche nei confronti del D.I. 15 aprile 2016, n. 204, il quale, oltretutto, è stato specificamente indicato nell’epigrafe del ricorso di primo grado.

Le considerazioni svolte a sostegno dell’eccezione non risultano condivisibili, posto che le disposizioni impugnate (ovvero i criteri di ammissione al concorso), del bando e del decreto interministeriale, sono analoghe; risulta perciò superflua una specifica articolazione dei motivi rispetto ai due atti, stante il fatto che le disposizione impugnate sono le medesime, così come le relative censure.

3. Nel merito l’appello è fondato e deve trovare accoglimento, nei termini già paventati in sede cautelare, con conseguente applicabilità dell’art. 74 cod proc amm.

3.1 In generale deve essere confermato il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa che riconosce “in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.” (cfr., Cons. St., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 5351; Cons. St., Sez. VI, 3 maggio 2010, n. 2494). In altre parole, quella che l’amministrazione esercita, nel prevedere determinati requisiti di ammissione, è una tipologia di scelta che rientra tra quelle di ampia discrezionalità spettanti alle amministrazioni. Nondimeno, la giurisprudenza ha chiarito che: “in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà (Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 28 febbraio 2012, n. 2098).

3.2 Tanto precisato, nella peculiare vicenda all’attenzione del Collegio, i criteri del bando impugnati non risultano in parte qua proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi pertanto in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito.

In particolare, per quel che rileva in questa sede, non risulta giustificata la pretesa titolarità di titoli ulteriori rispetto al diploma di laura, ed in particolare di un master di II livello della durata biennale – con esclusione quindi dei master parimenti di II livello, ma aventi solo una durata annuale – in relazione allo specifico profilo di Funzionario architetto in questione.

3.3 In disparte le considerazioni circa l’equivalenza o meno dei due titoli (annuale e biennale) alla stregua del D.M. n. 270 del 2004 e la necessità di discriminare, se del caso, in base ai rispettivi crediti formativi conseguiti attraverso ciascun titolo, piuttosto che in base alla relativa durata, l’eccessività, e dunque l’illegittimità, dei criteri impugnati rispetto al fine da perseguire emerge da più fattori.

In primo luogo, in generale deve ricordarsi che il Testo Unico dei pubblici concorsi, all’articolo 2, comma 6, prevede che “Per l’accesso a profili professionali di ottava qualifica funzionale è richiesto il solo diploma di laurea”.

Secondariamente, in riferimento allo specifico concorso oggetto di causa, tramite l’accordo siglato in sede sindacale nel 2010 – propedeutico all’emanazione dei bandi di concorso, quale quello oggetto del presente giudizio – lo stesso Ministero aveva convenuto che per accedere ai concorsi dallo stesso indetti, i candidati dovevano essere in possesso del diploma di laurea magistrale (o di vecchio ordinamento) coerente con le professionalità specifiche. In particolare, per il profilo a cui ambisce l’appellante – “Funzionario per la promozione e comunicazione” – a differenza di altri profili, il Ministero, in sede di stipula del citato accordo, non ha individuato alcun requisito ulteriore oltre al diploma di laurea magistrale (o di vecchio ordinamento) coerente con le professionalità specifiche.

Per quel che rileva in questa sede, il ricordato accordo è sintomatico della eccessiva gravosità dei criteri successivamente stabiliti per l’accesso al concorso. Invero, lo stesso Ministero, proprio al fine di procedere ai successivi concorsi per l’assunzione, per il profilo di Funzionario per la promozione e comunicazione, aveva ritenuto sufficiente il solo requisito del possesso del diploma di laurea, evidentemente considerato di per sé idoneo a garantire l’adeguata preparazione e professionalità per tale profilo. Appare dunque ingiustificata la successiva previsione in sede di indizione del concorso di ulteriori requisiti, quali quelli censurati nel presente giudizio.

3.4 Inoltre, la scelta di prevedere ulteriori titoli, rispetto a quello della solo diploma di laurea, nel caso di specie, non può ritenersi giustificata dal peculiare contesto nel quale è stato indetto il bando oggetto di causa. Al riguardo, parte appellata osserva che il concorso in esame è stato indetto, anche in parziale deroga dei vigenti vincoli di assunzione previsti dell’art. 1, comma 328 e seguenti, della L. n. 208 del 2015 (c.d. legge di stabilità per il 2016), nell’ambito di una più ampia serie di misure economiche di promozione e sviluppo del patrimonio culturale, anche in considerazione della difficile situazione che lo stesso sta vivendo.

Invero, la necessità di derogare ai vincoli di assunzione dettati da misure rigoriste di natura finanziaria, al fine di far fronte all’urgente bisogno di intervenire nel settore di riferimento, non pare possa ragionevolmente giustificare l’aggravamento dei criteri di ammissione al concorso, i quali devono invece essere predisposti in vista dei requisiti culturali e di professionalità richiesti dal ruolo da ricoprire, indipendentemente dal contesto economico finanziario che caratterizza l’epoca di indizione del concorso.

3.5 Nel caso di specie l’amministrazione contesta l’applicabilità dei principi predetti sotto due profili: da un lato, in quanto l’accordo sindacale del 2010 sarebbe stato superato dalle determinazioni contenute nel successivo D.I. n. 204 emesso in data 24 marzo 2016; dall’altro lato il suddetto accordo si sarebbe limitato solo a richiedere i requisiti minimi di partecipazione dei funzionari architetti alla selezione, con la conseguenza il Ministero sarebbe stato autorizzato ad individuare ulteriori criteri per l’accesso allo stesso profilo.

Entrambe le argomentazioni si scontrano con la preminente natura e forza dei principi suddetti. Da un lato lo stesso decreto invocato risulta essere stato tempestivamente impugnato e, conseguentemente, non può che leggersi alla stregua degli stessi superiori principi. Dall’altro lato, l’illegittimità dell’ulteriore limitazione, lungi dall’essere così autorizzata, consegue direttamente dall’applicazione dei medesimi principi già affermati dalla giurisprudenza in generale e dalla sezione in particolare.

4. In definitiva l’appello proposto dalla dott.ssa P. deve trovare accoglimento e, in riforma della sentenza impugnata, deve annullarsi in parte qua il bando ed il relativo decreto presupposto, con conseguente illegittimità dell’esclusione della possibilità di partecipare al concorso da parte dell’appellante, dovendosi di conseguenza confermare il provvedimento con il quale, a seguito dell’ammissione cautelare al sostenimento delle prove, la stessa risulta in posizione utile della graduatoria.

Sussistono giusti motivi, analogamente ai precedenti della sezione, per compensare le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado nei sensi di cui in motivazione.

Spese del doppio grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:

Diego Sabatino, Presidente FF

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Davide Ponte, Consigliere, Estensore


Consiglio di Stato: nozione di residenza

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza pubblicata in data 24 settembre 2019 ha affermato che “In linea generale, deve osservarsi che la nozione di residenza viene in rilevo in molteplici norme (tra le altre, l’individuazione del giudice competente ex art. 18 c.p.c. e il luogo di notificazione degli atti ex art. 139 c.p.c.), ma non è univoca.

La definizione civilistica di residenza è contenuta all’art. 43 comma 2 c.c., che si riferisce al “luogo in cui la persona ha la dimora abituale”, per tale dovendosi intendere secondo la giurisprudenza il luogo con cui il soggetto ha una relazione di fatto, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali.

Sempre in linea generale, deve poi rilevarsi che, per un verso, la residenza civilistica nel significato delineato dall’art. 43, comma 2, c.c. di residenza effettiva (o c.d. di fatto) si contrappone al domicilio ex art. 43 comma 1 c.c. (che è, invece, una nozione di diritto e corrisponde al luogo in cui la persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”); per altro verso, essa non sempre coincide con la residenza anagrafica risultante dai registri anagrafici, in quanto l’una (la residenza effettiva) identifica il luogo in cui un soggetto dimora abitualmente, l’altra (quella anagrafica) indica il luogo comunicato al Comune, che potrebbe nel tempo successivo al momento della comunicazione non corrispondere più alla dimora abituale della persona.

Va, infatti, considerato che l’indicazione anagrafica non individua inequivocabilmente la residenza civilistica, ma ha rilevanza sul piano probatorio e forma una presunzione circa il luogo di effettiva abituale dimora, che è accertabile con qualunque mezzo di prova: in particolare la giurisprudenza ha chiarito che il requisito dell’abitualità della dimora è la risultante del fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo e dell’elemento soggettivo costituito dalla volontà della persona a rimanervi stabilmente, desumibile da circostanze univoche e concordanti, tra le quali valore preminente assume proprio lo svolgimento in loco dell’attività lavorativa.


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 09/05/2019) 23/05/2019, n. 3381

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3530 del 2018, proposto da

Università Politecnica delle Marche, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Alessandro Lucchetti, con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio Aristide Police, in Roma, via di Villa Sacchetti, n. 11;

contro

M.T., rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Cantile, con domicilio digitale pec come da registri di giustizia;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) n. 00790/2017, resa tra le parti, concernente l’idoneità del titolo di massofisioterapista per l’accesso diretto al terzo anno del corso di laurea in Fisioterapia.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del sig M.T.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 maggio 2019 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Alessandro Lucchetti e Giovanni Ferraù, in dichiarata delega di Paolo Cantile;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso notificato all’Università Politecnica delle Marche presso gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona, il sig. M.T. ha impugnato davanti al T.A.R. Marche l’atto con cui il suddetto ateneo non ha riconosciuto l’idoneità del titolo di massofisioterapista per l’accesso diretto al terzo anno del corso di laurea in Fisioterapia.

L’adito Tribunale con sentenza 19/10/2017, n. 790 ha accolto il gravame.

Avverso la decisione ha proposto appello l’Università Politecnica delle Marche.

Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il sig. T..

Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive.

Alla pubblica udienza del 9/5/2019 la causa è passata in decisione.

In via pregiudiziale va esaminata l’eccezione con cui il sig. T. deduce che l’appello sarebbe tardivo in quanto la notifica della sentenza si sarebbe perfezionata per l’Università in data 22/10/2017 (rectius 24/10/2017), mentre il ricorso in appello sarebbe stato notificato solo nell’aprile 2018 e quindi oltre i prescritti termini.

L’eccezione è infondata.

Come emerge dagli atti di causa l’impugnata sentenza è stata notificata all’Università, che non era costituita in primo grado, presso gli uffici dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Ancona.

Sennonché, quando lo “ius postulandi” dell’Avvocatura dello Stato è facoltativo, poiché esercitabile a tutela di enti pubblici non statali, come le Università pubbliche, la notifica eseguita direttamente presso gli uffici dell’Avvocatura è da ritenersi nulla (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 18/4/2012, n. 2211; 26/1/2010, n. 279), con la conseguenza che la stessa non può ritenersi idonea a far decorrere il termine di impugnazione breve di cui all’art. 92, comma 1, c.p.a.

Nel caso di specie opera, quindi il termine di impugnazione lungo (art. 92, comma 3, c.p.a.), che risulta rispettato, posto che la sentenza è stata pubblicata in data 19/10/2017 e il ricorso in appello è stato consegnato per la notifica il giorno 18/4/2018.

L’appello va, quindi, esaminato nel merito.

Col primo motivo l’appellante deduce che il Tribunale avrebbe errato a non dichiarare inammissibile il ricorso in quanto notificato presso gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona, invece che nella sede legale dell’ateneo, con conseguente nullità della notifica.

La doglianza è fondata.

Dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, le Università, non possono essere qualificate come organi dello Stato, dovendo essere inquadrate nella categoria degli enti pubblici autonomi, con la conseguenza che non opera il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, disciplinato dagli artt. da 1 a 11 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, bensì, in virtù dell’art. 56 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio facoltativo o autorizzato regolato dagli artt. 43 del R.D. n. 1611 del 1933 (come modificato dall’art. 11 della L. 3 aprile 1979, n. 103) e 45 del medesimo R.D., con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza, ovvero: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera; inapplicabilità delle disposizioni sul foro erariale e sulla domiciliazione presso l’Avvocatura ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (Cons. Stato, Sez. VI 9/12/2010, n. 8632; 21/9/2005, n. 4909; Cass. Civ., SS.UU., 10/5/2006, n. 10700; Sez. Lav., 29/7/2008, n. 20582).

Il ricorso di primo grado doveva pertanto essere notificato presso la sede legale dell’Università Politecnica delle Marche con la conseguente nullità della notifica effettuata presso gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato.

Né la detta nullità poteva essere sanata ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., atteso che:

a) tale disposizione risulta testualmente applicabile nei soli casi in cui il giudice ritenga che “l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante”;

b) la non imputabilità può ritenersi sussistente solo laddove il vizio della notifica possa essere addebitato esclusivamente all’attività posta in essere dall’ufficiale giudiziario o dai suoi ausiliari, e non anche a quella riferibile al notificante, come nella fattispecie, atteso che la scelta del luogo ove effettuare la notificazione non può che ricadere in via esclusiva su quest’ultimo (Cons. Stato, Sez. III, 24/4/2018, n. 2462; Sez. VI, 11/09/2013, n. 4495; 24/11/2011, n. 6207).

Peraltro, quando manchi un collegamento fra il destinatario dell’atto e il luogo in cui la notifica è effettuata questa deve ritenersi inesistente e non solo nulla con conseguente inapplicabilità del citato art. 4, comma 4, c.p.a. (Cons. Stato, Sez. IV, 13/10/2014, n. 5046).

L’appello va, dunque, accolto.

Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore

Dario Simeoli, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 18-10-2018) 29-04-2019, n. 2724

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 9523 del 2008, proposto da

P.E., rappresentato e difeso dall’avvocato Mariagiovanna Belardinelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Antonio Pazzaglia in Roma, via Lutezia, n. 8;

contro

Comune di Spoleto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Dante Duranti, Goffredo Gobbi e Maurizio Pedetta, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Goffredo Gobbi in Roma, via Maria Cristina, n. 8;

nei confronti

Ministero delle Finanze, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria n. 390/2008, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione del Comune di Spoleto;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 ottobre 2018 il Cons. Giovanni Grasso e uditi per le parti gli avvocati Massimo Marcucci, per delega dell’avv. Belardinelli, e Giuseppe Giovanelli, per delega degli avv. Duranti e Pedetta;

Svolgimento del processo
1.- E.P. – già messo di notificazione, dipendente di V qualifica funzionale del Comune di Spoleto, addetto, per disposizione del Sindaco impartita con ordine di servizio n. 57 del 16/5/1989, in esecuzione della delibera di Giunta n. 50 del 18/1/1989, a “curare in via esclusiva il servizio di notificazione degli atti dell’Ufficio di Conciliazione di Spoleto”, dovendo le restanti notifiche essere effettuate da altro personale – veniva inquadrato, con delibera di Giunta n. 735 del 24/6/1992, nel posto di “Segretario di conciliazione” – VI qualifica funzionale – istituito dal Consiglio Comunale con Delib. n. 324 del 15 novembre 1991, con il compito di provvedere comunque alle notifiche suddette.

In data 30/10/1994, il P. transitava nei ruoli del Ministero della Giustizia col profilo professionale di “Assistente giudiziario” e l’Amministrazione comunale prendeva atto di tale passaggio con delibera di Giunta n. 1002 del 24/11/1994.

All’indomani stesso del trasferimento dal Comune al Ministero, con nota del 21/11/1994, assumendo di “aver eseguito nel periodo dal 1/8/1991 al 30/10/1994, su incarico del Comune di Spoleto, notificazioni di atti richiesti da varie Amministrazioni finanziarie dello Stato” e “di non avere ancora percepito … i diritti spettanti per dette notificazioni”, ne chiedeva il pagamento al Comune stesso.

A tale richiesta l’Amministrazione comunale, con nota del 20/12/1994, opponeva un primo diniego, richiamando genericamente la legislazione e la giurisprudenza in materia ed invocando il principio della “omnicomprensività” del trattamento stipendiale.

Il diniego trovava conferma nella nota della Prefettura di Perugia del 26/6/1995, prot. n. (…), che veicolava il negativo riscontro fornito dal Ministero delle Finanze, nel senso che “il compenso per la notifica effettuata dall’ente locale per conto di altre amministrazioni dovesse essere introitato dal Comune e non dal dipendente”, emergendo, al riguardo, che “l’attività espletata fosse effettuata ratione ufficii e che pertanto non fosse ravvisabile alcun motivo per consentire che l’introito in questione venisse percepito direttamente dal messo notificatore”.

2.- Avverso gli atti in questione il P. proponeva rituale ricorso al Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, che lo respingeva con la sentenza epigrafata.

Avverso quest’ultima il Panetta insorge con l’odierno gravame, reiterando le ragioni a sostegno della propria pretesa.

Nel rituale contraddittorio delle parti, alla pubblica udienza del 18 ottobre 2019, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa è stata riservata per la decisione.

Motivi della decisione
1.- L’appello è infondato e merita di essere respinto.

Vale in proposito evocare il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione per discostarsi, secondo cui “ai dipendenti comunali con la qualifica di messo non spetta alcun compenso aggiuntivo per l’attività di notificazione di atti richiesta al Comune dall’amministrazione finanziaria, rientrando tali funzioni tra gli ordinari compiti d’ufficio spettanti ai detti dipendenti, posto che il principio di omnicomprensività della retribuzione impedisce di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 23 ottobre 2014, n. 5260)

In particolare, importa ribadire che:

a) la notificazione degli atti è mansione tipica e specifica della categoria del messo comunale già secondo la definizione contenuta nell’art. 273 del TULCP n. 383 del 1934 (secondo la quale “il messo comunale e quello provinciale sono autorizzati a notificare gli atti delle rispettive amministrazioni e possono anche notificare atti nell’interesse di altre amministrazioni pubbliche che ne facciano richiesta”) e viene svolta nel normale orario di ufficio e mediante l’utilizzo degli strumenti organizzativi messi a disposizione dell’amministrazione di appartenenza;

b) l’art. 19 del D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191, confermato dalle successive norme dettate dalla contrattazione collettiva per il personale dipendente degli enti locali, ha escluso la corresponsione di indennità aggiuntive alla retribuzione annua lorda derivante dal trattamento economico di livello e di progressione economica orizzontale, in quanto inglobante qualsiasi retribuzione per prestazioni a carattere sia continuativo che occasionale, ad eccezione di quelle indennità specificatamente individuate, tra cui non sono ricompresi i diritti invocati: ciò anche in ragione della ratio della disposizione, caratterizzata dall’esigenza di uniformare il trattamento economico dei dipendenti pubblici, in specie degli enti locali, e di globalità della previsione della connessa spesa pubblica, con generale portata preclusiva della corresponsione di compensi ulteriori alle complessive voci retributive individuate in sede contrattuale, di tal che possono essere, in principio, esclusi dal divieto normativo i soli compensi dovuti a seguito dello svolgimento da parte dei dipendenti di compiti ulteriori ed estranei alle ordinarie mansioni, e dunque non direttamente ricollegabili allo status professionale, laddove la notifica degli atti effettuata per conto dell’amministrazione finanziaria rientra nelle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del dipendente comunale con la qualifica di messo notificatore;

c) l’art. 4 della L. n. 249 del 1976 è stato abrogato dall’art. 4 della L. 12 luglio 1991, n. 201, che fissa la nuova misura dei compensi esclusivamente per i notificatori speciali mentre nulla prevede per i messi comunali, eliminando qualunque collegamento tra i messi comunali (vigile urbano con funzioni di notificatore) e i notificatori speciali; l’art. 14, secondo comma della L. n. 890 del 1982 è stato, di conseguenza, implicitamente abrogato, atteso il rinvio al primo comma dell’abrogato articolo 4 della L. n. 249 del 1976;

d) è irrilevante, ai fini del riconoscimento del diritto, il fatto che le notificazioni riguardino atti dell’amministrazione finanziaria, essendo il Comune l’unico soggetto legittimato a riscuotere le indennità per l’attività di notifica, come testualmente dispongono sia l’art. 10, della L. n. 265 del 1999 (Notificazione degli atti delle pubbliche amministrazioni), che al comma 2 stabilisce testualmente che “al Comune che vi provvede spetta da parte dell’amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, oltre alle spese di spedizione a mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento, una somma determinata con decreti dei Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, dell’interno e delle finanze”, che il decreto del Ministero del Tesoro del Bilancio e della Programmazione Economica del 14 marzo 2000;

e) in definitiva, il conferimento da parte dell’amministrazione finanziaria al Comune del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione degli atti finanziari, va inquadrato nella figura giuridica del mandato ex lege in favore del Comune e, come tale, insuscettibile sia di determinare l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione dell’amministrazione richiedente che di attribuirgli diritti nei confronti della medesima amministrazione: il messo municipale, in altri termini, rimane comunque dipendente dell’ente locale ed agisce, anche nell’esecuzione del compito di cui si discute, in adempimento degli obblighi ad esso rivenienti dal rapporto di impiego con il Comune (in tal senso, anche Cass. 30 ottobre 2008, n. 26118 e Cass. SS.UU, 27 gennaio 2010, n. 1627, che in materia di responsabilità per errori e ritardi nella notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria, ha escluso la responsabilità del messo notificatore, affermando che unico responsabile è il Comune nei cui confronti si instaura un rapporto di preposizione gestoria che deve essere, per l’appunto, qualificato come mandato ex lege, la cui violazione costituisce, se del caso, fonte di responsabilità esclusiva a carico del Comune, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra l’amministrazione finanziaria e i messi comunali, che operano alle esclusive dipendenze dell’ente territoriale).

2.- Le esposte considerazioni confermano la totale infondatezza della azionata pretesa e legittimano l’integrale reiezione dell’appello.

Sussistono, ad avviso del Collegio, giustificate ragioni per disporre, tra le parti costituite, la complessiva compensazione di spese e competenze di lite.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 ottobre 2018 con l’intervento dei magistrati:

Carlo Saltelli, Presidente

Claudio Contessa, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolò Lotti, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere

Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore


Consiglio di Stato Sentenza n. 06042/2018

Convocazione Consiglio comunale via PEC

Leggi: Convocazione Consiglio comunale via PEC Consiglio di Stato 2018


Consiglio di Stato, sent. n. 3309-2018

La possibilità di depositare con modalità telematica atti in scadenza è assicurata fino alle ore 24 dell’ultimo giorno consentito secondo i termini perentori (cioè fino allo spirare dell’ultimo giorno).

Leggi: Consiglio di Stato, sent. n. 3309-2018


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 09-06-2016) 31-08-2016, n. 3764

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5927 del 2014, proposto da:

M.C., rappresentato e difeso dall’avvocato Rosa Maria Laria C.F. (…), con domicilio eletto presso Elisabetta Alessandra in Roma, Via Stefano Longanesi 9;

contro

Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

P.G. ed altri., rappresentati e difesi dall’avvocato Demetrio Verbaro C.F. VRBDTR65S29C352F, con domicilio eletto presso Giuseppe (Studio Labate) Cosco in Roma, viale Giuseppe Mazzini 88;

A.C. ed altri. non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE II n. 01205/2013, resa tra le parti, concernente esclusione dal concorso di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca e di Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria e di Gaetano Pedulla’ e di Luisa Vitale e di Anna Primavera e di Margherita Primavera e di Antonio Carioti e di Vito Sanzo;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 giugno 2016 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Freni per delega di Laria, dello Stato Caselli, e Gualtieri per delega di Verbaro.;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. C.M., professore di ruolo in matematica e fisica, ha proposto, dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Catanzaro, ricorso e successivo atto di motivi aggiunti per l’annullamento della graduatoria finale del concorso per esami e titoli per il reclutamento dei dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, e per gli istituti educativi, pubblicata in data 10 luglio 2012, che individuava 98 concorrenti vincitori su 108 posti messi a concorso.

2. Con decreto presidenziale del 19 ottobre 2012, veniva disposta dinnanzi al T.a.r. l’integrazione del contraddittorio in ordine al ricorso introduttivo, nei confronti di tutti i soggetti utilmente collocati in graduatoria, autorizzando la notifica per pubblici proclami e assegnando il termine di giorni 60, decorrente dalla comunicazione del decreto presidenziale.

3. Con ordinanza presidenziale del 20 novembre 2012, veniva ulteriormente disposta l’integrazione del contraddittorio in ordine al ricorso per motivi aggiunti, autorizzando la notifica per pubblici proclami ed assegnando il termine di 40 giorni decorrente dalla comunicazione del provvedimento presidenziale.

4. Con sentenza n. 1205 del 2013, il T.a.r. per la Calabria, sede di Catanzaro, ha dichiarato il suddetto ricorso improcedibile, per il mancato rispetto delle modalità previste dall’articolo 150 c.p.c. in relazione alla notificazione per pubblici proclami, nonché dei termini perentori assegnati per l’integrazione del contraddittorio.

5. Avverso la sentenza del T.a.r. il professore C.M. ha proposto appello, con contestuale riproposizione dei motivi e delle eccezioni sollevati nel ricorso di primo grado e nell’atto di motivi aggiunti e non esaminati dal giudice di prime cure.

6. La sentenza di primo grado è stata, in particolare, censurata sotto i seguenti profili:

6.1) Difetto di motivazione ed illogicità per errato convincimento circa la sussistenza di controinteressati in senso tecnico anche per quelle censure che, se ritenute fondate, avrebbero determinato solamente l’annullamento della prova orale del solo ricorrente ed il diritto al suo rinnovo della stessa.

6.2) Difetto di motivazione per omesso pronunciamento sulla eccezione di nullità, ex articolo 156, comma secondo, c.p.c., dei provvedimenti presidenziali di autorizzazione alla integrazione del contradditorio, con conseguente violazione dell’articolo 112 c.p.c. e dell’articolo 276, comma secondo, c.p.c., per come richiamato dall’art. 76, comma quarto, c.p.a. .

6.3) Erroneità nella ricostruzione dei tempi e delle modalità con cui è stata effettuata l’integrazione del contraddittorio in relazione al ricorso introduttivo ed al ricorso per motivi aggiunti.

6.4) Erroneità nell’accertamento del giorno di decorrenza del termine per l’integrazione del contraddittorio.

6.5) Erroneo convincimento circa l’applicabilità dell’articolo 150 c.p.c. al procedimento di notifica per pubblici proclami nell’ambito del processo amministrativo.

6.6) Difetto di motivazione per omessa considerazione del fatto che il Presidente del T.a.r. ha autorizzato ad effettuare l’integrazione del contraddittorio con “ogni mezzo idoneo” ex art. 151 c.p.c. ed ex art. 52 c.p.a. .

6.7) Errato convincimento circa la presunta avvenuta violazione dei termini per l’adempimento istruttorio dell’integrazione del contraddittorio.

6.8) Errato convincimento circa il mancato rispetto del termine per il deposito della prova dell’avventura integrazione del contraddittorio.

6.9) Difetto di motivazione per sussistenza dei presupposti per la concessione dell’errore scusabile e per la conseguente rimessione nei termini.

6.10) Illegittimità e/o nullità e/o abnormità dei provvedimenti presidenziali autorizzativi all’integrazione del contraddittorio, in quanto profili che ridondano in motivi di censura della sentenza appellata.

7. Si sono costituiti in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello, il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, l’Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria, nonché alcuni controinteressati nel giudizio di primo grado: G.P. ed altri..

8. Alla pubblica udienza del 9 giugno 2016, l’appello è stato trattenuto in decisione.

9. L’appello non merita accoglimento.

10. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa quello secondo cui devono considerarsi controinteressati al ricorso i soggetti, individuati o facilmente individuabili nel provvedimento impugnato, che potrebbero subire un pregiudizio in caso di accoglimento del proposto gravame e di conseguente annullamento degli atti impugnati ( v. Cons. St., Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 15 ) e, per quanto riguarda in particolare le procedure concorsuali, i soggetti sulla cui posizione in graduatoria l’accoglimento del ricorso sia in grado di incidere negativamente (Cons. St., Sez. VI, 13 maggio 2010, n. 2936).

Ne consegue che tutti coloro che sono risultati idonei a seguito di procedura concorsuale sono titolari di un interesse qualificato non solo al mantenimento della valutazione di idoneità, ma anche alla conservazione dello specifico posto conquistato in graduatoria.

Non può condividersi, pertanto, la censura secondo cui è da escludere la sussistenza di controinteressati in senso tecnico in relazione alla ripetizione della sola prova orale, atteso che una sua eventuale modifica ovvero ripetizione è idonea a tradursi direttamente in una modifica della graduatoria finale.

12. Infondati sono anche i motivi di appello concernenti le modalità di effettuazione della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo (motivi appello n. 5,7,8).

Il T.a.r. Catanzaro ha affermato che, alla luce della formulazione dell’art. 41 del codice del processo amministrativo (che ha riproposto, con alcune modifiche, il testo dell’art. 16 del R.D. 17.8.1907, n. 642), le modalità da seguire per la notificazione per pubblici proclami sono – come per il passato – quelle indicate dall’art. 150 del codice di procedura civile.

Il Collegio ritiene condivisibile tale affermazione, atteso che il codice del processo amministrativo ha previsto l’istituto della notifica per pubblici proclami, senza, tuttavia, specificarne le modalità, la cui definizione resta affidata volta per volta al presidente del Tribunale ovvero della Sezione investita della cognizione della causa.

In mancanza di specifiche indicazioni da parte del giudice che ordina l’integrazione del contraddittorio, deve ritenersi senz’altro applicabile, in forza c.d. “rinvio esterno” di cui all’art. 39 comma 2, c.p.a., la disciplina contenuta nel codice di procedura civile.

A tal riguardo va evidenziato che ai sensi dell’articolo 150 c.p.c. la notificazione per pubblici proclami si perfeziona mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario davanti al quale si promuove o si svolge il processo, e con l’inserimento di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

E’ altresì previsto che la notificazione si ha per avvenuta quando l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede.

13. Da quanto detto deriva che la notifica per pubblici proclami può ritenersi perfezionata soltanto mediante il rispetto del suddetto iter procedimentale e con la prova del deposito della documentazione ad essa relativa nella Segreteria del giudice che ha ordinato l’incombente, con la conseguenza che l’omissione di tale ultimo adempimento comporta l’improcedibilità del ricorso (in questi termini cdfr. Cons. St., Sez. IV, n. 3759 del 2008).

14. Sono, di conseguenza, da respingere anche le censure sollevate ai numeri 7) e 8) dell’appello, atteso che il termine fissato dal giudice per l’effettuazione della notifica per pubblici proclami comprendeva senz’altro anche il deposito della prova dell’avvenuta integrazione del contraddittorio, fornita solo in data 21 gennaio 2013 e dunque palesemente oltre i termini assegnati.

15. Sulla base di quanto sopra affermato deve escludersi che i provvedimenti presidenziali di autorizzazione della notifica per pubblici proclami siano indeterminati o indeterminabili nel loro contenuto prescrittivo, atteso il rinvio alla normativa corrispondente per gli atti giudiziari in materia civile per quanto non specificamente ordinato.

16. Non può, inoltre, condividersi la censura concernente la presunta violazione del principio generale di effettività della tutela e di legittima instaurazione del contraddittorio in relazione ai termini assegnati dal giudice.

Si rileva in proposito che l’udienza di discussione del ricorso e dei motivi aggiunti proposti dal professore C.M., originariamente fissata per l’8 marzo 2012, è stata poi differita al 22 novembre 2013, in modo da assicurare la possibilità del legittimo esercizio dei diritti di difesa e di partecipazione processuale a tutte le parti in causa. Quanto detto è ulteriormente dimostrato dal fatto che l’odierno appellante (in vista dell’effettiva udienza di merito) ha depositato memoria conclusionale – ex art. 73, c. 1, c.p.a. – in data 22 ottobre 2013, replicando regolarmente alle argomentazioni ed eccezioni sollevate dalle controparti.

17. Infondato è anche il terzo motivo di appello, con il quale il ricorrente lamenta presunti errori nella ricostruzione in fatto, operata dai giudici di primo grado, relativa all’effettuazione della notificazione per pubblici proclami.

Per quanto concerne, in primo luogo, l’asserzione dell’appellante secondo cui la pubblicazione dell’annuncio sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana sarebbe avvenuta in data 11 dicembre 2012, risulta smentita da quanto dallo stesso affermato nel corso del giudizio di primo grado. Risulta, infatti, dalla memoria conclusionale – ex art. 73 c. 1 c.p.c. – del Sig. M.C., depositata in data 5 febbraio 2013, la conferma che la pubblicazione dell’annuncio sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è avvenuta in data 6 dicembre 2012, conformemente a quanto ritenuto dal T.a.r. nella sentenza appellata.

18. Il ricorrente deduce poi, nei motivi di appello n. 3 e n. 6, che il giudice di prime cure non avrebbe considerato che il Presidente ha autorizzato la notifica con qualunque mezzo idoneo ex art. 52 c.p.a. ed ex art. 151 c.p.c, oltre che per mezzo di pubblici proclami.

La deduzione non ha, tuttavia pregio, in quanto non incide sulla valutazione finale compiuta dal T.a.r. circa il mancato rispetto dei termini prescritti dal tribunale, poiché, se è vero che il giudice ha autorizzato in astratto diverse modalità di notifica, è stato l’odierno appellante ad optare per la notificazione per pubblici proclami, sicché una volta operata tale scelta, avrebbe dovuto effettuare l’integrazione del contraddittorio conformemente ai termini e alle modalità fissate.

19. Le stesse considerazioni valgono con riferimento all’integrazione del contraddittorio relativa all’atto di motivi aggiunti, sicché non ha rilievo essenziale l’effettiva data di deposito dello stesso.

20. L’appellante si duole, inoltre, della mancata comunicazione del decreto n. 3071/2012 e dell’ordinanza n. 3265/2012, concernenti rispettivamente l’ordine di integrazione del contraddittorio per il ricorso introduttivo e l’ordine di integrazione del contraddittorio per l’atto di motivi aggiunti.

Deve, tuttavia, rilevarsi che tale assunto è contraddetto dalla circostanza che, nel corso del giudizio di primo grado (memoria conclusionale – ex art. 73, c. 1, c.p.a. – , depositata in data 5 febbraio 2013), il medesimo odierno appellante ha espressamente confermato l’avvenuta comunicazione dei provvedimenti de quibus, nonché l’esattezza dei rispettivi dati temporali.

21. Quanto finora detto permette altresì di escludere che nel caso di specie ricorra un’ipotesi di errore scusabile, in quanto nel caso oggetto del presente giudizio il mancato rispetto delle modalità e dei termini ritualmente prescritti per la notifica per pubblici proclami ex articolo 150 c.p.c. .è dipeso esclusivamente dalla negligenza dell’odierna parte appellante

22. Alla luce delle suddette considerazioni il Collegio rigetta l’appello e per l’effetto conferma la dichiarazione di improcedibilità del ricorso introduttivo e dell’atto di motivi aggiunti contenuta nella sentenza appellata.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi Euro 2.000 a favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e, considerata l’identità delle posizioni processuali e delle difese svolte, in complessivi Euro 600 per ciascuno dei controinteressati costituitisi nel giudizio di appello.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 2.000, oltre agli accessori di legge a favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e in Euro 600, oltre agli accessori di legge, a favore di G.P. ed altri..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 giugno 2016 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Bernhard Lageder, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere

Francesco Mele, Consigliere


Cons. Stato Sez. VI, Sent., 07-03-2016, n. 906

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 07-03-2016, n. 906