Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-09-2013) 29-10-2013, n. 24341

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31344-2007 proposto da:

L.A., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato DETTORI MASALA ANGELA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MINA ANDREA, giusta delega in atti e da ultimo presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA “SPEDALI CIVILI” DI BRESCIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV N.99, presso lo studio dell’avvocato FERZI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHIELLO ANGELO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 400/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 18/12/2006 R.G.N. 510/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/09/2013 dal Consigliere Dott. GIULIO FERNANDES;

è comparso l’Avvocato MANCA BITTI DANIELE per delega Andrea Mina;

udito l’Avvocato FERZI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L.A. – dipendente dell’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili ” di Brescia – dopo un periodo di malattia rassegnava le dimissioni, giusta lettera del 31.1.2002 e con decorrenza 4.2.2002, revocandole il successivo 21 febbraio ed offrendo, da tale data, le proprie prestazioni lavorative. L’Azienda, il 28.2.2002, comunicava l’accettazione delle dimissioni respingendo la richiesta di ripresa del lavoro. Il L., sull’assunto che la materia fosse ancora regolata dal disposto del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 124 – secondo cui le dimissioni del pubblico dipendente devono essere accettate per essere operative – conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia l’Azienda Ospedaliera chiedendo accertamento dell’illegittimità del provvedimento del 28.2.2002 e la reintegra nel posto di lavoro, con ogni consequenziale statuizione di ordine giuridico ed economico.

L’adito giudice rigettava la domanda, decisione questa confermata dalla Corte territoriale con sentenza del 18 dicembre 2006.

Ad avviso della Corte l’eccezione di violazione del principio della domanda e di ultrapetizione da parte del primo giudice, contenuta nel primo motivo di appello, era infondata. Nel merito, rilevava che il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 non era applicabile in quanto l’art. 37, lett. b) del CCNL di comparto 1994 -1997 aveva nuovamente regolamentato l’istituto delle dimissioni che erano, ormai, un atto unilaterale e non necessitavano di essere accettate per produrre l’effetto risolutivo del rapporto.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il L. affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso la Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia.

Motivi della decisione
Preliminarmente, va rilevata la irritualità della costituzione del nuovo difensore del ricorrente – avv. Daniele Manca Bitti – in sostituzione dell’avv. Giovanna Dettori Masala, deceduta, già costituita unitamente all’avv. Andrea Mina. Ed infatti la procura all’avv. Manca Bitti, autenticata da quest’ultimo ed apposta a margine della comparsa di costituzione del nuovo difensore, è nulla (applicandosi la disciplina anteriore alla entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, lett. a) essendo il presente processo iniziato prima del 4.7.2009) perchè apposta su un atto diverso da quelli indicati dall’art. 83 c.p.c., comma 3 (Cass. 9 ottobre 1997, n. 9799; Cass. sez. un., 5 luglio 2004 n. 12265; con riferimento al caso in cui debba sostituirsi il difensore nominato con il ricorso, deceduto nelle more del giudizio, o tale nuovo difensore – come nella specie – si affianchi al precedente cfr. Cass n. 18528 del 20/08/2009).

Ciò detto, passando al primo motivo di ricorso, si rileva che viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 416 e 420 c.p.c. e art. 2697 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di appello rilevato d’ufficio la questione relativa alla vigenza dell’art. 124 cit. a seguito della adozione del contratto collettivo, laddove la convenuta Azienda nulla aveva eccepito al riguardo. In altri termini, diversamente da quanto affermato nella impugnata sentenza, l’eccezione relativa ad una eventuale abrogazione del citato art. 124 da parte del CCNL non era questione di mero diritto e, pertanto, doveva essere allegata dall’Amministrazione resistente in sede di costituzione.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 37 del 1957, art. 124 e D.Lgs n. 165 del 2001, art. 69 nonché vizio di motivazione, per aver ritenuto possibile che una norma della contrattazione collettiva potesse abrogare il disposto di una fonte primaria quale era l’art. 124 citato.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 78, 124 e 127 in quanto la Corte di appello aveva affermato che l’ingiustificata assenza dal lavoro del L. – sul quale, secondo il regime delineato dalla norma di cui veniva chiesta l’applicazione, incombeva l’obbligo di proseguire la prestazione fino alla comunicazione dell’accettazione delle sue dimissioni – sarebbe stata già di per sè causa di risoluzione del rapporto per assenza ingiustificata.

Ed infatti, tale principio non era corretto in quanto il D.P.R. n. 3 del 1957 riconduceva la cessazione del rapporto di pubblico impiego, oltre al caso di dimissioni accettate, alle sole ipotesi di decadenza o di destituzione che presuppongono un provvedimento – nel caso in esame mai adottato – in tal senso.

Con il quarto motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 420 c.p.c. nonché vizio di motivazione per non aver il giudice del merito motivato la mancata ammissione delle prove orali articolate (interrogatorio formale e prova per testi) sulle circostanze di cui ai capi di prova intese a ricostruire l’intera vicenda.

Il primo motivo è infondato.

Vale ricordare che, per costante orientamento di questa Corte, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato fissato dall’art. 112 c.p.c. – che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del “petitum”, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda, mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. n. 23079 del 16/11/2005; Cass. n. 19475 del 06/10/2005; Cass. n. 11455 del 19/06/2004).

Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con l’altro “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo, pertanto, sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. n. 10009 del 24/06/2003).

Orbene, nel caso in esame, correttamente la Corte di appello ha considerato che il primo giudice non avesse violato il principio della domanda in quanto la questione relativa alla vigenza del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 124 era a fondamento della domanda proposta e si imponeva a seguito della intervenuta privatizzazione del pubblico impiego e della entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 69, a prescindere dalla allegazione o meno da parte dell’Azienda del CCNL di comparto visto che i contratti collettivi nazionali relativi al pubblico impiego possono essere conosciuti direttamente dal giudice essendone prevista la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (sul punto vedi, tra le altre, Cass. n. 17095 del 21.7.2010, in motivazione, e Cass. S.u. 4 novembre 2009, n. 23329).

In altri termini, il Tribunale, nel ricercare la norma applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio, non era certo vincolato alla posizione assunta dalle parti in merito alla vigenza o meno dell’art. 124 cit.. Infondato è anche il secondo motivo.

La tesi del ricorrente non tiene conto della riforma del pubblico impiego portata a compimento con il D.Lgs. n. 165 del 2001 che ha determinato una delegificazione del rapporto di lavoro pubblico con la sostituzione delle norme pubblicistiche con quelle previste dalla contrattazione collettiva, ragion per cui l’art. 124 cit., in virtù delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 (in particolare, art. 2, comma 2 e art. 69, comma 1), è divenuto inapplicabile a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994 -1997 – come già evidenziato nella impugnata sentenza – ed ha cessato di produrre effetti dal momento della sottoscrizione del CCNL del quadriennio 1998-2001.

Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso.

L’assunto del ricorrente è, infatti, in contrasto con quanto costantemente affermato da questa Corte secondo cui, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, essendo il c.d.

rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicchè non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (Cass. n. 5413 del 05/03/2013; Cass. n. 9575 del 29/04/2011; Cass. n. 57 del 07/01/2009; Cass n. 20787 del 04/10/2007).

Infine, anche il quarto motivo è infondato in quanto correttamente il giudice del merito ha ritenuto di non ammettere i mezzi istruttori articolati dal ricorrente stante la loro irrilevanza ai fini del decidere.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 3.000,00 per compensi ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2013


Circolare 004/2013: 15 DICEMBRE 2013 – Indirizzi p.e.c. per la notifica degli atti giudiziari in materia civile, penale e amministrativa

 Circolare 004 del 26.10.2013

Il 15 dicembre 2013 è la data dalla quale per le notificazioni e comunicazioni in campo giudiziario e stragiudiziale ci si potrà avvalere non solo dei registri gestiti dal Ministero di Giustizia ma anche degli indirizzi di cui già usufruisce la P.A. per la sua attività (art. 16-ter D.L. 179/2012 convert. con mod. dalla legge 221/2012).

Una data di riferimento per la P.A. o il necessario coordinamento delle notificazione giudiziaria con quella amministrativa?

Una opportunità in più per l’ufficiale giudiziario, più che per il Messo Comunale o la P.A..

Il DL 179/2012 ha introdotto alcune modifiche al Dlgs 82/2005 e ad altre norme al fine di concretizzare la notificazione telematica.

In particolare con gli interventi adottati dal legislatore si è istituita la nuova ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente) che diverrà operativa entro dicembre 2014 come indicato nell’art. 3-bis del Dlgs 82/2005, così come modificato dall’art. 4 del D.L. 179/2012.

Sempre il decreto legge in questione ha introdotto l’adozione dell’elenco denominato INI-PEC che raccoglie tutti gli indirizzi PEC delle imprese e dei liberi professionisti ed è consultabile presso il Ministero dello Sviluppo Economico, telematicamente, da chiunque ne abbia la necessità.

La disponibilità di tali indirizzi è unicamente condizionata dallo stato di realizzazione degli elenchi in questione, che si può dire pressoché conclusa per l’elenco INI-PEC, ma che invece, per l’ANPR, sta progredendo secondo una rigida tabella di marcia scandita da specifici interventi ministeriali. Si veda ad esempio l’ultimo intervento normativo adottato con il DPCM 23/8/2013 n. 109, che così recita: “Regolamento recante disposizioni per la prima attuazione dell’articolo 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, come modificato dall’articolo 2, comma 1, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, che istituisce l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)”.Pubblicato nella G.U. 1 ottobre 2013, n. 230. In vigore dal 16/10/2013.

Oggi è quindi già possibile, legittimo e obbligatorio (secondo il tenore normativo), ricorrere da parte della P.A. a questi indirizzi per lo scambio di comunicazioni e documenti con i proprietari degli indirizzi in questione, siano essi imprese che cittadini. La trasmissione tramite p.e.c. inoltre, viene equiparata dall’art. 48 del Dlgs 82/2005 alla notificazione postale.

Per quanto la notificazione tramite p.e.c. degli atti amministrativi sia già supportata da specifica normativa, l’indisponibilità degli indirizzi dei destinatari della notificazione, oltre ad una certa incertezza sulle modalità necessarie alla sua realizzazione, non ha consentito fino ad oggi il decollo della notificazione telematica per gli atti della P.A., essendo mancato un preciso intervento normativo che con apposite disposizioni attuative chiudesse qualsiasi questione inerente le modalità di notificazione e l’adottabilità della stessa in relazione alla diversa tipologia di atti che promanano dalla P.A..

D’altro canto invece, per gli atti giudiziari, il DL. 179/2012 ha inteso coordinare le norme sulla notificazione nel processo telematico con l’espressione legislativa a cui far riferimento in materia di documentazione informatica, firma elettronica, e conservazione del documento digitale, cioè il C.A.D. (Codice dell’Amministrazione Digitale).

Il D.L. 179/2012 ha infatti chiarito che in materia processuale civile, così come in quella penale o amministrativa o in materia stragiudiziale, il notificatore possa ricorrere non solo agli elenchi presso il registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (art. 7 del DM 44/2011), ma anche agli indirizzi presenti nell’ANPR (art. 4 del D.L. 179/2012) e nell’elenco di indirizzi della P.A. comunicati al Ministero di Grazia e Giustizia (art. 16 comma 12 del D.L. 179/2012) o comunque rese pubbliche ai sensi dell’art. 16 del D.L. 185/2008, così come agli indirizzi delle imprese e liberi professionisti citati nell’art. 6-bis del C.A.D. e nell’art. 16 del D.L. 185/2008.

In conclusione per evitare delle incomprensioni sulla interpretazione dell’art. 16-ter del D.L. 179/2012 si precisa che non appare corretto indicare tale data come un “traguardo significativo”, nella notificazione degli atti amministrativi, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012 rappresenta piuttosto un ampliamento delle fonti da cui trarre gli indirizzi di p.e.c. con riguardo all’attività dell’ufficiale giudiziario e dell’avvocato che notifica ai sensi della legge n. 53/1994 più che quella della P.A..

La Commissione Normativa

Asirelli Corrado,

Baldoni Margherita,

Deiana Antonella,

Durì Francesco,

Fontana Lazzaro,

Lombardi Giuseppe

Scarica la Circolare 2013-004 Indirizzi p.e.c. per la notifica degli atti giudiziari in materia civile, penale e amministrativa


PUBBLICO IMPIEGO: garantito l’accesso ai documenti amministrativi

Il lavoratore ha diritto di conoscere ed accedere a tutti gli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa.

(Consiglio di Stato – sezione III, sentenza 27.5.2013 n. 2894)

L’accesso agli atti amministrativi, regolato dalla legge 241/1990 e dal relativo regolamento (Dpr 184/2006), ha visto nell’ultimo decennio – attraverso ripetuti interventi legislativi – una rinascita sostanziale:

  • si sono definiti legittimati ATTIVI, tutti i soggetti privati, portatori anche di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto-concreto-attuale, attribuibile ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si richiede l’accesso,
  • per quanto attiene i soggetti PASSIVI, possono essere ricompresi sia enti pubblici sia enti privati,
  • una distinzione tra atto pubblico e atto privato, distinzione prevista dal nuovo art.22, che – diversamente dal precedente (che individuava come atti amministrativi solo quelli formati dalla PA, escludendo quelli privati in suo possesso) – ora fa riferimento invece ad ogni atto detenuto e individua come documento accessibile anche quello privato e non soltanto quello formato dalla P.A.

La giurisprudenza ha confermato da sempre che è irrilevante il regime giuridico dell’atto, essendo invece determinante la relazione dello stesso con l’attività d’interesse pubblico svolta dal soggetto che lo detiene.

A tale conclusione è giunto recentemente anche il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi su un rigetto di accesso a documenti – relativi il pagamento della PRODUTTIVITÀ – da parte di un dirigente di una azienda sanitaria locale.

I giudici, ripercorrendo quello che è stato l’orientamento consolidatosi nel tempo, che ha ammesso piena garanzia di accesso per la trilogia di atti amministrativi (di natura pubblica, di natura privata e di pubblico impiego privatizzato), alla fine giungono alla conclusione che:

in materia di lavoro alle dipendenze della PA il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza di atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza.

Viene inoltre ribadito il principio secondo cui il rapporto di pubblico impiego privatizzato – in materia di accesso ai documenti amministrativi – è riconducibile sotto la legge generale sulla trasparenza:

  • l’art.22 della legge 241/1990 garantisce l’accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego privatizzato, anche se le eventuali controversie (contenziosi) attinenti a suddetto rapporto rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

In buona sostanza viene affermato che, in relazione all’attività di accesso agli atti, è prevalente la finalità dell’interesse pubblico tutelato da norme di rango costituzionale (art.97 e 98).


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 11-07-2013) 15-10-2013, n. 23365

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21386/2011 proposto da:

AS.TEC. S.R.L. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo STUDIO LEGALE ROMAGNOLI, rappresentata e difesa dall’avvocato GAROFALO SILVIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI 48, presso lo studio dell’avvocato SAMMARCO PIEREMILIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BONITO FRANCESCO PAOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2307/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/04/2011 R.G.N. 6743/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale del lavoro di Avellino M.G. esponeva di aver lavorato alle dipendenze della AS.Tec s.r.l. quale operaio comune e di aver ricevuto in data 1.9.2006 una contestazione disciplinare cui era seguito il 15.9.20076 il licenziamento. Veniva al lavoratore contestato di avere esercitato attività lavorativa in Trani ove si trovava in malattia. Deduceva il M., invece, di essersi reso utile occasionalmente con un proprio congiunto, titolare di una agenzia immobiliare in (OMISSIS), solo per non rimanere inattivo svolgendo attività del tutto saltuaria e compatibile con la malattia sofferta e quindi senza pregiudicare in alcun modo il recupero delle normali attività lavorative. Chiedeva quindi dichiararsi l’illegittimità del recesso con condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.

Si costituiva in giudizio parte convenuta che contestava la fondatezza del ricorso e ribadiva la legittimità del recesso. Con sentenza del 26.1.2010 il Tribunale di Avellino dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare ed ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro con condanna al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. La Corte di appello di Napoli con sentenza 24.3.2011 rigettava l’appello dell’AS. Tee s.r.l.. La Corte territoriale rilevava che effettivamente, come già ritenuto dal Giudice di prime cure, la contestazione fosse generica in quanto non offriva elementi precisi circa i fatti contestati e posti a base del licenziamento, non essendo stato specificato il numero di volte in cui l’appellato era stato visto lavorare in (OMISSIS) e la presunta attività computa. Dalla contestazione quindi non emergevano, non essendo indicate le mansioni ed i periodi in cui tali mansioni sarebbero state espletate, le possibili conseguenze pregiudizievoli sul processo di guarigione.

Anche dal rapporto investigativo di una società privata, prodotto tardivamente, emergevano attività le più varie e poco impegnative e comunque compatibili con la patologia sofferta dall’appellato così come certificata. L’investigazione comunque era durata talmente poco da non poter provare alcuna attività lavorativa così come genericamente contestata. Posto che era emerso che l’appellato era andato nell’Agenzia di Trani solo tre giorni svolgendo prestazioni varie e non per tutto il tempo dell’apertura si doveva concludere nel senso che la condotta addebitata era caratterizzata da occasionalità e sporadicità sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e si doveva escludere che fosse stata espletata una attività qualificabile come di tipo “lavorativo”. Inoltre alla luce di tali risultanze istruttorie doveva ritenersi che i canoni di correttezza e buona fede non fossero stati violati in quanto lo stato di malattia era indubitabile e le marginali attività espletate in (OMISSIS) non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un’ incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la AS TEC s.r.l.

con tre motivi; resiste l’intimato con controricorso che ha depositato anche memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c.; la violazione ed errata interpretazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e del CCNL e l’omessa e comunque errata ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. La contestazione mossa al M. era chiara e specifica; erano stati individuati tutti gli elementi per consentire al lavoratore di difendersi e per valutare la gravità dell’accaduto.

Il motivo appare infondato in quanto effettivamente la lettera di contestazione riportata a pag. 6 della sentenza impugnata appare assolutamente generica perchè non individua nè i giorni nè l’attività in concreto svolta presso l’Agenzia Immobiliare Il Monastero e quindi non offre gli elementi di ordine qualitativo e quantitativo per consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente ad al Giudice per valutare la gravità dei fatti addebitati, considerato anche che la detta contestazione fa anche riferimento ad un atteggiamento non coerente con lo stato di malattia, il che non emerge idoneamente in base ad una contestazione che non offre alcun riferimento al tipo di mansioni pretesamente svolte dall’”incolpato”.

La motivazione pertanto appare congrua e logicamente coerente ed individua lacune effettivamente sussistenti nella contestazione, in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7. Il richiamato CCNL non è stato prodotto, nè è stato indicato l’incarto processuale ove eventualmente lo stesso sia disponibile in versione integrale.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2110 e 2119 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio avendo la Corte ritenuto lo stato fisico del lavoratore compatibile con attività lavorative.

La malattia sofferta dall’intimato “epatopatia cronica evolutiva” comportava uno stato di prostrazione fisico e psichico, come ritenuto dai medici curanti, incompatibile con l’attività di collaborazione con l’Agenzia immobiliare sita in (OMISSIS).

Il secondo motivo appare infondato in quanto la Corte di appello ha già mostrato con riferimento agli accertamenti tardivamente prodotti dalla società di una Agenzia investigativa privata che era emersa solo un’attività sporadica ed occasionale e non durante l’intero orario di apertura dell’Agenzia da parte dell’intimato, non assimilabile ad una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico che, anzi, non solo- stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa- era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una più pronta guarigione. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e strettamente ancorata alle risultanze probatorie, mentre le censure in realtà sono di merito ed appaiono dirette ad una “rivalutazione del fatto”, inammissibile in questa sede. La Corte territoriale ha, quindi, esaurientemente motivato in ordine alla mancanza di un pericolo che l’attività contestata, così come emersa in base alle prove, potesse pregiudicare o rallentare il processo di guarigione.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 e degli artt. 1223, 1227 e 2727 c.c., art. 2729 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 342, 414, 416, 163, 164, 167, e 359 c.p.c. I Giudici di merito avrebbe dovuto sottrarre all’entità del risarcimento l’aliunde perceptum. La società aveva dato prova che il M. possedeva quote societarie dell’Agenzia “Il Monastero” e certamente aveva proseguito nell’attività di collaborazione svolta pendente lo stato di malattia.

Il motivo va dichiarato inammissibile in quanto non ricostruisce, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, come la questione dell’aliunde perceptum sia stata posta nelle precedenti fasi del giudizio ed in particolare se sia stata oggetto di uno specifico motivo di appello (la sentenza di appello non fa alcun cenno a tale doglianza). In ogni caso il motivo appare inammissibile per genericità in quanto non offre alcun elemento concreto in ordine al preteso aliunde perceptum: anche se l’intimato avesse avuto delle quote (ma sul punto non vi è stata alcuna produzione in merito alla detta allegazione, unitamente al ricorso in cassazione) nell’Agenzia già ricordata, questo certamente non prova che vi avesse poi svolto attività lavorativa retribuita. Nella seconda parte del motivo si reiterano, in modo assolutamente generico, censure già esposte con i precedenti motivi.

Conclusivamente si deve rigettare il ricorso. Le spese di lite- liquidate come al dispositivo della sentenza- seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore di controparte delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano Euro 50,00 per spese, nonchè in Euro 3.000,00 per compensi oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2013


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 23-07-2013) 09-10-2013, n. 4968

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 3097 del 2005, proposto da:

T.P.L., rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Vinti, con domicilio eletto presso Stefano Vinti in Roma, via Emilia, n. 88;

contro

COMUNE DI PARMA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Guido Francesco Romanelli, con domicilio eletto presso Guido F. Romanelli in Roma, via Cosseria, n. 5;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA, sezione staccata di Parma, 26 febbraio 2004, n. 61, resa tra le parti, concernente risarcimento del danno per il ritardo nel rilascio di concessione edilizia per costruzione di magazzino;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Parma;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 luglio 2013 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati G. Pafundi e Romanelli;

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia – Romagna, sezione staccata di Parma, con la sentenza n. 61 del 26 febbraio 2004, nella resistenza dell’intimato Comune di Parma, respingeva il ricorso proposto dal sig. P.L.T. per la condanna di quell’amministrazione comunale al risarcimento del danno causato dal ritardo con cui gli era stata assentita, solo in data 11 ottobre 1996, la concessione edilizia, richiesta il 23 febbraio 1989, per la costruzione di un magazzino per la stagionatura del formaggio grana, in Malandriano di San Lazzaro Parmense.

Ad avviso del predetto tribunale, la domanda risarcitoria, pur astrattamente ammissibile, era in concreto infondata, in quanto: a) innanzitutto dal 12 dicembre 1989 fino al 25 giugno 1992 l’intervenuta adozione di una variante all’allora vigente piano regolatore generale e la doverosa applicazione delle misure di salvaguardia aveva impedito il rilascio del titolo richiesto; b) il ritardo nel rilascio del titolo non era dovuto ad inerzia dell’amministrazione, quanto piuttosto a quella dell’interessato che, per un verso, aveva genericamente ed occasionalmente sollecitato il riscontro della propria richiesta solo due volte, in particolare nel febbraio del 1992 e nel giugno del 1996, e che, per altro verso, aveva tenuto pertanto un comportamento acquiescente, non avendo impugnato il silenzio – rifiuto su di essa formatosi ex art. 31, comma 6, della L. 17 agosto 1942, n. 1150; c) difettava in ogni caso l’elemento psicologico della colpa nella pretesa inerzia dell’amministrazione, non essendo mai stata ritualmente diffidata e messa in mora.

2. Con atto di appello ritualmente notificato il 6/7 aprile 2005 l’interessato ha impugnato tale sentenza, chiedendone la riforma alla stregua di quattro articolati motivi di censura, rubricati, rispettivamente, “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 31, comma 6, della L. 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dalla L. 6 agosto 1967, n. 765”, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. con riferimento all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito commesso dall’Amministrazione Comunale”, “Contraddittorietà, erroneità, manifesta illogicità di motivazione” e “Difetto di pronuncia su punti decisivi della controversia”.

E’ stata così riproposta la domanda risarcitoria formulata in primo grado, di cui sono stati minuziosamente illustrati tutti i presupposti di fatto e di diritto (suffragati anche dalle conclusioni contenute nella relazione di consulenza svolta nel corso del procedimento penale per gli stessi fatti avviato presso la Procura della Repubblica di Parma), sottolineando le macroscopiche illegittimità compiute dagli uffici dell’amministrazione comunale, integranti, secondo l’appellante, la fattispecie dell’illecito aquiliano, inopinatamente sottovalutate e negate dai primi giudici con motivazione approssimativa e superficiale, conseguenza di un insufficiente apprezzamento dei fatti e della documentazione probatoria in atti, oltre che di una falsa applicazione ed interpretazione dell’art. 2043 c.c..

Con altro specifico motivo l’appellante ha poi quantificato i danni subiti a causa del dedotto ritardo in Euro. 2.236.120,88 (di cui Euro. 197.479,58 per maggiori oneri e costi sopportati in conseguenza del ritardato rilascio della concessione edilizia; Euro. 1.780.412.85, per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi nel periodo settennale di attesa del rilascio della concessione edilizia; Euro. 258.228,45 per perdita di clientela e danno all’immagine), chiedendo l’ammissione di consulenza tecnica d’ufficio, se ritenuta necessaria, in ordine al quantum, ed anche di prove testimoniali, in relazione all’an, con particolare riguardo a specifici fatti che avevano causato il ritardato rilascio del titolo edilizio, come emersi dalle dichiarazioni testimoniali rese da funzionari e dipendenti del Comune di Parma nel corso del procedimento penale avviato dalla locale Procura della Repubblica.

Il Comune di Parma, sottolineata la correttezza della sentenza impugnata, ha chiesto il rigetto del gravame, deducendo la pretestuosità e la manifesta infondatezza dei motivi di appello oltre alla macroscopica abnormità della somma chiesta a titolo di risarcimento del danno, priva – a suo avviso – di qualsiasi adeguato riscontro probatorio.

3. Nell’imminenza dell’udienza di trattazione, le parti hanno puntualmente illustrato con apposite memorie le proprie rispettive tesi, richieste e conclusioni, replicando a quelle avverse; in particolare il Comune di Parma ha eccepito l’inammissibilità della nuova produzione documentale depositata dall’appellante il 7 maggio 2013.

All’udienza pubblica del 23 luglio 2013, dopo la rituale discussione, la causa è stata introitata per la decisione.

Motivi della decisione
4. L’appello è fondato, atteso che, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, la domanda risarcitoria proposta dal sig. P.L.T., di cui non è dubbia l’appartenenza alla cognizione del giudice amministrativo, è meritevole di favorevole considerazione alla stregua delle osservazioni che seguono.

4.1. In punto di fatto occorre premettere quanto segue.

4.1.1. Il Sig. P.L.T. in data 23 febbraio 1989 chiedeva al Comune di Parma (prot. n. 390) il rilascio di una concessione edilizia per la costruzione di un magazzino per la stagionatura dei formaggi (da eseguirsi in Parma, Malandriano, via Traversetolo, foglio catastale n. 61, mappale n. 65, del Comune di S. Lazzaro).

Su tale richiesta intervenivano i pareri favorevoli dei competenti uffici comunali, in particolare: nulla osta dell’ufficio istruttoria delle richieste di concessione edilizia in data 2 marzo 1989, salvo assegno di linea prima dell’inizio dei lavori e a condizione che il capannone abbia un’altezza esterna non superiore a metri 10; parere favorevole in data 6 maggio 1989 degli uffici “strade – fognature – verde pubblico”, a seguito dell’integrazione documentale richiesta il 31 marzo 1989; parere favorevole del Servizio Medicina Preventiva ed igiene del lavoro in data 11 marzo 1989.

Esprimeva invece parere sfavorevole (di cui peraltro non è noto il contenuto) in data 8 maggio 1989 la 6^ circoscrizione cittadina.

La Commissione Edilizia Integrata nell’adunanza del 12 luglio 1989 rinviava l’esame della richiesta del sig. T. “per supplemento di indagini”, senza ulteriori precisazioni.

Tale decisione non è mai stata comunicata all’interessato, né vi è traccia di ulteriore attività istruttoria d’ufficio svolta al riguardo.

4.1.2. Con delibere consiliari n. 1544 e n. 1545 del 12 dicembre 1989 il Comune di Parma adottava una variante al piano regolatore generale e nuove norme tecniche d’attuazione, per effetto delle quali (art. 35 ter) le concessioni edilizie per i magazzini di stagionatura potevano essere assentite solo se i magazzini fossero annessi ai caseifici.

Anche del verificarsi di tale nuova situazione, ostativa al rilascio del titolo edilizio richiesto, l’interessato non è stato mai informato (e del resto dalla documentazione versata in atti risulta che essa fu meramente annotata sul fascicolo d’ufficio in data 29 maggio 1990).

Solo con la nota del 9 aprile 1992 (prot. gen. n. 18809, prot. spec. n. 3784) l’amministrazione, peraltro riscontrando l’apposito sollecito del 25 febbraio 1992 dell’interessato, gli comunicava l’impossibilità di assentire l’intervento richiesto a causa dell’adottata variante al piano regolare generale ed alle norme tecniche di attuazione, aggiungendo che “…l’iter burocratico percorso dalla pratica in questione è tuttora sospeso e pertanto la stessa deve considerarsi in regime di salvaguardia”.

4.1.3. Con delibera della Giunta regionale dell’Emilia – Romagna n. 1184 del 31 marzo 1992 la predetta variante veniva approvata (peraltro, come risulta pacificamente dalla documentazione in atti ed in particolare dalla relazione della consulenza disposta dalla Procura della Repubblica di Parma, con un’ulteriore modifica dell’art. 35 ter delle Norme Tecniche di Attuazione che, pur consentendo la realizzazione di magazzini per la stagionatura dei formaggi solo se annessi ai caseifici, salvaguardava tuttavia le attività esistenti e prevedeva la possibilità di rilasciare, previa approvazione del Consiglio comunale, nuove concessioni per la realizzazione dei predetti magazzini, anche non annessi ai caseifici, qualora la relativa domanda fosse stata presentata prima del 12 dicembre 1989, qual’era proprio la condizione dell’istanza presentata il 23 febbraio 1989 dal sig. T.).

La ricordata delibera della giunta regionale, superato positivamente il vaglio dell’organo di controllo, espletate le pubblicazioni di legge, diveniva efficace il 25 giugno 1992.

Neppure di tale circostanza l’interessato è stato reso edotto; né, venuta meno la causa di sospensione del procedimento, l’amministrazione ha proceduto alla relativa riattivazione d’ufficio.

4.1.4. Con nota del 25 giugno 1996 il sig. T., richiamando la precedente risposta dell’amministrazione del 9 aprile 1992, insisteva per l’immediato rilascio della concessione richiesta il 23 febbraio 1989, rilevando di aver più volte fatto presente all’ufficio di essere titolare di caseificio.

Infine, in data 11 ottobre 1996 veniva rilasciata la concessione edilizia n. 390/89, essendo tra l’altro intervenuti i pareri favorevoli dell’ufficio urbanistica in data 20 settembre 1996 (“Viste le integrazioni prodotte si è verificato che l’intervento richiesto è conforme al dettato dell’art. 35 ter delle norme vigenti in quanto presentata prima della adozione alla variante al PRG 1989 avvenuta il 12.12.1989 e all’art. 35 ter delle norme adottate il 11.10.1995 che consente la stagionatura dei prodotti lattiero – caseari. Prima dell’inizio dei lavori dovrà essere richiesto l’assegno di linea”) e della Commissione Edilizia Integrata nell’adunanza del 30 settembre 1996 (“a condizione che venga presentata perizia geologico – tecnica”).

4.2. Così delineato il (peraltro pacifico) substrato fattuale della controversia, la Sezione è dell’avviso che sussistano effettivamente gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito aquiliano, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, sussistendo effettivamente il ritardo con cui è stato assentito (l’11 ottobre 1996) al sig. P.L.T. il titolo edilizio (richiesto il 23 febbraio 1989), quale evento dannoso conseguenza diretta ed immediata dei comportamenti, commissivi ed omissivi, non conformi alla normativa vigente, posti in essere sia dall’amministrazione comunale di Parma che dallo stesso richiedente, come emerge con sufficiente chiarezza e precisione dalla documentazione versata in atti, il che esclude la necessità di accogliere la richiesta di ammissione di prove testimoniali formulata dall’appellante.

4.2.1. Quanto all’attività posta in essere dall’amministrazione si osserva quanto segue.

4.2.1.1. Occorre preliminarmente rammentare che – anche prima che con la L. 7 agosto 1990, n. 241 fosse espressamente precisato: che l’attività amministrativa deve essere ispirata a criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza; che l’amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dalla doverosa attività istruttoria; che tutti i procedimenti amministrativi devono concludersi con un provvedimento espresso e che tutti i provvedimenti amministrativi devono essere motivati – i principi di legalità, imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione, sono stati sempre ritenuti immediatamente cogenti e direttamente applicabili all’azione della pubblica amministrazione.

Sono stati ritenuti illegittimi gli atti e/o provvedimenti (sfavorevoli agli interessi dei privati) privi di adeguata motivazione e/o non supportati da adeguata motivazione (ex pluribus, C.d.S., sez. V, 20 febbraio 1990, n. 158; 11 gennaio 1989, n. 1; 20 ottobre 1988, n. 580), quelli che hanno determinato un ingiustificato arresto procedimentale, rinviando sine die il doveroso esercizio della funzione amministrativa; è stata altresì affermata la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento allorquando l’amministrazione avesse interposto un ingiustificato ritardo nell’espletamento delle attività svolte a provvedere sull’istanza legittimamente proposta dal privato, arrecandogli un pregiudizio (C.d.S., sez. VI, 2 luglio 1987).

4.2.1.2. Ciò precisato, deve innanzitutto rilevarsi che, come eccepito dall’interessato, sussiste la ingiustificata violazione dell’art. 31, comma 5, della L. 17 agosto 1942, n. 1150, secondo cui “le determinazioni del sindaco sulle domande di licenza di costruzione devono essere notificate all’interessato non oltre 60 giorni dalla data di ricevimento delle domande stesse o da quella di presentazione di documenti aggiuntivi richiesti dal sindaco”.

Infatti, risultando presentata l’istanza di concessione di cui si discute il 23 febbraio 1989, l’amministrazione avrebbe dovuto notificare le proprie determinazioni, ancorché negative, entro il 24 aprile 1989, il che non è avvenuto senza alcuna plausibile giustificazione, dando luogo ad una immotivata ed irragionevole inerzia dell’amministrazione (tanto più che, come si avrà modo anche di sottolineare in seguito, non esisteva – né è stato mai indicato – alcun elemento ostativo al rilascio del titolo richiesto, almeno fino all’11 dicembre 1989).

E’ appena il caso di aggiungere al riguardo, per un verso, che non si è in presenza di un mero ritardo nell’esercizio dell’attività amministrativa, giacché con l’avvenuto rilascio del titolo è stato inconfutabilmente ritenuto spettante all’interessato il bene della vita effettivamente perseguito, e, per altro verso, che è irrilevante ai fini della configurabilità dell’illecito aquiliano (e dell’ammissibilità della domanda risarcitoria) la circostanza, enfatizzata dall’amministrazione comunale ed inopinatamente considerata rilevante dai primi giudici, del mancato esercizio da parte dell’interessato del diritto di impugnazione del silenzio – rifiuto formatosi, ai sensi del comma 6 del citato articolo 31 della L. n. 1150 del 1942.

E’ sufficiente ricordare che il decorso del suddetto termine di sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di concessione edilizia non consuma il potere – dovere dell’amministrazione di provvedere sulla domanda del privato (C.d.S., sez. V, 28 novembre 2005, n. 6623; sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 818), costituendo piuttosto il silenzio – rifiuto un provvedimento fittizio (C.d.S., sez. V, 23 agosto 2000, n. 4564) con finalità acceleratorie del procedimento di rilascio del titolo concessorio e di semplificazione, in particolare attribuendo al privato la facoltà di liberarsi dell’inerzia dell’amministrazione e dell’onere della diffida e messa in mora di quest’ultima indispensabile per adire il giudice amministrativo (C.d.S., sez. V, 25 settembre 1998, n. 1326; sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 818); così che la mancata impugnazione del silenzio rifiuto rileva sotto il diverso profilo della sua eventuale efficacia causale alla produzione del danno (concausa) e della concreta determinazione del danno risarcibile (ex artt. 1227 c.c. e 30, comma 3, c.p.a.).

4.2.1.3. Non sfugge ad un giudizio di illegittimità la decisione del 12 luglio 1989 della Commissione Edilizia Integrata di rinviare l’esame della richiesta di concessione edilizia presentata dal sig. P.L.T. per “supplemento di indagini”.

E’ decisivo al riguardo rilevare che non solo non sono state esternate le ragioni che imponevano l’approfondimento istruttorio, per quanto non è stato neppure indicato in che cosa dovessero consistere le pretese ulteriori indagini e su chi ricadesse (uffici comunali o privato) l’onere dei relativi adempimenti: la natura sostanziale (e non meramente formale) di tale palese difetto assoluto di motivazione è ancor meglio apprezzabile se si tiene conto che, come emerge dalla documentazione in atti, gli uffici comunali non svolsero alcuna ulteriore attività istruttoria (nessun ordine o direttiva essendo stato in tal senso diramati dalla predetta commissione consiliare o da altri organi del comune) e neppure integrazioni documentali o chiarimenti (sulla documentazione già prodotta) furono richiesti all’interessato.

Ciò induce a ritenere del tutto ragionevolmente che in realtà alcun motivo ostativo al rilascio del titolo edilizio esistesse effettivamente, tant’è che di esso non solo non vi è alcuna traccia (né in tal senso vi è alcuna osservazione o indicazione da parte dell’amministrazione comunale neppure successivamente alla decisione in questione); per quanto, come si evince dalla lettura del parere favorevole espresso dall’Ufficio Urbanistica il 20 settembre 1996, nell’ambito del procedimento conclusosi con il rilascio del titolo edilizio l’11 ottobre 1996, l’intervento richiesto era “…conforme al dettato dell’art. 35 ter delle norme vigenti in quanto presentata prima dell’adozione della variante al PRG 1989 avvenuta il 12.12.1989 e all’art. 35 ter delle norme adottate il 11.10.1995 che consente la stagionatura dei prodotti lattiero – caseari”.

Quella decisione ha in definitiva, per un verso, introdotto un illogico, irragionevole ed arbitrario aggravamento del procedimento di rilascio della concessione edilizia, peraltro senza alcun vantaggio ed utilità per l’interesse pubblico, e, per altro verso, ha di fatto impedito il rilascio del titolo stesso, determinando peraltro anche l’arresto del procedimento per effetto della sopravvenuta adozione, in data 12 dicembre 1989, della variante al vigente piano regolatore generale e della conseguente doverosa applicazione delle misure di salvaguardia di cui all’art. 1 della L. 3 novembre 1952, n. 1902.

Sono pertanto prive di qualsiasi fondamento le, peraltro timide, difese dell’amministrazione sulla natura non provvedimentale del parere della predetta commissione, tanto più che tale parere non risulta emesso e che, per contro, la immotivata decisione interlocutoria ha causalmente contributo al ritardato rilascio del titolo.

Deve ancora sottolinearsi che nemmeno la decisione in questione è stata comunicata, così che sono stati anche macroscopicamente violati i principi di pubblicità e trasparenza (insiti nell’art. 97 della Costituzione, sub specie della violazione dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrata), impedendosi all’interessato di rappresentare tempestivamente le proprie eventuali osservazioni e controdeduzioni ovvero di attivarsi per fornire i necessari chiarimenti sulla propria domanda e fugare i dubbi della commissione e di evitare così la successiva sottoposizione della sua domanda alle misure di salvaguardia, per effetto della variante al piano regolatore generale adottata il successivo 12 dicembre 1989 (a distanza di circa nove mesi dalla presentazione della domanda e di circa cinque mesi dalla decisione interlocutoria).

4.2.1.4. Anche nell’ambito del segmento procedimentale concernente l’applicazione delle misure di salvaguardia, l’attività degli uffici comunali risulta caratterizzata da comportamenti non conformi alle previsioni normative.

Infatti, seppure, per un verso, non possa dubitarsi che, per effetto dell’adozione delle delibere consiliari n. 1444 e 1445 del 12 dicembre 1989, di variante al piano regolatore generale ed alle norme di attuazione, la richiesta di concessione edilizia, presentata dal sig. P.L.T. il 23 febbraio 1989, non fosse più conforme alle sopravvenute previsioni urbanistiche e dovesse pertanto essere sottoposta doverosamente all’applicazione delle misure di salvaguardia, per altro verso deve rilevarsi che l’articolo unico della L. 3 novembre 1952, n. 1902 (“Misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori”) prescrive inequivocabilmente che, a decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani regolatori generali (ed ovviamente delle loro varianti), il sindaco possa “…con provvedimento motivato da notificare al richiedente, sospendere ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione, di cui all’art. 31 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, quando riconosca che tali domande siano in contrasto con il piano adottato”.

La norma introduce a carico dell’amministrazione degli obblighi di motivazione, pubblicità e di trasparenza per la legittimità dell’applicazione delle misure di salvaguardia (particolarmente lesive dello jus aedificandi spettante al privato), onde assicurare il giusto contemperamento degli interessi, pubblici e privati, in gioco facultando, per un verso, l’amministrazione a sospendere l’esame delle richieste di concessione edilizia quando queste ultime siano in contrasto con le nuove scelte di tutela e gestione del territorio contenute nello strumento urbanistico adottato (e sino alla sua approvazione), ma consentendo, per altro verso, all’interessato di verificare l’asserito contrasto della sua richiesta con la nuova previsione urbanistica attraverso la comunicazione del provvedimento di sospensione e le relative motivazioni, obblighi – anch’essi di natura evidentemente non meramente formale – che nel caso di specie sono stati macroscopicamente violati.

L’amministrazione, infatti, non solo non ha emanato alcun provvedimento di sospensione dell’esame della richiesta di concessione edilizia avanzata dal sig. T. per l’intervenuta adozione della variante al piano regolatore generale, per quanto non ha neppure informato della conseguente sospensione del procedimento di rilascio.

Sono circostanze sintomatiche del comportamento negligente e superficiale tenuto dagli uffici, in dispregio dei canoni di legalità, imparzialità e buon andamento, sia la mera apposizione sul fascicolo d’ufficio della pratica edilizia in questione, solo il 29 maggio 1990 (a distanza di circa 6 mesi dall’avvenuta adozione della variante ed a circa 10 mesi dal rinvio della decisione della Commissione Edilizia Integrata), della seguente annotazione: “Con l’adozione della variante al PRG e alle NTA l’intervento richiesto non può essere autorizzato in quanto i magazzini di stagionatura che non siano annessi a caseifici non sono ammessi dal nuovo art. 35 ter”, sia la conoscenza, del tutto estemporanea ed occasionale, di tale situazione da parte dell’interessato il 9 aprile 1992, all’atto del ricevimento della nota dell’amministrazione prot. gen. n. 18809 – prot. spec. n. 3784, di riscontro del suo sollecito inoltrato il 25 febbraio 1992.

4.2.1.5. Sotto altro profilo, deve ricordarsi che le misure di salvaguardia, che per loro intrinseca natura hanno carattere eccezionale e temporaneo, secondo la espressa previsione dell’articolo unico, comma 3, della L. n. 1902 del 1952 (come sostituito dall’art. 1 della L. 5 luglio 1966, n. 517), “…non potranno essere protratte oltre tre anni dalla data di deliberazione” del piano.

Da ciò deriva che, intervenuta l’approvazione dello strumento urbanistico (o della sua variante) ovvero scaduto il termine massimo di durata, l’amministrazione ha l’obbligo – e non già una mera facoltà – di procedere all’esame delle richieste di concessione edilizia sospese, proprio per la doverosa applicazione della stessa L. n. 1902 del 1952 e dei più volte citati fondamentali principi sanciti nell’articolo 97 della Costituzione.

Nel caso di specie, tuttavia, intervenuta l’approvazione della variante e divenuta la stessa efficace dal 25 giugno 1992 (prima della scadenza del termine massimo triennale di validità delle misure di salvaguardia, scadente il 12 dicembre 1992), gli uffici dell’amministrazione sono rimasti ingiustificatamente inerti, invocando a giustificazione (come si ricava dalle dichiarazioni testimonianze rese dai funzionari nel corso del procedimento penale instaurato dalla Procura della Repubblica di Parma) una non meglio precisata prassi amministrativa, in ossequio alla quale in tali casi si attendeva che fosse autonomamente l’interessato a sollecitare il riesame della pratica sospesa ovvero a presentare una nuova richiesta di concessione edilizia.

Sennonché tale prassi è palesemente inammissibile e contra legem, macroscopico essendo l’ingiustificato ed insanabile contrasto con le ricordate disposizioni della L. n. 1902 del 1952 (e con la sua ratio), oltre che con i principi di buona fede e tutela dell’affidamento, cui devono essere improntati i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, tanto più che nella ricordata nota del 9 aprile 1992, la stessa amministrazione, informando (tardivamente) l’interessato dello stato di sospensione del procedimento, non aveva fatto alcuna menzione di quella prassi e quindi della necessità, dopo la cessazione delle misure di salvaguardia, di sollecitare l’esame della richiesta sospesa ovvero dell’opportunità di presentare una nuova richiesta di concessione edilizia.

Anche sotto tale profilo risulta autonomamente apprezzabile l’illegittimità del ritardo nel rilascio del titolo edilizio, avvenuto solo l’11 ottobre 1996, a seguito della nuova ulteriore sollecitazione dell’interessato del 25 giugno 1996.

4.2.1.6. Per completezza, richiamando quanto già esposto al par. 4.2.1.2., la Sezione osserva che le riscontrate illegittimità non possano considerarsi assorbite o rese irrilevanti, come sostanzialmente ritenuto dai primi giudici, per il solo fatto che l’interessato non abbia impugnato il silenzio – rifiuto che si sarebbe formato sull’istanza del 23 febbraio 1989 per l’inutile decorso del termine di sessanta giorni, come previsto dal combinato disposto dei commi 5 e 6 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, ciò influendo soltanto, come già evidenziato, sulla eventuale sussistenza del danno e sulla sua concreta determinazione.

4.2.1.7. Diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, l’attività (commissiva ed omissiva, così come fin qui rilevata dal punto di vista materiale) posta in essere dall’amministrazione comunale appellata è ad essa imputabile anche sotto il profilo soggettivo (del dolo o della colpa).

Se è vero, infatti, che ai fini dell’ammissibilità dell’azione risarcitoria non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo ovvero la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa, dovendo anche accertarsi se l’adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali deve essere costantemente ispirato l’esercizio della funzione, e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l’imperizia degli uffici o degli organi dell’amministrazione ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all’ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 7 giugno 2013, n. 3133; sez. VI, 6 maggio 2013, n. 2419; sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1406), nel caso di specie, ad avviso della Sezione, non può negarsi la ricorrenza dell’elemento psicologico della fattispecie risarcitoria, sub specie della colpa.

Le ripetute violazioni di legge (art. 31 della L. n. 1150 del 1942, art. 1 della L. n. 1902 del 1952) e dei fondamentali principi cui deve essere conformata l’attività amministrativa ex art. 97 Cost. (sub specie dell’imparzialità e del buon andamento e dei corollari di economicità, speditezza, efficienza, buona fede e della tutela dell’affidamento a causa del riscontrato difetto assoluto di motivazione degli atti emanati ovvero per la mancata adozione di atti doverosi, oltre che l’ingiustificato, illogico ed arbitrario aggravamento e conseguente arresto del procedimento) che, come rilevato, hanno caratterizzato il procedimento in esame, non possono che ascriversi quanto meno a grave negligenza o imperizia degli uffici dell’amministrazione comunale complessivamente considerati (non essendo necessario provare la sussistenza dell’elemento psicologico in capo ad ogni singolo agente, dipendente, responsabile o dirigente degli uffici comunali di volta in volta interessati che hanno contribuito causalmente ai singoli atti e/o comportamenti commissivi od omissivi, ciò costituendo una irragionevole ed inammissibile limitazione del diritto di difesa consacrato nell’art. 24 della Costituzione).

D’altra parte non sono emersi nella fattispecie in esame quelle peculiari circostanze di complessità dei fatti, di contrasti giurisprudenziali ovvero di incertezza normativa, che integrano la fattispecie dell’errore scusabile e che escludono l’elemento psicologico della responsabilità, ciò senza contare che l’onere di provare l’esistenza di tali circostanze (che costituiscono delle eccezioni di merito, in quanto modificative, impeditive o estintive dei fatti adotti in giudizio dalla controparte) incombeva proprio sull’amministrazione appellata (e non è stato minimamente adempiuto); né, come già accennato, possono essere invocate, a scusante delle illegittimità verificatesi, pretese prassi o comportamenti reiterati e consolidati degli uffici, atteso che essi non possono essere considerati neppure rilevanti allorquando, come nel caso in esame, siano contra legem e manifestamente lesivi degli interessi dei cittadini, impedendo loro l’esercizio delle facoltà di tutela riconosciute dalla legge.

4.2.2. Quanto al comportamento tenuto nel procedimento in questione dal richiedente, sig. P.L.T., anch’esso, ad avviso della Sezione, ha concorso al verificarsi dell’evento dannoso, consistito nel ritardato rilascio del titolo edilizio.

4.2.2.1. Occorre al riguardo ricordare che l’art. 1227 c.c. al comma 1 dispone che se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, aggiungendo, al successivo comma 2, che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

E’ stato ritenuto sussistente il comportamento omissivo colposo del danneggiato, comma 1, ogni qualvolta tale inerzia, contraria a diligenza, anche a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno, precisandosi che la regola contenuta nell’art. 1227, comma 1., c.c. non è espressione del principio di auto responsabilità, quanto piuttosto un corollario del principio di causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile; con la conseguenza che la colpa ex art. 1227, comma 1, c.c. deve essere intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto, ma come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato (Cass. civ., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406).

La giurisprudenza amministrativa ha d’altra parte sottolineato che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, sancita dall’articolo 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva dei principi già contenuti nell’art. 1227, comma 2, c.c., così che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro complessivo delle parti, valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con la ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (C.d.S., sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1750; così sostanzialmente anche C.d.S., sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5556, con riferimento alla specifica scelta del cittadino di non avvalersi della tutela impugnatoria che, anche in virtù delle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe probabilmente evitato in tutto o in parte il danno).

4.2.2.2. Nel caso in esame non può ragionevolmente escludersi che la tempestiva impugnazione da parte dell’interessato del silenzio – rifiuto, formatosi ex art. 31, comma 6, della L. n. 1150 del 1942, sulla richiesta di concessione edilizia presentata il 23 febbraio 1989, avrebbe potuto impedire il danno, costringendo, eventualmente, anche attraverso un non implausibile provvedimento cautelare sollecitatorio o propulsivo, l’amministrazione a rilasciare il titolo edilizio ovvero costringendola a riesaminare la decisione della Commissione Edilizia Integrata e/o ad indicare le eventuali ragioni ostative a tale rilascio, il tutto prima del 12 dicembre 1989, allorquando, essendo stata adottata una variante al piano regolatore generale vigente e alle relative norme tecniche di attuazione, è sopravvenuta la doverosa applicazione delle misure di salvaguardia.

Sotto altro profilo poi, seppure, come è stato evidenziato in precedenza, l’amministrazione comunale ha ingiustificatamente ed immotivatamente omesso di comunicare all’interessato non solo la decisione della Commissione Edilizia Integrata del 12 luglio 1989, ma anche lo stato di sospensione del procedimento a causa dell’adottata variante allo strumento regolatore e alle norme tecniche di attuazione e la successiva cessazione di tale stato, non risulta altrimenti ragionevole e giustificato, secondo l’ordinaria diligenza e secondo l’id quod plerumque accidit, che l’interessato abbia atteso circa tre anni per sollecitare una prima volta (con la nota del 9 febbraio 1992, riscontrata il successivo 25 febbraio 1992) la sua originaria domanda e altri quattro anni (dalla prima volta), il 25 giugno 1996, per insistere nella richiesta di rilascio della concessione edilizia; d’altra parte, anche ad ammettere astrattamente che non fosse agevole conoscere l’effettiva data di efficacia della delibera regionale di approvazione del piano regolatore generale (25 giugno 1992), l’interessato, proprio per effetto delle informazioni ottenute dall’amministrazione con la nota del 25 febbraio 1992, ben poteva conoscere la data della scadenza triennale di validità delle misure di salvaguardia (12 dicembre 1992) ovvero informarsi sull’effettiva scadenza delle stesse usando l’ordinaria diligenza, così che non trova alcuna adeguata giustificazione la sua inerzia protrattasi fino al 25 giugno 1996.

Pertanto, anche sotto l’esaminato profilo è più che ragionevole ritenere che un diverso, e sicuramente esigibile, comportamento dell’appellante, improntato ai fondamentali principi di solidarietà e buona fede e a salvaguardare anche gli altrui interessi, senza alcun diretto pregiudizio per i propri, avrebbe limitato considerevolmente il ritardo del rilascio del titolo edilizio.

Precisato poi che non vi è alcun elemento idoneo a far dubitare della riferibilità di tali comportamenti omissivi all’interessato anche sotto il profilo psicologico, quanto alla loro effettiva incidenza causale nella verificazione dell’evento dannoso di cui si discute (ritardato rilascio del titolo edilizio), la Sezione è dell’avviso che, sulla scorta di tutti gli elementi di fatto esaminati, esso possa equitativamente e ragionevolmente fissarsi nella misura del 50%.

4.3. Per completezza la Sezione deve rilevare che dagli atti di causa (ed in particolare dal verbale di sommarie informazioni rese dallo stesso sig. P.L.T. al Nucleo di Polizia Tributaria di Parma in data 19 marzo 1996) risulta che il caseificio, per la cui costruzione quegli aveva ottenuto la concessione edilizia n. 1269/1984, non era attivo, in quanto sin dal 5 ottobre 1989 ne era stata chiesta la trasformazione in magazzino (concessione edilizia n. 2219/1989 rilasciata il 14 agosto 1990): ciò esclude l’assentibilità della concessione richiesta il 23 febbraio 1989 per la realizzazione del magazzino di stagionatura, anche dopo l’intervenuta adozione della variante al piano regolatore, attesa la pacifica inesistenza del caseificio e l’impossibilità di considerare il primo (magazzino) annesso al secondo (caseificio).

4.4. Passando all’esame del danno, la Sezione osserva quanto segue.

4.4.1. Occorre ribadire che, sulla scorta della documentazione esaminata e delle osservazioni fin qui svolte, non può dubitarsi dell’effettiva verificazione dell’evento danno (ricollegabile causalmente ai comportamenti dell’amministrazione comunale di Parma e dello stesso interessato), consistito nel ritardato rilascio del titolo edilizio e nella conseguente tardiva realizzazione del magazzino per la stagionatura del formaggio.

Ciò posto, è priva di fondamento la apodittica eccezione della amministrazione appellata, secondo cui nel caso di specie non si sarebbe verificato alcun danno perché non sarebbe fornita dall’interessato la prova dell’effettiva realizzazione del magazzino di stagionatura assentito, tanto più che sarebbe inammissibile, ai sensi dell’art. 104, secondo comma, c.p.a., l’avvenuto deposito in data 7 maggio 2013 del certificato di collaudo del 9 dicembre 1999, della domanda di autorizzazione allo scarico dei reflui del 7 agosto 1997, della dichiarazione di versamento degli oneri del 9 ottobre 1996 e del certificato di prevenzione incendi del 3 maggio 1997.

E’ sufficiente rilevare sul punto che l’appellante ha depositato una voluminosa documentazione (fatture per acquisto di materiale vario e per compensi a professionisti) sui costi sopportati per la costruzione del predetto magazzino e che tale documentazione non è stata adeguatamente contestata dall’amministrazione appellante, che, in particolare, non ha fornito alcun elemento, anche solo indiziario, idoneo a far dubitare dell’effettiva costruzione del magazzino assentito.

Quanto ai documenti di cui è stata contestata la produzione da parte dell’appellante, la Sezione è dell’avviso che essi siano comunque del tutto irrilevanti quanto alla prova dell’effettiva costruzione del magazzino, attenendo piuttosto alla concreta utilizzabilità del magazzino (circostanza questa che potrebbe eventualmente influire solo sulla concreta determinazione del danno risarcibile).

4.4.2. In ordine alla quantificazione del danno subito, l’appellante ha chiesto a tale titolo complessivamente Euro. 2.236.120,88 (di cui Euro. 197.479,58 per maggiori oneri e costi sopportati in conseguenza del ritardato rilascio della concessione edilizia esattamente Euro. 24.468,18, a titolo di oneri urbanistici, ed Euro. 173.011,40, per maggiori costi di realizzazione delle attrezzature e degli impianti; Euro. 1.780.412.85, per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi nel periodo settennale di attesa del rilascio della concessione edilizia; Euro. 258.228,45 per perdita di clientela e danno all’immagine), allegando a tal fine, come già osservato, copiosa documentazione, costituita soprattutto da fatture e da relazioni tecnico – contabili.

4.4.2.1. Al riguardo la Sezione osserva che può essere innanzitutto riconosciuta a titolo di danni la somma di Euro. 24.468,18 per oneri urbanistici corrisposti all’amministrazione comunale (circostanza che peraltro da quest’ultima non è stata minimamente contestata) in virtù del titolo edilizio rilasciato l’11 ottobre 1996.

Invero, anche per la mancanza di alcuna specifica osservazione e controdeduzione sul punto da parte della difesa dell’amministrazione comunale di Parma, non può che ritenersi plausibile la tesi dell’appellante secondo cui, qualora la concessione edilizia fosse stata regolarmente rilasciata prima della variante urbanistica adottata il 12 dicembre 1989, allorquando cioè i magazzini per la stagionatura erano assentibili anche se non annessi ai caseifici, gli oneri urbanistici non sarebbero stati dovuti per la sua qualità di imprenditore agricolo a titolo principale (né può essere sottaciuto che, come già sottolineato, l’appellante aveva ottenuto effettivamente una concessione edilizia per la realizzazione del caseificio e che solo dal 5 ottobre 1989 – dopo la presentazione della domanda di concessione edilizia di cui si discute e prima che il titolo non fosse più assentibile per effetto della adottata variante urbanistica – egli chiese la trasformazione di quella concessione per la realizzazione di magazzini di stagionatura).

4.4.2.2. E’ del tutto ragionevole ammettere poi che il ritardato rilascio del titolo edilizio abbia inciso sui costi di costruzione del magazzino, essendo intercorsi oltre sette anni dalla sua richiesta.

Sul punto l’appellante, dopo aver provato i costi sostenuti per la costruzione del magazzino con apposite fatture (che, si ripete, non sono state contestate dall’amministrazione appellata) e con un elaborato riassuntivo, debitamente firmato da un tecnico, per un importo complessivo di L. 1.492.819.353, ha prodotto altro elaborato contabile da cui emerge che, se fossero stati eseguiti nel 1989, i lavori di costruzione del magazzino sarebbe costati L. 1.157.822.562 (essendo stato in particolare indicato un non irragionevole aumento del 20% dei costi delle opere edili, del 30% di quelli delle opere di lattonerie, del 30% di quelli delle strutture prefabbricate, del 20% di quelli di coibentazione, del 25% di quelli di impianti elettrici, del 30% di quelli di impianti idrici e di raffreddamento, del 25% di quelli delle serramenti e del 15% di quelli delle attrezzatura).

Il ritardato rilascio del titolo edilizio e la conseguente ritardata realizzazione del magazzino ha comportato per l’aumento dei costi di costruzione un danno pari a L. 334.996.791, corrispondenti ad Euro. 173.011,040.

Anche tale importo è riconoscibile a titolo di risarcimento del danno, essendo ragionevole e sufficientemente provato nelle sue singole componenti, oltre a non essere stato minimamente contestato dall’amministrazione appellata.

4.4.2.3. L’appellante ha altresì assunto di aver subito un danno pari a Euro. 1.780.412,85 per mancati ricavi dalla attività di stagionatura di formaggi a causa del ritardo di oltre sette anni con il quale gli è stato assentito il titolo edilizio per la realizzazione del magazzino di stagionatura, quantificando tale danno in base ad una relazione di un dottore commercialista.

Al riguardo la Sezione rileva che se, per un verso, non può negarsi che il ritardato rilascio del titolo edilizio ed il consequenziale ritardo nella costruzione del magazzino abbia influito effettivamente anche sulla concreta attività commerciale (di vendita del prodotto), d’altra parte la somma indicata dall’appellante, ancorché non contestata dall’amministrazione appellata, non può essere interamente riconosciuta.

Innanzitutto il periodo che può essere preso in considerazione ai fini della determinazione della voce di danno in esame deve essere ragionevolmente ridotto almeno di un anno, da sette a sei anni, atteso che per la realizzazione del magazzino e per la sua effettiva utilizzabilità (compresa l’acquisizione del certificato di collaudo, permessi e nulla – osta sanitari, antincendi, etc.), oltre che per il pieno avvio dell’attività commerciale, può prudentemente ritenersi necessario un arco temporale oscillante tra i 18 ed i 24 mesi (del resto le stesse fatture prodotte dall’appellante a dimostrazione soltanto dei costi di costruzione del magazzino si collocano tra il novembre 1996 e il gennaio 1998).

Può pertanto verosimilmente ritenersi che, anche a considerare che il titolo edilizio fosse stato rilasciato nei sessanta giorni dalla sua richiesta e cioè per la fine del mese di aprile 1989, l’attività commerciale legata al realizzando magazzino di stagionatura non si sarebbe pienamente avviata prima dell’inizio dell’anno 1991, così che il periodo temporale da prendere a riferimento per il danno da mancata attività commerciale è di circa sei anni ed il relativo importo, così come risultante dalla documentazione prodotta dall’interessato, deve essere ridotto a L. 2.954.880.000, corrispondenti a Euro. 1.562.068.

Sennonché tale importo, come si evince dalla ricordata documentazione prodotta dall’appellante, attiene ai ricavi che si sarebbero realizzati dalla vendita del formaggio, ma non tiene in minima considerazione i costi di conservazione del prodotto e quelli più generali di gestione dell’intero impianto; né è plausibile ritenere che tutto il ricavo costituisse l’utile dell’attività di impresa, che solo può essere effettivamente considerato quale danno effettivamente subito.

Sotto tale profilo deve ritenersi equo che il mancato utile conseguito per effetto della attività di impresa che sarebbe stata esercitata corrisponde al 25% dei ricavi indicati e dunque al 25% di Euro. 1.562.068 e cioè a Euro. 390.517.

4.4.2.4. -Nulla può essere invece riconosciuto all’appellante, che ne ha fatto solo mera richiesta, a titolo di danno per la perdita di clientela e per danno all’immagine, perché nessuna prova è stata fornita di presunte voci di danno.

Infatti il danno per perdita della clientela presuppone necessariamente una precedente attività di vendita del formaggio ed il conseguente sviamento della clientela ad altri punti vendita, a causa del ritardato rilascio del titolo edilizio in discussione, circostanze di cui nel caso di specie non vi è traccia, tanto più che l’appellante era titolare soltanto di concessione edilizia per la costruzione di un caseificio e che l’attività casearia non è necessariamente collegata a quella di stagionatura e vendita del formaggio prodotto.

Né il ritardato rilascio del titolo edilizio, in mancanza di qualsiasi adeguato elemento anche solo indiziario in tal senso, può influire per ciò solo sulla reputazione e sull’immagine di un imprenditore (con particolare riferimento alla sua capacità, professionalità e moralità).

4.4.2.5. Posto che le voci di danno riconoscibili ammontano complessivamente ad Euro. 587.996,58 (e cioè Euro. 24.468,18 per oneri urbanistici; Euro. 173.011,40 per maggiori costi di costruzione; Euro. 390.517,00 per gli utili derivati dalla mancata vendita del formaggio prodotto), il danno effettivamente riconoscibile all’appellante a causa del ritardato rilascio del titolo edilizio di cui si tratta ascende complessivamente ad Euro. 293.998,29 (duecentonovantatremilanovecentonovantotto Euro e ventinove centesimi), per effetto del concorso causale alla determinazione del danno dello stesso appellante, secondo quanto esposto nel paragrafo 4.2.2.2.

Su tale importo, quale credito di valore, devono essere riconosciuti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali, da ritenersi comunque compresi nell’originaria domanda risarcitoria (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20943), dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2009, n. 5054 luglio 2009, n. 15928).

Il predetto importo deve essere in particolare rivalutato dalla data del fatto generatore del danno (coincidente con l’11 ottobre 1996, data di rilascio del titolo edilizio) all’attualità (data di deposito della presente sentenza), secondo gli annuali indici ISTAT; spettano inoltre gli interessi legali sulla somma rivalutata dalla data della presente sentenza sino al soddisfo; spettano altresì gli interessi legali, da calcolarsi anno per anno sulla somma originaria (Euro. 293.998,29) anch’essa annualmente rivalutata dalla data del fatto sino all’effettivo soddisfo.

5. In conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado dal sig. P.L.T., con conseguente condanna del Comune di Parma al risarcimento del danno, così come indicato in motivazione.

Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello proposto dal sig. P.L.T. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia – Romagna, sezione staccata di Parma, n. 61 del 26 febbraio 2004, così provvede:

– accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso proposto in primo grado dal sig. P.L.T.;

– conseguentemente condanna il Comune di Parma a risarcire a quest’ultimo il danno subito per il ritardato rilascio della concessione edilizia, liquidato in Euro. 293.998,29 (duecentonovantatremilanovecentonovantotto Euro e ventinove centesimi), oltre rivalutazione monetaria ed interessi, come da motivazione.

– condanna altresì il Comune di Parma al pagamento in favore del sig. P.L.T. delle spese del doppio grado di giudizio, oltre I.V.A. e CPA, se dovuti, che si liquidano in complessivi Euro. 8.000,00 (ottomila), nonché alla restituzione del contributo unificato, se versato, per la proposizione del ricorso di primo grado e per quello di appello.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 luglio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Sabato Malinconico, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere

Doris Durante, Consigliere


Le Linee Guida per la razionalizzazione dei CED della PA disponibili sul sito dell’AgID

L’Agenzia per l’Italia Digitale ha reso disponibile sul proprio sito le Linee Guida per la razionalizzazione delle infrastrutture digitali della PA.

Il documento intende contribuire a diminuire i costi di esercizio, semplificare la gestione operativa, aumentare l’efficienza, la flessibilità e la sicurezza.

L’Agenzia per l’Italia Digitale è l’ente preposto all’effettuazione del censimento dei CED delle PA e alla elaborazione delle Linee Guida in base all’articolo 33-septies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 convertito nella  Legge n.221/2012 (come modificato dall’art. 16 del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69).

Leggi: Linee Guida per la razionalizzazione della infrastruttura digitale della PA-2013


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 10-04-2013) 08-10-2013, n. 22883

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FELICETTI Francesco – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15325/2007 proposto da:

T.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, FORO TRAIANO 1-A, presso lo studio dell’avvocato SCHETTINI DARIO OVIDIO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

V.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso lo studio dell’avvocato CAMPAGNOLA ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato INTORRE SALVATORE per proc. spec. del 6/6/2008 rep. n. 736;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1902/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito l’Avvocato Schettini Dario Ovidio difensore della ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Campagnola Antonio e Intorre Salvatore difensore della controricorrente che hanno chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione ritualmente notificato V.F. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma T.E., chiedendone la condanna alla eliminazione delle opere abusivamente realizzate.

2. – Il Tribunale adito dichiarò cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di demolizione del locale cassoni, condannando la convenuta alla demolizione della ringhiera-parapetto realizzata nel lastrico di sua proprietà e alla rimozione dei radiatori per lo scambio termico situati in aggetto sulla proprietà V..

Avverso tale sentenza propose appello la T..

3. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 26 aprile 2006, rigettò il gravame. Dichiarata la inammissibilità della produzione della documentazione, effettuata dalla T. solo in grado di appello, la Corte respinse la eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, rilevando che esso era stato notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti di legge erano stati effettuati, mentre nessuna rilevanza assumevano le circostanze dedotte dall’appellante con riguardo all’abbandono della corrispondenza diretta alla T. sui gradini antistanti il portone di ingresso della sua abitazione, priva di servizio di portierato e di buche per le lettere, ed al conseguente smarrimento dell’atto.

Sul secondo motivo di gravame, attinente alla mancata ammissione del giuramento decisorio deferito alla V., osservò la Corte che si trattava nella specie di giuramento de scientia, inammissibile in quanto la relativa formula era redatta in modo che la giurante dovesse rispondere sulla verità di fatti a lei non riferibili in quanto non propri della sua attività, e non sulla conoscenza che di tali fatti ella avesse.

Circa il terzo motivo di appello, con il quale si contestava la valutazione del Tribunale sulle risultanze processuali che avevano determinato la condanna della T., rilevò il giudice di secondo grado che la illegittimità del manufatto era stata ritenuta accertata in quanto la preesistente cabina idrica era stata sostituita con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi, circostanze, codeste, confermate nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo. Le testimonianze raccolte avevano poi escluso la esistenza di una ringhiera anteriore a quella realizzata dall’appellante, ed avevano indicato in modo univoco che la realizzazione degli altri manufatti era avvenuta ad opera della T..

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre la T. sulla base di sette motivi. Resiste con controricorso la V..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c.. Si contesta, in particolare, la sentenza della Corte d’appello di Roma nella parte in cui essa ha rigettato l’eccezione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, sollevata per non essere mai stata perfezionata la notifica all’attuale ricorrente, avuto riguardo alla mancanza di una buca per le lettere nello stabile in cui la stessa abita, ed alla conseguente abitudine del postino di lasciare sui gradini antistanti il portone di ingresso i pacchi posta, con la conseguente, frequente evenienza dello smarrimento degli stessi. Nella specie, dunque, l’atto di citazione non era pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, nè erano stati correttamente effettuati gli adempimenti prodromici richiesti nel caso di notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c.. Nè potrebbe avere alcun rilievo in contrario l’affermazione della controparte relativa alla notificazione dell’atto in questione anche ad un diverso indirizzo, ove esisteva un servizio di portierato e risiedeva il figlio della signora T. (come sarebbe emerso dalla relata di notifica), che avrebbe rifiutato l’atto, in quanto la madre non era convivente con lo stesso. Al riguardo, la ricorrente fa presente che dallo stato di famiglia, prodotto in appello dalla attuale ricorrente, sarebbe emerso che i suoi figli, all’epoca di cui si tratta, avevano rispettivamente tre anni ed otto mesi.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se la notifica dell’atto introduttivo del giudizio effettuata nelle modalità previste dall’art. 140 c.p.c., ha carattere eccezionale ed è subordinata all’impossibilità di eseguire la consegna a mani del destinatario medesimo, oppure, in caso di sua assenza dalla casa di abitazione o dal luogo di lavoro, ai soggetti alternativamente (ed in sequenza tassativa) indicati nell’art. 139, e cioè a persona di famiglia o addetta alla casa (o all’ufficio, ecc.), o al portiere dello stabile dove è l’abitazione (o l’ufficio, ecc.), o ad un vicino di casa che accetti di ricevere l’atto; dica altresì se l’impossibilità di consegna dell’atto nei luoghi, alle persone e alle condizioni prescritte debba risultare in modo esplicito e puntuale dalla relata dell’organo notificante e nel caso contrario se questo comporti o meno la nullità della notificazione”.

2. – La censura è immeritevole di accoglimento.

La eccezione di nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado alla T. è stata rigettata dalla Corte di merito alla stregua della considerazione che, nella specie, ritualmente la notifica era stata effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e che tutti gli adempimenti prodromici di cui alla citata norma codicistica erano stati regolarmente svolti.

In tale quadro, il mezzo risulta non cogliere la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, che faceva riferimento alla inidoneità della circostanza della mancanza del portiere e della “buca delle lettere” nello stabile in cui abita la attuale ricorrente a dimostrare la non conoscibilità dell’atto in questione da parte della stessa.

3. – Con la seconda censura si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Avrebbe errato la Corte di merito nel dichiarare la inammissibilità, ai sensi della citata disposizione del codice di rito, della documentazione prodotta dalla attuale ricorrente solo in grado di appello senza considerare che, secondo la interpretazione che della norma in questione è stata fornita dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, il divieto di nuovi mezzi di prova in appello riguarderebbe solo le prove costituende e non quelle precostituite, quali i documenti. Per di più, nel caso di specie i documenti di cui si tratta sarebbero stati formati successivamente alla notifica dell’atto di appello. Né la sentenza impugnata recava – si rileva ancora nel ricorso – alcuna motivazione in ordine alla non indispensabilità di tali documenti.

La illustrazione del motivo si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova stabilito dall’art. 345 c.p.c., riguardi esclusivamente le prove costituende o anche quelle costituite e comunque se riguardi anche i documenti di formazione successiva al giudizio di primo grado e/o resi necessari dallo svolgimento del giudizio e/o che la parte non abbia potuto produrre prima per causa non imputabile; dica altresì in quali stadi del processo in appello i documenti vanno depositati in giudizio”.

4. – La censura non può trovare ingresso nel presente giudizio.

Essa, infatti, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, avrebbe dovuto riportare il contenuto della documentazione in questione.

A ciò deve aggiungersi che, avendo la Corte di merito espressamente fatto riferimento all’art. 345 c.p.c., nel negare l’ammissibilità della documentazione medesima, essa ne aveva con ciò stesso escluso la decisività: sicché sarebbe spettato alla ricorrente fornire la prova della indispensabilità della produzione documentale.

5. – Le suesposte argomentazioni danno conto altresì della inammissibilità del terzo motivo, avente ad oggetto il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dichiarata inammissibilità dei documenti: motivo in relazione al quale si evidenzia poi una ulteriore ragione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. – applicabile nella specie, come già chiarito, ratione temporis -, consistente, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella mancata indicazione di un momento di sintesi, concretizzantesi in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso nei cui confronti la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

6. – Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine al mancato esame di elementi probatori determinanti. Avrebbe ancora errato la Corte di merito nell’obliterare l’esame della documentazione depositata nel giudizio di appello dalla attuale ricorrente nonché degli elementi probatori forniti dalla stessa:

esame il cui esito avrebbe invalidato la efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il giudice di secondo grado aveva fondato la pronuncia impugnata. In particolare, si contestano la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta in primo grado e nel giudizio di appello ed il mancato esame dello stato di famiglia della attuale ricorrente, da cui, ad avviso della stessa, sarebbe derivato l’accoglimento della eccezione di nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado; nonché la mancata valutazione della documentazione prodotta nel giudizio di appello, cui sarebbe conseguita la errata valutazione delle risultanze processuali in ordine alla illegittimità delle realizzazioni edilizie oggetto della controversia.

7. – La censura si appalesa inammissibile per un molteplice ordine di ragioni.

Ed infatti, anzitutto, ove la si riguardi, conformemente al profilo emergente dalla rubrica, quale vizio di motivazione, deve ribadirsi quella mancanza del momento di sintesi già posta in evidenza sub 5 in relazione al terzo mezzo di gravame.

La doglianza appare, peraltro, in realtà, diretta, attraverso la denunzia del vizio di motivazione, a conseguire una rivalutazione delle risultanze probatorie inibita nella presente sede in presenza di una congrua motivazione fornita dalla Corte di merito in ordine alla formazione del proprio convincimento.

Per di più, pare intravvedersi nella illustrazione della censura una incertezza tra la denuncia di vizio di omessa pronuncia, in realtà non esplicitata attraverso la espressa invocazione dell’art. 112 c.p.c., e la doglianza attinente alla carenza assoluta di motivazione sul punto controverso.

In particolare, e da ultimo, per ciò che concerne specificamente la questione del mancato esame dello stato di famiglia, esso risulta irrilevante ai fini della decisione per le ragioni già evidenziate sub 2 con riguardo al primo mezzo di gravame, del quale, per tale parte, il quarto costituisce una riproposizione sotto diversa forma.

8. – Con il quinto motivo sì denuncia “art. 360 c.p.c., n. 5: omessa motivazione relativamente alle modalità di assunzione della testimonianza; art. 360 c.p.c., n. 3: violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 253 e 122 c.p.c.”. Il giudice di appello avrebbe immotivatamente omesso di pronunciarsi sui rilievi formulati dalla attuale ricorrente in ordine alla mancata osservanza, nell’assunzione della deposizione di una testimone, delle prescrizioni dell’art. 253 c.p.c., (non essendo stata la stessa sentita dal giudice istruttore, ma solo dai difensori della attuale resistente) e dell’art. 122 c.p.c., (per non essere stato nominato un interprete in occasione dell’assunzione della deposizione).

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte se le parti possano interrogare direttamente i testimoni o se i testimoni debbano essere sentiti esclusivamente dal giudice. Dica altresì se, nel caso in cui debba essere sentito chi non conosce la lingua italiana, il giudice debba nominare un interprete. Specifichi la Corte le conseguenze delle errate modalità di assunzione della prova testimoniale”.

9. – Anche tale doglianza risulta inammissibile per la incertezza, che la connota, tra la denuncia di vizio di motivazione e di violazione di legge, invocati nella rubrica, e di vizio di omessa pronuncia, quale sembrerebbe piuttosto emergere dalla illustrazione del mezzo. Non senza considerare la mancanza di riscontri probatori delle tesi sostenute nel ricorso.

10. – Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2739 c.c.. Si contesta la decisione della Corte di merito di ritenere inammissibile il giuramento decisorio deferito alla attuale ricorrente erroneamente qualificandolo come giuramento de scientia e non de veritate senza considerare che, per fatto proprio agli effetti dell’art. 2739 c.c., deve intendersi non solo l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno nei limiti in cui possa essere stato percepito dallo stesso con i sensi e l’intelligenza. In ogni caso, anche a voler qualificare il giuramento in questione come de scientia, le formule erano state redatte in modo tale da essere pienamente ammissibili. La Corte di merito, poi, ritenendo inammissibile il giuramento decisorio, avrebbe erroneamente ritenuto irrilevanti le ulteriori censure sollevate dalla attuale ricorrente in ordine alla decisione di primo grado relativa alla pretesa intempestività del deferimento del giuramento ed alla ritenuta illiceità del fatto costituente oggetto del capitolato.

La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2739 c.c., si possa qualificare, nel giuramento de veritate, come fatto proprio – non soltanto l’attività personale del giurante, ma anche ogni avvenimento esterno, e quindi anche fatti e dichiarazioni di altri soggetti, nei imiti in cui possono essere stati percepiti dal giurante con i sensi e l’intelligenza. Dica altresì la Corte se nel giuramento de scientia le formule possono essere redatte nel modo seguente: Giuro e giurando affermo essere vero o nego essere vero… seguita dalla circostanza esterna al giurante ma conosciuta dallo stesso”.

11. – Il motivo non può trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità.

Esso, al di là della formale invocazione della disposizione dell’art. 2739 c.c., che si assume violata, è sostanzialmente rivolto a porre in discussione la qualificazione, motivatamente e correttamente operata dalla Corte di merito, della natura del giuramento deferito dalla signora T. come giuramento de scientia alla stregua della considerazione che il giuramento aveva riguardo a fatti dei quali la controparte poteva avere conoscenza.

Ciò posto, il giudice di secondo grado ha conseguentemente escluso l’ammissibilità del giuramento essendo stata la relativa formula redatta come se la controparte avesse dovuto rispondere della veridicità di fatti propri della sua attività, e non già in ordine alla conoscenza che di tali fatti la stessa avesse. Resta, pertanto, assorbito l’esame degli ulteriori profili della censura.

12. – Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., e art. 2909 c.c.. Erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che i giudizi promossi innanzi al giudice amministrativo avevano ampiamente confermato la circostanza della presunta sostituzione della preesistente cabina idrica con un manufatto di maggiori dimensioni e contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistici edilizi, laddove i provvedimenti giurisdizionali cui essa si riferiva avevano solo carattere interinale, sicché all’epoca era ancora in corso l’accertamento giudiziale di detta circostanza.

La illustrazione della censura si completa con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se ai sensi dell’art. 2909 c.c., e dell’art. 324 c.p.c., si possano definire confermati circostanze e diritti oggetto di provvedimenti non passati in giudicato”.

13. – La doglianza risulta priva di fondamento.

E’ sufficiente, al riguardo, considerare che essa non tiene conto che la menzione dei provvedimenti del giudice amministrativo aveva, nell’economia della decisione impugnata, un significato meramente rafforzativo di una ratio decidendi rinvenuta dal giudice di secondo grado in diverse risultanze processuali.

14. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, che, in applicazione del principio della soccombenza, devono essere poste a carico della ricorrente, vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 5200, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2013


Circolare 003/2013 – LA CONSERVAZIONE DEGLI ATTI DEPOSITATI PRESSO LA CASA COMUNALE

Il deposito presso la Casa Comunale è una forma di consegna ad un soggetto (il Comune, nella persona dell’impiegato comunale preposto all’ufficio competente) che diventa consegnatario dell’atto notificato.

Sulla base delle considerazioni sopra esposte si ritiene, quindi, che gli atti depositati presso la Casa Comunale debbano essere conservati per essere disponibili al destinatario per 2 (due) anni.

Circolare: Circolare 2013-003 LA CONSERVAZIONE DEGLI ATTI DEPOSITATI PRESSO LA CASA COMUNALE

Piano di Conservazione: Piano di conservazione – 2005


Corso formazione – Jesi (AN) 16.10.2013

LocandinaMercoledì 16 ottobre 2013

Comune di Jesi (AN)

Fondazione Angelo Colocci

Via Angeloni 3

Jesi

Orario:  9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

in Collaborazione con il Comune di Jesi

Durì Francesco

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Udine
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

PROGRAMMA:

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità
  • Qualifica soggettiva di pubblico ufficiale (art. 357, c.p.)

Il procedimento di notificazione:

  • Art. 137 c.p.c: il rispetto della privacy nel procedimento di notificazione
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Notificazione nella residenza, dimora e domicilio
  • L’art. 139 c.p.c. e criteri presenziali
  • Concetto di dimora, residenza e domicilio
  • Notifica a persone diverse dal destinatario (familiari, addetti alla casa o all’ufficio)
  • Notificazione in caso di irreperibilità o di rifiuto a ricevere la copia dell’atto (art. 140 c.p.c) e l’interpretazione della giurisprudenza: le novità alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale (gennaio 2010)
  • Notificazione presso il domiciliatario (art. 141 c.p.c)
  • Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella repubblica (art. 142 c.p.c.)
  • Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti (art. 143 c.p.c.)
  • Notificazioni alle amministrazioni statali (art. 144 c.p.c.)
  • Notificazione alle persone giuridiche (art. 145 c.p.c) e novità introdotte dalla L. 263/2005 : analisi delle pronunce giurisprudenziali in tema di notificazione a persone giuridiche
  • Il ritiro degli atti presso la casa comunale (da parte di terzi e intestatari)

La notificazione a mezzo del servizio postale

  • Attività del messo e attività dell’ufficiale postale: ambito di applicazione della L. 890/1982 – Analisi delle diverse casistiche alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali
  • Le modifiche all’art. 149 c.p.c.
  • Il nuovo art. 149 bis c.p.c e la notificazione a mezzo posta elettronica
  • La notificazione delle violazioni al Codice della Strada: le novità introdotte dall’art. 36 della L. 120/2010 ” Disposizioni in materia di sicurezza stradale”
  • Soggetti – I nuovi termini per le notifiche – Validità delle notificazioni

EVOLUZIONE DELLA FIGURA DEL MESSO IN SENSO “DIGITALE”

La pubblicazione di atti e documenti all’albo on line

  • Le novità introdotte dall’art. 32 della L. 69/2009: la pubblicazione legale sul sito web a partire dal 1 gennaio 2011 – Aspetti problematici
  • Il Nuovo Codice dell’Amministrazione digitale: cosa pubblicare all’albo, originali e copia, il valore del pdf
  • La trasmissione informatica di documenti: le modifiche apportate agli art. 45, 47 e 48 del D. Lgs. 82/2005
  • La referta di pubblicazione all’albo on line: che può firmare ma, soprattutto, come firmare – Le modifiche introdotte dall’art. 1 del D. Lgs. 235/2010: la firma elettronica
  • Le recentissime novità in materia di posta elettronica certificata e l’introduzione dell’art. 149 bis del c.p.c. ovvero la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata
  • Le problematiche conseguenti alla modifiche apportate all’art. 26 del DPR 602/1973: la notifica delle cartelle esattoriali a mezzo PEC
  • Le raccomandazioni del Garante privacy contenute nella delibera n. 88/2011 : i limiti temporali, il rispetto del diritto all’oblio, le responsabilità
  • Risposte ai quesiti

Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)


Istituzione dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)

Con provvedimento del Consiglio dei Ministri del 01.10.2013, entrerà in vigore il 16.10.2013  l’istituzione dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)


Riunione Giunta Esecutiva del 26.10.2013

Convocazione Giunta Esecutiva

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 26 ottobre 2013 alle ore 7:30 presso il Comune di Cesena – Palazzo Municipale – Piazza del Popolo 10, in prima convocazione, e alle ore 9:30 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

1.       Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione anno 2013;

2.      Esame nuove circolari dell’Associazione;

3.       Esame normativa per la Notifica on line;

4.     Convegno Nazionale sulla notifica on line;

5.       Varie ed eventuali.

Leggi: Verbale G.E. 26 10 2013


Corso Formazione/aggiornamento Cesena (FC) – 22.11.2013

Venerdì 22 novembre 2013

Comune di Cesena (FC)

Sala del Consiglio Comunale

Piazza del Popolo 10

Orari:  9:00 – 13:00   14:00 – 17:00

Con la collaborazione del Comune di Cesena (FC)

Quote di partecipazione al corso:

€ 160,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2012 con rinnovo anno 2013 già pagato al 14.01.2013. La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.
€ 200,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2013 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 270,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

La quota d’iscrizione dovrà essere pagata, al netto delle spese bancarie e/o postali ed aggiungendo l’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Cesena 2013 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – aggiungere all’importo totale € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento oltre € 2,00 per imposta di bollo.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Asirelli Corrado

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

 Corso realizzato con il sistema Outdoor training

PROGRAMMA

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: il rispetto della privacy nel procedimento di notificazione
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c. : notificazione nella residenza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

La sentenza della Corte Costituzionale 3/2010

La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 149 bis c.p.c. ed il Codice della Amministrazione Digitale (D. Lgs 82/2005)

La mera trasmissione di atti a mezzo posta elettronica

La PEC

La firma digitale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Le novità introdotte dalla “Legge di Stabilità” 2013  (L. 228/2012)

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973

L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 602/1973

L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973

  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 258/2012

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy contenute nella delibera n. 88/2011
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line (link “Iscrizione on line” a fondo pagina) a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso.

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.).

Vedi: L’attività Formativa dell’Associazione 2013

Vedi: Video della Giornata di Studio

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Cesena 2013


PRIVACY A RISCHIO la circolazione dei dati sensibili nella PA

Le PA non possono far circolare notizie a contenuto “sensibile” fra i non addetti ai lavori o inserirle in atti pubblicati all’albo pretorio.

Si rischia il risarcimento dei danni e la sanzione pecuniaria, con possibile ipotesi di danno erariale

 Si evidenziano alcune situazioni:

Dati sulla salute – Dipendente in maternità

I dati sensibili possono essere trattati soltanto dagli uffici preposti per le finalità di gestione del rapporto di lavoro. L’inserimento di dati sensibili in atti amministrativi comunicati a terzi non legittimati (anche con albo pretorio elettronico e reti intranet), costituisce violazione del principio di necessità, in quanto non è indispensabile mettere a conoscenza i motivi dell’assenza. (Garante Privacy – provvedimento n. 315 del 27.6.2013)

Dati sensibili – Ispezione su PC – Navigazione in internet

I dati estratti dal PC concernenti l’accesso ad internet sono da ritenersi dati sensibili, in quanto relativi a convinzioni religiose e politiche, nonché alle tendenze sessuali.

Sebbene i dati personali vengano raccolti nell’ambito di controlli informatici (diretti a verificare la presenza di comportamenti illeciti), le informazioni di natura sensibile possono essere gestite dal datore di lavoro – senza il consenso – solo quando il trattamento sia indispensabile.

Credo, convinzioni e opinioni personali sono desumibili dagli accessi web ricollegabili a associazioni sindacali o riconducibili ad organizzazioni di carattere religioso. Le presenze di accessi web “a contenuto pornografico” rappresentano informazioni che – seppur di per sé neutre – possano rivelare gusti e tendenze sessuali e come tali di natura sensibile. (Cassazione Lavoro – sentenza 1.8.2013 n.18443)

Dati sulla salute – Dipendente in malattia

I dati “idonei a rivelare” lo stato di salute non possono essere diffusi. La pubblicazione e la diffusione del dato relativo all’assenza dal lavoro per “convalescenza” (anche senza diagnosi) dà luogo a trattamento di dati sensibili, dal momento che tale informazione – pur non facendo riferimento a specifiche patologie – è comunque suscettibile di “rivelare lo stato di salute” dell’interessato. (Cassazione Lavoro – sentenza 8.8.2013 n.18980)

La necessità di particolari cautele nel trattamento di dati concernenti le condizioni di salute è stata da tempo evidenziata dal Garante della Privacy, precisando che le PA “devono adottare maggiori cautele se le informazioni personali sono idonee a rivelare profili particolarmente delicati della vita privata dei propri dipendenti” (quali ben possono essere quelle concernenti lo stato di salute e gli orientamenti personali).

Va ricordato infine l’art. 4 comma 5 del D.lgs. 14.03.2013 n. 33 (Limiti alla trasparenza), secondo la quale “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni di cui all’art. 4 comma 1 lettera d) del decreto legislativo 196/2003”.