La Corte di Cassazione, Sez. Penale, ha usato le maniere forti contro chi redige e contro chi utilizza certificati medici redatti solo sulla base di un colloquio telefonico, senza la effettiva visita del paziente.
La vicenda riguarda un medico e una sua paziente: il primo, in qualità di medico di base convenzionato con il servizio sanitario nazionale e quindi pubblico ufficiale, era stato condannato in relazione al reato di cui all’art. 480 c.p., per aver rilasciato un certificato medico di proroga della prognosi a favore di una sua paziente senza averla previamente visitata.
La paziente, a sua volta, era stata ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 489 c.p. per aver fatto uso della certificazione redatta dal medico di base, pur consapevole della falsità.
La sentenza di condanna è stata impugnata con ricorso per cassazione.
Il medico lamentava la sussistenza del dolo, avendo egli concesso la proroga sulla base di quanto accertato nella visita effettuata quattro giorni prima e i sintomi comunicatigli telefonicamente dalla paziente sarebbero stati compatibili con la malattia accertata pochi giorni prima.
Il medico, pertanto, legittimamente avrebbe effettuato la modifica della prognosi sulla base di quanto dichiarato per telefono dalla paziente.
A tutto concedere, era configurabile non il dolo ma la colpa, avendo il medico fatto affidamento sulle dichiarazioni della paziente, ciò che escludeva la penale rilevanza della condotta, non essendo prevista la figura colposa del delitto in esame.
La paziente, analogamente, deduceva l’insussistenza del reato in capo al medico, e, di riflesso, del reato, a lei contestato, di uso della falsa certificazione.
Anche secondo la donna, non sussisteva il reato contestato al medico in quanto costui, sulla scorta dei proprio sapere medico maturato un’esperienza pluridecennale e sulla base della visita medica effettuata pochi giorni prima in occasione della prima certificazione, poteva legittimamente ritenere ancora sussistente la malattia, sulla base di quanto riferito dalla paziente.
In sostanza, secondo la ricorrente non sarebbe necessaria l’effettuazione di un’ulteriore visita qualora il sanitario ritenga di essere in possesso aliunde di adeguati strumenti diagnostici.
Il reato contestato alla paziente, dunque, sarebbe ipotizzabile solo se si ritenesse non veritiera la persistenza della malattia, ma una prova del genere non era emersa.
La Corte di Cassazione, come anticipato, ha respinto entrambi i ricorsi.
Quanto al ricorso promosso dal medico, la Corte di Cassazione, in primo luogo, ha precisato che la falsa attestazione attribuita non attiene tanto alle condizioni di salute della paziente, quanto piuttosto al fatto che l’imputato aveva emesso il certificato «senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute, non essendo consentito al sanitario effettuare valutazioni o prescrizioni semplicemente sulla base di dichiarazioni effettuate per telefono dai suoi assistiti».
Di qui l’irrilevanza delle considerazioni sull’effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte della paziente.
In relazione alla asserita natura colposa della condotta, la Corte di Cassazione ha replicato con una domanda retorica: «ci si chiede come il medico potesse non essere consapevole del fatto che egli stava certificando una patologia medica senza averla previamente verificata, nell’immediatezza, attraverso l’esame della paziente».
Non miglior sorte ha avuto il ricorso della paziente, ricorso peraltro esclusivamente incentrato sulla ritenuta insussistenza della falsità del documento, e dunque, sull’inesistenza del reato contestato al medico.
La Corte di Cassazione, quindi, si è limitata a richiamare le considerazioni sopracitate: «una volta ritenuta la falsità della certificazione medica, ne discende necessariamente la responsabilità della ricorrente per aver fatto uso».
Corte di Cassazione penale Sentenza 15-05-2012, n. 18687